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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 9 PARTE PRIMA TERRORE (autunno 1939 - estate 1941) 1. Settembre 1939 - maggio 1940 27 2. Maggio 1940 - dicembre 1940 99 3. Dicembre 1940 - giugno 1941 171 PARTE SECONDA OMICIDIO DI MASSA (estate 1941 - estate 1942) 4. Giugno 1941 - settembre 1941 247 5. Settembre 1941 - dicembre 1941 319 6. Dicembre 1941 - luglio 1942 395 PARTE TERZA SHOA (estate 1942 - primavera 1945) 7. Luglio 1942 - marzo 1943 473 8. Marzo 1943 - ottobre 1943 551 9. Ottobre 1943 - marzo 1944 631 10. Marzo 1944 - maggio 1945 701 Note 771 Ringraziamenti 877 Bibliografia 879 Indice analitico 937 |
| << | < | > | >> |Pagina 9David Moffie conseguì la laurea in Medicina presso l'Università di Amsterdam il 18 settembre 1942. In una fotografia scattata durante la cerimonia, i professori C.U. Ariens Kappers, relatore di Moffie, e H.T. Deelman sono in piedi a destra del neomedico mentre l'assistente D. Granaat è fermo sulla sinistra. Un altro accademico, visto di spalle, probabilmente il preside della facoltà di Medicina, è in piedi dietro a una massiccia scrivania. Sullo sfondo in penombra si distinguono a stento i volti di alcune delle persone ammassate nella sala piuttosto angusta, sicuramente familiari e amici. I membri del corpo accademico indossano la toga mentre Moffie e Granaat sono in smoking e cravattino bianco. Sul lato sinistro della giacca Moffie sfoggia una stella ebraica grande come il palmo di una mano con la scritta Jood. Moffie fu l'ultimo studente ebreo a frequentare l'Università di Amsterdam durante l'occupazione tedesca. Le consuete espressioni di elogio e ringraziamento vennero sicuramente pronunciate come da rituale accademico. Non sappiamo se furono aggiunti ulteriori commenti. Poco dopo, Moffie fu deportato ad Auschwitz-Birkenau. Sopravvisse, come il 20 per cento degli ebrei olandesi; stando alle stesse statistiche, quindi, la maggior parte degli ebrei presenti alla cerimonia non fu altrettanto fortunata. La fotografia suscita alcuni interrogativi. Com'è possibile, per esempio, che la cerimonia abbia avuto luogo il 18 settembre 1942, se è vero che gli studenti ebrei furono esclusi dalle università olandesi a partire dall'8 settembre? I curatori di Photography and the Holocaust hanno trovato la risposta: l'ultimo giorno dell'anno accademico 1941-1942 fu venerdì 18 settembre 1942, mentre il semestre 1942-1943 ebbe inizio lunedì 21 settembre. L'intervallo di tre giorni permise a Moffie di ottenere il diploma di laurea prima che il bando degli studenti ebrei diventasse esecutivo. In realtà l'intervallo fu limitato a un unico weekend (venerdì 18 settembre - lunedì 21 settembre), il che significa che le autorità dell'ateneo accettarono di utilizzare il calendario amministrativo, contrastando così l'intento del decreto tedesco. La decisione fu indice di un atteggiamento diffuso negli atenei olandesi sin dall'autunno del 1940; la fotografia documenta un atto di sfida, al margine delle leggi e dei decreti degli occupanti. C'è di più. Le deportazioni dall'Olanda iniziarono il 14 luglio 1942. A cadenza quasi quotidiana tedeschi e polizia locale arrestavano ebrei per le strade delle città olandesi in modo da raggiungere le quote settimanali prefissate. Moffie non avrebbe potuto partecipare a questa cerimonia accademica pubblica senza avere ricevuto uno dei 70.000 certificati d'esenzione speciali (e temporanei) che i tedeschi assegnarono al Consiglio ebraico cittadino. La fotografia, quindi, evoca indirettamente le controversie che circondarono i metodi adottati dai capi del Consiglio per proteggere – almeno momentaneamente – alcuni degli ebrei di Amsterdam mentre abbandonavano al proprio destino tutti gli altri. In termini più generali stiamo assistendo a una cerimonia alquanto ordinaria, facilmente riconoscibile. In uno scenario moderatamente festoso, un giovanotto ricevette l'autorizzazione ufficiale a praticare la medicina, curare gli ammalati e, per quanto umanamente possibile, utilizzare le sue competenze professionali al fine di restituire la salute. Ma, come sappiamo, il Jood appuntato alla giacca di Moffie recava un messaggio assai diverso: come tutti i membri della sua «razza» sparsi per il continente, il neomedico era destinato a essere ucciso. Intravisto vagamente, il Jood non appare scritto in lettere maiuscole o in qualsiasi altra grafia comunemente usata. I caratteri furono creati appositamente per quello scopo particolare (e tracciati in modo simile nelle varie lingue dei paesi interessati dalle deportazioni, Jude, Juif, Jood e così via) in una foggia sbilenca, sgradevole e vagamente minacciosa, volta a evocare l'alfabeto ebraico pur restando facilmente decifrabile. Ed è in questa scritta e nel suo peculiare design che la situazione rappresentata nella fotografia ricompare nel suo vero significato: i tedeschi erano decisi a sterminare gli ebrei come individui e a cancellare ciò che la stella e la sua iscrizione rappresentavano: «l'ebreo».
Qui percepiamo soltanto l'eco più flebile di un furioso assalto
volto a eliminare qualsiasi traccia di «ebraicità», qualsiasi segno
dello «spirito ebraico», qualsiasi residuo di presenza ebraica (reale o
immaginaria) dalla politica, dalla società, dalla cultura e dalla
storia. A tal fine la campagna nazista utilizzò, nel Reich e in tutta
l'Europa occupata, propaganda, istruzione, ricerca, pubblicazioni, film, divieti
e tabù in tutti gli ambiti sociali e culturali, in realtà ogni metodo di
cancellazione ed eliminazione esistente al mondo, dalla riscrittura di testi
religiosi o libretti d'opera contaminati
da qualsiasi macchia di ebraicità alla ridenominazione di strade
recanti nomi ebraici, dal bando di opere musicali o letterarie scritte da
artisti e autori ebrei alla distruzione di monumenti, dall'eliminazione della
«scienza ebraica» all'«epurazione» di biblioteche
e, come predetto dal famoso motto di Heinrich Heine, dal rogo di
libri a quello di esseri umani.
La «storia dell'Olocausto» non può limitarsi unicamente a un'enumerazione di politiche, decisioni e provvedimenti tedeschi che portarono a questo genocidio estremamente sistematico e prolungato; deve includere le reazioni (e talvolta le iniziative) del mondo circostante e l'atteggiamento delle vittime, per il fondamentale motivo che gli avvenimenti cui attribuiamo il nome di Olocausto rappresentano una totalità definita da questa stessa convergenza di elementi distinti. È una storia in molti casi comprensibilmente scritta sotto forma di storia tedesca. I tedeschi, i loro collaboratori e assistenti furono gli istigatori e i principali attuatori delle politiche di persecuzione e di sterminio e, prevalentemente, della loro applicazione. Inoltre, documenti tedeschi relativi a simili politiche e provvedimenti divennero ampiamente accessibili dopo la sconfitta del Reich. Tali immensi tesori di materiale, a stento gestibili persino prima dell'accesso ai dati raccolti negli archivi dell'ex blocco sovietico e orientale, sin dai tardi anni Ottanta hanno naturalmente accentuato ancor più l'enfasi sulla dimensione tedesca di questa storiografia. Inoltre, agli occhi della maggior parte degli storici, un'indagine che si concentri sulla sfaccettatura teutonica di questa storia appare più aperta alla concettualizzazione e a sortite comparative, in altre parole meno «parrocchiale» di qualsiasi cosa si possa scrivere dal punto di vista delle vittime o persino da quello del mondo circostante.
Un simile approccio germanocentrico è naturalmente legittimo, nei suoi
limiti, ma la storia dell'Olocausto esige, come già
menzionato, una portata assai più ampia. A ogni passo, nell'Europa occupata,
l'applicazione di provvedimenti tedeschi è dipesa dall'arrendevolezza delle
autorità locali, dal supporto fornito
da forze di polizia locali o da altri collaboratori, e dalla passività, quando
non dal sostegno, da parte delle popolazioni e soprattutto delle élite politiche
e religiose. È dipesa anche dalla disponibilità delle vittime a obbedire agli
ordini nella speranza di attenuare le restrizioni tedesche o di guadagnare tempo
e sfuggire in qualche modo all'inesorabile serrarsi della morsa tedesca.
La storia dell'Olocausto dovrebbe quindi essere una storia sia
integrativa sia integrata.
Nessuna singola intelaiatura concettuale può racchiudere gli elementi eterogenei e convergenti di una storia siffatta. Nemmeno la sua dimensione tedesca può essere interpretata da un'unica angolazione. Lo storico si trova dinnanzi l'interazione di fattori a lungo e breve termine assai eterogenei, ognuno dei quali può essere definito e interpretato; la loro stessa convergenza, tuttavia, sfugge a una categoria analitica globale. Nel corso degli ultimi sei decenni è affiorata una miriade di concetti, solo per essere scartati pochi anni dopo, poi riscoperti e così via, soprattutto per quanto riguarda le politiche naziste in sé e per sé. Le origini della «soluzione finale» sono state via via attribuite a un «corso speciale» (Sonderweg) della storia tedesca, a un particolare filone dell'antisemitismo tedesco, al pensiero razziale-biologico, a politiche burocratiche, totalitarismo, fascismo, modernità, a una «guerra civile europea» (vista dalla sinistra e dalla destra) e simili. Riesaminare tali concetti richiederebbe un altro libro? In questa introduzione mi limiterò essenzialmente a definire la strada qui imboccata. Tuttavia, a questo punto divengono necessarie alcune osservazioni su due filoni contrastanti presenti nell'attuale storiografia del Terzo Reich in generale e della «soluzione finale» in particolare. Il primo filone ritiene che lo sterminio degli ebrei rappresenti, di per sé, un fine primario delle politiche tedesche il cui studio, tuttavia, richiede di essere ridefinito a partire dalle attività degli attori di medio livello, dalla dettagliata analisi di avvenimenti in aree circoscritte, da specifiche dinamiche istituzionali e burocratiche: il tutto volto a gettare nuova luce sui meccanismi dell'intero sistema di sterminio. Questo approccio ha accresciuto enormemente la nostra conoscenza e comprensione: ne ho integrato molte scoperte nella mia indagine dall'orientamento più globale. L'altro filone è diverso. Ha contribuito, nel corso degli anni, alla scoperta di numerose nuove piste. Eppure, per quanto riguarda lo studio dell'Olocausto, alla fine ognuna di queste piste si dirama dallo stesso punto di partenza: la persecuzione e lo sterminio degli ebrei d'Europa non fu che una conseguenza secondaria di rilevanti politiche tedesche perseguite per raggiungere fini di tutt'altra natura. Tra i fini più frequentemente menzionati, un nuovo equilibrio economico e demografico nell'Europa occupata tramite l'assassinio di popolazioni in sovrannumero, rimpasto e decimazione etnici onde agevolare la colonizzazione tedesca nell'Est e la sistematica spoliazione degli ebrei al fine di facilitare la gestione della guerra senza imporre un fardello materiale troppo gravoso alla società tedesca o, più precisamente, allo stato nazional-razziale di Hitler (Hitlers Volksstaat). A dispetto delle visuali spalancate sporadicamente da tali studi, la loro essenza è palesemente incompatibile con i postulati centrali sottesi alla mia interpretazione. Nel presente volume, così come in Gli anni della persecuzione: 1933-1939, ho scelto di concentrarmi sulla centralità di fattori ideologico-culturali come motori principali delle politiche naziste relative al problema ebraico, che dipendevano naturalmente da circostanze specifiche, da dinamiche istituzionali ed essenzialmente, per il periodo di cui qui si tratta, dall'evolversi della guerra. La storia con cui abbiamo a che fare è parte integrante dell'«epoca dell'ideologia» e, più precisamente e nettamente, della sua tarda fase: la crisi del liberalismo nell'Europa continentale. Tra il tardo XIX secolo e la fine della seconda guerra mondiale la società liberale fu attaccata da sinistra dal socialismo rivoluzionario (che sarebbe diventato bolscevismo in Russia e comunismo in tutto il mondo) e da una destra rivoluzionaria che, nel periodo immediatamente successivo al primo conflitto mondiale, si trasformò in fascismo in Italia e altrove, e in nazismo in Germania. In tutta Europa gli ebrei vennero identificati con il liberalismo e spesso con il filone rivoluzionario del socialismo. In tal senso ideologie antiliberali e antisocialiste (o anticomuniste), quelle della destra rivoluzionaria in tutte le sue varie sembianze, avevano come bersaglio gli ebrei non solo in quanto rappresentanti delle visioni del mondo che esse combattevano, ma anche in quanto istigatori e latori di tali visioni. Nell'atmosfera di risentimento nazionale che seguì la sconfitta del 1918 e, successivamente, come risultato dei sovvertimenti economici che scossero il paese (e il mondo), in Germania una tale evoluzione acquistò un impeto proprio. Eppure, senza l'antisemitismo ossessivo e l'impatto personale di Adolf Hitler, prima nell'ossatura del suo movimento e poi sulla scena nazionale dopo il 1933, il diffuso antisemitismo tedesco di quegli anni non si sarebbe probabilmente condensato in un'azione politica antiebraica e sicuramente non nelle sue conseguenze. La crisi del liberalismo e la reazione contro il comunismo come fonti ideologiche di antisemitismo, spinte fino alle loro estreme conseguenze sulla scena tedesca, divennero sempre più virulente in tutta l'Europa: il messaggio nazista si procurò una risposta positiva da parte di numerosi europei e una considerevole falange di sostenitori al di là delle coste del vecchio continente. Inoltre antiliberalismo e anticomunismo corrispondevano alle posizioni assunte dalle principali confessioni cristiane, e il tradizionale antisemitismo cristiano si fuse facilmente, rafforzandoli, con i cardini ideologici di vari regimi autoritari, di movimenti fascisti e, in parte, di taluni aspetti del nazismo. Infine, questa stessa crisi della società liberale e dei suoi sostegni ideologici lasciò gli ebrei sempre più deboli e isolati in un intero continente in cui il progresso del liberalismo aveva consentito e promosso la loro emancipazione e mobilità sociale. In tal modo lo sfondo ideologico qui definito diviene il legame indiretto fra le tre componenti principali di questa storia: la Germania nazionalsocialista, il circostante mondo europeo e le comunità ebraiche sparse per l'intero continente. Tuttavia, a dispetto dell'evoluzione tedesca cui ho brevemente accennato, tali elementi di sfondo non bastano in alcun modo a spiegare lo specifico corso degli eventi in Germania. | << | < | > | >> |Pagina 15Gli aspetti peculiari della rotta antiebraica del nazionalsocialismo derivarono dall'antisemitismo di Hitler, dal legame tra quest'ultimo e la società tedesca a tutti i livelli, principalmente dopo la metà degli anni Trenta, dalla strumentalizzazione politico-istituzionale dell'antisemitismo da parte del regime nazista e naturalmente, dopo il settembre 1939, dall'evolversi della situazione bellica. In Gli anni della persecuzione: 1933-1939 ho definito il tipo di odio antiebraico di Hitler «antisemitismo redentivo»; in altre parole, dietro l'immediato scontro ideologico con il liberalismo e il comunismo, considerati dal leader nazista visioni del mondo inventate dagli ebrei in favore di interessi ebraici, Hitler percepiva la propria missione come una sorta di crociata volta a redimere il mondo eliminando gli ebrei. Vedeva nell'«ebreo» il principio del male nella storia e nella società occidentali. Senza una vittoriosa lotta redentiva, l'ebreo avrebbe alla fine dominato il mondo. Questo assioma metastorico globale portò ai più concreti corollari ideologico-politici di Hitler. Su un piano biologico, politico e culturale, l'ebreo si sforzava di distruggere le nazioni diffondendo la contaminazione razziale, minando le strutture dello stato e, più in generale, capeggiando i principali flagelli ideologici del XIX e XX secolo: bolscevismo, plutocrazia, democrazia, internazionalismo, pacifismo e altri pericoli di vario genere. Utilizzando questa vasta gamma di mezzi e metodi, mirava a ottenere la disintegrazione del nucleo vitale di tutte le nazioni in cui viveva – e in particolare quello del Volk tedesco –, allo scopo di accedere al dominio del mondo. Sin dalla creazione del regime nazionalsocialista in Germania l'ebreo, consapevole del pericolo rappresentato dal Reich in fase di risveglio, era pronto a scatenare una nuova guerra mondiale onde togliere di mezzo questo ostacolo al progresso verso il suo fine ultimo. Questi diversi livelli di ideologia antiebraica si potevano formulare e riepilogare nella maniera più stringata: l'ebreo rappresentava una minaccia letale e attiva per tutte le nazioni, per la razza ariana e per il Volk tedesco. L'enfasi non viene posta soltanto su «letale» ma anche – e soprattutto – su «attiva». Mentre tutti gli altri gruppi scelti come bersaglio dal regime nazista (i malati di mente, gli «asociali», gli omosessuali e i gruppi razziali «inferiori» che includevano gli zingari e gli slavi) erano essenzialmente minacce passive (fintanto che gli slavi, per esempio, non erano guidati dagli ebrei), gli ebrei rappresentavano l'unico gruppo che, sin dalla propria comparsa nella storia, complottava e manovrava inesorabilmente per sottomettere l'intera umanità.
Questa frenesia antiebraica al vertice del sistema nazista non
cadde nel vuoto. Sin dall'autunno del 1941 Hitler definiva spesso
l'ebreo il «piromane del mondo». In realtà le fiamme che il leader
nazista appiccò e alimentò divamparono in modo così esteso e intenso soltanto
perché, in tutta l'Europa e oltre, per i motivi precedentemente citati, un denso
sottobosco di elementi ideologici e
culturali era pronto a prendere fuoco. Senza il piromane l'incendio non sarebbe
iniziato, senza il sottobosco non si sarebbe propagato fin dove si propagò e non
avrebbe distrutto un intero mondo. È questa costante interazione tra Hitler e il
sistema al cui interno egli sproloquiò e agì che sarà analizzata e interpretata
nel presente volume, come nel precedente. Qui, tuttavia, il sistema
non si limita alle sue componenti tedesche ma penetra in ogni angolo dello
spazio europeo.
Per il regime nazista la crociata antiebraica offriva anche un certo numero di benefici pragmatici di carattere politico-istituzionale. Per un regime che dipendeva da una costante mobilitazione, l'ebreo fungeva da costante mito mobilitante. L'impulso antiebraico divenne persino più estremo con il procedere della radicalizzazione degli scopi del regime e in seguito con l'estendersi della guerra. È in questo contesto che riusciremo a individuare l'emergere della «soluzione finale». Come vedremo, lo stesso Hitler calibrò la campagna contro l'ebreo in base a scopi tattici ma, una volta apparsi i primi presagi di sconfitta, l'ebreo divenne il fulcro della propaganda del regime per sostenere il Volk in quella che si rivelò ben presto una lotta disperata. Il comportamento di molti normalissimi soldati, poliziotti o civili tedeschi nei confronti degli ebrei che incontravano, maltrattavano e assassinavano non fu necessariamente il risultato di una passione antiebraica caratteristica dell'animo tedesco e in esso profondamente radicata, come è stato sostenuto da Daniel Jonah Goldhagen, né fu il risultato di comuni rinforzi socio-psicologici, restrizioni e processi di dinamiche di gruppo, indipendenti da motivazioni ideologiche, come ipotizzato da Christopher R. Browning. Il sistema nazista nel suo complesso aveva prodotto una «cultura antiebraica», in parte radicata nello storico antisemitismo cristiano tedesco ed europeo ma anche sostenuta da tutti i mezzi a disposizione del regime e spinta fino a un livello di incandescenza senza precedenti, con un impatto diretto sul comportamento collettivo e individuale. I «tedeschi comuni» possono benissimo essere stati vagamente consapevoli del processo o, più plausibilmente, avere interiorizzato immagini e credenze antiebraiche senza riconoscerle come un'ideologia sistematicamente inasprita dalla propaganda dello stato.
Mentre l'essenziale funzione mobilitante dell'ebreo veniva manipolata dal
regime e dalle sue agenzie, una seconda funzione – non
meno cruciale – fu incoraggiata in modo più intuitivo. La leadership di Hitler è
stata spesso definita «carismatica», basata sul ruolo quasi provvidenziale
attribuito ai leader carismatici dalle popolazioni che li seguono. Torneremo nel
corso di tutti i successivi capitoli sul legame tra il Führer, il partito e il
Volk.
Basti menzionare qui che l'ascendente personale di Hitler sulla vasta
maggioranza dei tedeschi scaturiva da tre diversi dogmi di salvezza soprastorici
e ne era espressione diretta, nei limiti del contenuto del suo
messaggio: la purezza finale della comunità razziale, l'annientamento finale del
bolscevismo e della plutocrazia, e la redenzione
millenaria finale (presi in prestito da temi cristiani noti a tutti). In
ognuna di queste tradizioni l'ebreo rappresentava il male assoluto. In quel
senso la sua lotta trasformò Hitler in un leader provvidenziale dato che, su
tutti e tre i fronti, combatteva contro lo stesso nemico metastorico: l'ebreo.
Nell'ambito del contesto tedesco ed europeo (dominato dalla Germania), lotte istituzionali per il potere, battaglie generalizzate per la conquista del bottino e l'impatto di interessi acquisiti e socialmente radicati mediarono il fervore ideologico. I primi due elementi sono stati spesso descritti e interpretati in numerosi studi e verranno accuratamente integrati nei successivi capitoli; il terzo, tuttavia, meno frequentemente citato, mi sembra un aspetto essenziale di questa storia. Nella società tedesca altamente sviluppata e almeno in parte dell'Europa occupata l'autorità di Hitler e quella della leadership del partito dovevano, nell'attuazione di qualsiasi politica, tenere conto delle richieste di massicci interessi acquisiti, che fossero quelli dei feudi di partito, dell'industria, delle chiese, della classe contadina, delle piccole aziende e simili. In altre parole, gli imperativi dell'ideologia antiebraica dovevano anche essere armonizzati con una molteplicità di ostacoli strutturali derivanti dalla natura e dalle dinamiche stesse delle società moderne in quanto tali. Nessuno oserebbe contraddire un punto così ovvio; la sua rilevanza deriva da un fatto essenziale. Non un gruppo sociale, non una comunità religiosa, non un'istituzione erudita o associazione professionale in Germania e in Europa espressero la propria solidarietà agli ebrei (alcune chiese cristiane dichiararono che gli ebrei convertiti facevano parte del gregge, fino a un certo punto); al contrario, numerose compagini sociali, numerosi gruppi di potere furono direttamente coinvolti nell'esproprio degli ebrei e si mostrarono ansiosi, sia pure per cupidigia, di vederne la completa scomparsa. Così le politiche naziste e le correlate politiche antiebraiche poterono dipanarsi fino ai loro livelli più estremi senza l'interferenza di alcun rilevante interesse contrario. | << | < | > | >> |Pagina 18Il 27 giugno 1945 la chimica ebrea e austriaca di fama mondiale Lise Meitner, emigrata nel 1939 dalla Germania alla Svezia, scrisse all'ex collega e amico Otto Hahn, che aveva continuato a lavorare nel Reich. Dopo avere puntualizzato che lui e la comunità scientifica in Germania erano stati al corrente della sempre più grave persecuzione degli ebrei, la Meitner aggiunse: «Tutti voi avete lavorato per la Germania nazista e non avete mai tentato nemmeno una resistenza passiva. Certo, per lenire la vostra coscienza avete aiutato qua e là qualche persona bisognosa, ma avete permesso l'uccisione di milioni di persone innocenti, senza che si udisse mai alcuna protesta». Questo grido accorato, rivolto attraverso Hahn ai più eminenti scienziati della Germania, nessuno dei quali era un attivo membro del partito, nessuno dei quali era coinvolto in attività criminali, avrebbe potuto applicarsi altrettanto efficacemente all'intera élite intellettuale e religiosa del Reich (con alcune eccezioni, naturalmente) e ad ampie sezioni delle élite nell'Europa occupata o satellite. E ciò che si applicava alle élite si applicava più facilmente (anche in questo caso con alcune eccezioni) al popolo. In questo ambito, come già menzionato, il sistema nazista e il contesto europeo erano strettamente legati. A proposito degli atteggiamenti e delle reazioni degli spettatori, le risposte ad alcune questioni fondamentali rimangono ancora parzialmente confuse, per la natura stessa delle questioni o per la mancanza di documenti essenziali. La percezione degli avvenimenti tra le varie popolazioni di spettatori, per esempio, resta ancora parzialmente elusiva. Eppure una cospicua quantità di materiale documentario dimostrerà che mentre in Europa occidentale, Scandinavia e Balcani le percezioni sul destino degli ebrei deportati possono essere rimaste nebulose fino al tardo 1943 o addirittura fino agli inizi del 1944, non era certo questo il caso nella stessa Germania e, naturalmente, nemmeno nell'Europa orientale. Senza anticipare le future interpretazioni, possono sussistere ben pochi dubbi sul fatto che prima della fine del 1942 o, al più tardi, prima dell'inizio del 1943 divenne ampiamente chiaro per un gran numero di tedeschi, polacchi, bielorussi, ucraini e baltici che gli ebrei erano destinati a uno sterminio totale. Più difficile da stabilire è la sequenza di tali informazioni. Mentre la guerra, le persecuzioni e le deportazioni raggiungevano la fase finale e la conoscenza dello sterminio si allargava, in tutto il continente crebbe anche l'antisemitismo. I contemporanei notarono questa tendenza paradossale, la cui interpretazione diverrà una questione dominante nella terza parte del presente volume. Nonostante tutti i problemi di interpretazione, gli atteggiamenti e le reazioni degli spettatori sono ampiamente documentati. Rapporti confidenziali del SD (redatti dal Servizio di sicurezza delle SS, o Sicherheitsdienst, sullo stato della pubblica opinione del Reich) e di altre agenzie statali o di partito offrono un quadro complessivamente affidabile degli atteggiamenti tedeschi. Anche i diari di Goebbels, una delle fonti principali per quanto riguarda la costante ossessione di Hitler per gli ebrei, trattano sistematicamente delle reazioni tedesche alla questione ebraica viste dal vertice del regime, mentre le lettere dei soldati offrono un esempio degli atteggiamenti espressi, per così dire, alla base. Nella maggior parte dei paesi occupati o satelliti, rapporti di diplomatici tedeschi fornivano regolari valutazioni sullo stato d'animo delle popolazioni dinnanzi alle deportazioni, per esempio, così come fonti ufficiali nelle amministrazioni locali quali i rapports des préfets in Francia. Le reazioni individuali da parte degli spettatori, anche come registrate da diaristi ebrei, faranno parte del quadro generale, e talvolta alcuni diari locali, seguiti lungo un intero periodo, come nel caso del medico polacco Zygmunt Klukowski, offrono un vivido quadro delle intuizioni di un determinato individuo a proposito della mutevole scena globale.
Sempre riguardo agli spettatori, tra le questioni che continuano
a sfuggirci a causa della mancata disponibilità di documenti essenziali, quella
dell'atteggiamento del Vaticano e, più specificatamente, di papa Pio XII rimane
a tutt'oggi in cima alla lista. Nonostante
una ricca letteratura secondaria e la disponibilità di alcuni nuovi
documenti, l'impossibilità degli storici di accedere agli archivi del
Vaticano rappresenta una limitazione di rilievo. Mi occuperò dell'atteggiamento
del pontefice con tutta la meticolosità consentita
dall'attuale documentazione, ma gli storici si trovano dinnanzi un
ostacolo che a dispetto di tutto non è stato ancora rimosso.
Nella sua intelaiatura specifica, distinta dalla dettagliata storia delle politiche e misure tedesche o da un'enumerazione di atteggiamenti e reazioni degli spettatori, la storia delle vittime è stata meticolosamente registrata, prima durante il periodo bellico e poi, naturalmente, sin dalla fine della guerra. Le disamine delle politiche di dominio e assassinio che pur includeva erano solo frammentarie. Sin dall'inizio l'enfasi si appuntava sull'esaustiva raccolta di tracce e testimonianze documentarie riguardanti la vita e la morte degli ebrei: gli atteggiamenti e le strategie adottate dalla leadership ebraica, l'asservimento e l'annientamento della classe dei lavoratori ebrei, le attività di vari partiti e movimenti politici giovanili ebraici, la vita quotidiana nei ghetti, le deportazioni, la resistenza armata, la morte di massa in uno qualsiasi delle centinaia di siti di sterminio sparsi in tutta l'Europa occupata. Benché poco dopo il conflitto dibattiti polemici e interpretazioni sistematiche siano divenuti, insieme alla raccolta di tracce in corso, parte integrante di questa storiografia, la storia degli ebrei è rimasta un mondo a sé stante, prevalentemente dominio di storici ebrei. Naturalmente la storia degli ebrei durante l'Olocausto non può essere la storia dell'Olocausto; senza di essa, tuttavia, la storia generale di questi avvenimenti non può essere scritta. Nel suo assai controverso La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Hannah Arendt collocò parte della responsabilità dello sterminio degli ebrei in Europa direttamente sulle spalle dei vari gruppi di leadership ebraica: i Consigli ebraici o Judenräte. Questa tesi largamente non comprovata trasformò gli ebrei in complici della loro stessa distruzione. In realtà qualsiasi influenza le vittime possano avere avuto sul corso della propria vittimizzazione fu marginale, sebbene si crearono alcune situazioni di questo tipo (nel bene o nel male) in determinati contesti nazionali. Così, in numerosi ambienti simili tra loro, leader ebrei ebbero un'influenza limitata eppure non del tutto insignificante (in senso positivo o negativo) sul corso delle decisioni prese dalle autorità nazionali. Questo fu evidente, come vedremo, a Vichy, Budapest, Bucarest e Sofia, probabilmente a Bratislava, e naturalmente nei rapporti tra i rappresentanti ebrei e gli Alleati e i governi neutrali. Inoltre, in una maniera particolarmente tragica, la resistenza armata ebraica (talvolta gruppi di resistenza armata ebraica comunista, come il piccolo gruppo Baum a Berlino), che avesse sede a Varsavia o Treblinka e infine a Sobibor, potrebbe benissimo avere provocato uno sterminio accelerato della schiavizzata forza lavoro ebraica rimasta (almeno fino a metà del 1944), a dispetto del profondo bisogno di lavoratori nel Reich sempre più oberato di problemi. Nei termini della sua basilare significanza storica, l'interazione tra gli ebrei dell'Europa occupata e satellite, i tedeschi e le popolazioni circostanti ebbe luogo su un piano più fondamentale. Dal momento in cui fu lanciata la politica di sterminio, qualsiasi passo intrapreso da ebrei allo scopo di intralciare lo sforzo nazista di sradicare ognuno di loro rappresentò una diretta contromossa, sia pure sulla più minuscola scala individuale: corrompere ufficiali, poliziotti o delatori; pagare famiglie al fine di nascondere bambini o adulti; rifugiarsi nei boschi o tra le montagne; scomparire in piccoli villaggi; convertirsi; unirsi ai movimenti di resistenza; rubare cibo... qualsiasi cosa potesse venire in mente e portasse alla sopravvivenza significava porre un ostacolo agli scopi dei nazisti. È su questo microlivello che si verificò la più elementare e continuata interazione ebraica con le forze attivamente coinvolte nell'attuazione della «soluzione finale»; è su questo microlivello che ha maggiormente bisogno di essere studiata. Ed è su questo microlivello che abbondano i documenti. La storia dell'annientamento degli ebrei europei a livello individuale può essere ricostruita a partire dalla prospettiva delle vittime non solo sulla base di testimonianze postbelliche (deposizioni in tribunale, interviste e memorie) ma anche grazie all'insolitamente cospicuo numero di diari (e lettere) scritti durante gli avvenimenti e recuperati nel corso dei decenni successivi. Tali diari e lettere furono redatti da ebrei di tutti i paesi europei, di ogni classe sociale, di ogni fascia d'età, che vivevano sotto la diretta dominazione tedesca o all'interno della più ampia sfera di persecuzione. Naturalmente i diari vanno utilizzati con la stessa attenzione critica di qualsiasi altro documento, soprattutto se pubblicati dopo la guerra dall'autore o da suoi familiari sopravvissuti. Eppure, in qualità di fonte per la storia della vita ebraica durante gli anni della persecuzione e dello sterminio, rimangono testimonianze cruciali e di valore inestimabile. È difficile desumere se durante le fasi iniziali della guerra la maggior parte dei diaristi ebrei cominciò (o continuò) a scrivere allo scopo di registrare gli eventi a beneficio della storia futura, ma quando la persecuzione si inasprì gran parte di loro divenne consapevole del proprio ruolo di cronisti e memorialisti di un'epoca, oltre che di interpreti e commentatori del proprio destino personale. Ben presto centinaia, probabilmente migliaia di testimoni affidarono le proprie osservazioni alla segretezza dei propri scritti privati. Avvenimenti di rilievo e molti degli episodi, atteggiamenti e reazioni quotidiani del mondo circostante – annotati da questi diaristi – si fondono in un quadro sempre più completo, benché talvolta contraddittorio. Offrono fugaci visioni degli atteggiamenti ai più alti livelli politici (nella Francia di Vichy e in Romania, per esempio); descrivono con dovizia di dettagli le iniziative e la brutalità quotidiana dei perpetratori, le reazioni delle popolazioni, la vita e l'annientamento delle loro comunità, ma registrano anche il loro mondo quotidiano: affiorano intense espressioni di speranza e illusioni, le dicerie più sfrenate e le più fantasiose interpretazioni degli avvenimenti sono considerate plausibili, almeno per un po'. Per molti, gli eventi catastrofici divennero anche un test per le loro precedenti convinzioni, per la profondità e la significanza della loro dedizione ideologica o religiosa, per i valori che guidavano la loro vita.
Oltre alla generale importanza storica, tali cronache personali
sono come lampi che illuminano parti di un paesaggio: confermano intuizioni, ci
mettono in guardia contro la facilità di vaghe generalizzazioni. A volte
ripetono semplicemente il già noto con ineguagliato vigore. Per citare
Walter Laqueur:
«Ci sono determinate situazioni talmente estreme che è necessario uno
sforzo straordinario per afferrarne l'enormità, a meno che si fosse presenti».
Fino a questo punto la voce individuale è stata percepita prevalentemente come traccia, una traccia lasciata dagli ebrei che testimoniano, confermano e illustrano il proprio destino. Ma nei capitoli seguenti le voci dei diaristi assumeranno anche un ruolo ulteriore. Per sua stessa natura, grazie alla sua umanità e libertà, una voce individuale che si levi improvvisamente nel corso di una comune narrazione storica di avvenimenti come quelli qui presentati può provocare uno strappo in un'interpretazione ininterrotta e forare il compiacimento (per lo più involontario) del distacco e dell'«oggettività» degli studiosi. Una tale funzione dirompente sarebbe a stento necessaria in una storia del prezzo del grano alla vigilia della rivoluzione francese, ma è essenziale per la rappresentazione storica dello sterminio di massa e di altre sequenze di sofferenze di massa che «faccende come la storiografia» necessariamente addomesticano e «appiattiscono».
Ognuno di noi percepisce in modo diverso l'impatto della voce
individuale e ogni persona si sente sfidata in modo diverso dalle
«grida e sussurri» inattesi che di tanto in tanto ci spingono a fermarci di
scatto. Possono bastare alcune riflessioni incidentali su
avvenimenti già ben noti, grazie alla loro potente eloquenza o alla
loro impotente goffaggine; spesso l'immediatezza dell'urlo di terrore,
disperazione o infondata speranza di un testimone può scatenare una nostra
reazione emotiva e scuotere la nostra precedente e ben protetta rappresentazione
di eventi storici estremi.
Torniamo alla fotografia di Moffie, alla stella cucita sulla sua giacca, con la sua scritta repellente, e al suo significato: il neomedico, come chiunque esibisse quel segno distintivo, doveva essere cancellato dalla faccia della Terra. Una volta compreso il suo presagio, questa foto suscita incredulità. Tale incredulità è una reazione quasi viscerale, una reazione che si verifica prima che il sapere accorra a soffocarla. Qui «incredulità» significa qualcosa che sorge dagli abissi della propria percezione immediata del mondo, di ciò che è ordinario e di ciò che rimane «incredibile». Il fine della conoscenza storica è addomesticare l'incredulità, eliminarla con le spiegazioni. In questo libro desidero offrire un accurato studio storico dello sterminio degli ebrei d'Europa, senza con ciò cancellare o addomesticare quell'iniziale senso di incredulità. | << | < | > | >> |Pagina 27«La mattina di venerdì 1° settembre il giovane garzone del macellaio è venuto a dirci: "Lo hanno annunciato alla radio, teniamo già in pugno Danzica e il Corridoio, la guerra con la Polonia è in corso, Inghilterra e Francia rimangono neutrali"», scrisse Victor Klemperer sul suo diario il 3 settembre. «Ho detto a Eva [che] un'iniezione di morfina o qualcosa di simile era la cosa migliore; la nostra vita era finita.» Klemperer era di origine ebraica; in gioventù si convertì al protestantesimo e in seguito sposò una protestante «ariana». Nel 1935 fu estromesso dall'Università tecnica di Dresda, dove insegnava Lingue e letterature romanze, eppure restò a vivere in città, annotando meticolosamente quanto succedeva a lui e intorno a lui. Le reazioni britanniche e francesi all'attacco tedesco rimasero incerte per due giorni. «Annemarie ha portato due bottiglie di vino frizzante per il compleanno di Eva», riferì Klemperer il 4 settembre. «Ne abbiamo bevuta una e deciso di conservare l'altra per il giorno della dichiarazione di guerra inglese. Quindi oggi tocca alla seconda.» A Varsavia, Chaim Kaplan, direttore di una scuola ebraica, confidava nel fatto che stavolta Inghilterra e Francia non avrebbero tradito il loro alleato come avevano fatto con la Cecoslovacchia nel 1938. Già il primo giorno di guerra percepì la natura apocalittica del nuovo conflitto: «Stiamo assistendo all'alba di una nuova era nella storia del mondo. Questa guerra causerà davvero la distruzione della civiltà umana. Ma questa è una civiltà che merita annientamento e distruzione». Era convinto che alla fine i nazisti sarebbero stati sconfitti ma che la lotta avrebbe comportato enormi perdite per tutti. Il direttore della scuola ebraica comprese anche la peculiare minaccia per gli ebrei rappresentata dallo scoppio del conflitto. In quella stessa annotazione del 1° settembre aggiunse: «Quanto agli ebrei, il loro rischio è sette volte maggiore. Ovunque si posi il piede di Hitler, non esiste speranza per il popolo ebraico». Kaplan citò il famigerato discorso del 30 gennaio 1939 nel quale il leader nazista minacciò di sterminare gli ebrei, in caso di una guerra mondiale. Gli ebrei, quindi, erano quasi più ansiosi di chiunque altro di partecipare alla difesa comune. «Quando fu dato l'ordine che tutti gli abitanti della città scavassero trincee per proteggersi dai raid aerei, gli ebrei giunsero in gran numero. Tra loro c'ero anch'io.» L'8 settembre la Wehrmacht occupò Lódz, la seconda maggiore città polacca: «Tutt'a un tratto le terrificanti notizie: Lódz si è arresa!», annotò Dawid Sierakowiak, un ragazzo ebreo di nemmeno quindici anni. «Tutte le conversazioni si interrompono; le strade si svuotano; visi e cuori sono velati di tristezza, fredda severità e ostilità. Il signor Grabinski torna dal centro e ci racconta come i tedeschi locali abbiano accolto i loro compatrioti. Il Grand Hotel dove è previsto che alloggi lo stato maggiore è ornato di ghirlande di fiori: civili [di etnia tedesca] – ragazzi, ragazze – saltano sui carri militari di passaggio gridando felici Heil Hitler! Sonore conversazioni in tedesco nelle strade. Ogni cosa patriotticamente e nazionalisticamente [tedesca] rimasta nascosta in passato mostra ora il suo vero volto.»
E, di nuovo a Varsavia, Adam Czerniaków, impiegato della
stanza di compensazione polacca per il Commercio estero e attivo
membro della comunità ebraica, stava organizzando un comitato
civico ebraico che collaborasse con le autorità polacche. «Il comitato civico
ebraico della città capitale di Varsavia», scrisse il 13 settembre, «ha ricevuto
il riconoscimento legale ed è stato insediato nell'edificio della comunità.» Il
23 settembre annotò inoltre: «Il sindaco Starzynski mi ha nominato presidente
del comitato ebraico a Varsavia. Un ruolo storico in una città assediata.
Cercherò di dimostrarmene all'altezza». Quattro giorni più tardi, la
Polonia si arrese.
Nel presente volume si udranno le voci di numerosi cronisti ebrei, eppure tutte, per quanto eterogenee possano essere, offrono solo una tenue quanto fugace visione della straordinaria varietà rappresentata dal mondo degli ebrei europei sull'orlo della distruzione. Dopo un costante declino dell'osservanza religiosa e un aumento delle incertezze dell'identità ebraica etnico-culturale, nessun comune denominatore palese si adattava al dedalo di partiti, associazioni, gruppi e circa 9 milioni di individui sparsi per l'intero continente, che si consideravano comunque (o erano considerati) ebrei. Questa varietà era il risultato dell'impatto di ben distinte storie nazionali, delle dinamiche di migrazioni su vasta scala, di una vita prevalentemente urbanocentrica, di una costante mobilità economica e sociale stimolata da un cospicuo numero di strategie individuali di fronte all'ostilità e al pregiudizio circostanti o, al contrario, dalle opportunità offerte in ambienti liberali. Questi continui cambiamenti contribuirono alla sempre più ampia frammentazione all'interno della Diaspora, soprattutto durante i caotici decenni che separarono il tardo XIX secolo dalla vigilia della seconda guerra mondiale. Dove, per esempio, andrebbe collocato il giovane Sierakowiak, il diarista di Lódz? Nelle sue annotazioni, cominciate appena prima dello scoppio della guerra, scopriamo una famiglia artigiana permeata di tradizione ebraica, la dimestichezza dello stesso Dawid con questa tradizione eppure, al contempo, una profonda dedizione al comunismo («Le cose più importanti sono l'impegno scolastico e studiare la teoria marxista», scrisse qualche tempo dopo). Il suo mondo scisso non era certo anomalo per le molteplici e talvolta contraddittorie affiliazioni che coesistevano in varie sezioni della società ebraica alla vigilia del conflitto: liberali di varie sfumature, socialdemocratici, bundisti, trockijsti, stalinisti, sionisti di ogni orientamento e ogni fazione possibili e immaginabili, ebrei religiosi impegnati a discutere nell'ambito di interminabili faide dogmatiche o «tribali», e, fino alla fine del 1938, alcune migliaia di membri di partiti fascisti, soprattutto nell'Italia di Mussolini. Eppure per molti ebrei, prevalentemente nell'Europa orientale, lo scopo primario era l'integrazione sociale e culturale nella società circostante conservando taluni elementi di «identità ebraica», qualsiasi cosa ciò significasse. | << | < | > | >> |Pagina 34Non meno lampante della loro impotenza era l'incapacità della maggior parte degli ebrei europei di comprendere la gravità delle minacce che avevano dinnanzi. Durante i primi cinque anni del regime hitleriano, meno di un terzo degli ebrei tedeschi emigrò, persino di fronte alla persecuzione e agli oltraggi che si abbatterono su di loro mese dopo mese, anno dopo anno, a partire dal gennaio del 1933. La massiccia violenza scatenata dai nazisti durante il pogrom del 9 e 10 novembre 1938 (la cosiddetta Notte dei cristalli o Kristallnacht) rappresentò l'assai tardivo momento di autentico risveglio e sfociò in disperati tentativi di fuga. Decine di migliaia di ebrei riuscirono ancora a partire; per molti, però, ottenere un visto o radunare faticosamente i mezzi finanziari necessari per la partenza era diventato impossibile. Quasi nessun ebreo lasciò l'Austria prima dell' Anschluss del marzo 1938, e la stessa cosa si può dire degli ebrei di Boemia e Moravia prima dell'occupazione tedesca nel marzo del 1939. Ancora una volta, nonostante tutti i segnali d'allarme chiaramente visibili, nonostante le furibonde minacce antiebraiche di Hitler e il netto aumento dell'ostilità locale, l'esiguo flusso di emigrazione ebraica dall'Europa centro-orientale non crebbe in maniera significativa e quasi nessun ebreo lasciò l'Europa occidentale, prima dell'assalto tedesco.Questa apparente passività di fronte al pericolo montante appare, in retrospettiva, difficile da capire anche se, come già menzionato, le crescenti difficoltà affrontate dagli emigranti ebrei la spiegano almeno in parte; una ragione più profonda potrebbe essere entrata in gioco durante il periodo che precedette immediatamente la guerra, nonché nelle settimane e mesi che seguirono. Nell'Est, e soprattutto nell'Ovest (tranne la Germania), la maggior parte degli ebrei giudicò in modo del tutto errato il livello di sostegno che poteva aspettarsi dalla società circostante e dalle autorità nazionali e locali, davanti a un nemico comune. A Varsavia nel settembre del 1939, ricordiamolo, Kaplan e Czerniaków parteciparono orgogliosi alla lotta comune. All'Ovest l'errata percezione fu più estrema, come vedremo. Inoltre, soprattutto nell'Europa occidentale, gli ebrei credevano nella validità di princìpi astratti e valori universali, «in un mondo popolato da civili fantasmi cartesiani»; in altre parole credevano nella regola della legge, persino nella regola della legge tedesca. La legge offriva un'intelaiatura stabile per affrontare prove difficili e pianificare la vita quotidiana e la sopravvivenza a lungo termine, in altre parole il futuro. Erano pertanto ignari del fatto che «l'ebreo» si trovava al di fuori del dominio dei legami e degli obblighi naturali e contrattuali; una situazione che la filosofa ebrea tedesca Hannah Arendt, nel suo saggio di epoca bellica The Jew as Pariah («L'ebreo come paria»), ha definito prendendo in prestito una frase dal Castello di Franz Kafka: «Non sei del castello, non sei del villaggio, non sei niente». Il sionismo, pur acquisendo vigore nella scia dell'antisemitismo tedesco ed europeo, rimaneva ancora un fattore relativamente secondario sulla nuova scena ebraica, alla vigilia della guerra. Nel maggio del 1939, dopo il fallimento della conferenza di St. James tra inglesi, arabi e sionisti, Londra pubblicò un white paper che limitava l'immigrazione ebraica in Palestina a 75.000 persone nel corso dei cinque anni seguenti e praticamente metteva fine agli sforzi sionisti di acquistare terre in Eretz Israel. La politica sionista non era mai parsa così lontana dal perseguire i suoi scopi, dai tempi dalla dichiarazione di Balfour. Il 16 agosto 1939 il XXI Congresso sionista si riunì a Ginevra ma terminò in anticipo a causa dell'imminente scoppio della guerra. Nel suo discorso conclusivo ai delegati riuniti, il 22 agosto Chaim Weizmann, presidente dell'Organizzazione mondiale sionista, parlò in maniera semplice, in jiddish: «C'è oscurità tutt'intorno a noi e non riusciamo a vedere attraverso le nubi. È con il cuore pesante che prendo congedo [...]. Se, come spero, ci verrà risparmiata la vita e il nostro lavoro proseguirà, chissà [...] forse una nuova luce brillerà su di noi dal denso buio nero [...]. Ci incontreremo di nuovo. Ci incontreremo di nuovo nel lavoro comune per la nostra terra e il nostro popolo [...]. Ci sono alcune cose che non possono non avvenire, cose senza le quali il mondo non può essere concepito. I rimasti continueranno a lavorare, a lottare, a vivere fino all'alba di tempi migliori. Verso quell'alba vi saluto. Che possiamo reincontrarci in pace». | << | < | > | >> |Pagina 252A metà dell'estate del 1941 la popolazione tedesca mostrava già segni di irrequietezza. La guerra nell'Est non stava procedendo con la rapidità sperata, il numero di caduti e feriti stava aumentando e le forniture alimentari regolari divennero una fonte di crescente preoccupazione. Fu in queste circostanze che un importante incidente scosse la leadership nazista.Domenica 3 agosto, il vescovo Clemens von Galen sfidò il regime hitleriano. In un sermone tenuto nella cattedrale di Münster attaccò con veemenza le autorità per l'assassinio sistematico dei malati di mente e degli handicappati. Il sermone seguiva di quattro settimane una lettera pastorale diffusa dall'episcopato tedesco, letta da ogni pulpito del paese, che denunciava l'annientamento di «vite innocenti». Si levarono anche voci protestanti, compresa quella del vescovo Theophil Wurm del Württemberg, tra gli altri. Hitler era costretto a rispondere. Il leader nazista decise di evitare rappresaglie contro Galen in quella fase cruciale della guerra. I conti con la chiesa sarebbero stati regolati in un secondo tempo, dichiarò. Ufficialmente l'operazione T4 fu interrotta, ma in realtà l'estinzione di «vite indegne di essere vissute» continuò comunque, in modi meno palesi. Perciò le vittime furono scelte soprattutto tra i prigionieri di campi di concentramento: polacchi, ebrei, «autori di crimini contro la razza», «asociali», storpi. Sotto il nome in codice 14f13 Himmler aveva già avviato queste uccisioni nell'aprile del 1941 a Sachsenhausen; dopo metà agosto del 1941 divenne un programma Eutanasia modificato. Inoltre, negli istituti psichiatrici una «eutanasia selvaggia» tolse la vita a migliaia di pazienti residenti. Eppure, a dispetto della tortuosa attuazione degli eccidi, fu l'unica occasione nella storia del Terzo Reich in cui rappresentanti di spicco delle chiese cristiane in Germania espressero una pubblica condanna dei crimini commessi dal regime. | << | < | > | >> |Pagina 282In Croazia, non appena Pavelic tornò dall'esilio italiano e fondò il suo nuovo regime — un miscuglio di fascismo e devoto cattolicesimo —, come riferì l'inviato tedesco a Zagabria, Edmund Glaise von Horstenau, «gli ustascia persero completamente la testa». Il poglavnik («capo» in serbo-croato) lanciò una crociata genocida contro i 2,2 milioni di serbi cristiani ortodossi (su una popolazione totale di 6,7 milioni) residenti in territorio croato e contro i 45.000 ebrei del paese, soprattutto nella Bosnia etnicamente mista. Agli ustascia cattolici non dispiaceva la continua presenza di musulmani o protestanti, ma serbi ed ebrei dovevano convertirsi, andarsene o morire. Secondo lo storico Jonathan Steinberg, «uomini, donne e bambini serbi ed ebrei furono letteralmente uccisi a colpi di accetta. Interi villaggi vennero rasi al suolo e la popolazione rinchiusa in granai cui gli ustascia diedero fuoco. Nell'archivio del ministero degli Esteri italiano esiste una collezione di fotografie dei coltelli, ganci e accette da macellaio utilizzati per fare a pezzi le vittime serbe. Ci sono fotografie di donne serbe con i seni tranciati da coltelli da tasca, uomini cui avevano cavato gli occhi, evirati o mutilati».Mentre l'arcivescovo Alojzije Stepinac, capo della chiesa cattolica in Croazia, aspettò mesi prima di denunciare pubblicamente la selvaggia campagna omicida, alcuni vescovi locali accolsero con gioia lo sterminio degli scismatici e degli ebrei o la loro conversione obbligata. Per citare le parole del vescovo cattolico di Mostar, «non c'è mai stata un'occasione migliore di quella attuale per aiutare la Croazia a salvare innumerevoli anime». E mentre i vescovi benedivano l'occasione davvero unica di salvare anime, alcuni frati francescani assunsero un ruolo di spicco nelle più crudeli operazioni omicide e nella decimazione di serbi ed ebrei nel campo di sterminio unicamente croato di Jasenovac. Il Vaticano era informato, naturalmente, delle atrocità perpetrate in quel periodo dal nuovo stato cattolico, ma non tutto apparve in una luce negativa alla curia o al visitatore apostolico della Santa Sede a Zagabria, il priore benedettino Giuseppe Ramiro Marcone. Nel maggio del 1941 in tutto lo stato di Pavelic erano state introdotte leggi antisemite e l'obbligo di portare la stella recante la lettera «Z» (per Zidov, ebrei). Il 23 agosto, poco dopo il suo arrivo, Marcone riferì al segretario di Stato del Vaticano, Luigi Maglione: «Il distintivo mal tollerato e l'odio dei croati verso di loro {gli ebrei], così come gli svantaggi economici cui sono soggetti, suscitano spesso nella mente degli ebrei il desiderio di convertirsi alla chiesa cattolica. Motivazioni soprannaturali e l'azione silenziosa della grazia divina non possono essere escluse a priori da ciò. Il clero ne agevola la conversione, pensando che almeno i loro figli saranno istruiti in scuole cattoliche e quindi saranno più siceramente cristiani». Nella sua risposta del 3 settembre 1941, Maglione non fece commenti sul ruolo della mano di Dio nelle conversioni né istruì i suoi delegati a protestare per il trattamento di serbi o ebrei: «Se Sua Eminenza [Marcone] riesce a trovare l'occasione adatta, dovebbe raccomandare, in una maniera discreta, che non venga interpretata come un appello ufficiale, che si usi moderazione riguardo agli ebrei su territorio croato. Sua Eminenza dovrebbe assicurarsi che attività di natura politica cui il clero si sia dedicato non causino attrito tra le parti in causa e che sia sempre preservata l'impressione di una leale collaborazione con le autorità civili». Durante tutto il 1941 e agli inizi del 1942 i croati sterminarono tra i 300.000 e i 400.000 serbi e la maggior parte dei 45.000 ebrei (direttamente oppure consegnandoli ai tedeschi). Durante tutto quel periodo non una sola parola sugli assassinii degli ustascia uscì dalle labbra dal pontefice. Nel frattempo sempre più serbi ed ebrei stavano cercando rifugio nella zona italiana, e i croati venivano trattati sempre più come nemici dall'esercito di Mussolini. Ben presto gli italiani fecero un ulteriore passo e, per mettere fine ai crimini degli ustascia, spostarono alcune forze più addentro al territorio croato. Il 7 settembre 1941 il comandante della II armata italiana, il generale Vittorio Ambrosio, emise un proclama che stabiliva l'autorità italiana sulla nuova area di occupazione; le ultime righe dicevano: «Tutti coloro che per motivi vari hanno abbandonato il proprio paese sono invitati con la presente a tornarvi. Le forze armate italiane sono garanti della loro sicurezza, libertà e proprietà». I tedeschi si indignarono; la protezione italiana di serbi ed ebrei era diventata palese e le dichiarazioni italiane erano malcelate espressioni di disprezzo e disgusto per il comportamento dei croati e ancor più per quello dei loro padroni tedeschi. | << | < | > | >> |Pagina 319Il 12 novembre 1941 Himmler ordinò a Friedrich Jeckeln, l'HSSPF per l'Ostland, di uccidere i circa 30.000 ebrei del ghetto di Riga. Alla vigilia dell'operazione, il 29 novembre, gli ebrei fisicamente abili furono separati dal grosso della popolazione del ghetto. Il 30 novembre, nelle prime ore del mattino, iniziò la marcia dal ghetto alla vicina foresta di Rumbula. Erano già pronte circa 1700 guardie, tra cui circa 1000 collaboratori lettoni. Nel frattempo, diverse centinaia di prigionieri sovietici avevano scavato sei enormi fosse nel terreno sabbioso di Rumbula. Gli ebrei che tentarono di sfuggire all'evacuazione furono uccisi sul posto: nelle case, sulle scale, per la strada. Mentre, un gruppo dopo l'altro, gli abitanti del ghetto raggiungevano la foresta, un corridoio sempre più stretto di guardie li spinse verso le fosse. Poco prima di raggiungere la sede dell'esecuzione furono costretti a sbarazzarsi di valigie e borse, togliersi i cappotti e infine i vestiti. Le vittime nude scesero poi nella fossa mediante una rampa di terriccio, si sdraiarono bocconi sul terreno, o sopra i corpi dei moribondi e dei morti, e vennero uccise con un unico colpo sparato alla nuca da una distanza di circa due metri. Jeckeln rimase fermo sul ciglio delle fosse circondato da una ressa di membri del SD, poliziotti e ospiti civili. Il Reichskommissar Lohse fece una breve visita e alcuni comandanti della polizia furono portati sul posto sin dal fronte di Leningrado. Dodici tiratori scelti che lavoravano a turno spararono agli ebrei per tutto il giorno. L'eccidio si interruppe brevemente tra le 5 e le 7 del pomeriggio; a quel punto ne erano stati assassinati circa 15.000. Una settimana più tardi, il 7 e l'8 dicembre, i tedeschi uccisero quasi tutta l'altra metà della popolazione del ghetto. Il rapporto del RSHA numero 155 del 14 gennaio 1942 riepilogò il risultato complessivo: «Il numero di ebrei che rimanevano a Riga – 29.500 — è stato ridotto a 2500 in seguito all'azione effettuata dal comandante supremo delle SS e della polizia dell'Ostland». Lo storico Simon Dubnow, infermo, era sfuggito al primo massacro. La seconda volta, invece, rimase impigliato nella rete a strascico. Gli abitanti del ghetto malati o deboli furono portati sul luogo dell'esecuzione a bordo di autobus; visto che Dubnow non riuscì a salire sul veicolo abbastanza in fretta, una delle guardie lettoni gli sparò alla nuca. Il giorno dopo fu sepolto in una fossa comune nel ghetto. Stando alle voci — che si trasformarono rapidamente in leggenda — mentre si dirigeva verso l'autobus ripeté: «Gente, non dimenticate; parlate di tutto questo; registrate tutto». Qualche mese dopo, il 26 giugno 1942, l'SS-Obersturmführer Heinz Ballensiefen, capo della sezione ebraica dell'Amt VII (ricerca) del RSHA, informò i colleghi che a Riga i suoi uomini si erano «assicurati» (sichergestellt) «circa 45 scatoloni contenenti l'archivio e la biblioteca dello storico ebreo Dubnow».
«Himmler continuava a preoccuparsi del forte stress provocato
nei suoi uomini da questi eccidi. Il 12 dicembre 1941 promulgò
ancora una volta istruzioni segrete, al riguardo: «È sacro obbligo
dei capi e comandanti delle SS di più alto grado accertarsi di persona che
nessuno dei nostri uomini costretti a svolgere questa gravosa incombenza ne
rimanga abbrutito [...]. Vi si riuscirà mantenendo la più ferrea disciplina
nell'adempimento dei doveri ufficiali e grazie a cameratesche riunioni serali
dopo giorni colmati da tali difficili impegni. Tuttavia, queste riunioni
cameratesche non dovrebbero mai terminare con l'abuso di alcol. Durante tali
serate, nei limiti consentiti dalle circostanze, bisognerebbe sedersi insieme
intorno al tavolo e mangiare nella migliore tradizione tedesca; inoltre, esse
dovrebbero essere dedicate alla musica, a conferenze e all'introdurre i nostri
uomini negli splendidi regni della vita spirituale ed emotiva tedesca».
Il giorno del primo massacro degli ebrei di Riga, nelle prime ore del mattino, un treno che trasportava 1000 ebrei provenienti da Berlino era arrivato in una stazione di periferia. Jeckeln non ritenne opportuno mandare i nuovi arrivati in un ghetto immerso nel caos, da cui sarebbe iniziata da un momento all'altro la marcia fino a Rumbula. La soluzione era a portata di mano: gli ebrei di Berlino furono trasportati direttamente dalla stazione alla foresta e uccisi sul posto. I deportati trasferiti dal Reich a Riga non erano che uno dei tanti gruppi che, a partire dal 15 ottobre e in seguito a un'improvvisa decisione di Hitler, in quel periodo venivano mandati, da città situate in Germania e nel Protettorato, in ghetti della ex Polonia o dell'Ostland. Soltanto un mese prima il leader nazista aveva detto a Goebbels che la deportazione degli ebrei di Germania (e, implicitamente, di tutti gli ebrei europei) si sarebbe attuata dopo la vittoria in Russia e avrebbe avuto come meta l'estremo Nord russo. Cosa poteva avere causato la sua repentina iniziativa? | << | < | > | >> |Pagina 533L'Italia non stava certo dando il buon esempio, per questi paesi dell'Europa sudorientale. Naturalmente Mussolini non si lasciò trarre in inganno dal resoconto sul destino degli ebrei fornito da Himmler, durante la visita del Reichsführer l'11 ottobre 1942. Il capo delle SS ammise che nei territori orientali i tedeschi erano costretti a fucilare un «numero non insignificante» di ebrei, inclusi donne e bambini perché persino loro fungevano da staffette dei partigiani; secondo Himmler, la risposta del Duce fu che «quella era l'unica soluzione possibile». Per il resto Himmler parlò di campi di lavoro, di opere stradali, di Theresienstadt, e dei tanti ebrei fucilati dai russi ogni qual volta i tedeschi tentavano di spingerli sul versante sovietico attraverso varchi nelle linee del fronte. Gli italiani, tuttavia, avevano le loro fonti di informazioni.Come indicato dallo storico Jonathan Steinberg, alla fine di novembre del 1942 il capo della divisione Territori occupati presso il ministero italiano degli Affari esteri annotò: «I tedeschi continuano imperterriti a massacrare ebrei». Inoltre menzionò resoconti radiofonici stranieri secondo cui tra i 6 e i 7000 ebrei di Varsavia venivano deportati ogni giorno e sterminati. I tedeschi, a suo parere, avevano già trucidato un milione di ebrei. Anche re Vittorio Emanuele III, apparentemente, lo sapeva. Pertanto, con l'implicito sostegno delle più alte cariche dello stato, ovunque potesse, in Croazia, Grecia e Francia, l'Italia stava proteggendo gli ebrei. I tedeschi, come dimostrano i diari di Goebbels, schiumavano di rabbia ma potevano fare ben poco. In Croazia, dove i tedeschi erano impegnati a deportare gli ultimissimi ebrei sotto il loro controllo, gli italiani, nonostante la promessa di Hitler a Pavelic e un ordine di Mussolini di arrestare i 5000 ebrei presenti nella zona da loro controllata, non agirono. In Francia le cose raggiunsero un punto critico. Non solo il console generale italiano a Nizza, Alberto Calisse, rifiutò di far contrassegnare i documenti di identità degli ebrei ma, durante gli ultimi giorni di dicembre del 1942, proibì il trasferimento di ebrei dalla zona italiana ad aree occupate dai tedeschi, a dispetto di un ordine giunto da Vichy (che, in linea di principio, aveva la giurisdizione sugli affari ebraici in tutto il territorio francese). La posizione assunta da Calisse fu appoggiata, di lì a pochi giorni, dal ministero degli Esteri a Roma. La reazione italiana si dimostrò veramente sottile: ai francesi fu detto che gli italiani avrebbero acconsentito al trasferimento di ebrei francesi ma non a quello di ebrei stranieri; Vichy era paralizzata. Quando, nel gennaio del 1943, l'ambasciatore tedesco a Roma, Hans Georg von Mackensen, pretese da Ciano la revoca di tali decisioni, il ministro di Mussolini mise alle strette i tedeschi: data la complessità della questione, dichiarò, Berlino doveva formulare le proprie richieste in un dettagliato promemoria scritto che sarebbe stato debitamente studiato. Agli inizi del 1943 Ciano fu nominato ambasciatore presso il Vaticano e il Duce stesso prese a occuparsi degli Affari esteri. Pochi giorni prima, i due avevano visto il cablogramma inviato il 3 gennaio dall'ambasciatore italiano a Berlino, Dino Alfieri: «In merito al destino di [ebrei tedeschi deportati], così come a quello di ebrei polacchi, russi, olandesi e persino francesi, non possono sussistere molti dubbi [...]. Persino le SS parlano delle esecuzioni di massa [...]. Una persona che si trovava sul posto ha riferito con orrore alcune scene di esecuzione tramite mitragliatrici di donne e bambini nudi allineati all'imboccatura di una fossa comune. Riguardo ai racconti di tortura di ogni genere mi limiterò a quello narrato al mio collega da un ufficiale delle SS che gli confidò di avere scagliato bimbi di sei mesi contro un muro, facendoli a pezzi, per dare l'esempio ai suoi uomini, stremati e scossi a causa di un'esecuzione rivelatasi particolarmente orrenda a causa del numero di vittime». L'ostruzionismo italiano alle misure antiebraiche tedesche sarebbe proseguito, come vedremo, durante la primavera e l'estate del 1943, fino all'occupazione tedesca del paese. | << | < | > | >> |Pagina 573Durante i due anni trascorsi tra l'occupazione tedesca della Grecia e l'inizio delle deportazioni, la comunità ebraica di Salonicco aveva subìto le consuete persecuzioni: saccheggio di biblioteche e sinagoghe da parte dell'Einsatzstab Rosenberg, coscrizione di migliaia di uomini al lavoro forzato per la Wehrmacht, coinvolgimento nella propaganda antiebraica di collaborazionisti greci e gruppi fascisti anteguerra di vario genere e, naturalmente, i consueti espropri.Nel febbraio del 1943 gli ebrei della città erano già stati marchiati con la stella, segregati in una zona scalcinata e derubati da tedeschi e greci di qualsiasi cosa restasse dei loro beni. La polizia ebraica prendeva parte alle razzie e alle estorsioni in maniera particolarmente crudele, mentre il capo della comunità, il rabbino Koretz, diffondeva commenti consolatori. Un campo allestito nei pressi della stazione ferroviaria, in un settore severamente isolato del quartiere ebraico, divenne il sito di raduno e transito da cui un lotto di ebrei di Salonicco dopo l'altro salì sui treni. Mentre i primi ebrei si trovavano sulla strada per Auschwitz, un bizzarro imbroglio diplomatico causò una certa irritazione a Berlino, senza influenzare, tuttavia, la rapida attuazione delle deportazioni. Innanzitutto, il primo ministro ad interim, Konstantinos Logothetopoulos, protestò contro i provvedimenti tedeschi e dovette essere rassicurato dalla capacità persuasiva combinata di Altenburg e Wisliceny. Il delegato dell'ICRC ad Atene, René Burckhardt, si rivelò più problematico in quanto insistette affinché gli ebrei di Salonicco venissero mandati in Palestina invece che ad Auschwitz. Alla fine, i tedeschi esasperati richiesero il suo allontanamento dalla Grecia. L'interferenza più concreta, come al solito, giunse dagli italiani. Erano sorte alcune divergenze sul ruolo del console italiano a Salonicco, quando iniziarono le deportazioni. Sembra ormai dimostrato che, sin dall'inizio, il console Guelfo Zamboni si sforzò strenuamente di proteggere il maggior numero possibile di ebrei: «Andrebbe ricordato che la protezione era concessa non solo a ebrei di nazionalità italiana ma anche a quanti rivendicavano il diritto a tale nazionalità e citavano relazioni familiari dimenticate, autentiche o fittizie, con ebrei italiani, o addirittura, in alcuni casi, a ebrei che in realtà non avevano alcuna relazione di tal genere ma che, a parere del console, avevano palesemente contribuito agli interessi culturali o economici dell'Italia nella città o nella regione». Il ministro italiano plenipotenziario ad Atene, Pellegrino Ghigi, fornì un energico sostegno agli interventi di Zamboni, così come il ministero degli Esteri a Roma. Sembra che gli italiani si siano addirittura appellati alla Wilhelmstrasse per ottenere il rilascio di alcuni degli ebrei protetti che erano già stati deportati – senza risultato, naturalmente. Nel complesso i tedeschi tentarono di bloccare l'iniziativa italiana. «Inland IIg», che succedette al «dipartimento Germania», raccomandò di respingere le richieste di Roma per motivi che illustrano il contesto mutevole delle operazioni tedesche. Anche gli svedesi stavano chiedendo esenzioni per i connazionali di recente naturalizzazione. Una risposta positiva agli italiani, sosteneva Inland IIg, poteva soltanto rafforzare simili richieste. Inoltre, avrebbe accentuato l'atteggiamento sempre più ostile degli stati balcanici in merito a politiche antiebraiche tedesche. Infine «la reputazione del Reich» nell'intera Grecia ne avrebbe risentito, se l'intervento dell'Italia fosse stato coronato da successo. Gli italiani riuscirono comunque a trasferire ad Atene circa 320 ebrei protetti. Quanto all'arrendevole rabbino Koretz e ad alcuni altri ebrei privilegiati, vennero inviati a Bergen- Belsen, dove Koretz morì di tifo alla vigilia della liberazione. L'antico cimitero ebraico di Salonicco, con le sue centinaia di migliaia di tombe, alcune delle quali risalenti al XV secolo, venne distrutto: i tedeschi utilizzarono le lapidi per pavimentare strade e costruire una piscina per le truppe; la città impiegò lo spazio per sviluppare il suo ampio nuovo campus universitario. Quello che successe a ciò che restava di generazioni di ebrei di Salonicco non è raccontato da nessuna parte. | << | < | > | >> |Pagina 654Meno di due settimane dopo l'occupazione di Roma, i principali leader della comunità ebraica, Ugo Foà e Dante Almansi, furono convocati dall'SS-Obersturmbannführer Herbert Kappler, capo del SD nella capitale italiana. Fu loro intimato di consegnare 50 chilogrammi d'oro entro trentasei ore. Se il riscatto veniva pagato in tempo, agli ebrei della città non sarebbe accaduto nulla. Benché Kappler avesse ricevuto segretamente istruzioni da Himmler di preparare la deportazione da Roma, sembra ora (sulla base di documenti dell'OSS desecretati) che l'estorsione sia stata una sua idea, volta a evitare la deportazione e, alla fine, contribuire invece a mandare gli ebrei di Roma a lavorare su fortificazioni locali. Kappler, che aveva a disposizione pochissime forze di polizia, preferì utilizzarle allo scopo di arrestare carabinieri italiani, ai suoi occhi un pericolo di gran lunga più concreto degli ebrei prevalentemente ridotti in miseria della capitale.L'oro fu raccolto in tempo da membri della comunità (un prestito offerto dal papa si rivelò non necessario) e spedito al RSHA il 7 ottobre. Foà e Almansi credettero alle rassicurazioni di Kappler e, quando furono messi in guardia dal capo rabbino Israel Zolli e da funzionari di spicco del Delasem sul fatto che ci si potessero aspettare ulteriori misure tedesche, scelsero per qualche tempo di ignorare gli infausti presagi: quanto era successo altrove non poteva succedere a Roma. La stessa comunità, prevalentemente i 7000 ebrei impoveriti che vivevano nella ex area del ghetto o nei suoi paraggi, rimase anch'essa indifferente, come i propri leader. E in effetti, nei giorni seguenti, i tedeschi parvero maggiormente interessati al saccheggio che a qualsiasi altra cosa. Gli inestimabili tesori della Biblioteca della Comunità israelitica divennero uno speciale bersaglio. E a ragion veduta. Per usare le parole dello storico Stanislao G. Pugliese: «Tra i manoscritti c'erano opere del rabbino e medico Moses Rieti, manoscritti fatti uscire segretamente da Spagna e Sicilia durante l'espulsione degli ebrei nel 1492, un incunabolo portoghese del 1494, un testo di matematica di Elia Mizrahi e una rarissima edizione di un vocabolario ebraico-italiano-arabo pubblicato a Napoli nel 1488. C'erano anche 21 trattati talmudici pubblicati da Soncino [agli inizi del XVI secolo] [...] e una rara edizione in 8 volumi del Talmud opera del famoso stampatore veneziano del XVI secolo Daniel Bomberg». Agli inizi di ottobre gli specialisti dell'agenzia di Rosenberg esaminarono la collezione. Mentre alcuni preziosi manufatti appartenenti alla sinagoga principale del ghetto vennero nascosti nelle pareti del mikvah (il bagno rituale per la purificazione), si rivelò impossibile salvare la biblioteca: il 14 ottobre gli uomini di Rosenberg caricarono i libri su due vagoni ferroviari e li spedirono in Germania. E, benché alcuni degli ebrei di Roma sostenessero che «crimini contro i libri non erano crimini contro le persone», il panico cominciò a diffondersi. Gli ebrei cercarono freneticamente un posto in cui nascondersi; ben presto i più ricchi tra loro scomparvero. Il 6 ottobre Theodor Dannecker arrivò a Roma a capo di una piccola unità di ufficiali e uomini delle Waffen-SS. Pochi giorni dopo, l'11 ottobre, Kaltenbrunner rammentò a Kappler le priorità che lui sembrava ignorare: «È proprio l'immediata e totale eliminazione degli ebrei in Italia a rappresentare lo speciale interesse dell'attuale situazione politica interna e della sicurezza generale in Italia», dichiarava il messaggio, decodificato e tradotto dagli inglesi. «L'ipotesi di rimandare l'espulsione degli ebrei finché non siano stati rimossi i carabinieri e gli ufficiali dell'esercito italiano non può essere ormai presa in considerazione più della menzionata ipotesi di impiegare gli ebrei in Italia in quello che sarebbe probabilmente un lavoro assai improduttivo sotto la direzione responsabile delle autorità italiane. Più si protrae il ritardo, più gli ebrei che stanno indubbiamente facendo i conti con misure di evacuazione hanno l'opportunità, trasferendosi nelle case di italiani filosemiti, di scomparire completamente. [non decodificato] gli è stato ordinato, nell'eseguire gli ordini dell'RFSS, di procedere senza ulteriore indugio all'evacuazione degli ebrei.» A Kappler non rimase altra scelta che ubbidire. Il 16 ottobre l'unità di Dannecker, con modesti rinforzi della Wehrmacht, arrestò 1259 ebrei nella capitale italiana. Dopo che vennero rilasciati Mischlinge, partner in matrimoni misti e alcuni stranieri, 1030 ebrei, compresa una maggioranza di donne e circa 200 bambini sotto i dieci anni, rimasero imprigionati nel Collegio militare. Due giorni dopo vennero trasferiti nella stazione Tiburtina e da là ad Auschwitz. La maggior parte dei deportati fu immediatamente gassata; 196 vennero scelti per il lavoro; 15 sopravvissero alla guerra.
In tutto il paese i rastrellamenti proseguirono fino alla fine del
1944: gli ebrei venivano solitamente trasferiti nel campo di raccolta di Fossoli
(in seguito alla risiera di San Sabba, vicino a Trieste)
e, da là, spediti ad Auschwitz. Alcune migliaia riuscirono a nascondersi tra una
popolazione generalmente amichevole o in istituti religiosi, altri riuscirono a
varcare il confine svizzero o a raggiungere le zone liberate dagli Alleati.
Tuttavia, nell'intera Italia circa 7000 ebrei, pressapoco il 20 per cento della
popolazione ebraica, furono catturati e uccisi.
Sin dalla fine della guerra l'arresto e la deportazione degli ebrei di Roma (e d'Italia) sono stati oggetto di particolare attenzione da parte degli studiosi e di un certo numero di trasposizioni letterarie e cinematografiche, data la loro rilevanza diretta in merito all'atteggiamento di papa Pio XII. Gli avvenimenti in quanto tali sono noti fin nei minimi dettagli; i motivi di alcune delle decisioni più cruciali si possono, nel migliore dei casi, soltanto ipotizzare. Già agli inizi di ottobre del 1943 diversi funzionari tedeschi nella capitale italiana, compresi Eitel Friedrich Möllhausen, consigliere d'ambasciata con la missione diplomatica tedesca presso la Repubblica di Salò mussoliniana ma stanziato a Roma, Ernst von Weizsäcker, ex segretario di Stato alla Wilhelmstrasse e recentemente nominato ambasciatore presso il Vaticano, così come il generale Rainer Stahel, comandante della Wehrmacht in città, vennero informati dell'ordine di deportazione dato da Himmler. Per una vasta gamma di motivi (timore di irrequietezza tra la popolazione, cautela riguardo al rischio di una pubblica protesta da parte di Pio XII e sue potenziali conseguenze) questi funzionari tentarono di far modificare l'ordine, almeno in parte: gli ebrei sarebbero stati impiegati per il lavoro a Roma e nei dintorni. Möllhausen si spinse fino al punto di esprimere le proprie preoccupazioni a Ribbentrop, il 6 ottobre, in termini insolitamente espliciti: «L'Obersturmbannführer Kappler ha ricevuto l'ordine da Berlino di arrestare gli 8000 ebrei residenti a Roma e trasportarli in Italia settentrionale, dove verranno liquidati. Il comandante della città di Roma, generale Stahel, mi informa che consentirà tale operazione solo se il ministero degli Esteri è d'accordo. Personalmente sono dell'opinione che sarebbe un affare migliore [besseres Geschäft] impiegare gli ebrei per il lavoro sulle fortificazioni, come a Tunisi, e insieme a Stahel presenterei la questione al feldmaresciallo Kesselring». Il giorno dopo, il successore di Luther, Eberhard von Thadden, rispose: «Per ordine del Führer, gli 8000 ebrei residenti a Roma devono essere condotti a Mauthausen in veste di ostaggi. Il ministro la prega di non interferire assolutamente in questa faccenda e di lasciarla alle SS». Il 16 ottobre, come abbiamo visto, ebbe luogo il rastrellamento. La mattina del raid, un'amica del papa, la contessa Enza Pignatelli, lo informò degli eventi. Maglione convocò subito Weizsäcker e menzionò la possibilità di una protesta del pontefice, se l'operazione continuava. Stranamente, tuttavia, dopo avere accennato che un tale passo avrebbe potuto scatenare una reazione «al più alto livello», Weizsäcker chiese se gli era consentito di non riferire la conversazione, e Maglione si disse d'accordo. «Sottolineai», scrisse Maglione, «che gli avevo chiesto di intervenire appellandomi ai suoi sentimenti di umanità. Avrei lasciato decidere a lui se menzionare o meno la nostra conversazione, che era stata tanto cordiale.» Il motivo della proposta di Weizsäcker non è chiaro. L'uomo desiderava evitare di ricevere un messaggio «ufficiale» che avrebbe davvero potuto sfociare in una rappresaglia contro interessi ecclesiastici nel Reich? Il suo passo seguente (la lettera da parte di Hudal, cui faremo riferimento) sarebbe stato un monito ufficioso e quindi avrebbe probabilmente escluso qualsiasi reazione violenta. Ma, se il pontefice avesse protestato, tutte queste precauzioni sarebbero state vane. Weizsäcker sperava probabilmente che la minaccia di una protesta papale bastasse a fermare il rastrellamento; una vera e propria protesta non sarebbe stata pertanto necessaria. O Maglione era al corrente del passo successivo di Weizsäcker e capiva il ragionamento di quest'ultimo oppure il suo accettare la proposta di Weizsäcker di non riferire la conversazione potrebbe essere interpretata solo come un bizzarro segnale del fatto che la possibilità di una protesta papale non andava presa troppo sul serio. Comunque sia, quello stesso giorno Weizsäcker e altri diplomatici tedeschi informati dei fatti avvicinarono il rettore della chiesa tedesca a Roma, il vescovo Alois Hudal, un prelato noto per le sue inclinazioni filonaziste, per convincerlo a inviare a Stahel una lettera in cui sarebbe stata citata la forte possibilità di una protesta pubblica del pontefice. Hudal accettò. Poche ore più tardi Weizsäcker inviò il messaggio di Hudal a Berlino in un cablogramma e aggiunse i suoi commenti personali a beneficio di Ribbentrop: «Con riferimento alla lettera del vescovo Hudal, posso confermare che questo rappresenta la reazione del Vaticano alla deportazione degli ebrei di Roma. La curia è particolarmente turbata per il fatto che l'azione abbia avuto luogo, per così dire, sotto le finestre stesse del papa. La reazione potrebbe forse essere smorzata se gli ebrei dovessero essere impiegati nel servizio lavorativo qui in Italia. Circoli ostili a Roma stanno sfruttando l'avvenimento come mezzo per premere sul Vaticano perché rinunci al suo riserbo. Si sta dicendo che, quando incidenti simili sono avvenuti in città francesi, i vescovi là hanno assunto una posizione ben precisa. Pertanto il papa, in veste di capo supremo della chiesa e vescovo di Roma, non può fare nulla di meno. Il pontefice viene anche paragonato al suo predecessore, Pio XI, uomo dal temperamento di gran lunga più spontaneo. Anche la propaganda nemica all'estero sfrutterà sicuramente questo evento allo scopo di turbare i rapporti amichevoli tra la curia e noi». Il papa rimase in silenzio. Il 25 ottobre, dopo che il treno dei deportati aveva lasciato l'Italia, diretto ad Auschwitz, un articolo sul quotidiano ufficiale del Vaticano, «L'osservatore romano», tessé le lodi della compassione del Santo Padre: «L'augusto pontefice, come è noto [...] non aveva desistito nemmeno per un attimo dall'utilizzare tutti i metodi in suo potere per alleviare la sofferenza che, qualsiasi forma possa assumere, è la conseguenza di questa crudele conflagrazione. Con l'intensificarsi di una tale malvagità, la carità universale e paterna del pontefice è divenuta, si potrebbe dire, persino più attiva; essa non conosce confini né nazionalità, né religione né razza. Questa attività multiforme e incessante da parte di Pio XII si è intensificata ancor più in tempi recenti in merito alle accresciute sofferenze di così tanti sventurati».
Weizsäcker inviò una traduzione dell'articolo alla Wilhelmstrasse, con una
famosa lettera di accompagnamento: «Il papa,
benché sottoposto a intense pressioni provenienti da varie parti,
non si è lasciato indurre a un commento dimostrativo contro la
deportazione degli ebrei di Roma. Benché sappia sicuramente che
un tale atteggiamento verrà usato contro di lui dai nostri avversari [...] ha
comunque fatto tutto il possibile, in questa delicata questione, per non
appesantire i rapporti con il governo tedesco e le
autorità tedesche a Roma. Visto che apparentemente qui non vi
sarà nessuna ulteriore azione tedesca in merito alla questione
ebraica, ci si potrebbe aspettare che tale faccenda, così sgradevole per quanto
riguarda i rapporti tedeschi col Vaticano, venga liquidata». Riferendosi poi
all'articolo su «L'osservatore romano»,
Weizsäcker aggiunse: «Non vi è bisogno di sollevare alcuna obiezione contro tale
dichiarazione, dal momento che il suo testo [...]
verrà interpretato da ben poche persone unicamente come una
speciale allusione alla questione ebraica».
Nell'agosto del 1941 l'impatto del sermone del vescovo Galen contro l'eutanasia aveva preoccupato Hitler abbastanza da indurlo a modificare l'andamento dell'operazione. Come mai il leader nazista non fece alcun tentativo di prevenire una minaccia di magnitudo assai maggiore, ossia una pubblica dichiarazione del papa sulla deportazione e lo sterminio degli ebrei? Come mai, in realtà, insistette per deportare gli ebrei di Roma, nonostante i moniti su terribili potenziali conseguenze? Anche se Hitler presumeva che i cattolici tedeschi non avrebbero preso posizione riguardo agli ebrei come avrebbero invece potuto fare riguardo al loro stesso popolo (i malati mentali), una pubblica condanna da parte del pontefice avrebbe rappresentato una catastrofe propagandistica di livello mondiale. Solo un'unica risposta appare plausibile: Hitler e i suoi accoliti dovevano essere convinti che il papa non avrebbe protestato. Tale convinzione derivava probabilmente dai molteplici e quasi identici rapporti sulla posizione politica papale che giungevano a Berlino. | << | < | > | >> |Pagina 701Il 6 aprile 1944 Klaus Barbie, capo della Gestapo a Lione, informò Röthke di una cattura particolarmente riuscita: «Stamattina sono stati portati via gli ospiti dell'orfanotrofio ebraico "Colonie d'Enfants" di Izieu (Ain). Sono stati arrestati in totale 41 bambini tra i 3 e i 13 anni. Inoltre è stato catturato tutto il personale ebreo: 10 persone, incluse 5 donne. Non abbiamo confiscato contanti o oggetti preziosi di alcun genere. Il trasferimento a Drancy avrà luogo il 7 aprile». La maggior parte dei fanciulli e del personale di Izieu fu deportata da Drancy ad Auschwitz il 17 aprile con il convoglio 71, gli altri il 30 maggio e il 30 giugno: nessuno di loro sopravvisse. I primi dieci nomi sulla lista (in ordine alfabetico) includevano bambini provenienti da cinque paesi diversi: Adelsheimer, Sami, cinque anni (Germania); Ament, Hans, dieci anni (Austria); Aronowicz, Nina, dodici anni (Belgio); Balsam, Max-Marcel, dodici anni (Francia); Balsam, Jean-Paul, dieci anni (Francia); Benassayag, Esther, dodici anni (Algeria); Benassayag, Ellie, dieci anni (Algeria); Benassayag, Jacob, otto anni (Algeria); Benguigui, Jacques, dodici anni (Algeria); Benguigui, Richard, sette anni (Algeria). Gli ultimi bambini citati sull'elenco erano Weltner, Charles, nove anni (Francia); Wertheimer, Otto, dodici anni (Germania); Zuckerberg, Émile, cinque anni (Belgio). L'assassinio dei bambini e del personale di Izieu non fu che un evento di portata minima nella routine dello sterminio di massa tedesco ma dimostrò, mentre la guerra entrava nel suo ultimo anno, che a dispetto della situazione in rapido deterioramento del Reich, nessuno sforzo sarebbe stato risparmiato, nessun rastrellamento giudicato troppo insignificante nella spinta finale verso il completo sterminio degli ebrei europei. Sia l'evoluzione del conflitto sia quella della campagna antiebraica tra il marzo del 1944 e il maggio del 1945 possono essere suddivise in tre fasi distinte eppure grossomodo coincidenti. La prima fase, la più lunga, terminò approssimativamente all'inizio del 1945, dopo il fallimento dell'importante offensiva di Hitler nell'Ovest e la liberazione di Auschwitz. Al termine di tale fase lo stato del Führer controllava un territorio poco più esteso rispetto a quello del Reich anteguerra. Eppure durante i mesi precedenti era rimasto un'entità politica unificata capace di condurre operazioni militari su vasta scala e attuare misure meticolosamente pianificate contro gli ebrei alla propria portata. Durante la seconda fase, che durò dagli inizi del 1945 ai primi giorni di aprile, forze alleate nell'Est e nell'Ovest stavano guadagnando terreno, dirette verso i centri vitali della Germania. La disintegrazione dello stato e del regime nazisti era ormai irreversibile e il caos si propagò all'interno di un Reich dalle dimensioni sempre più ridotte. Le misure antiebraiche omicide prese durante questi pochi mesi derivavano in parte dalla crescente anarchia abbinata al persistere di un violento antisemitismo tra funzionari di partito di alto e basso livello e in ampi strati della popolazione. Tuttavia non esisteva più alcuna politica antiebraica unitaria perché Himmler, in particolare, cominciò a seguire una rotta autonoma. L'ultima fase (aprile e inizio maggio 1945) fu quella del crollo e della resa del Reich, naturalmente, ma anche quella del messaggio finale di Hitler alle generazioni future. La questione ebraica dominò le farneticazioni finali del leader nazista ma, sotto alcuni aspetti, lo fece in modo piuttosto peculiare, come vedremo. Durante l'ultimo anno gli Alleati non appoggiarono alcun tentativo di salvataggio di rilievo e respinsero i principali piani sottoposti alla loro attenzione riguardo alla comunità ebraica ungherese (almeno in un caso senza motivi plausibili). Ma la liberazione dei campi e di aree sempre più ampie in cui alcuni ebrei erano sopravvissuti, così come le iniziative di singoli individui e organizzazioni neutrali soprattutto nei settori ancora occupati dell'Ungheria, salvarono decine di migliaia di vite. In generale, tuttavia, la questione ebraica non esisteva, in termini di decisioni alleate. Quanto alla maggioranza degli ebrei sopravvissuti, agli inizi del 1944 era già divenuto un'eterogenea popolazione fatta di individui isolati. Coloro che vi riuscirono si unirono ai partigiani o alle forze di resistenza; la stragrande maggioranza si aprì un varco con le unghie e con i denti tra lavoro schiavistico, inedia e potenziale sterminio a ogni passo e, infine, sopravvisse per puro caso oppure, prevalentemente, morì a causa dei piani tedeschi. | << | < | > | >> |Pagina 713In Italia e nelle zone precedentemente occupate dagli italiani i rastrellamenti di ebrei conseguirono risultati discontinui. Un promemoria datato 4 dicembre 1943 dell'Inland IIg della Wilhelmstrasse confermò che le misure adottate nelle numerose settimane precedenti non avevano avuto molto successo in quanto gli ebrei avevano avuto il tempo di trovare un nascondiglio in piccoli villaggi. I mezzi a disposizione dei tedeschi non consentivano accurate ricerche in comunità piccole o persino di medie dimensioni. D'altra parte essi riponevano qualche speranza in una nuova ordinanza emessa dal governo fascista (ordine di polizia numero 5) secondo cui tutti gli ebrei dovevano essere inviati in campi di concentramento. Si sperava che la polizia fascista si incaricasse delle questioni, sottolineava il promemoria, e permettesse alla ridotta task-force della Gestapo di assegnare i propri uomini, in veste di consulenti, alle varie unità di polizia locali.In alcune zone l'ordine del governo di Mussolini fu in effetti seguito, persino senza la partecipazione tedesca. Così, a Venezia, il 5-6 dicembre 1943 la polizia locale arrestò 163 ebrei (114 donne e ragazze e 49 uomini e ragazzi) o nelle loro case o nel ricovero per anziani. Una replica, stavolta con la partecipazione tedesca, ebbe luogo nel ricovero per anziani il 17 agosto e, infine, il 6 ottobre 1944 29 pazienti ebrei furono prelevati da tre ospedali veneziani. Nel vecchio stabilimento per la pilatura del riso, la risiera di San Sabba che, come si ricorderà, sostituì Fossoli dopo l'agosto del 1944, gli internati più anziani e più deboli vennero uccisi sul posto e gli altri, la maggioranza, furono deportati ad Auschwitz e sterminati (incluso il rabbino capo di Venezia, Adolfo Ottolenghi, cui la polizia svizzera aveva impedito di varcare la frontiera, pochi mesi prima). A Milano una gang di fascisti italiani surclassò i tedeschi, quanto a exploit di brutalità – un risultato straordinario sotto ogni punto di vista, e davvero anomalo. Gli uomini di Pietro Koch avevano fissato il proprio quartier generale in un villa che divenne ben presto nota come Villa Triste, dove torturavano e giustiziavano le loro vittime, ebree e non ebree. I criminali di Koch erano assistiti da due famosi attori italiani, Luisa Ferida e Osvaldo Valenti, «i Fred Astaire e Ginger Rogers della tortura, che conferivano a Villa Triste una qualità macabra, surreale, che l'ha resa un simbolo del crepuscolo decadente del fascismo». Contemporaneamente ai rastrellamenti in Italia (e nella Francia sudorientale), i tedeschi si occuparono della Grecia continentale e delle isole greche. Wisliceny fu richiamato a Berlino nel settembre del 1943. Le deportazioni dalla capitale greca, tuttavia, furono temporaneamente rimandate a causa del «rapimento» – da parte della resistenza greca – del rabbino capo di Atene e della distruzione del registro della comunità. Wisliceny fu ben presto sostituito dal più brutale Hauptsturmführer Tony Burger, trasferito nella capitale greca da Theresienstadt. Due settimane prima della Pasqua ebraica, il 23 marzo 1944, circa 800 ebrei si erano riuniti nella principale sinagoga di Atene per una distribuzione di pane azzimo promessa dai tedeschi. Furono tutti arrestati, portati nel campo di transito di Haidari e, agli inizi di aprile, deportati ad Auschwitz.
Nessuna comunità ebraica nell'Egeo venne dimenticata, nemmeno la più
piccola. La maggior parte degli ebrei delle isole greche fu arrestata nel corso
del luglio del 1944. Il 23 luglio i 1750 ebrei di Rodi e i 96 della minuscola
isoletta di Kos vennero rastrellati e stipati su tre chiatte dirette verso la
terraferma. A causa del maltempo il convoglio partì il 28, viaggiando in piena
vista della costa turca, a breve distanza di volo dai campi d'aviazione
britannici di Cipro e attraverso un'area del Mediterraneo orientale totalmente
controllata dalla marina inglese. Il 1° agosto raggiunse la Grecia continentale,
dove i 1673 ebrei da Rodi e i 94 da Kos sopravvissuti al viaggio per mare e ai
maltrattamenti all'arrivo furono spinti nei consueti carri merci e il 16 agosto
raggiunsero Auschwitz. 150 deportati da Rodi sopravvissero alla guerra, così
come 12 ebrei da Kos.
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