|
|
| << | < | > | >> |IndiceLettrice « allettata » 7 Segnalibro 10 Dare in prestito 13 Prendere in prestito 17 Biblioteche pubbliche 21 Cestinare 25 Raccattare 29 Regali 32 Acquisti 35 Copertine 38 Odori 41 Musica 45 Spia 49 Fascetta 51 Codice a barre 53 Ex libris, dediche & C. 56 Fantasie 59 Incidenti 62 Bulimia 66 Processi e gogne 69 Passaparola 72 Di palo in frasca, frascheggiando 75 Tran-tran 78 « Allettamento » 83 Nevrastenia 87 Prontuari e dizionari 90 Ordine 94 Patologia generale del lettore 98 Indiscrezione 101 Spostamenti 104 Contrordine 108 Auto 110 Albergo 113 Anticipazione 115 Refusi e « impasti » 119 Lapsus 122 Ristorante 124 Volumi e pesi 127 Miopia 129 Cambio di velocità 132 Letture incrociate 134 Vizio o virtù 138 Passione esclusiva 141 Panico 145 Nausea 149 Troppo presto, troppo tardi 151 Doppioni 153 Disinvoltura 156 Il termine del termine 159 Libro tuttofare 162 Culto incolto 165 (S)conclusione 167 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Da sempre, per me, libro e letto sono associati. È una cosa che risale all'età analfabeta in cui, non appena mi ero infilata nel mio lettuccio, mi leggevano storie «da far cascare dal sonno». Mi coricavo senza fare storie grazie alle storie. Non mi piaceva che me le raccontassero, volevo che, me le leggessero. Non perdevo di vista lo scorrere delle pagine e sapevo a quale spessore del volume avrei ritrovato i miei eroi quando la pazienza di chi mi leggeva fosse venuta meno. Infatti veniva meno quando, morta di sonno, dicevo: Ancora. Una sola soluzione per affrancarmi dalla loro pigrizia: imparare a leggere. Ho imparato, con questo e con quello, e ciascuno aveva il suo metodo. Risultato, o meglio non risultato: non sono mai riuscita a uguagliare la loro grande arte di leggere ad alta voce, con la giusta intonazione, senza storpiare i nomi propri (ancor oggi smozzico, strazio i patronimici, i nomi di luogo. I romanzi russi sono un piacere-dolore: fotografo quell'accozzaglia di consonanti che rallentano la mia lettura e m'irnpappino al terzo Karamazov. Ciò non m'impedisce di fare vocalizzi con tutti i nomi esotici: Raskolnikov, Teotihuacán, Ziguinchor...). Insomma, me la sbrogliavo come potevo, leggendo fino a ore impossibili. Sempre, però, una voce imperiosa mi ordinava di spegnere. Una sera, tradita dalla striscia di luce sotto la porta, come tutti i bambini divoratori di libri, passai allo stadio della pila tascabile soffocando sotto le lenzuola, con brevi risalite a quota periscopica per respirare. Quando gli adulti uscivano, riaffioravo e, alla luce della lampada da comodino, leggevo a sazietà. Il loro passo nel corridoio suonava il coprifuoco in un panico completo. Godetti di questa libertà fino alla notte in cui mia madre si bruciò sul cappello della lampada a pinza venendo a darmi un bacio nel mio finto sonno. Dopo questo flagrante delitto, dovetti, per alcuni anni, ridarmi alla clandestinità della pila. Insomma, leggo bene soltanto a letto, o meglio sdraiata. In passato sulla pancia, adesso sulla schiena, solidamente inzeppata fra due cuscini. La lettura da seduta resta associata alla scuola, al lavoro, alla carcerazione del corpo. Una parte del piacere se ne va. Eccetto che in metropolitana. Devo sempre leggere prima di addormentarmi. Anche alle quattro del mattino ho bisogno della mia dose. Dato che il mio occhio sinistro si stanca prima del destro, leggo con un occhio solo, sino allo sfinimento. Incapace di fermarmi alla fìne del capitolo, del paragrafo o della riga, mi blocco a mezza frase, stecchita. | << | < | > | >> |Pagina 21So benissimo che la mia avversione per le biblioteche pubbliche puzza di spocchia, quella delle benestanti che difendono i loro privilegi: elitiste che disdegnano il piacere altrui, possidenti che preferiscono i loro beni meschini agli splendori collettivi, borghesucce, gelose e puntigliose che sputano sul libero amore e sui ristoranti popolari. Puah! No, la biblioteca non è una casa chiusa. Proprio il contrario. L'accesso è libero, i volumi non si vendono. Si prestano. Il principio è intelligente, democratico, utile, generoso, comodo, economico. Eppure, io ci rinuncio. Salta agli occhi che c'è qualcosa di malsano nell'accumulazione domestica dei libri. Anche amati, li si lascia a dormire sui ripiani. Soltanto l'inserzione di un nuovo Grainville spolvera un po' Gautier, Green, il cui scaffale non riceve visite mie o della donna di servizio da alcuni trimestri. E i libri già letti ma non sistemati sugli scaffali vacillano in cumuli instabili, in attesa di quel primo vaglio che ne precede la sistemazione. Deprimenti, già mezzo morti. Proprio come quelli che aspettano di essere letti, ammassati da settimane, da mesi, da anni, disseccati, avvizziti da quel lento purgatorio, periodicamente fatti franare da violenti colpi di aspirapolvere, riorganizzati taglio-costa in rigidi fortini inespugnabili che scoraggiano ogni eventuale ricerca. | << | < | > | >> |Pagina 35Per regalare, bisogna acquistare. Dunque andare in una libreria. Piccola, addirittura minuscola. Applico una sapiente rotazione, come i poveri che dividono prudentemente i loro debiti fra tutti i negozianti del quartiere. Ci vado soltanto quando ho un titolo in mente. Anche in tal caso, esco con almeno tre libri. O sennò, come il bulimico evita di passare davanti alle pasticcerie, mi distolgo dalla vetrina delle librerie per evitare di farmi prendere dalla golosità, evitare gli acquisti compulsivi che servirebbero soltanto ad accrescere l'immensa pila in attesa che vacilla accanto al letto: di sicuro, le opere si vendicherebbero franandomi addosso durante il sonno. La cosa peggiore, per me, è il Salone del libro. Quelle migliaia di autori morti o viventi, quei milioni di volumi che non ho letto. Mi basta guardarli per farne indigestione. Dopo poco, mi sento come una vegetariana persa in una salumeria all'ingrosso o in un allevamento di polli in batteria. Non che mi manchi l'appetito, ma quello sfoggio di cibarie libresche mi dà la nausea. Uscendo di lì, ogni anno, piango calde lacrime. Dunque, nel momento del bisogno mi fiondo da uno dei miei librai preferiti, mi avvento sullo scaffale giusto o sul tavolo delle novità, mi precipito alla cassa. Troppo tardi. Il mio occhio ha scorto di passata le Lettere della Principessa Palatina. E poi, proprio accanto alla cassa, c'è Senza domani di Vivant-Denon, la cui prima pagina è un irresistibile esercizio di concordanze verbali (da regalare). Compro. Scappo. Uff, me la sono cavata con tre libri, due dei quali smilzi. La pila in attesa mi risparmierà. | << | < | > | >> |Pagina 53C'è il prima e il dopo. Prima, fiammiferi, caviale, spazzolini da denti, vino, libri, scarpe erano prodotti distinti, più o meno etichettati. Oggi, tutti hanno impresso il codice a barre che abbassa quegli oggetti, piccoli e grandi, consueti o lussuosi, al rango di merce. Ora, il libro, ai miei occhi, non dovrebbe essere una merce. Schiumo di rabbia nel vederlo sconciato da quella saracinesca che deturpa il retro di copertina, esibisce il trionfo dei «ragionieri», senza concessioni all'estetica. Possibile che nessun grafico sia riuscito a addolcirla, integrarla, mascherarla? (A ogni buon conto, Jean-Pie mi dice di averla vista trasformata in gabbia e Ochas in Partenone grazie a un tettuccio triangolare.) Personalmente, su un libro regalato, l'ho trasformata per due volte in zebra. E riesco benissimo a immaginarla anche inquadrata da due elefanti a mo' di fermalibri. Se fossi di buon umore, potrei trovare un'aria lautréamontesca al codice a barre «bello come l'incontro fortuito tra un registratore di cassa e un manoscritto» (cosa che, di fatto, è anche il libro). Ma, questo rapporto, voglio dimenticarlo quando leggo, altrimenti l'intimità fra autore e lettore ne viene perturbata. Eppure, questo richiamo al fatto che il libro è una lunga catena di collaborazione fra l'editore, il distributore e il libraio non è del tutto scostante. Tanto più che, di questa catena, faccio parte anch'io. Qui, forse, sta il busillis. Quando leggo, io non sono più un anello. Non voglio sapere niente dei pastrocchi degli approvvigionamenti, dei prezzi, della gestione delle rese. Tutte queste cose appartengono a un campo che non devo più conoscere. Nondimeno, sul retro della mia copertina si esibisce tutta quella contabilità con la stessa impudicizia di quelle giovani convulse che si truccano in metropolitana, fondotinta, cipria, fard, ombretto per le palpebre, mascara, rossetto, con tutte quelle smorfiette solitamente riservate allo specchio delle stanze da bagno. Il codice a barre mi sbeffeggia con la medesima indecenza. Dietro le sue sbarre si svolgono gli stessi brutti maneggi che non riguardano nessuno. E poi, è funereo come un pezzo di velo da lutto sfilacciato, tetro come un falso Buren. Crudele cancello di fabbrica, evoca un universo concentrazionario, un frastuono di macchine timbracartellini, di muletti, di manutenzione. Perché non l'hanno fatto a forma di cascata, di sole, insomma di qualsiasi altra cosa che non sia quel graffio che marchia il lettore, lo riduce al ruolo di volgare consumatore prigioniero di un mercato? | << | < | > | >> |Pagina 115Prima di cominciare un libro, Anne guarda sempre come va a finire. Barbara! E dire che a me la sola lettura dell'indice sciupa ogni piacere; che la recente abitudine di metterlo all'inizio, all'americana, mi fa star male. Perché leggere una biografia di Maria Antonietta se sappiamo già in anticipo che morirà ghigliottinata e non vittima di un infarto mentre distribuisce brioche? Insomma, da quando mi sono emancipata dal confortante «E vissero felici e contenti», voglio ignorare la fine. Se avessi subito letto: «Una domestica entrò, portando una lampada», avrei mai cominciato La porta stretta? Per la stessa ragione, detesto le prefazioni, le critiche che svelano storia e stile. E già troppo sapere che la grandezza di César Biroteau è seguita da decadenza. È detto tutto. Il mio piacere è già sciupato. Con l'età, questa ripugnanza volge in fobia. E, come tutti i fobici, nutro la mia ossessione. | << | < | > | >> |Pagina 132A parità di genere, di piacere, di numero di pagine, di disponibilità, di autore, vorrei proprio sapere in virtù di cosa posso divorare un libro in due ore e farne languire un altro per una settimana. È vero, a volte mi affretto come una sartina per sapere come va a finire, altre volte rallento per ritardare il momento della sorpresa; a volte mi abbandono all'ebbrezza, altre volte mi costringo alla temperanza. Ho passato più di un mese, a bella posta, su L'invenzione del mondo, leggendo un solo capitolo al mattino e un capitolo la sera, inframmezzando la lettura con quindici giorni di dieta volontaria causa vacanze: non si aggiunge barocco al barocco. Mi sono costretta alla moderazione per questo libro smodato, razionandomi il piacere delle parole e dello stile per meglio goderne. Ma, a parte questi comportamenti più o meno razionali, obbedisco a pulsioni inspiegabili. Perché, per esempio, divorare Lo zen e il tiro con l'arco, di cui avrei dovuto impregnarmi pian piano? E perché attardarmi su Come ho ucciso mio padre, che non meritava tanto? Perché esaurire di botto il raffinatissimo Li di Kavvadias dopo aver centellinato il brutale Il quarto? Perché, di fronte alla lettura, non soltanto i cittadini non sono uguali, uomini e donne non più divisi, ma l'individuo stesso non reagisce in modo identico. Il libro può essere saporito o indigesto, il lettore sazio o affamato. Il suo appetito varia in funzione del suo temperamento, ma anche delle stagioni, delle circostanze, dei luoghi, della compagnia, della pace, del rumore, della carenza, dell'abbondanza, dell'amore, dell'odio. Egli segue i moti dell'umore e del cuore, le fluttuazioni del morale e del fisico. Nel mio caso, si aggiungono le depressioni meteorologiche, alle quali posso rispondere sprofondando nella lettura o abbandonandomi alla contemplazione dei miei piedi, con la frenesia compensatoria o con una tenebrosa apatia. Non sento mai senza compassione la barzelletta dell'uomo che possiede un solo libro e non ha finito di colorarlo. So che potrebbe capitare anche a me, e la mia propensione per l'acquarello non c'entrerebbe per niente. Posso anche benissimo leggere a tutta velocità. A ciascuno, ogni giorno, il suo ritmo. E che nessuno se ne impicci o giudichi. | << | < | > | >> |Pagina 156Ho potuto leggere qualsiasi cosa, a ogni età, in ogni luogo, in circostanze particolarissime, ma mai alla carlona o alla garibaldina. Mi sono affrancata da questa debolezza soltanto verso i cinquant'anni: ero abbastanza grande per aver il diritto di piantar lì un libro esecrabile o di lasciare la sala prima della fine di un filmaccio. Un «piccolo malanno» mi aveva anche aiutata a dare il giusto valore alle cose. Prima di questa liberazione, davanti ai libri, ai film, un vecchio vezzo giudaico-cristiano in favore di una possibile redenzione mi costringeva a subire il martirio sino alla fine. Quanti brutti manoscritti ho dovuto mandar giù in ufficio, quando la loro mediocrità saltava all'occhio fin dal primo paragrafo! Mi ostinavo con la fede di una catechista che tenta l'impossibile per strappare il peccatore all'inferno. E scrivevo lettere di rifiuto soavi, argomentate, che, naturalmente, mi valevano interminabili e appassionate difese. Dopo un centinaio di risposte cavillose, rafforzai la mia posizione: continuavo a leggere dalla prima all'ultima riga, ma respingevo senza appello, sventando ogni tentativo del tipo: «Signora, tenuto conto delle sue giustissime osservazioni, ho il piacere di inviarle una nuova versione del mio dattdoscritto...» Anche nel mio piccolo regno privato mi sforzavo di essere angelica. Se capitava che una noia mortale mi assalisse fin dalla prima riga, andavo comunque sino in fondo. Anche qui mi son fatta un po' più audace. Se un libro non riesce ad avvincermi dopo trenta pagine, lo mollo. Talora per sempre; a volte per un po'. Allora vegeta accanto al letto, in attesa di giorni migliori, di un'altra stagione, di uno stato di grazia, di circostanze favorevoli, di un brillante intercessore. | << | < | > | >> |Pagina 165Sui miei rìpiani, non ci sono soltanto i buchi lasciati dai libri prestati o da riporre. Certi vuoti denunciano abissi d'incultura. Naturalmente ci si può trovare Storia di Genji, ma non Shakespeare. Ho letto opuscoli confidenziali, titoli rari, romanzi futili o fondamentali, ma si cercherebbe invano La divina commedia. Non mi si vedrà mai assumere un'aria spocchiosa per annunciare che, durante le vacanze, rileggerò L'educazione sentimentale. La leggerò, semplicemente, alla faccia di Michel. È proprio da me fare questa confessione umiliante alla fine. Messa all'inizio, la si sarebbe dimenticata nel corso della mia gratificante litania bibliografica. Passata sotto silenzio, si sarebbe potuto credere che, se avevo scoperto I tragici di Agrippa d'Aubigné, era perché avevo letto ben altro che dei brani scelti dei Lusiadi di Camões. Mi si sarebbe fatto credito di questo grazie a quello. Aggiungere il raggiro all'ignoranza! Mai. Eppure, questa mortificante franchezza non serve a niente: quando disilludo i miei amici sulle mie pretese conoscenze letterarie, loro pensano che scherzi o voglia fare la modesta. Non mi credono e io mi sento falsa. Sono i momenti in cui la carta stampata mi deprime di più. Perché, d'altronde, non ho letto tutti quei capolavori, classici, o anche l' Ulisse, Moby Dick e altri libri di culto? In parte proprio perché erano libri di culto, per il mio rifiuto del rito di passaggio. Ma anche perché mi mancano quella serenità, quell'innocenza o quell'assoluta leggerezza che permettono di immergersi in una grande opera di cui si conosce fin troppo l'importanza teorica o reale. Inutile essere in stato di grazia per mettersi a leggere Simenon. E invece bisogna essere quantomeno disponibili per immergersi in Claudel. Una fifa nera mi coglie prima dell'immersione. Una sorta di timor panico, di claustrofobia, di angoscia mi torce le budella, mi fa rinviare a giorni migliori (le vacanze) o peggiori (una malattia non troppo invalidante) delle letture essenziali. Senza pretesto freudiano come per il Viaggio al termine della notte, rimando certe letture di decennio in decennio. Non per inappetenza o per ignoranza, ma per un miscuglio di sciocco rispetto, di paralisi, di attesa superstiziosa delle condizioni ideali. In fondo, perché arrossire, lamentarsi, affannarsi, crogiolarsi nell'autocritica e nella flagellazione? Ho un bell'avvenire davanti a me. | << | < | > | >> |Pagina 167Credevo che la mia piccola biobliografia fosse finita. Ma, quando è finita, forza Ninì!, si ri-co-min-cia-a-a-a, come dice la canzoncina. Ho dimenticato mille cose e la vita continua. François non ha risistemato il mio studio e io non ho riordinato i miei libri. Mio fratello ha conosciuto in un caffè una ragazza che cominciava Possono accadere queste cose? di Ambrose Bierce. Le ha domandato dove l'aveva comprato: «Proprio lì, sul lungofiume». Lui si precipita. Due copie dello stesso titolo... sarebbe un miracolo. È un miracolo. Mi ha restituito Possono accadere queste cose?, trionfante e pieno di malizia. Dodò mi dice che una sua amica lascia tutti i segnalibri dove stanno e alla fine della lettura si ritrova in mano un libro-fisarmonica.
Da qualche giorno so che è a causa dell'odor
di colla di certi libri che preferisco i saponi
aromatizzati all'olio di mandorle dolci.
Sono nato
Vorrei una stanza zen, senza libri. Voglio lasciare Ivry, tornare a Parigi, con i miei libri stretti attorno a me. Duecentocinquanta metri quadrati sulla Senna, all'ultimo piano con un'immensa terrazza. Quando si sogna, bisogna farlo in grande. A proposito, ho realizzato una delle mie fantasie. O meglio, ho optato per un compromesso piccolo-borghese: prima ho illustrato gli inizi di capitolo di Sotto il sole della Toscana. Direttamente ad acquarello, senza possibili rimorsi. Poi, col pretesto del compleanno di Jane, ho illustrato per lei, con inchiostro di china colorato, Dialoghi di bestie di Colette e, nello stesso impeto, Storie naturali di Jules Renard. Domani azzarderò l'acquarello direttamente sulla pagina stampata. Non ho ancora letto Middlemarch. Intanto, Catherine ha avuto un figlio e si è trasferita a Lilla. Esasperata dalle mie letture avanti-indietro per ritrovare la pagina, appiccico piccoli foglietti adesivi gialli staccabili. Non aderiscono molto, ma quanto basta perché dopo un certo tempo la parte adesiva si riempia di fantasmi di lettere. Perdo dunque meno tempo a cercare la pagina in metropolitana. Ho capito che non è per via della posizione seduta che non leggo bene in autobus, in treno o in aereo. È per una serie di cause: il paesaggio mi distrae; in autobus, il sedile sembra studiato apposta per far cadere l'utente in avanti: meglio aggrapparsi che reggere un libro. In aereo e in treno, i tavolinetti sembrano concepiti per entrarvi nella pancia: meglio farne a meno e osservare ì passeggeri, le nuvole. È lì che François dovrebbe leggermi Michaux.
Alla fine, so perché ho scritto queste poche
pagine. Per cancellare un'umiliazione cocente
che risale a quando avevo sei o sette anni. Ci
avevo messo l'anima a descrivere in un componimento
«il mio libro preferito», la sua copertina dagli angoli
arrotondati dall'uso, le sue pagine morbide come carta
assorbente, eccetera.
In margine, la maestra aveva scritto in rosso, a
lettere tonde e sottili: «Fuori tema».
|