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| << | < | > | >> |IndicePresentazione 7 PARTE PRIMA: UNA SCELTA CHE VIENE DA LONTANO 11 Un percorso di laicità 13 GIGLIOLA CORDUAS La FNISM e la scuola italiana 27 LUISA LA MALFA Salvemini e la laicità della scuola: spunti per una riflessione 33 MARCO BRUNAZZI PARTE SECONDA: UN ORIZZONTE DI SCIENZA E DI CULTURA 39 Laicità: una rivoluzione permanente 41 GIULIO GIORELLO - STEFANO MORIGGI Laοcité, mot fallacieux... 49 ALBERTO MELLONI La laicità dello stato e le sentenze della Corte Costituzionale italiana 59 FRANCESCO PAOLO CASAVOLA Dalla storia al presente. L'esigenza di una pedagogia laica 67 MARCO CHIAUZZA Abito mentale ed ermeneutico aperto 85 GIAN MARIO ANSELMI PARTE TERZA: PER UNA SCUOLA COLTA, PLURALE E DELL'INCLUSIONE 87 L'orizzonte laico della pedagogia e della scuola 89 FRANCO FRABBONI Imparare ad essere laici nella scuola italiana 109 SERGIO LARICCIA Laicità. Pluralismo. Democrazia 121 FRANCA PINTO MINERVA Laicità e scuola 129 GIANCARLA CODRIGNANI Laicità, diritti umani, differenze nel mondo dei processi globali 137 GIOVANNA GUERZONI Bologna città di intrecci e di transiti: identità culturali e saperi 149 GIULIANA SANTARELLI APPENDICE 161 (a cura di GIULIANA SANTARELLI) I. Nello scaffale della Federazione 163 II. Lo Statuto della FNISM 175 III. Raccontare la scuola: le «Voci del verbo insegnare» AURELIO ALAIMO MAGDA INDIVERI ANNA JANNELLI 185 |
| << | < | > | >> |Pagina 7PresentazioneIl presente Volume dà voce a nome della FNISM (Federazione Nazionale Insegnanti della Scuola Media) ad alcune autorevoli figure della riflessione storica, filosofica, giuridica, sociologica e pedagogica del nostro paese chiamate a riflettere sullo stato di salute della laicità negli anni di debutto del terzo millennio. Un ventunesimo secolo intitolato a lettere cubitali alla conoscenza e alla formazione lungo tutte le stagioni della vita: sia nell' emisfero boreale (i Continenti a nord dell'Equatore: dall'alfabetizzazione compiuta), sia nell' emisfero australe (i Continenti a sud dell'Equatore: dall'alfabetizzazione negata). Il Volume, consapevole che il veliero laico attraversa da sempre (certo, in compagnia di altre imbarcazioni ermeneutiche) i mari del nostro Pianeta (nel senso che veleggia lungo i secoli che rintoccano le ore dell'orologio dell'umanità), si pone questo interrogativo. La sua bandiera a due colori: la libertà di conoscere e la pluralità di culture, etnie e fedi su quale pennone dovrà sventolare, oggi? E quali rotte dovrà suggerire a questo terzo millennio non sempre democratico e profetico lungo i mari dei processi globali, della complessità e del cambiamento? A questi interrogativi rispondono gli Autori di questo Saggio. Dal balcone della laicità, leggono nella sfera di cristallo due possibili immagini di un ventunesimo secolo al debutto.
La
prima immagine
annuncia gli "strappi" che potrebbero lacerare la
veste laica:
da sempre simbolo di libertà intellettuale e di pluralismo culturale; la
seconda immagine
annuncia la speranza (l'utopia?) di un mondo non più
popolato da oscurantismi, da fondamentalismi e da dogmatismi.
La Parte prima del Volume dà la parola alla FNISM. Questa antica e battagliera associazione degli insegnanti (fondata da Gaetano Salvemini) non ha mai abbassato la guardia nella difesa dei valori culturali e formativi che fondano il paradigma laico nei processi di istruzione. Gigliola Corduas, Luisa La Malfa e Marco Brunazzi testimoniano come questa scelta culturale della FNISM venga da lontano. E abbia nutrito di ricchezza intellettuale, di dialogo e di rispetto l'incontro tra le idee, tra le culture, tra le assiologie, tra le religioni lungo il ventesimo secolo.
La
Parte seconda
del Volume illumina le architravi filosofiche, giuridiche,
politiche ed etico-sociali della teoria della conoscenza e dei paradigmi della
scienza fondati su
categorie regolative laiche.
Giulio Giorello, Stefano Moriggi, Alberto Melloni, Francesco Paolo Casavola,
Marco Chiauzza e Gian Mario Anselmi portano contributi criticamente
inconfutabili sui pericoli di una mondializzazione delle conoscenze e della
cultura intrisa da alfabeti assiomatici e da postulati ontologici.
La Terza parte del Volume dà palcoscenico alla scuola. Questo antico teatro di alfabetizzazione democratica delle giovani generazioni rischia di dovere sospendere le sue recite intitolate alla libertà di pensiero e alla cultura plurale. Da qualche tempo, il suo palcoscenico è occupato da un "cavallo di Troia" che ospita nel suo ventre truppe ostinatamente nemiche (nascoste nel buio e sotto mantelli diversi) di una scuola pubblica, colta, aperta all' inclusione e al pensiero plurale.
Franco Frabboni, Sergio Lariccia, Franca Pinto Minerva, Giancarla Codrignai,
Giovanna Guerzoni e Giuliana Santarelli invitano tutti coloro che
non sanno guardare l'
infinito della conoscenza
che sta al di là della siepe leopardiana a porsi sul naso
occhiali laici.
I soli dotati delle diottrie necessarie per dare scacco matto al
Re
del fondamentalismo/dogmatismo culturale, per
capire che esiste una laicità debole e una laicità forte, per comprendere come
la laicità sia ricerca di verità, per credere in una laicità capace di aprire le
porte delle metropoli contemporanee e delle culture che le popolano.
Nell'abbassare il sipario di questa Presentazione, lasciamo nelle mani dei lettori per una loro riflessione alcune idee per una scuola laica (la scuola che verrà) che ci sembrano particolarmente fertili per una rivoluzione pedagogica dell'istruzione scolastica. La scuola laica è una scuola che combatte ogni forma di Esclusione/Separazione. E che denuncia risolutamente queste possibili 7 identità in negativo del sistema scolastico. 1. Θ dell' Esclusione/Separazione la scuola (che non vogliamo: perché selettiva e antidemocratica) che identifica l'istruzione come una sorta di corsa ad ostacoli spietatamente competitiva tra allievi che si fronteggiano da antagonisti senza scrupoli pur di accaparrarsi nel minore tempo possibile i codici cognitivi trasmessi dall'insegnante (lezione) e dal libro di testo (memorizzazione delle conoscenze ufficiali). 2. Θ dell' Esclusione/Separazione la scuola (che non vogliamo: perché selettiva e antidemocratica) che crea un irreversibile fossato tra vita e conoscenza, tra esperienza e istruzione. Separando brutalmente il secondo termine del binomio (conoscenza e istruzione) dall'universo di cose e di valori antropologici con cui interagisce quotidianamente l'allievo. 3. Θ dell' Esclusione/Separazione la scuola (che non vogliamo: perché selettiva e antidemocratica) che crea un intenzionale divorzio tra i linguaggi del cuore e i linguaggi della mente, pietrificando così i secondi (i linguaggi logico-concettuali) in quadri cognitivi nominalistici, formalistici, classificatori: moltiplicando nel contempo il disagio cognitivo per l'utenza scolastica in difficoltà di apprendimento. 4. Θ dell' Esclusione/Separazione la scuola (che non vogliamo: perché selettiva e antidemocratica) che perpetua conoscenze ascientifiche: superstiziose e di senso comune. Svendute come verità assiomatiche e indiscutibili. Questi saperi sono inagibili all'indagine, alla scoperta, alla messa in dubbio critica. 5. Θ dell' Esclusione/Separazione la scuola (che non vogliamo: perché selettiva e antidemocratica) che abbandona al proprio destino alla ripetenza e alla dispersione gli allievi che non si ritrovano nell'istruzione ufficiale (le Indicazioni nazionali: ex Programmi) e che chiedono pena il loro arresto ai primi ostacoli curricolari tempi più lunghi di assimilazione/comprensione delle conoscenze curricolari. 6. Θ dell' Esclusione/Separazione la scuola (che non vogliamo: perché selettiva e antidemocratica) che fa delle Indicazioni nazionali una sorta di sentiero a-pedaggio. Una pista che può essere percorsa in uscita soltanto da un allievo equipaggiato di speciali sassolini bianchi sui quali sono stampati i saperi ufficiali. 7. Θ dell' Esclusione/Separazione la scuola (che non vogliamo: perché selettiva e antidemocratica) che non permette a una parte della sua popolazione (quella in difficoltà cognitiva) di fare provvista di sassolini bianchi. Sono gli allievi costretti giocoforza a lasciare cadere nei sentieri del bosco/scuola soltanto "briciole" di pane secco (i linguaggi della corporeità: gesto suono immagine) a mo' di frecce segnaletiche. Sono tracce queste che risulteranno troppo deboli e labili. Basteranno le formiche che popolano il bosco/scuola a cancellare la loro precaria ed effimera funzione/bussola. | << | < | > | >> |Pagina 13Un percorso di laicità
GIGLIOLA CORDUAS
1. Sotto il segno della laicità La laicità è un tema tradizionale per la Fnism, che si è presentata fin dalla sua costituzione con un progetto di scuola all'insegna del metodo critico basato sul primato della ragione, in cui «nulla si insegna che non sia frutto di ricerca critica e razionale, in cui tutti gli studi sono condotti con metodo critico e razionale, in cui tutti gli insegnamenti sono rivolti a educare e rafforzare negli alunni le attitudini critiche e razionali». La Fnism è nata come "partito della scuola", una scelta costantemente ribadita, ad esempio nella fase di rifondazione dopo lo scioglimento del periodo fascista, quando si prospetta come «libera associazione di insegnanti, pensosi ad un tempo delle sorti d'Italia e della scuola, che si propone, con la tutela di interessi di categoria, la restituzione della scuola alla sua funzione educativa, la difesa in ogni tempo e di fronte ad ogni possibile evenienza della sua dignità e serietà [...]». Essa ha sempre privilegiato, nell'impostazione dei problemi, una prospettiva pedagogica, alimentando le sue posizioni con un dibattito fortemente calato all'interno della scuola, dei suoi bisogni e delle sue aspirazioni. A questo metodo si è costantemente attenuta, cercando di sollecitare il dialogo tra posizioni diverse, a sostegno di proposte di rinnovamento basate sul confronto critico, sulla libertà da ogni condizionamento dogmatico e all'insegna della dignità e della libertà della professione docente. Metodo del confronto, dunque, e laicità come chiave di lettura dei problemi emergenti nella cultura e nella società e come strumento di una costante verifica pragmatica dei percorsi di riforma del sistema scolastico ed educativo, nella stretta correlazione tra educazione, scuola e cittadinanza attiva propria di una pedagogia laica che trasferisce nella scuola «una visione etica vissuta come responsabilità del progetto individuale, l'esercizio della razionalità nella prassi didattica come strumento di specificazione dell'esperienza, il rifiuto politico della categoria della violenza e di una soggettività intesa come strumento di prevaricazione». Questo è rimasto un punto fermo, costantemente ribadito nel tempo dalla Fnism, che ha dato sostegno o si è opposta alle riforme innanzitutto in rapporto a quanto facessero della scuola un ambiente idoneo allo sviluppo delle capacità critiche degli studenti, al loro avvio ai valori e alle pratiche della cittadinanza e a quanto rafforzassero il tessuto democratico in cui la scuola si inserisce. Pur in un clima culturale mutato, riaffermare oggi la fiducia nel metodo della laicità ci impone di continuare a interrogarci sulle connotazioni della pedagogia laica e sulle sue relazioni con la politica scolastica, riprendendo anche gli interessanti spunti presenti nella stessa storia della Fnism, ad esempio negli interrogativi lanciati nel Convegno organizzato dalla sezione Fnism di Bologna nel 1983, e dedicato a Giuseppe e Lucio Lombardo Radice e a Ernesto e Tristano Codignola. L'essenza dell'educazione laica, per Giuseppe Lombardo Radice, consiste nell'affrancamento «da ogni dipendenza o asservimento a credi particolari e settari e per questo si batte per una scuola pubblica controllata e garantita nei suoi compiti di rinnovamento, e quindi nella sua libertà d'insegnamento, dallo stato». Un rilievo che Santoni Rugiu, in quella stessa circostanza, muoveva alla pedagogia laica è di giocare prevalentemente in difesa, nonostante il ricco bagaglio di posizioni e di elaborazioni sulle quali peraltro, come osserva, mancano studi di approfondimento: «Una storia della pedagogia laica, della politica scolastica laica, del pensiero pedagogico laico manca. Manca non solo una delineazione critica, ma anche un'organizzazione del materiale per ricavarne poi una storia». Una sfida per la quale, a distanza di oltre venti anni, c'è ancora bisogno di risposte, per affrontare i cambiamenti che hanno investito il concetto stesso di laicità oltre che il contesto in cui esso si colloca. In questa prospettiva, numerose sono le battaglie ancora aperte, a partire dalla ridefinizione del ruolo della scuola pubblica, titolare di un progetto educativo cui si chiede di integrare la dimensione umanistica e quella tecnica, di non cedere a mode dominanti che spingono verso ciò che è semplice o immediatamente spendibile, ma di puntare alla formazione dei giovani attraverso contenuti e strumenti intellettuali solidi. Non rinunciare ad esigere che gli studenti raggiungano una consistente base culturale è necessario per sviluppare la consapevolezza delle scelte e affinare gli strumenti critici di cui ha bisogno, primo fra tutti, l'esercizio dei diritti di cittadinanza. Solo un'educazione democratica, basata sulla centralità della persona, può rispondere alle esigenze di una società complessa e opporsi ad approcci unidimensionali e unilaterali che puntano all'omologazione. Se non si colloca in questa prospettiva, la scuola rischia di perdere il significato stesso della sua azione, dopo aver subito un forte ridimensionamento sul piano cognitivo, poiché le fonti dell'informazione per gli studenti sono ormai innumerevoli ed eterogenee e la scuola non può aspirare né a competere con esse né a controllarle. Essa può però esercitare un'azione di filtro e di interconnessione, orientare a un atteggiamento critico e consapevole, puntare sugli aspetti metodologici, rinunciando a trasmettere certezze. Θ questo il dibattito sulle finalità da attribuire alla scuola in un paese democratico, complesso, che deve fare i conti con l'assenza di cardini valoriali ufficiali, "solidi", contrapposti alla modernità fluida e incorporea in cui siamo immersi. Educare a convivere con l'incertezza accentua la dimensione della responsabilità e delle scelte individuali. Un ruolo in controtendenza rispetto all'anomia di cui ha invece bisogno una società basata sui consumi, con tutte le sue contraddizioni, di cui, più ancora che noi, si nutrono i nostri giovani. Sotto questo profilo, sono battaglie di laicità la salvaguardia della funzione istituzionale della scuola della repubblica, la difesa del suo ruolo pubblico da indebite invasioni di campo e da attacchi a vantaggio del settore privato. La stessa autonomia scolastica rischia di essere un "cavallo di Troia" se non viene adeguatamente sostenuta, se le istituzioni scolastiche che devono assumere responsabilità reali sono tenute costantemente "sotto tutela" o private di mezzi e strumenti per la loro attività. Spetta allo stato definire gli orientamenti e gli obiettivi generali del sistema formativo nazionale, ma va lasciata alle scuole la scelta e la responsabilità dei percorsi attraverso cui realizzarli. Un'ingerenza centralistica eccessiva rischia di perpetuare modelli didattici e relazionali, registri comunicativi e pratiche di stampo burocratico, difficili da superare perché radicati nella cultura dell'amministrazione e della stessa scuola, ma incapaci di sviluppare progettualità, fantasia ed entusiasmo, che sono gli ingredienti di cui c'è più bisogno. Sostenere l'autonomia delle istituzioni scolastiche comporta anche restituire alla scuola un linguaggio in sintonia con i processi di formazione e che non è più il linguaggio burocratico del sistema centralistico, ma neppure quello aziendalistico invalso recentemente in maniera impropria. L'autonomia va difesa e sostenuta anche rispetto ai soggetti territoriali ai quali la scuola si rapporta, mantenendo però la titolarità e la responsabilità dei processi formativi.
E, per quanto si riferisce alle famiglie, una scuola realmente pubblica si
pone in rapporto di dialogo e di collaborazione, al di fuori degli equivoci di
una visione neoliberistica che esporta nella scuola logiche di mercato. La
scuola si confronta con le famiglie rispetto all'impostazione dei propri
interventi, ai metodi e alle strategie messe in atto, creando un'alleanza
educativa di fondamentale importanza, ma senza dimenticare che è dalla società
che riceve il suo mandato e ad essa risponde dei risultati che ottiene e, ancor
più, degli obiettivi che non raggiunge e che alimentano una dispersione
scolastica ancora troppo elevata e dai costi umani, prima ancora che sociali,
inaccettabili.
2. Libertà per insegnare Libertà per apprendere Alla realizzazione di un ambiente privo di condizionamenti, in cui sviluppare un approccio alla cultura che rinunci alla trasmissione di certezze ma favorisca la capacità di orientarsi e di potenziare lo spirito critico, è finalizzata la libertà "della" e "nella" scuola, una connotazione che si riferisce ai due soggetti della relazione educativa, gli studenti e gli insegnanti, e fonda la libertà di insegnamento e la libertà di apprendimento che ne conseguono. Due libertà che si integrano, come rilevava Bobbio: «rispetto agli insegnanti, essere liberi vuol dire non essere obbligati a seguire certe dottrine a preferenza di altre, ad adottare certe interpretazioni piuttosto che altre, a sostenere certe tesi ad esclusione di altre, e non essere impediti dal manifestare certe idee, dal professare certe convinzioni, dal sostenere certe tesi; rispetto agli allievi, esser liberi vuol dire non essere costretti a ricevere acriticamente, imperativamente, categoricamente, dogmaticamente, le idee del maestro, e non essere impediti dal discutere dottrine, interpretazioni, tesi che vengono loro proposte». Viene spesso richiamata la centralità degli studenti, portatori primari del diritto all'istruzione e all'educazione in una scuola cui si riconosce una funzione pubblica. Ma a quale centralità ci si riferisce? I giovani sono già al centro di numerose sollecitazioni di carattere massmediatico che riguardano fondamentalmente la sfera dei consumi e dei comportamenti e che influiscono profondamente sui meccanismi di costruzione della loro identità. I mass media esercitano una grande influenza sull'immaginario diffuso, a livello individuale e collettivo, veicolando valori di impronta consumistica ed interferiscono con il senso stesso della realtà, creando bisogni e illusioni sui contesti nei quali si esercitano le scelte e si mette in pratica la propria libertà. I "mediatori" dell'informazione hanno sfumato i contorni della percezione della realtà in cui i giovani la blog generation si muovono e agiscono, accentuando le distanze generazionali e rendendo più difficile il ruolo della scuola, ma riproponendo in maniera nuova vecchi problemi, evidenziando ad esempio come «i limiti di un modello informativo fondato sui mass media derivano, paradossalmente, dalla tutela dei diritti democratici. Il pluralismo, innanzitutto, che consente e garantisce la libera espressione e che alimenta naturalmente un'informazione molto condizionata dall'interpretazione». Alla scuola rimangono compiti difficili. Innanzitutto quello di resistere alle pressioni che tendono ad uniformarla al contesto che la circonda, estendendole logiche e linguaggi che non le appartengono, accentuandone la funzionalità quando non la subalternità al sistema economico, appiattendo sul presente, in maniera puramente strumentale, i suoi contenuti e le finalità. | << | < | > | >> |Pagina 41Laicità: una rivoluzione permanente
GIULIO GIORELLO STEFANO MORIGGI
1. Le illusioni di un laico Ragionevolmente preoccupato che "con la scusa della crisi delle ideologie moderne" si possa cadere nella tentazione di «instaurare nell'Europa una nuova cristianità in cui la chiesa (cattolica) abbia un peso nel dibattito pubblico, non tanto per la forza dei suoi argomenti, quanto per il fatto di essere un'istituzione religiosa», qualche aficionado di «una politica semplicemente laica, ma laica fino in fondo» va in cerca di una definizione di laicità che garbatamente salvi i diritti di chiesa (presumiamo cattolica) e di laici (comunque caratterizzati). Scrive, per esempio, Antoni Comin i Oliveras (deputato al Parlamento autonomo della Catalogna): «sia ben chiaro che essa [la chiesa] ha il diritto di partecipare ai dibattiti (sempre che lo ritenga opportuno, e ci mancherebbe altro!). Negarle questo diritto sarebbe contrario alla democrazia e al diritto di ogni istituzione di esprimersi pubblicamente. Ma deve essere ugualmente chiaro che la chiesa sarà ascoltata in grazia dei sui argomenti e non per grazia divina». La nostra anima bella conclude: «bisogna chiedere a Ratzinger e ai suoi sostenitori di abbandonare ogni speranza neo-medioevaleggiante. La secolarizzazione e la laicità sono irreversibili. Bisogna convincerli che la religione illuminata, che non si impiccia negli affari altrui, sarà molto più gradita al Signore».
Ci verrebbe da commentare citando dal sonetto "In lode de l'asino" che
apre la
Cabala del cavallo pegaseo
di Giordano Bruno: "O sant'asinità, sant'ignoranza, / santa stolticia e pia
divozione, / qual sola puoi far l'anime sì buone, / ch'uman ingegno e studio non
l'avanza". Non è qui in gioco la questione della fede, bensì la constatazione
che la pretesa di una parte rilevante della chiesa Cattolica Romana è proprio
quella di argomentare "per grazia divina", senza troppo domandarsi se una
religione "che non si impicci negli affari altrui" sia più o meno gradita al
Signore. Quando si mostra così sicuro sulla
irreversibilità
di
secolarizzazione
e
laicità,
il nostro autore avanza immediatamente la propria candidatura al Club degli
Illusi e, almeno come difensore della laicità, dovrebbe ricordarsi di una
ormai celebre battuta di Tex Willer: "La miglior difesa è l'attacco, vecchio
mio".
2. A volte ritorna... Abbiamo citato la tesi proposta dal parlamentare catalano perché ci pare esemplare di una linea tatticamente rovinosa e strategicamente perdente. Per non dire di amenità come la seguente: «il ritorno del fatto religioso diventa una condizione necessaria per la ricostruzione della razionalità critica. Perché è l'unico modo di evitare che la ragione valichi i propri confini, come è accaduto nella modernità, per invadere degli ambiti che non sono di sua competenza». Si noti il tono perentorio: "condizione necessaria", "unico modo", ecc. Sarebbe stato interessante che il nostro autore avesse dedicato almeno qualche riga a tutti quei risultati stabiliti in modo puramente razionale che dimostrano per così dire, dall'interno non l'onnipotenza della Ragione, ma i suoi limiti: dalla logica alla teoria politica; e avesse ricostruito l'eventuale ruolo svolto nel loro conseguimento dal "ritorno del fatto religioso"! Detto questo, non si vede comunque perché ci debba essere una qualche costellazione di credenze, valori morali, precetti etici, norme giuridiche, ecc. - compresi i cosiddetti "Enigmi del mondo" o "Misteri ultimi" - che la ragione non abbia il diritto di scandagliare. Altrove, uno di noi ha sostenuto che il privilegio dei filosofi consiste proprio nell'arte della controversia, con la quale si possono rimettere in questione non solo le affermazioni più lontane dal senso comune, ma anche quelle che vengano spacciate per evidenti. Non si tratta tanto di un diritto della Ragione (con la maiuscola) quanto di un dovere della ragione di ciascuno (Socrate o Bruno, ma anche chiunque di voi, amici lettori...). Concordiamo dunque con quanto ha scritto il curatore di un recente volume sulla Laicità, definita come «atteggiamento intellettuale caratterizzato [...] dal lasciare (e auspicabilmente dall'avere) libertà di coscienza, intesa quale libertà di conoscenza, libertà di credenza, libertà di critica e autocritica». Ma che garanzie abbiamo che la chiesa Cattolica Romana (o, se per questo, qualunque altra corporazione religiosa) sia disposta a riconoscerci tutte queste libertà?
La domanda è mal posta: proponiamo,
à la
Tex Willer, di riformularla nel modo seguente: come dobbiamo conquistarci le
garanzie che queste libertà non ci siano sequestrate? E come adeguatamente
scoraggiare e punire gli eventuali sequestratori?
3. Rivoluzione permanente e anarchia Parafrasando i Vangeli (o, se si preferisce i Padri Fondatori degli Stati Uniti d'America), il prezzo di quelle libertà è la perpetua vigilanza. Quelle libertà vengono conquistate e riconquistate in ogni occasione in cui sono esercitate. Per questo non si tratta della difesa di uno status quo, bensì di un processo sempre rivoluzionario una sorta, anche se in piccolo (magari in qualche sottoinsieme assai limitato della società), di "rivoluzione permanente". Ci sia lecito citare Lev Trotskij: di norma «tutti i rapporti sociali si trasformano con una costante lotta interna. La società non fa che mutare pelle di continuo [...]. Gli sconvolgimenti nell'economia, nella tecnica, nella scienza, nella famiglia, nei costumi si verificano in un contesto di azioni reciproche tale che la società non può raggiungere una situazione di equilibrio». Trotskij pensava soprattutto al "carattere permanente della rivoluzione socialista", ma noi abbiamo in mente piuttosto la "democrazia di conflitto" che sembra caratterizzare insieme una società aperta e una libera comunità scientificaab. Per dirla con le parole del filosofo della scienza Imre Lakatos, quando consideriamo conoscenze (istituzioni, forme di vita, ecc.) al quesito dogmatico "Su cosa esse si fondano?" è bene sostituire il quesito "Come esse vanno riviste?". Un quesito del genere «darà abbastanza da fare ai filosofi per secoli; il problema di come vivere, agire, lottare, morire quando non ci si può affidare che a congetture, darà ancora più da fare ai filosofi della politica e agli educatori del futuro».
D'altra parte, era lo stesso Trotskij a riconoscere che "l'autodifesa
rivoluzionaria in circostanze particolarmente drammatiche" non giustificava
minimamente la "pretesa" da parte di qualsiasi burocrazia "di esercitare un
comando sulla creazione intellettuale della società". Anzi, «per la creazione
intellettuale [... la rivoluzione] deve sin dall'inizio stabilire e assicurare
un regime
anarchico
di libertà individuale. Nessuna autorità, nessuna costrizione, neppure la minima
traccia di comando!» Il riferimento all'anarchia non suoni irriguardoso a
orecchie "liberali". Dopotutto, un liberale dovrebbe essere
anche un "libertario", proprio per le ragioni che abbiamo enunciato nei
paragrafi precedenti. Con il che possiamo abbozzare una risposta alla domanda
posta alla fine del paragrafo 2. Contro le cosiddette "invasioni di campo" che
minano libertà individuali, ricerca autonoma del proprio benessere, indipendenza
dell'indagine scientifica occorre intervenire con i mezzi più efficaci per
contenere e ricacciare indietro gli invasori, senza avere troppi scrupoli
nell'incalzarli anche quando si ritirano nelle loro fortezze ideologiche. Per
fare i soliti esempi: in contesti come la fecondazione assistita, lo statuto
dell'embrione umano, le diagnosi reimpianto, ecc. sarà anzitutto importante
rilevare come una serie di divieti equivalga semplicemente a un irresponsabile
inchinarsi al caso, mascherato magari da omaggio a questa o quella
"rivelazione". Cosa altro è, infatti, il ricorso a un
fiat
della vita umana, il quale precluderebbe ogni
possibilità di indagine o di cura? Perché demandare a una qualche forma di
stato etico o teocratico il diritto/dovere di rappresentare e vincolare scelte
come quelle di due persone adulte che decidano di costituire qualcosa come un
"nucleo familiare"? Perché imporre come "naturale" una certa forma di famiglia
contro forme diverse? Perché invocare una "natura" o una divinità in nome della
quale relegare cittadine e cittadini in una condizione di "minorità"
che impedirebbe loro di assumersi le proprie responsabilità? Non sarebbe molto
più umano lasciare a ciascuno il peso della propria sofferenza, ma anche
quello della propria scelta? Negare opportunità oggi concretamente disponibili
in nome di un qualche valore, che come ogni valore non è necessariamente
condiviso, significa di fatto discriminare i membri di una comunità in modo
arbitrario. Bisogna far capire a coloro che lavorano per questa o quella forma
di
apartheid
che azioni di questo genere non verranno perdonate.
4. Brevissimo compendio di chimica «La chimica è una scuola di pensiero rivoluzionario non perché esista una chimica degli esplosivi. Gli esplosivi sono ben lungi dall'essere sempre rivoluzionari. Ma la chimica è soprattutto la scienza della trasformazione degli elementi; essa è ostile a ogni sorta di pensiero assoluto o conservatore fissato in categorie immutabili». Questa volta Trotskij ci permette di dissipare un equivoco ricorrente nelle discussioni sulla laicità, e cioè che il modello di cultura e di società che abbiamo delineato nel paragrafo precedente sarebbe il portatore più o meno sano di un virus che varie autorità religiose e "laiche" (qui le virgolette sono d'obbligo) hanno di recente denunciato: il relativismo. Anche qualche filosofo sembra temere che il relativismo segnerebbe la fine delle certezze e comporterebbe la dissoluzione della verità e insieme della società. Consigliamo a tutti costoro una rilettura dello Zibaldone di Giacomo Leopardi: nella prospettiva relativistica "gli assoluti, in luogo di svanire, si moltiplicano, e in modo che essi ponno essere e diversi e contrari tra loro". Che verità sarebbe mai quella incapace di resistere a tale contrasto di opinioni? E che ce ne faremmo di una società che non si riveli robusta rispetto alle perturbazioni inevitabilmente prodotte da una democrazia di conflitto? Iniziamo dalla verità. Mai come oggi essa sembra aver suscitato una pletora di entusiasti difensori. Si tratta, con tutta probabilità, di persone mosse da elevate motivazioni ma, si sa, l'Inferno, sulla cui esistenza ci ha recentemente ammonito un celebre teologo, è lastricato di buone intenzioni. Cominciamo con l'osservare che il relativismo non coincide affatto col facile slogan tutto è relativo. Questa è solo la caricatura che ne fanno gli avversari. Osservava (1934) il grande matematico Bruno de Finetti (1906-1985): la critica relativistica «non pretende di dimostrare l'impossibilità di giungere a una verità che non abbia mai più bisogno di ritocchi: un simile intento sarebbe contraddittorio, ché esso consisterebbe proprio nello stabilire una tale verità. Vuol mostrare invece quanto siano facili le illusioni e mettere in guardia contro di esse, vuol sconsigliare l'inutile imprudenza di farsi garanti di una certa concezione per tutta l'eternità, quando il domani può smentirla, e quando il suo successo dipende dall'intrinseca sua capacità di affermarsi e durare in un certo periodo, capacità che non si può modificare, come con un colpo di bacchetta magica, con il semplice espediente di conferirle la qualifica di "verità assoluta"». E concludeva, da buon pragmatista, "che conviene abbracciare il punto di vista favorevole alla possibilità indefinita di progresso, dato che esso non causa alcun danno, e molti ne evita".
Passiamo alla
società.
Solo nella prospettiva su accennata il relativismo è
schiettamente laico, in quanto denuncia la vanità di qualsiasi pretesa di
infallibilità, compresa quella che talvolta è fatta propria, in modo più o meno
consapevole, da laici di impronta assolutistica. Pensiamo, per esempio, a quei
fautori dell'assolutismo scientifico che già Bruno de Finetti ridicolizzava
negli anni Trenta del secolo scorso, e che spesso danno l'impressione di non
aver colto l'aspetto più originale della conoscenza scientifica, il suo
carattere fallibile. Ma anche a quei sostenitori dello stato "laico" che
vorrebbero, sotto il pretesto della "pace sociale", livellare le differenze in
campo religioso o morale. Una variante di quest'ultimo atteggiamento è
l'appello a una qualche forma di "religione civile" intesa come fattore di
normalizzazione nella vita associata: che venga invocata da "atei devoti" che
guardano, poniamo, al Cattolicesimo come utile strumento di
governo
(o meglio, di
dominio)
o che venga reinventata come "religione della scienza" da qualche
improvvido scientista, tale
religio
potrà forse indicare "ciò che unisce", una
communitas,
ma solo a prezzo di escludere tutti coloro che non vi si riconoscono -
costituendo così una sottile ma non meno perversa forma di
apartheid.
Qualcuno potrebbe concludere da queste nostre ultime parole che
c'è incompatibilità tra
libertas
e
communitas;
se le cose stanno così, tanto peggio per la
communitas.
La società "anarchica" e in "permanente rivoluzione" delineata nel paragrafo
precedente non ha bisogno di rigidi vincoli comunitari. Se questi ci vengono
imposti, abbiamo sempre un rimedio: farli saltare usando la chimica di cui
parlava Trotskij.
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