Copertina
Autore Luciano Gallino
Titolo Il colpo di Stato di banche e governi
SottotitoloL'attacco alla democrazia in Europa
EdizioneEinaudi, Torino, 2013, Passaggi , pag. 346, cop.fle., dim. 14x22x2 cm , Isbn 978-88-06-21340-4
LettoreLuca Vita, 2013
Classe economia , economia finanziaria , economia politica , politica , storia economica , storia: Europa
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Indice


  3 Introduzione - Una crisi scaricata sui cittadini con misure autoritarie


    Parte prima - Origini della Grande crisi globale, tra Usa e Ue

 23 1.  L'accumulazione finanziaria in risposta alla stagnazione economica

 48 2.  Le disuguaglianze come causa della crisi

 73 3.  Gli Stati europei liberalizzano la finanza e corteggiano il capitale

 96 4.  Le banche europee nella crisi. La finanza ombra

123 5.  Crisi di sistema o criminalità organizzata?


    Parte seconda - Trasformazione della crisi e colpo di Stato

155 6.  Nella Ue la crisi bancaria è trasformata in crisi dei bilanci pubblici

187 7.  Colpo di Stato in Europa. Attori e strumenti

207 8.  Lo smantellamento dello stato sociale

227 9.  La crisi come modalità di governo delle persone


    Parte terza - Alla ricerca di politiche anti-crisi

251 10. Rigettare le teorie economiche neoliberali

271 11. Creare occupazione mentre il lavoro scompare

298 12. Riportare la finanza al servizio dell'economia reale


333 Indice analitico



 

 

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Pagina 1

Il colpo di Stato di banche e governi



                                Vuoi moneta di zecca? Ecco la banca.
                                E se non c'è, basta scavare per un po'.
                                Coppe e collane si vendono all'asta e la carta
                                moneta subito ammortizzata fa vergogna
                                all'incredulo che di noi se la ride.

                                MEFISTOFELE, Faust II di J. W. GOETHE, 1830.


                                D'ora in avanti comanderanno i banchieri.

                                J. LAFFITTE, banchiere e deputato liberale,
                                dopo il fallimento della Rivoluzione di luglio
                                del 1830.


                                A volte ho l'impressione che la maggior parte
                                dei politici non abbia ancora capito quanto essi
                                siano già oggi sotto il controllo dei mercati
                                finanziari, e siano persino dominati da questi.

                                H. TIETMEYER, all'epoca presidente della
                                Bundesbank, al Forum di Davos del 1996.



Introduzione

Una crisi scaricata sui cittadini con misure autoritarie


La crisi esplosa nel 2007-2008 è stata sovente rappresentata come un fenomeno naturale, improvviso quanto imprevedibile: uno tsunami, un terremoto, una spaventosa eruzione vulcanica. Oppure come un incidente tecnico capitato fortuitamente a un sistema, quello finanziario, che funzionava perfettamente. In realtà la crisi che stiamo attraversando non ha niente di naturale o di accidentale. È stata il risultato di una risposta sbagliata, in sé di ordine finanziario ma fondata su una larga piattaforma legislativa, che la politica ha dato al rallentamento dell'economia reale che era in corso per ragioni strutturali da un lungo periodo. Alle radici della crisi v'è la stagnazione dell'accumulazione del capitale in America e in Europa, una situazione evidente già negli anni Settanta del secolo scorso. Al fine di superare la stagnazione, i governi delle due sponde dell'Atlantico hanno favorito in ogni modo lo sviluppo senza limite delle attività finanziarie, compendiantesi nella produzione di denaro fittizio. Questo singolare processo produttivo ha il suo fondamento nella creazione di denaro dal nulla vuoi tramite il credito, vuoi per mezzo della gigantesca diffusione di titoli totalmente separati dall'economia reale, quali sono i «derivati», a fronte dei quali — diversamente da quanto avveniva alle loro lontane origini — non prende corpo alcuna compravendita di beni o servizi: sono diventati di fatto l'equivalente dei tagliandi di una lotteria. Tuttavia, essendo possibile venderli e trasformarli cosí in moneta, essi rappresentano una nuova forma di denaro che insieme con la creazione illimitata di denaro mediante il credito ha invaso il mondo, rendendo del tutto impossibile stabilire quanto denaro sia in circolazione, tolta la piccola quota - pochi punti percentuali - di monete e banconote stampate e di denaro elettronico creato dalle Banche centrali. Il problema è che il denaro creato dal nulla può sí essere prontamente convertito in beni e servizi reali, ma altrettanto velocemente può scomparire in ogni momento, come avvenne con straordinaria ampiezza tra il febbraio e l'ottobre del 2008.

Fatta eccezione del contante e del denaro creato dalle Banche centrali per le loro finalità istituzionali, quasi tutto il denaro in circolazione viene creato da banche private mediante la concessione di crediti o la confezione di titoli. Nella Ue, le banche private sono arrivate a concedere in totale trilioni di euro di crediti ovvero di prestiti, mentre possedevano nei loro caveau reali o elettronici non piú del 4-5 per cento di capitale proprio, o in riserva presso la Bce non piú dell'1-2 per cento del totale dei prestiti erogati. Sono in ciò insite due distorsioni del sistema finanziario in essere che si collocano persino al di là della creazione patologica di fiumi di denaro dal nulla che ha concorso a causare la crisi. Su di esse si ritornerà ampiamente nel testo. Basti annotare per ora, in primo luogo, che il potere di creare denaro è uno dei poteri fondamentali di uno Stato. Averlo lasciato da lungo tempo per nove decimi alle banche private, e averne anzi favorito con ogni mezzo l'espansione, è un vizio che sta minando alla base l'economia mondiale. In secondo luogo, le banche creano denaro dal nulla con pochi tocchi sulla tastiera di un Pc, ma poi da coloro che ricevono quel denaro in prestito - famiglie, imprese, lo Stato - pretendono sostanziosi interessi. E nel caso di mancato pagamento degli interessi o delle quote di capitale in scadenza hanno diritto di sequestrare a essi ogni sorta di beni mobili e immobili, per tal via convertendo il nulla in case o terreni o impianti industriali che diventano una loro proprietà. È una (il)logica che sfida l'immaginazione piú accesa.

In questo modo la politica ha attribuito alla finanza, non da oggi bensí da generazioni, un potere smisurato. Negli anni Cinquanta del Novecento si parlava di «complesso militare-industriale» facendo riferimento agli stretti rapporti economici, politici, ideologici stabilitisi nelle società industriali avanzate tra le forze armate e le maggiori aziende industriali. Fu il presidente Eisenhower, nel suo discorso di congedo (gennaio 1961) a sollecitare gli Stati Uniti e il mondo a guardarsi dal «disastroso aumento di potere» che tale complesso lasciava intravedere. Dagli anni Ottanta in poi si dovrebbe invece parlare di «complesso politico-finanziario», in presenza dei rapporti sempre piú stretti che si sono sviluppati tra politica e finanza, nella Ue come negli Usa.

Stabilito che la crisi in atto è un fenomeno strutturale, non un incidente di percorso, e che ha alle spalle distorsioni profonde dell'intero sistema finanziario e monetario, per vari aspetti connesse con la stagnazione dell'economia reale, va precisato che le «strutture» non operano da sole. Hanno bisogno di persone che ne interpretano le logiche, le modificano per adattarle ai tempi e le applicano. Sebbene vi siano notevoli differenze tra politica ed economia quanto a possibilità di imputare determinate azioni a certi gruppi o individui, la crisi è stata ed è l'esito di azioni compiute da un numero ristretto di uomini e donne che per lungo tempo, tramite le organizzazioni di cui erano a capo o in cui operavano, hanno perseguito consapevolmente determinate finalità economiche e politiche. Hanno compiuto quelle azioni in parte perché l'ideologia da cui erano guidate non consentiva loro di scorgere alternative; in parte per soddisfare i propri interessi o quelli di terze parti. Azioni compiute con la possibilità di avvalersi di risorse enormi, in campo economico come in quello politico, senza però darsi minimamente pensiero delle conseguenze che le azioni stesse potevano produrre a danno di un numero sterminato di individui. Il sistema che tali soggetti hanno costruito e guidato, il complesso politico-finanziario, era affetto sin dagli inizi da gravi difetti progettuali e aveva già manifestato nei decenni precedenti ripetuti segnali di malfunzionamento. Dinanzi alle sue cause e conseguenze, la crisi esplosa nel 2007 può essere definita come il piú grande fenomeno di irresponsabilità sociale di istituzioni politiche ed economiche che si sia mai verificato nella storia.

Nel sistema economico i principali attori di tale fenomeno sono stati i dirigenti di vari generi di mega-entità finanziarie. L'elenco di queste è molto lungo. Inizia con Banche centrali quali la Bce, la Fed americana, la Banca d'Inghilterra, e organizzazioni intergovernative come il Fondo monetario internazionale. Poi viene una folla di altri enti, a cominciare dai conglomerati formati da «società che controllano banche» (bank holding companies), enti che nel dominio della finanza svolgono attività di ogni genere concepibile, comprese quelle bancarie. Seguono le «banche universali» sia private come, per dire, Bnp-Paribas o Unicredit, sia pubbliche, quali le Landesbanken (banche regionali) tedesche, le une come le altre impegnate per decenni a trarre maggiori entrate dagli investimenti e dalla speculazione per conto proprio che non dai risparmi che gestiscono; gli investitori istituzionali, quali fondi pensione pubblici e privati, fondi di investimento e compagnie di assicurazione4.

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Ove si ponga mente alla quantità e tipologia delle vittime della crisi, raffrontandole con gli attori che insieme con i loro aiutanti l'hanno provocata e legittimata, diversi aspetti colpiscono. Il primo è che le vittime di oggi sono in gran parte figli e nipoti di membri della classe operaia e della classe media che furono colpiti, soprattutto negli Usa, dalla stagnazione dei salari intervenuta sin dagli anni Settanta. Una condizione alla quale cercarono di sottrarsi, con l'aiuto dei loro governi e delle istituzioni economiche, accrescendo in misura spropositata i loro debiti - una delle maggiori concause dirette della crisi. In altre parole, non solo la crisi quando arriva suona sempre due volte, ma quando ritorna sta ben attenta a suonare sempre alla stessa porta di prima.

In secondo luogo va rilevata la relativa esiguità del numero degli attori e dei loro aiutanti rispetto al numero enorme delle vittime. Gli attori che si possono considerare veri protagonisti della crisi, nell'insieme dei Paesi sviluppati, sono poche decine di migliaia; con gli aiutanti, gli attori di secondo piano e però indispensabili per lo svolgimento del dramma, si arriva forse a qualche centinaio di migliaia. Per contro le vittime assommano, come s'è visto, a parecchie decine se non centinaia di milioni. Si potrebbe dire, parafrasando (e rovesciando) il famoso detto di Churchill, che mai cosí pochi hanno inflitto danni cosí gravi a un numero cosí grande di persone.

È vero che si potrebbe accrescere la stima del numero dei responsabili notando che i dirigenti economici responsabili della crisi agivano, in realtà, non solo per conto proprio ma pure per conto di milioni di proprietari di grandi patrimoni, una intera classe sociale che ha affidato loro il compito di moltiplicare i suoi capitali. Peraltro pare opportuno stabilire una distinzione tra chi ha manovrato direttamente le leve della macchina che ha portato alla crisi, e chi su tale macchina si è limitato a caricare i propri capitali. Sono due livelli di responsabilità, correlati ma non assimilabili se si vogliono analizzare le origini prossime della crisi. Per questo motivo il testo che segue intende compiere un esame soprattutto delle azioni compiute dal primo gruppo, gli attori della finanza, senza ovviamente ignorare l'importanza del secondo gruppo, la classe sociale piú benestante del pianeta. Formata da circa 29 milioni di adulti, lo 0,6 per cento della popolazione del mondo, che detiene oltre il 39 per cento della ricchezza globale, quasi 88 trilioni (cioè ottantottomila miliardi) di dollari. È la sola classe cui la crisi abbia recato vantaggi cospicui.

Un terzo aspetto che colpisce è il fatto che a sei anni dallo scoppio della crisi (agosto 2007), erano pochissimi i responsabili economici e politici di essa che fossero stati chiamati a rispondere dei danni che hanno concorso a provocare. È vero che a seguito dei tracolli di grandi gruppi industriali susseguitisi tra il 2000 e il 2003 - dalla Enron alla WorldCom alla Parmalat - un periodo da considerare di fatto come il prologo della crisi attuale, è stato riconosciuto colpevole e condannato a pene severe un certo numero di dirigenti. Per contro, dal 2007 a oggi nemmeno un singolo procedimento istruttorio o accusatorio paragonabile a quelli del periodo anzidetto è stato avviato in America o in Europa. Con una sola eccezione: nel 2011 il titolare di un fondo speculativo, Bernie Madoff, si è visto infliggere da un tribunale federale statunitense centocinquant'anni di carcere. Ma va subito rilevato che in questo caso, come in quelli menzionati sopra, si trattava di autentici truffatori, dirigenti e finanzieri che avevano falsificato all'ingrosso i bilanci e ingannato in modo macroscopico gli investitori. Non a questi ci si vuole qui riferire, bensí alle decine di migliaia di dirigenti e operatori i quali hanno condotto l'economia al disastro globale che sappiamo, sfruttando le leggi predisposte appositamente per loro dai politici. Al riguardo il presidente Obama è stato chiaro. Ha detto infatti, sia pure in una conversazione informale: «La condotta dei grandi gruppi finanziari va considerata riprovevole sotto il profilo etico, ma dal punto di vista legale non si può imputare loro nulla».

Il fatto è che, da un lato, le leggi che hanno permesso di disastrare l'economia sono state concepite e fatte approvare dai governanti in carica a quel momento, spesso in accordo preventivo con i dirigenti del mondo finanziario e industriale; dall'altro, l'espansione forsennata e rapidissima della finanza dagli anni Ottanta in poi ha aperto nuovi territori che per il diritto penale, secondo i giuristi che da qualche tempo hanno iniziato a occuparsene, sono tuttora terra incognita. Il risultato è quello che si diceva: i dirigenti di gruppi finanziari nei cui bilanci si sono aperte voragini a causa delle loro manovre sono giunti a esprimere al piú un tot di dispiacere - per la verità lo hanno fatto solo in qualche caso - in merito ai danni arrecati a risparmiatori e contribuenti. Al massimo è avvenuto che le loro società abbiano sborsato ciascuna centinaia di milioni alla Fed o alla Banca d'Inghilterra al fine di evitare che una causa civile - avviata, ad esempio, da risparmiatori danneggiati dai cosiddetti titoli tossici - si trasformasse in una causa penale. Però di tasca loro, in genere, i massimi dirigenti non ci hanno rimesso un dollaro o un euro. Persino nei casi in cui sono stati forzati alle dimissioni, se ne sono andati recando intatti con sé i loro compensi e risparmi miliardari. In sintesi, nessun responsabile della crisi è stato riconosciuto come tale, né sottoposto a una qualsiasi sanzione che non fossero le critiche di una quota marginale dei media.

Dal 20r0 in poi, è intervenuto nei Paesi dell'Unione europea un altro paradosso: i milioni di vittime della crisi si sono visti richiedere perentoriamente dai loro governi di pagare i danni che essa ha provocato, dai quali proprio loro sono stati colpiti su larga scala. Il paradosso è una catena che comprende diversi anelli. I principali sono cosí formati e disposti:

1. Le maggiori banche europee, in stretto rapporto con quelle americane, hanno accumulato debiti colossali prima e durante la crisi, in specie per via della finanza ombra e del denaro che esse medesime hanno privatamente creato dal nulla o ampiamente utilizzato allo scopo di continuare a concedere montagne di crediti senza avere in bilancio i relativi fondi. In diversi Paesi Ue il totale di codesti debiti privati è pari o addirittura grandemente superiore al rispettivo debito pubblico.

2. I bilanci pubblici, compreso in parte quello della Bce, hanno sofferto prima di un forte calo delle entrate a causa dei vantaggi fiscali concessi dai governi ai contribuenti piú ricchi e alle imprese nell'ultimo decennio del secolo scorso e nel primo decennio del nuovo; poi, dopo il 2007 e dal lato delle uscite, sono stati prosciugati a causa delle somme spese o impegnate anzitutto per salvare le banche (oltre 4 trilioni di euro a livello Ue nel periodo 2008-11, di cui almeno 2 realmente utilizzati), nonché a causa dell'accresciuto volume dei sussidi di disoccupazione e similari, dovuto principalmente agli effetti della crisi.

3. Le banche hanno convinto i governi e i politici che li sostengono che se anche solo alcune di esse avessero dovuto fallire, e neppure delle maggiori, ne sarebbe seguito un disastro per l'intera economia e società europee.

4. In vista del suddetto pericolo, accresciuto dal fatto che dopo le spese e gli stanziamenti a loro garanzia nei bilanci statali non esistono piú risorse sufficienti per salvare una seconda volta le banche, la Commissione europea, la Bce e il Fondo monetario internazionale hanno dato manforte ai governi nel diffondere una rappresentazione della crisi dei bilanci pubblici come se fosse dovuta all'eccessiva generosità dello stato sociale nei decenni precedenti.

5. In presenza dei vuoti scavati nei bilanci, i governi hanno pertanto deciso di avviare una severa politica di austerità volta a ridurre soprattutto le spese, a cominciare dalla voce principale formata dai capitoli pensioni-sanità-istruzione, che sono i pilastri del cosiddetto modello sociale europeo.

6. Le politiche di austerità si sono concretizzate sia in riforme nazionali, sul genere della riforma delle pensioni introdotta in Italia dal governo Monti nel giro di pochi giorni nell'autunno 2011, sia in severi diktat forgiati a Bruxelles. Tra questi spiccano vari documenti su cui si ritornerà (al cap. VII): il Memorandum di intesa imposto alla Grecia; il precitato «patto fiscale» (per la precisione «Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance») firmato dai capi di governo Ue nel marzo 2012 e approvato a larga maggioranza dal Parlamento italiano, senza minimamente discuterne la micidiale portata, il 20 luglio dello stesso anno; infine l'istituzione del Meccanismo europeo di stabilità.

7. In appena tre anni, 2010-12, le politiche di austerità, congegnate e presentate come se fossero sicuri antidoti alla crisi, in realtà l'hanno aggravata e prolungata. La stagnazione dell'economia si è trasformata in una severa recessione. Il caso italiano è indicativo al riguardo, ma lo stesso si constata in altri Paesi europei e financo in Germania.

8. Come conseguenza dell'aggravamento della crisi, il numero delle vittime di questa, in specie quello dei senza lavoro e delle legioni di precari, è ulteriormente cresciuto.

9. Nessuno potrebbe seriamente credere nel 2013, a sei anni di distanza dal suo inizio, che una fine reale e definitiva della crisi sia prossima.


Se ci si chiede come una simile paradossale concatenazione di decisioni e di eventi sia stata possibile, vien fatto di pensare sulle prime a una colossale serie di errori commessa dai governi Ue. In effetti bisogna essere piuttosto ottusi in tema di politiche economiche per credere di poter rimediare alla crisi ponendo in essere, nel pieno corso di questa, robusti interventi dagli effetti recessivi affatto certi. Ciò nonostante, sebbene l'ottusità economica di parecchi governanti Ue sia fuor di dubbio, sarebbe far torto ai loro stuoli di consiglieri e funzionari supporre che non siano riusciti a far comprendere a ministri e presidenti del Consiglio e capi di Stato che l'austerità, nella situazione data, era una ricetta suicida dal punto di vista economico, se non anche da quello politico.

In realtà i governanti europei sapevano e sanno benissimo che le loro politiche di austerità stanno generando recessioni di lunga durata. Ma il compito che è stato affidato loro dalla classe dominante, di cui sono una frazione rappresentativa, non è certo quello di risanare l'economia. È piuttosto quello di proseguire con ogni mezzo la redistribuzione del reddito, della ricchezza e del potere politico dal basso verso l'alto in corso da oltre trent'anni. Essa è stata messa in pericolo dal fallimento delle politiche economiche fondate sull'espansione senza limiti del debito e della creazione di denaro privato a opera delle banche, diventato palese con l'esplosione della crisi finanziaria nel 2007. I cittadini della Ue, al pari di quelli Usa, hanno già sopportato pesanti oneri prima per il processo di espropriazione cui sono stati sottoposti, in seguito per le conseguenze dirette della crisi. I loro governi debbono aver pensato che difficilmente avrebbero sopportato senza opposizione alcuna altri costi sociali e personali, sotto forma di smantellamento dei sistemi di protezione sociale e di peggioramento delle condizioni di lavoro di cui hanno goduto per almeno due generazioni. Però questo è l'ultimo territorio da conquistare per poter proseguire nel drenaggio delle risorse dal basso in alto. Esso è formato dalle migliaia di miliardi spesi ogni anno per i suddetti sistemi - gran parte dei quali, a cominciare dalle pensioni, rappresenta salario differito, non elargizioni da parte dello Stato.

I governi Ue hanno quindi posto in opera, al fine di ottenere che la classe da essi rappresentata possa proseguire senza troppi ostacoli la distribuzione dal basso in alto, due strategie che si sono rivelate negli anni post-2010 assai efficaci. La prima è consistita, come ricordato sopra, nel camuffare la crisi come se questa volta non avesse origini nel sistema bancario, bensí fosse dovuta al debito eccessivo degli Stati, provocato a loro dire dall'eccessiva spesa sociale. In secondo luogo, nella previsione che tale schema interpretativo non fosse sufficiente per tenere mogi i cittadini, hanno imboccato la strada dell'autoritarismo emergenziale. Cosí come in caso di guerra non si tengono elezioni per stabilire chi e come debba razionare i viveri, di fronte all'emergenza denominata «debito eccessivo dei bilanci pubblici» le misure da intraprendere per sopravvivere sono concepite da ristretti organi centrali: a partire dal Consiglio europeo, formato dai capi di Stato o di governo degli Stati membri. Ai suoi lavori collaborano la Commissione europea (il cui presidente fa parte del Consiglio) e la Bce. Inoltre godono dell'apporto esterno del Fondo monetario internazionale (Fmi). Le misure da prendere sono poi messe a punto dalla Troika costituita da Commissione, Bce e Fmi e inviate ai rispettivi Parlamenti per l'approvazione. Cosí è avvenuto per molti documenti: il memorandum inviato alla Grecia; il pacchetto di misure - mirate espressamente a smantellare lo stato sociale - chiamato Euro Plus; il cosiddetto «patto fiscale» ovvero Trattato sulla stabilità ecc.; la creazione del Meccanismo europeo di stabilità. Essendo l'approvazione «chiesta dall'Europa», i Parlamenti obbediscono, come è costretto a fare un organo politico in situazione di emergenza. Sono i governi a comandare.

Mediante codesto processo che è guidato a livello Ue da poche dozzine di persone, la democrazia nell'Unione appare in corso di rapido svuotamento. Persino il Trattato della Ue, nel quale il concreto esercizio della democrazia riceve assai meno attenzione del libero mercato e della concorrenza, appare aggirato sotto il profilo legale e costituzionale dai dispositivi autoritari messi in atto di recente dai governi e dalla Troika. Alle centinaia di milioni di cittadini della Ue, ciò che quel ristretto gruppo decide è presentato come alternativlos, cioè privo di qualsiasi alternativa: pena, minacciano i governi, il crollo dell'euro, dei bilanci sovrani, dell'intera economia europea. Posti dinanzi a simili minacce, che i media ripropongono ogni giorno a tamburo battente, i cittadini degli Stati cardine della Ue hanno finora subito si può dire a capo chino gli interventi dell'autoritarismo emergenziale dei loro governi e della Troika di Bruxelles, sebbene esso stia assumendo sempre piú il profilo di un colpo di Stato a rate (ne tratta ampiamente il cap. VII).

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Capitolo settimo

Colpo di Stato in Europa. Attori e strumenti


Allo scopo di fronteggiare la crisi apertasi nel 2007, i Paesi dell'Unione europea hanno effettuato interventi drastici in quasi tutti i settori dell'economia e della società. Detti interventi si sono moltiplicati e appesantiti a partire dal 2010. Come si vedrà in maggior dettaglio nel capitolo seguente, le politiche di austerità in cui essi si sono compendiati hanno preso quasi esclusivamente forma di pesanti tagli alla spesa sociale, a partire dalle pensioni; peggioramento delle condizioni di lavoro; riduzione dei fondi e del personale in settori essenziali come l'istruzione, la sanità, i servizi pubblici. Per la gran maggioranza delle popolazioni interessate le conseguenze sono state durissime, soprattutto in termini di occupazione, previdenza e reddito disponibile per le famiglie.

Diversi esperti hanno parlato al riguardo di transizione all'oligarchia nella Ue, o di espropriazione della democrazia. Molti altri hanno invece definito ciò che è avvenuto nell'Unione come un colpo di Stato con il quale il sistema finanziario ha preso il potere imponendosi ai governi nazionali e alla politica. Al riguardo emergono subito alcuni quesiti. Il primo è abbastanza semplice: non si rischia forse di esagerare, definendo addirittura «colpo di Stato» il potere che la finanza è venuta assumendo, sia pure in misura crescente, nei confronti dei governi Ue? Il secondo quesito è un po' piú complicato: è stata realmente la finanza con le sue sole forze a sopraffare i governi, oppure ha ricevuto un robusto sostegno da parte di questi? E se la risposta fosse affermativa, per quali motivi i governi Ue avrebbero agito in tal modo?

Alcune risposte si possono formulare in base a un esame di vari documenti ufficiali dell'Unione.


1. Documenti di un colpo di Stato.

L'espressione «colpo di Stato» sta a significare che una parte che non ne avrebbe diritto si arroga poteri fondamentali attinenti alla sovranità costituzionale dello Stato. Esistono diversi documenti Ue, diffusi negli ultimi anni, a favore dell'ipotesi che ciò sia precisamente quello che è avvenuto. Tuttavia per comprendere meglio la situazione è necessario partire piú da lontano, e precisamente dal Trattato dell'Unione europea, sottoscritto nel 1992, ratificato nel 1993, quindi integrato ripetutamente nonché modificato in seguito da successivi trattati, in specie da quello di Lisbona del 2007. L'articolo 123 del Trattato consolidato (che nella prima versione era il n. 101), primo comma, recita:

Sono vietati la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della Banca centrale europea o da parte delle Banche centrali degli Stati membri (in appresso denominate «Banche centrali nazionali»), a istituzioni, organi o organismi dell'Unione, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, cosí come l'acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della Banca centrale europea o delle Banche centrali nazionali.

Il nodo della questione è che le Banche centrali sono state create nei secoli per svolgere soprattutto una funzione: creare il denaro necessario per coprire i disavanzi del bilancio statale, ripagare debiti pubblici giunti a scadenza, finanziare la spesa sociale, promuovere l'occupazione. Alla Bce, caso unico al mondo, tale funzione è preclusa. Pertanto il divieto imposto alla Bce di prestare denaro ai governi, mentre essa ha facoltà di prestarlo alle banche commerciali in quantità virtualmente illimitate, ha introdotto una grave distorsione nelle politiche economiche dei Paesi Ue, nonché nelle loro stesse basi costituzionali. La facoltà di creare denaro, uno dei massimi poteri che fondano la sovranità dello Stato, è stata tolta agli Stati, però è rimasta quasi per intero alle banche private. Per cui di fronte alla Bce le banche dell'Unione hanno maggiori diritti degli Stati. Se questi hanno bisogno di denaro, debbono rivolgersi ai mercati, ossia alle banche, pagando sui titoli che emettono tassi d'interesse che si aggirano in media sul 3-6 per cento - ove si escludano i due estremi della Germania e della Grecia. Invece le banche possono ricevere dalla Bce tutto il denaro che vogliono, pagando un tasso d'interesse dell'ordine dell'1 per cento o meno, dopodiché mediante l'acquisto di titoli pubblici finanziato con il denaro preso a prestito guadagnano cospicue plusvalenze. Citeremo un solo caso.

Tra il novembre 2011 e il febbraio 2012 la Bce ha prestato alle banche Ue 1040 miliardi di euro al tasso anzidetto. Alle banche italiane sono andati 293 miliardi di euro. In tutta la Ue soltanto una quota minima di tale fiume di denaro si è trasformata in crediti all'economia reale, di cui vi sarebbe stato sommo bisogno. Una parte rilevante è stata subito riversata dalle banche private alla Bce al fine di accrescere la quota depositata a titolo di riserva, oppure ripagare debiti contratti in precedenza. In particolare, per quanto riguarda la quota di novembre 2011, sui 500 miliardi ricevuti dalla Bce le banche Ue ne hanno ridepositato presso di essa, entro breve tempo, piú di 450. Una parte dei due prestiti della Bce è servita pure alle banche per alimentare il flusso dei prestiti interbancari; e circa un terzo, si stima, è stato da esse destinato all'acquisto di titoli di Stato. Questo episodio illustra come gli Stati Ue abbiano perso una quota cospicua di sovranità democratica già nel momento in cui hanno ratificato il trattato istitutivo dell'Unione, contenente l'articolo che impedisce loro di prendere a prestito denaro dalla loro Banca centrale. Per quanto attiene all'Italia, va sottolineato al riguardo che essendo il suo debito pubblico elevato e crescente principalmente a causa degli alti interessi che lo Stato deve pagare (il 4 per cento circa su oltre 2000 miliardi di euro di debito, corrispondente a oltre 80 miliardi l'anno), se mai potesse prendere quel denaro in prestito dalla Bce al tasso dell'1 per cento, il servizio del debito potrebbe ridursi di colpo a 20 miliardi l'anno.

Dal 2010 in poi si sono susseguiti altri accordi, patti e contratti, di solito elaborati dal Consiglio europeo, formato dal ristretto gruppo dei capi di Stato e di governo della Ue e dal presidente della Commissione europea, in collaborazione con la cosiddetta Troika - Ce, Bce, e Fondo monetario internazionale. Sono ormai essi a imporre la loro volontà agli Stati membri - i cui governi e Parlamenti hanno poi ulteriormente svuotato la sovranità di questi. Proveremo ora a esaminare alcuni dei documenti piú recenti introdotti nell'Unione, con forza di legge, da tali organi. Sono patti e trattati redatti e approvati in sede europea nel volgere di un anno appena, a un ritmo tambureggiante che ricorda da vicino un colpo di Stato a rate.

Un primo accordo dettagliato e stringente, denominato Patto Euro Plus, è stato stipulato il 25 marzo 2011, al termine di una riunione del Consiglio europeo. È stato sottoscritto dai capi di Stato e di governo dell'Eurozona, cui si è aggiunta una mezza dozzina di Stati che non ne fanno parte, alla quale si riferisce appunto il suffisso «plus». I contenuti dell'accordo in re derivano in parte da un'antecedente proposta tedesco-francese di inizio febbraio volta a realizzare un «Patto di competitività».

Il testo varato dal Consiglio europeo prevede che

gli Stati membri partecipanti s'impegnano ad adottare tutte le misure necessarie per realizzare gli obiettivi seguenti: stimolare la competitività; stimolare l'occupazione; concorrere ulteriormente alla sostenibilità delle finanze pubbliche; rafforzare la stabilità finanziaria.

L'articolato dei quattro obiettivi anticipava i contenuti delle riforme che sarebbero state introdotte negli ultimi mesi del governo Berlusconi, e su scala piú ampia dal governo Monti a partire dal novémbre 2011. In tema di competitività il Patto chiedeva di «esaminare gli accordi salariali e [...] il grado di accentramento degli stessi»: in chiaro, si suggeriva qui di eliminare i contratti nazionali di lavoro. In tema di occupazione, esso esigeva riforme del mercato del lavoro per promuovere la «flessicurezza», ridurre il lavoro sommerso e aumentare la partecipazione al mercato stesso. Quanto a sostenibilità delle finanze pubbliche, il documento voleva si procedesse a una valutazione, tenuto conto del debito pubblico, della sostenibilità dei regimi pensionistici e di assistenza sanitaria. Al riguardo sembra arrivare diritto dal Patto Euro Plus il minaccioso avvertimento del presidente del Consiglio Mario Monti del novembre 2012, secondo il quale entro breve tempo la spesa per la sanità pubblica non sarà piú sostenibile e si dovrà finanziarla per altre vie. Fino alla sottoscrizione del Patto in parola non si era ancora visto un documento normativo, redatto da organi ristretti come il Consiglio europeo e la Commissione, che intendesse regolare in modo uniforme quanto dettagliato, a livello di tutta l'Unione, settori che attengono a politiche economiche di eccezionale rilevanza per la vita sociale, e sono inevitabilmente connesse a situazioni nazionali affatto differenti.

Laddove il Patto Euro Plus si rivolgeva ai Paesi dell'Eurozona e ad altri Paesi «volontari», sette mesi dopo la Commissione europea si occupava direttamente dell'Italia. Il 4 novembre 2011 il commissario all'Economia della Ce, 0lli Rehn, invia una lettera al ministro dell'Economia e delle Finanze Giulio Tremonti. La lettera è breve, ma è corredata da un dettagliato questionario in 39 punti che compendia le richieste della Ce al governo italiano affinché metta ordine nel bilancio pubblico e attui profonde riforme in diversi settori dell'economia. Sono richieste di chiarificazione esposte in forma interrogativa, ma con tutta evidenza appaiono essere perentorie prescrizioni di intervento strutturale; tant'è vero che poche settimane dopo il nuovo governo Monti si sarebbe posto all'opera di gran lena al fine di soddisfarle, in pratica, alla lettera. Le corrispondenze tra il dettato della Ce e le riforme del governo Monti sono impressionanti. Ci si ritrova l'allungamento dell'età di pensionamento, a cominciare da quella delle donne e la tendenziale abolizione delle pensioni di anzianità (punto 5 del questionario), introdotti poco dopo dalla riforma delle pensioni di fine 2011. C'è lo spostamento dell'onere fiscale dal lavoro ai consumi e alle proprietà immobiliari, cioè dall'Irpef all'Iva, piú la reintroduzione della tassa di proprietà sulle abitazioni occupate dal proprietario, chiamata ancora Ici nel questionario ma ridenominata Imu dal nuovo governo (punto 7): norme prescritte dalla Commissione e puntualmente introdotte dal governo italiano.

Ancora, sono indicate con grande precisione le caratteristiche che avrebbe dovuto presentare la riforma del lavoro, introdotta nel marzo 2012 dal ministro del Lavoro Elsa Fornero: dal contrasto alla segmentazione del mercato del lavoro tra i «lavoratori con contratto permanente altamente protetti» e i lavoratori precari, all'impegno a riformare gli ammortizzatori sociali (punti da 17 a 21). Per non parlare della modernizzazione della pubblica amministrazione, ivi comprese le misure per ridurre il personale quali la mobilità obbligatoria, il part-time, la revisione dell'organico (punti da 31 a 33), di cui peraltro già si stava occupando in quel periodo il ministro in carica per la Funzione pubblica, di cui il successore del governo «tecnico» avrebbe proseguito l'opera. Mai, nella storia della Repubblica italiana, si era vista una lettera inviata da un organismo europeo, non eletto da nessuno, che contenesse prescrizioni di riforme strutturali tanto particolareggiate e incisive, né si era visto un governo adoperarsi per obbedire e attuarle, non appena ricevute, con la massima urgenza.

Il 13 dicembre 2011, su proposta della Ce approvata a ottobre dai 27 Paesi Ue e dal Parlamento europeo, è entrato in vigore un nuovo insieme di misure per rafforzare la sorveglianza economica e fiscale di tutti gli Stati membri. È una versione aggiornata del Patto per la stabilità e la crescita già stipulato dai Paesi Ue alla fine degli anni Novanta. Comprende cinque disposizioni regolative e una direttiva, da cui la sigla «Six-Pack» con cui viene designato. È breve ma estremamente dettagliato nello specificare le penalità da comminare ai Paesi che non rispettano i limiti riguardanti il deficit di bilancio (non oltre il 3 per cento annuo del Pil) e i piani da porre in opera per ridurre, nell'arco di un ventennio, a non piú del 60 per cento del Pil l'ammontare del debito. Gli indicatori attestanti che i piani sono stati realmente predisposti da un dato Paese e sono in via di progressiva attuazione formano una complessa batteria, che va dalla media delle esportazioni degli ultimi tre anni ai mutamenti annuali del prezzo delle abitazioni. Chiudono il Six-Pack due tabelle che indicano una le sanzioni economiche in caso di inosservanza delle regolazioni, l'altra gli Stati sottoposti a procedure di verifica a fine 2011 a causa del loro deficit eccessivo (ben 23 su 27). Affinché le sanzioni stabilite dalla Commissione e imposte dal Consiglio europeo siano applicate nel modo piú automatico possibile, il documento in esame ha introdotto una procedura di voto «rovesciata»: le sanzioni vengono inflitte in ogni caso a un Paese che non rispetta i suoi obblighi, a meno che una maggioranza qualificata degli Stati membri voti contro. Tempo concesso per farlo, ivi comprese delibera del governo interessato, esame delle commissioni parlamentari, voto di camera bassa e camera alta: dieci giorni.

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Di incidenza immediata sulle politiche economiche e sociali del nostro Paese come di ogni altro Stato Ue è il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la «governance» nell'Unione economica e monetaria, firmato il 2 marzo 2012 da 25 capi di Stato e di governo Ue su 27 (le eccezioni sono state Regno Unito e Repubblica Ceca). È entrato in vigore il 1° gennaio 2013, posto che a quella data era stato ratificato come richiesto da almeno 12 Paesi sui 25 firmatari. Il Titolo III del Trattato delinea, all'articolo 3, i contenuti di un Patto politico e fiscale. Il comma 1 stabilisce che il bilancio pubblico consolidato di un Paese contraente deve essere in pareggio o mostrare un sopravanzo. Il comma 2 stabilisce che codeste regole debbono essere recepite «in modo vincolante e durevole» nella legislazione dei contraenti, «preferibilmente a livello costituzionale». Infine l'art. 4 prescrive che se uno Stato contraente presenta un debito pubblico superiore al limite fissato dal Trattato Ue (il 60 per cento del Pil), ha l'obbligo di ricondurlo entro tale limite al ritmo di un ventesimo l'anno in media. Per l'Italia, il cui debito supera come si sa i 2000 miliardi di euro, tale impegno comporterebbe una sua riduzione pari a circa 50 miliardi l'anno: una meta semplicemente impossibile da raggiungere, salvo richiedere al 90 per cento della popolazione sacrifici da tempo di guerra, prolungati per almeno una generazione.

Il meccanismo di verifica dello sforamento del deficit, delle misure prese al fine di ridurre il debito al ritmo prestabilito, l'erogazione delle misure punitive - vere e proprie ammende - che la Ue prenderà nel caso di mancato rispetto dell'uno o dell'altro indicatore entro i tempi previsti, fino all'eventuale intervento della Corte di Giustizia europea, è interamente automatico. Ed è soprattutto la Commissione a valutare, soppesare e decidere. Lo svuotamento del processo democratico è clamorosamente evidente in tutto il testo, hanno scritto quasi allo stesso tempo un giurista austriaco e un economista francese.

L'Italia, con altri Paesi, ha proceduto con la massima celerità a fare propri i gravosi impegni derivanti dai documenti sopra richiamati. L'inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio mediante la modifica dell'art. 81 è stato deliberato dal Parlamento il 18 aprile 2012; nonostante, va rilevato, che lo stesso Trattato in questione definisse tale azione come preferenziale, non obbligatoria. I trattati sulla stabilità, patto fiscale compreso, e sull'istituzione del Meccanismo di stabilità, sono stati ambedue convertiti in legge dalla Camera il 20 luglio 2012, pochi giorni dopo l'analoga delibera del Senato. C'è da chiedersi se qualcuno tra i parlamentari italiani che hanno approvato questi diversi impegni avesse una vaga idea di quale perdita di sovranità economica e politica ciò abbia comportato, ovvero quale ferita rappresenti per la democrazia.

Quali elementi inducono a credere che si è trattato di una serie di operazioni che nell'insieme assomiglia da vicino a un colpo di Stato? I piú rilevanti sono forse questi:

• Le suddette operazioni non sono state affatto compiute da soggetti esterni agli Stati membri della Ue, o da movimenti rivoluzionari interni, bensí dai governi stessi. Il che si attaglia bene a ciò che intendono i politologi per colpo di Stato: «La presa del potere nel colpo di Stato è per definizione l'atto di persone che al momento della sua esecuzione sono titolari di funzioni in seno all'apparato dello Stato».

• I popoli europei sono stati ingannati dai loro governi circa le origini della crisi finanziaria e dell'aumento del debito pubblico. I bilanci pubblici, compreso per alcuni aspetti quello della Bce, hanno sofferto prima di un calo delle entrate, a causa dei vantaggi fiscali concessi dai governi ai contribuenti piú ricchi e alle imprese nell'ultimo decennio del secolo scorso e nel primo decennio del nuovo; poi, dopo il 2007 e dal lato delle uscite, sono stati gravati dalle somme spese o impegnate anzitutto per salvare le banche. Come si è ricordato nel capitolo precedente, si è trattato di 4,5 trilioni di euro a livello Ue nel periodo 2008-10, di cui 2 effettivamente utilizzati. Di conseguenza il debito pubblico aggregato dei Paesi Ue è aumentato di circa 20 punti in soli tre anni, passando dal 60 all'80 per cento del Pil. Per contro la spesa sociale è rimasta nella media costante, intorno al 25 per cento del Pil, seppure con tangibili differenze tra un Paese e l'altro (l'Italia si colloca esattamente nella media). Ne segue che è del tutto scorretto imputare alla spesa sociale l'aumento del debito pubblico.

• Le banche Ue hanno accumulato debiti gravosi prima e durante la crisi, in specie per via della finanza ombra, che esse medesime hanno creato o ampiamente utilizzato per continuare a concedere montagne di crediti senza averne i mezzi. In diversi Paesi Ue il totale di codesti debiti privati è pari o addirittura grandemente superiore al rispettivo debito pubblico. A fronte del prolungamento della crisi e della situazione dei loro conti, di cui soltanto la metà o meno figura nei loro bilanci, le banche hanno convinto i governi Ue che se anche solo alcune di esse avessero dovuto fallire, e nemmeno delle maggiori, ne sarebbe seguito un disastro per l'intera economia e società europee.

• In vista del suddetto pericolo, accresciuto dal fatto che dopo le spese e gli stanziamenti a loro garanzia nei bilanci statali non esistono piú risorse sufficienti per salvare una seconda volta le banche, il Consiglio europeo, la Commissione europea, la Bce e il Fondo monetario internazionale hanno dato manforte ai governi, allo scopo di diffondere una rappresentazione della crisi dei bilanci pubblici che la attribuisce all'eccessiva generosità dello stato sociale nei decenni precedenti.

• Le organizzazioni internazionali che di fatto controllano la Ue, e che in accordo con il Consiglio europeo hanno dettato alla lettera i rimedi per uscire dalla crisi come se questa fosse stata causata da un eccesso di spesa sociale, non godono di alcuna legittimazione democratica. Nessuno dei suoi membri è stato nominato in base a una consultazione elettorale su base nazionale o internazionale, come avviene invece per i membri del Parlamento europeo; il cui peso peraltro, in merito alle operazioni indicate, è stato ancora una volta pressoché insignificante. Tantomeno le decisioni che tali organizzazioni prendono sono soggette ad alcun controllo democratico: di esse la Troika non deve render conto a nessuno.

• Il Patto politico-fiscale è stato in effetti firmato da capi di Stato e di governo democraticamente eletti. Tuttavia le conseguenze dei suoi dispositivi sulla Costituzione e sul processo democratico dei Paesi interessati sono di tale straordinaria portata che tali dispositivi avrebbero dovuto essere sottoposti a un'ampia consultazione popolare. Per contro la discussione pubblica è stata volutamente accantonata, e i Parlamenti hanno approvato il trattato in poche ore, meno di quante si impiegano di solito al fine di modificare, per dire, il regolamento della pesca della sogliola nel Mediterraneo. Credo si possa affermare che nemmeno un cittadino su mille dell'Unione abbia la minima idea di ciò che significherà per la sua esistenza l'adozione di tale patto. Si può ancora notare, a questo proposito, che l'unico tentativo di sottoporre a referendum un documento della Troika, quello dell'ex ministro Papandreu che avrebbe dovuto riguardare il Memorandum inviato nel 2012 alla Grecia, è stato seccamente respinto da Bruxelles e dai governi europei con la minaccia di non versare gli aiuti già previsti.

• Il Trattato sulla stabilità ecc., comprendente il iugulatorio Patto fiscale, nonché il Six-Pack e numerosi altri documenti del Consiglio europeo e della Commissione che per brevità qui si tralasciano, sopprimono di fatto una delle funzioni primarie di un Parlamento democratico, ossia il potere di decidere sulle entrate e sulle spese dello Stato. Inoltre accresce in notevole misura i poteri della Commissione, a paragone dei poteri sia del Parlamento europeo sia dei Parlamenti nazionali. Un processo burocratico, nel corso del quale dei funzionari irresponsabili decidono di irrogare o meno sanzioni in base a indicatori meccanicamente e arbitrariamente stabiliti, viene sostituito di fatto al processo democratico fondato sull'esame approfondito delle alternative in campo da parte di organismi elettivi e partecipati. Per di piú i suddetti documenti confidano alla Corte di Giustizia europea nientemeno che il compito di regolare le vertenze fra gli Stati, laddove la sua missione si limitava finora, sulla base del trattato istitutivo, a sorvegliare il rispetto della legislazione Ue.

• Si può aggiungere che l'attacco alla democrazia condotto nella Ue a colpi di trattati e direttive è stato facilitato dall'infiltrazione nelle sue istituzioni di rappresentanti del potere delle grandi società finanziarie e non finanziarie. È un processo che data da lungo tempo. Alti dirigenti delle une e delle altre vengono reclutati dai governi negli organi direttivi di enti statali il cui compito consisterebbe nel sorvegliare e regolare le società che essi rappresentano. Il caso piú eclatante è quello di enti come la Bafin in Germania e la Financial Services Authority nel Regno Unito, che dovrebbero vigilare in modo imparziale sull'attività delle banche. Accade però che dalle banche essi siano finanziati, e che i loro consigli direttivi siano formati a larga maggioranza da esponenti del mondo finanziario. Sulla loro imparzialità è quindi lecito esprimere qualche dubbio. Non ci sono piú soltanto le lobby a premere dall'esterno sulle istituzioni, ha scritto un giurista tedesco; esse sono diventate parte integrante di queste.

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Capitolo decimo

Rigettare le teorie economiche neoliberali


Se si guarda alla sua irresistibile ascesa come ideologia dominante dell'ultimo terzo del Novecento e del primo decennio Duemila, bisogna partire dalla constatazione che il neoliberalismo è una dottrina totalitaria che si applica alla società intera e non ammette critiche. In forza del suo dominio tale dottrina ha profondamente corrotto la vita sociale, il tessuto delle relazioni tra le persone su cui le società si reggono; con i suoi errori ha condotto l'economia occidentale a una delle peggiori recessioni della storia; ha straordinariamente favorito la crescita delle disuguaglianze di reddito, di ricchezza e di potere. Esamineremo qui alcune tra le conseguenze del dominio culturale e politico del totalitarismo neoliberale, con l'intento di tentare alla fine di risalire ad alcuni fattori che tale dominio hanno favorito.


1. Nella società ogni cosa ha un prezzo.

Il nucleo costitutivo del neoliberalismo sono le teorie economiche cosiddette neoclassiche, ma esse sono state rielaborate ed estese al fine di determinare quali sono le condotte alle quali ciascuno è tenuto a conformarsi in ogni campo dell'organizzazione sociale. La politica, l'istruzione, la ricerca, la famiglia, la natura, il territorio, la città, la cultura, i beni comuni come il paesaggio o l'acqua appaiono essere, in questa concezione totalitaria, mere propaggini o varianti applicative del calcolo economico. La logica della massimizzazione dell'utilità individuale dovrebbe venire utilizzata — stando al modo in cui un economista austriaco riassume la «pretesa di totalità» del neoliberalismo — ben al di là del campo economico, sia per fornire una spiegazione incontrovertibile delle dinamiche sociali sia per guidare decisioni esistenziali in ogni campo e momento dell'esistenza. Tra di esse rientrano: la scelta di un/a compagno/a di vita; l'istituzione del matrimonio, che dovrebbe essere considerata come una ditta creata allo scopo di produrre figli; come pure il sostegno dei figli ai genitori diventati vecchi, sostegno che nella visione paneconomica o totalitaria del neoliberalismo non è dovuto al buon cuore, bensí a un comportamento egoistico perché la coscienza li disturba se non lo fanno, grazie all'«investimento in senso di colpa» che i genitori hanno effettuato astutamente in loro per mezzo dell'istruzione.

Un'analisi illuminante dell'effetto corruttore dell'idea che a ogni cosa è possibile assegnare un prezzo, ed è doveroso quanto conveniente farlo, per cui quasi tutto si può comprare con il denaro, è stata effettuata di recente da un filosofo politico, Michael J. Sandel. Se si dispone della somma sufficiente, uno può ottenere una cella pulita e silenziosa in carcere, separata da quelle dei detenuti che non pagano (82 dollari a notte); il diritto di accedere in autostrada alle corsie riservate alle vetture che hanno piú persone a bordo (8 dollari); una madre surrogata indiana per portare a termine una gravidanza (6250 dollari); il diritto di immettere nell'atmosfera quante tonnellate di anidride carbonica si vogliono, al modico prezzo di 8 dollari a tonnellata; persino l'ammissione di vostro figlio a un'università prestigiosa, pure nel caso che il candidato non sia dotato di speciale talento per gli studi. Nota giustamente l'autore che la circostanza per cui tutto è in vendita accresce la disuguaglianza, poiché «piú cose il denaro può comprare, piú la ricchezza (o la sua mancanza) conta».


2. Il mercato ha sempre ragione.

In campo economico, le teorie e le politiche neoliberali sono state uno dei fattori determinanti della Grande crisi, in Europa come negli Stati Uniti. In proposito non può sussistere, dinanzi alla massa di ricerche disponibili, alcun ragionevole dubbio. Nondimeno le medesime teorie e politiche vengono tuttora insegnate e praticate nei Paesi Ue, Italia compresa, nel tentativo di superare la crisi. Come se all'indomani della dissoluzione dell'Unione Sovietica (1991), dovuta alle disastrose inefficienze dell'economia pianificata, le nuove forze di governo si fossero messe alacremente all'opera al fine di introdurre nel Paese, per risollevarne la situazione, una versione ancor piú intensiva di economia pianificata.

La perseveranza da parte dei governi e di quasi tutti i politici Ue nell'errore di utilizzare per risolvere la crisi le medesime teorie e politiche che l'hanno provocata appare invero diabolica. Come si può giustificarla, se si guarda ai disastri che le teorie economiche neoliberali (o se si preferisce neoclassiche, posto che le due sono sorelle) hanno fatto registrare durante piú di un trentennio? Vediamone alcuni, muovendo dai postulati su cui si reggono. In tema di occupazione, dette teorie postulano che il lavoro è una merce il cui prezzo deve venire lasciato unicamente ai movimenti del mercato, ossia alla libera contrattazione tra lavoratori e datori di lavoro. È necessario evitare qualsiasi interferenza da parte dello Stato o dei sindacati; sarà il mercato a determinare sia il livello dei salari, sia il tasso di occupazione piú idonei a promuovere il benessere generale. Per le teorie economiche neoliberali il nemico da combattere è l'inflazione, non la disoccupazione.

Questo postulato neoliberale, su cui ritorna il successivo capitolo dedicato alla creazione di occupazione, è stato applicato alla lettera negli Usa fin dai primi anni Settanta, e nella Ue dalla metà degli anni Novanta in avanti. I salari sono bassi e la disoccupazione è a livello appropriato, nella prospettiva neoliberale, quando ci sono molte piú persone in cerca di lavoro che posti disponibili. A ciò si è provveduto mediante la globalizzazione e il correlativo spostamento di produzioni in Asia. I risultati, nei quali ci siamo sovente imbattuti in precedenza, sono stati una stagnazione dei salari che ha prodotto una riduzione di 10 punti percentuali e oltre della quota salari sul Pil in quasi tutti i Paesi Ocse; un elevatissimo tasso di indebitamento delle famiglie, negli Usa ma anche in diversi Paesi europei, nel tentativo di mantenere un decoroso livello di vita, comprare casa, far studiare i figli, risparmiare per la vecchiaia; una disoccupazione che faceva segnare nella Ue, a sei anni dall'inizio della crisi, un tasso a due cifre e in diversi Paesi, tra cui l'Italia, ancora drammaticamente crescente nel 2013. In ambito Ue, la perdita di Pil potenziale, ossia la ricchezza non prodotta a causa dell'alto tasso di disoccupazione, veniva stimata a tale anno in 800 miliardi di euro.

Nel campo della finanza, le teorie neoliberali hanno fortemente sostenuto l'applicazione universale del teorema dei mercati finanziari efficienti. Dall'applicazione a oltranza di detto teorema sono sortiti effetti dall'insondabile portata, quali:

• la liberalizzazione internazionale dei movimenti di capitale, che la politica si è affrettata a concedere, in Europa non meno che in America;

• la deregolamentazione della creazione e della circolazione di nuovi strumenti finanziari, tipo i derivati strutturati e i certificati di protezione dall'eventuale insolvenza del debitore;

• la cartolarizzazione senza limiti dei crediti;

• la trasformazione delle banche tradizionali in banche universali alle quali è consentito svolgere ogni sorta di attività finanziaria, comprese le meno regolate;

• la crescita smisurata degli investitori istituzionali (fondi pensione, fondi comuni di investimento, fondi del mercato monetario, capitali di ventura, assicurazioni), al punto che con i loro capitali equivalenti a un anno di Pil del mondo tali investitori sono diventati i «proprietari universali» delle imprese quotate;

• la sostituzione, nel governo delle imprese, del criterio-guida centrato sulla triade produzione-fatturato-occupazione con il paradigma della massimizzazione del valore per gli azionisti.


Le precitate teorie hanno promosso tali mutamenti e altri non meno micidiali, facendosi forti di alcuni assiomi i quali statuiscono in modo categorico che i mercati dei capitali e dei titoli, quando siano liberi da ogni interferenza, sono perfettamente efficienti, nel senso che assicurano di generare in ogni caso la massima distanza possibile tra costi e guadagni, ovvero tra utili e perdite. Tra i principali assiomi rientrano questi:

a) Capitali, merci, servizi e lavoro debbono circolare nel mondo in maniera assolutamente libera. Dalla loro libera circolazione tutti trarranno vantaggio. La globalizzazione rappresenta l'esito piú maturo e positivo dell'applicazione di questo assioma.

b) I capitali affluiscono sempre e soltanto là dove il rendimento è ottimale, in rapporto al rischio che l'investimento presenta e al flusso di denaro che promette. Ciò avviene perché i mercati sono il piú valido dei sistemi informativi possibili. Gli attori dispongono di tutte le informazioni occorrenti per compiere sui mercati finanziari scelte razionali - quelle che massimizzano la loro utilità.

c) Le «bolle», ossia l'aumento rapido e diffuso privo di fondamenti reali del valore di azioni, obbligazioni, proprietà immobiliari, quotazione di mercato delle imprese, non sono possibili: ciò perché a mano a mano che il prezzo di un bene o di un titolo qualsiasi aumenta, i compratori infallibilmente diminuiscono e il prezzo non meno infallibilmente si stabilizza o diminuisce.

d) Lo Stato non deve assolutamente intervenire nei settori in crisi; i fallimenti e le imprese che chiudono sono un efficace stimolo per trasferire capitali e lavoro da settori obsoleti a nuovi settori dove saranno impiegati in modo piú produttivo. D'altra parte lo Stato deve adoperarsi per costruire il mercato, posto che questo non è un'entità naturale, ma può essere costituito e tenuto in vita soltanto a forza di interventi politici.


Gli eventi succedutisi dai primi anni Duemila hanno fatto a pezzi codesti assiomi, portandone alla luce i fondamenti paramitologici. La globalizzazione fondata su massicci investimenti diretti all'estero e le delocalizzazioni che ne sono derivate hanno soppresso milioni di posti di lavoro negli Usa, Regno Unito, Germania, Francia, Italia e altri Paesi, provocando in essi una marcata deindustrializzazione. È accaduto infatti nei Paesi d'origine che i settori in declino, appartenenti in prevalenza al settore manifatturiero, non abbiano per nulla fatto posto a settori piú moderni: sono semplicemente scomparsi. Com'è accaduto in Italia. O negli Usa, dove non si produce piú nemmeno un computer, un elettrodomestico, un giocattolo. La globalizzazione ha inoltre contribuito ad accrescere la distribuzione del reddito dal basso verso l'alto, che è stata come sappiamo (dal cap. 11) una delle cause strutturali della crisi. Da parte loro i mercati del capitale supposti onniscienti hanno condotto banche e investitori a sborsare parecchi trilioni di dollari, nella Ue come negli Usa, per comprare titoli rivelatisi poco tempo dopo di pessima qualità.

Ancora piú dannosa è stata la creazione da parte delle banche di una massa colossale di denaro fittizio. Sappiamo che l'hanno fatto principalmente in tre modi: la creazione di denaro al di fuori di ogni connessione presente o futura con l'economia reale, ossia con la produzione di beni e servizi utili alla sussistenza umana; l'indebitamento proprio e dei clienti trasferito fuori bilancio; la produzione di centinaia di trilioni di derivati (in dollari) trattati al di fuori delle piattaforme regolamentate. Il nucleo esplosivo della crisi, ancora oggi non rimosso né neutralizzato, è costituito da una massa di capitali fittizi pari ad almeno cinque volte il prodotto dell'economia reale, che schiaccia quest'ultima pretendendo rendimenti che essa non sarà mai in condizione di fornire. Basterebbe questa sola sproporzione per condannare le teorie economiche neoliberali con i loro assiomi. Ma c'è dell'altro.

Infatti, sia nelle Borse sia sul mercato immobiliare, l'aumento dei prezzi ha prodotto un movimento inverso rispetto a quanto l'assioma dei mercati efficienti sosteneva. Nelle une come sull'altro, piú i prezzi aumentavano, piú cresceva la domanda di titoli e di case, sospinta dai bassi tassi d'interesse delle Banche centrali e dalle campagne delle banche private al fine di inserire il piú largamente possibile classi medie e famiglie povere nel circuito della finanza. Fino a quando la bolla, che secondo il predetto assioma non doveva nemmeno esistere, è scoppiata. Dopodiché lo Stato, negli Usa come in quasi tutti i Paesi Ue, è stato scongiurato di intervenire massicciamente a colpi di trilioni di dollari, euro e sterline allo scopo di salvare le banche «troppo grandi per esser lasciate fallire». Richiesta, come sappiamo, prontamente esaudita. John Maynard Keynes sarebbe allibito al vedere come le politiche da lui suggerite per il rilancio dell'economia siano state cosí stravolte.

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4. Perché le sinistre hanno fatto proprie le idee del neoliberalismo?

Dal 1980 in poi i partiti socialisti in Francia e in Spagna, i socialdemocratici in Germania, i laburisti nel Regno Unito, i postcomunisti in Italia fino al Pd, hanno fatto proprie le idee di fondo del neoliberalismo e le hanno messe in pratica appena sono giunti al governo, in specie sotto forma di liberalizzazione incontrollata della finanza. Tuttavia la conversione delle sinistre alle dottrine neoliberali è avvenuta non solo quando erano al governo, ma pure quando erano all'opposizione. In effetti, diversi Paesi Ue hanno conosciuto governi di destra, incorporanti alle radici le dottrine neoliberali, come in Italia i governi Berlusconi tra il 2001 e il 2011, e il governo Monti del 2011-12, i quali hanno avuto di fronte delle opposizioni di centrosinistra le quali si proponevano di discutere, e sotto il profilo epistemico erano capaci di discutere, unicamente del valore da attribuire alle variabili di un'equazione complessa che i governi stessi prospettavano per rimediare alla crisi, quale che fosse il suo campo di applicazione. Nel quadro di una conformità integrale alle dottrine neoliberali. Tale situazione si è generalizzata, poiché in tutti i Paesi le opposizioni, salvo poche formazioni dal peso pubblico ed elettorale esiguo, hanno perso da decenni la capacità di confutare o rifiutare l'equazione per proporne un'altra strutturalmente diversa. Pertanto l'espressione «pensiero unico» sembra piuttosto flebile per designare l'omogeneizzazione della capacità di giudizio indotta da una dottrina intrinsecamente totalitaria, qual è l'onni-neoliberalismo, che si osserva nella gran maggioranza dei componenti dell'arco politico. Come è stato possibile?

Un fattore poco studiato di sviluppo del totalitarismo neoliberale, che aiuta a spiegare come mai persino partiti che si definiscono progressisti l'hanno condiviso, proviene da circostanze al tempo stesso biografiche e politiche: alla sua stessa elaborazione hanno infatti contribuito in misura ragguardevole anche le sinistre europee. Tale predicato viene qui circoscritto ai socialisti francesi e italiani, ai partiti successori del Pci, ai laburisti britannici, ai socialdemocratici tedeschi, nonché alle analoghe formazioni che con nomi simili esistono in altri Paesi Ue. Si è appunto notato (al cap. 3) che la liberalizzazione dei movimenti di capitale è stata vigorosamente avviata in Europa nei primi anni Ottanta, in sincronia e in certi casi con anticipo sugli Usa, da governanti e politici socialisti. Tuttavia la presa del neoliberalismo sulle sinistre, se non anzi la resa di queste a quello, ha operato su terreni molto piú vasti. Uno di essi è stata la «terza via» inaugurata dal Labour britannico e diffusasi in Germania, Olanda, Portogallo, Svezia, Danimarca, Italia, Belgio. L'idea guida della terza via era che non hanno piú senso le contrapposizioni fra destra e sinistra; Stato e mercato; capitale e lavoro. Un suo corollario era un orientamento decisamente positivo nei confronti delle corporations e della finanza, e una riformulazione degli interessi collettivi in termini individualistici.

La terza via è stata sicuramente una delle multiformi divise - o maschere - indossate dal neoliberalismo. Ma alle origini di quest'ultimo, in campo economico, hanno contribuito diverse linee di comunicazione, funzionanti tra l'Ovest capitalista e l'Est socialista fin dagli anni Sessanta. Le ha ricostruite su solide basi storiografiche una sociologa americana, Johanna Bockman. Uno stimolo importante per la nascita del neoliberalismo fu la «teoria della convergenza», da taluni solo prevista e da altri auspicata, fra il capitalismo occidentale e il socialismo dell'Europa orientale. Tale teoria, oggetto di numerose pubblicazioni in quel decennio, sosteneva che sebbene si fossero formate su basi politiche, economiche e sociali del tutto differenti, le società capitaliste e quelle socialiste andavano ormai convergendo verso un medesimo tipo di società, la società industriale. Entro le società riconducibili a questa nuova specie sociale, quale che fosse la loro storia pregressa, stavano sorgendo esigenze del tutto analoghe allo scopo di pianificare la produzione e i consumi; regolare lo sviluppo; gestire la distribuzione e l'investimento del surplus; sostenere la trasformazione dello stile di vita. Persino uno degli economisti eterodossi dell'epoca, John K. Galbraith , ebbe a scrivere che era allora in atto fra il sistema sovietico e quello occidentale «un'apprezzabile convergenza verso la stessa forma di pianificazione».

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Quali precisamente fossero i nemici da abbattere, i gruppi appartenenti al vertice della piramide sociale li avevano individuati da tempo: lo Stato e la pubblica amministrazione in genere; le imposte progressive sui redditi e sui patrimoni; lo stato sociale; gli alti salari; i sindacati; i diritti del lavoro; i servizi pubblici di ogni genere; l'istruzione pubblica gratuita; gli ostacoli al libero commercio di beni e servizi. Nondimeno limitarsi ad affermare a gran voce che il privato è in ogni caso piú efficiente del pubblico; che gli alti salari sono fonte di disoccupazione; che le imposte elevate sugli alti redditi frenano gli investimenti e simili, non bastava per sedurre durevolmente la maggioranza degli elettori e dei politici. Occorrevano dimostrazioni logico-matematiche folte di fatti e cifre, argomenti e modelli rigorosi, dati all'apparenza inoppugnabili. La dottrina neoliberale, in questo caso nel ruolo di economia neoclassica, provvide a fornirli. Piú precisamente ha offerto i mezzi tecnici e il personale meglio atti a giustificare sul piano economico, e legittimare sul piano morale, la demolizione di tali nemici. I presupposti e assiomi su cui dette dimostrazioni poggiavano, come si è notato all'inizio, erano inconsistenti, ma l'apparenza di scientificità che l'apparato logico-matematico conferiva loro le poneva al di sopra di ogni critica e assicurava l'assenso tacito di chiunque ne fosse anche solo sfiorato.

Fu un'ascesa politica alla quale contribuí un'innovazione di fondamentale importanza: un progetto di finanziarizzazione globale del mondo. Gli economisti e gli operatori finanziari avevano scoperto una forma di trasmutazione del piombo in oro che diversamente dalle alchimie del passato funzionava magnificamente: la creazione di denaro dal nulla o per mezzo di altro denaro a opera delle banche (su tale alchimia si è soffermato il cap. 4). A partire dal 1980, i funzionari del capitale, fossero manager o politici, economisti neoliberali o banchieri, poterono cosí cominciare a credere di avere trovato il mezzo per creare un nuovo ordine mondiale che non solo li poneva al sicuro dai malumori delle masse, ma riusciva pure a far credere alle masse che qualsiasi altro tipo di ordine sarebbe stato peggiore.

Gli eventi dell'ultimo decennio hanno scosso di poco tale credenza. È evidente che per scuoterla a fondo bisognerebbe scardinare le basi strutturali del dominio del capitalismo finanziario. In altre parole, ci vorrebbe una rivoluzione. Ancora una volta dobbiamo chiederci da cosa cominciare. Sono le domande che David Harvey ha riproposto con chiarezza a crisi inoltrata: «Dalle concezioni mentali? Dal rapporto con la natura? Dalla vita quotidiana e dai comportamenti riproduttivi? Dai rapporti sociali? Dalle tecnologie e dalle forme organizzative? Dai processi lavorativi? Dalla conquista delle istituzioni e dalla loro trasformazione radicale?».

La risposta che l'autore avanza è spiccia: «Possiamo cominciare dovunque ci pare, purché non restiamo al punto di partenza». Chi scrive preferirebbe scegliere un elemento circoscritto su cui concentrare l'attacco. Questo elemento non può essere che il neoliberalismo. L'egemonia che questa ideologia ha conquistato sulle coscienze, sulla politica, sulla scuola, sull'università, sull'amministrazione pubblica - dai ministeri alle Regioni ai Comuni di cento abitanti e viceversa - arriva talmente in profondità da sfidare ogni intervento men che radicale. E la piú grande forma di pandemia del XXI secolo. È anche un grande pericolo per la democrazia. Per cui sarebbe necessario combatterla ogni giorno mediante rinnovate dosi di pensiero critico in ogni singolo luogo in cui si riproduce: nella scuola, negli atenei, nei manuali, nei quotidiani, in Tv. Allo sguardo del pensiero critico, il neoliberalismo è nudo. L'ermellino che vanta è in realtà un panno di poco prezzo. Bisogna puntare a moltiplicare il numero di persone che cosí lo vedono. E perché no, dare retta a Keynes, là dove dice (alla fine della Teoria generale ) che prima o poi sono le idee, piú ancora che gli interessi costituiti, a essere davvero pericolose per il meglio o per il peggio. Che è uno dei principi utilizzati con maggior destrezza dal neoliberalismo, insieme con il concetto di egemonia, al fine di costruire un mondo dove il peggio tocca solo ai deboli e il meglio ai piú forti. Bisognerebbe tentare di rovesciare tale principio, allo scopo di costruire qualcosa di meglio a favore dei piú deboli.

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Capitolo undicesimo

Creare occupazione mentre il lavoro scompare


1. È l'occupazione che genera sviluppo, non il contrario.

Crescita, croissance, crescimiento, growth, Wachstum. Mediante le politiche di austerità i governi Ue hanno strangolato la domanda, gli investimenti, la produzione, i posti di lavoro, la protezione sociale; dopodiché, davanti al disastro, si sono messi a invocare la crescita come il rimedio universale di simili mali, a cominciare dalla disoccupazione. Commettendo in tal modo due errori. In primo luogo dando a vedere (o fingendo) di ignorare che detti mali li hanno causati loro, innanzitutto per la loro acquiescenza, se non complicità, nei confronti del sistema finanziario, i cui interessi sono stati anteposti a quelli del 90 per cento dei loro cittadini. In secondo luogo mostrando di credere che la massima priorità negli interventi vada assegnata alla crescita, perché da questa deriverebbe senza fallo l'occupazione. Il che equivale a credere che un'impresa prima aumenti la produzione, in tal modo contribuendo a innalzare il tasso di crescita del Pil, e dopo apra le assunzioni. In realtà, quando un'impresa decide di aumentare la produzione lo fa sulla base delle informazioni di cui dispone circa la probabilità di un aumento della domanda. Soltanto in base a tali informazioni sul futuro decide di effettuare al presente nuovi investimenti in mezzi di produzione (o aumentare lo sfruttamento di quelli esistenti) e al caso di aumentare il numero degli occupati (o ridurre il numero di ore di cassa integrazione) qualora quei nuovi mezzi non bastino a soddisfare la domanda. Il problema è da dove proviene l'informazione che induce un'impresa ad aumentare gli investimenti ed effettuare nuove assunzioni nette nel caso che la domanda superi l'aumento di produttività.

Posto tale quadro, le strade per creare occupazione si riducono a quattro:

1. Nuove grandi invenzioni che promettono alle imprese buoni ricavi per lunghi periodi. Lo furono le ferrovie nell'Ottocento, l'automobile e gli elettrodomestici nella parte centrale del Novecento, le Ict verso la fine del secolo e il primo decennio del Duemila. Siamo qui nel campo delle sferzate esogene di cui il capitalismo ha bisogno per uscire dai periodi di stagnazione endogena verso i quali tende per sua natura.

2. Una seconda strada, che storicamente si è sovente combinata con la prima, è un forte aumento della spesa pubblica sotto forma, ad esempio, di un gran numero di opere infrastrutturali commissionate anche a imprese private o spese in armamenti.

3. Una terza strada vede lo Stato creare direttamente posti di lavoro, tramite una o piú agenzie centrali che stabiliscono le regole e un forte decentramento territoriale delle assunzioni e delle attività, con la partecipazione di enti pubblici e privati: Pmi, aziende comunali, servizi per l'impiego, imprenditoria sociale, cooperative.

4. La quarta strada è quella delle politiche fiscali: lo Stato riduce le imposte alle imprese per incentivarle ad assumere, e/o alle persone per sollecitarle a consumare di piú. La riduzione del cuneo fiscale di cui si parla in Italia, che è dato presumere comporterebbe pure il taglio d'una quota di imposte e contributi sociali che imprese e lavoratori pagano insieme, vorrebbe cogliere ambedue gli obiettivi. Lo scopo ultimo delle politiche fiscali è quello di lasciare una maggior disponibilità di denaro a imprese e contribuenti, sperando che essa faccia aumentare la domanda aggregata.

I governi Ue, in presenza della crisi e dei bilanci gravati dai salvataggi degli enti finanziari, tendono a seguire - nei casi poco frequenti in cui rivolgono l'attenzione al dramma della disoccupazione piuttosto che ai deficit di bilancio - soprattutto la strada delle politiche fiscali. Essendo la piú seguita, esaminiamo quindi anzitutto quest'ultima. Le misure consistenti in politiche fiscali rivolte alle imprese presentano una serie di inconvenienti che ne limitano di molto la capacità di creare occupazione. Anzitutto esse offrono incentivi a pioggia, ossia non distinguono tra i settori di attività economica in cui appare piú o meno utile creare occupazione. In astratto, è vero che un nuovo assunto è pur sempre un disoccupato in meno. Però sarebbe meglio per l'economia e la società se quell'assunzione riguardasse, per dire, una scuola o un centro di ricerca invece che un fast food, una scelta che non si può fare con incentivi del genere. Inoltre bisogna vedere se le imprese aumentano realmente il personale in misura netta grazie alle assunzioni incentivate dagli sgravi fiscali, o piuttosto se non ne approfittano licenziando appena possono un numero ancora maggiore di quarantenni, oppure sostituendo quote crescenti di personale con qualche forma di automazione. Infine le politiche fiscali hanno un effetto incerto nel tempo. Un'impresa che sa di fruire entro un dato anno fiscale di uno sgravio d'imposta per ogni assunzione non è detto si precipiti ad assumere tot operai o impiegati il 2 di gennaio. È possibile che aspetti di vedere come andranno i futuri ordinativi, i crediti che ha richiesto, i pagamenti dei clienti in ritardo di un anno e quelli della pubblica amministrazione in ritardo di due o tre; con il risultato che, nel caso decida di assumere, lo fa magari a novembre. Uno sfasamento troppo lungo a fronte, in Italia, di nove milioni di disoccupati e male occupati in attesa (nell'autunno 2013).

Quanto alle riduzioni d'imposta sulle persone, occorre innanzitutto stabilire a quali strati sociali si rivolgono. Affermando che intendevano con tali misure stimolare i consumi e gli investimenti, i governi di Usa, Francia, Germania, Regno Unito negli anni Novanta e primi anni Duemila hanno ridotto di preferenza le imposte ai ricchi e super-ricchi, per un totale che, su base decennale, ammonta a trilioni di dollari e di euro. Il problema è, come s'è detto nei capitoli precedenti, che i ricchi non possono consumare piú di tanto, mentre i loro investimenti sono diretti in prevalenza al sistema finanziario, giacché questo promette di assicurare rendimenti assai superiori a confronto di quelli effettuati in attività produttive. Quanto alla riduzione di imposte per il resto della popolazione - diciamo il 90 per cento o poco meno - presenta due inconvenienti, se lo scopo è quello di creare occupazione in una situazione di crisi. In primo luogo, dato che si tratta della larghissima maggioranza dei contribuenti, la riduzione non può essere che di entità minima per ciascun contribuente, per cui minimo sarà lo stimolo a consumare di piú. In secondo luogo, non è affatto certo che, nel corso di un lungo periodo di recessione, le riduzioni di imposta si trasformino quasi subito, e per intero o almeno in gran parte, in un aumento della domanda aggregata. È possibile, ad esempio, che servano a ricostituire i risparmi intaccati dalla crisi. Infine, posto che le imprese credano che i consumi saliranno stabilmente, e non è scontato, dovranno fare degli investimenti, che si tradurranno semmai in maggiore occupazione soltanto dopo un periodo inevitabilmente lungo.

Dagli Usa proviene un caso recente ed esemplare per attestare la scarsa efficacia delle politiche fiscali onde creare occupazione.

[...]

La strada numero 1 per creare occupazione non si inventa: sono le invenzioni che la creano.

[...]

La strada numero 2 consiste in una forma di keynesianesimo emergenziale: l'alto tasso di disoccupazione spinge lo Stato ad accrescere fortemente la domanda di beni e servizi, sia in campo civile sia in campo militare, confidando che tali spese si trasformino rapidamente in posti di lavoro.

[...]

Veniamo quindi alla terza strada, la creazione diretta di occupazione da parte dello Stato. L'idea ha una lunga storia, ma è soprattutto con gli anni Novanta che ha assunto basi teoriche approfondite. Si collega palesemente alla vecchia (e ambigua) idea di pieno impiego o piena occupazione, ma diversamente da quasi tutte le versioni di questa, pone in primo piano l'intervento diretto dello Stato. Viene discussa sotto diversi nomi: «datore di lavoro di ultima istanza» (employer of last resort, Elr), «lavoro (o impiego) garantito» (job guarantee, Jg), «occupazione piena zeppa» (full stock employment). Gli autori sono quasi tutti americani, anche se il loro padre intellettuale resta l'inglese Keynes. I tratti piú significativi di un programma di piena occupazione basato sul concetto di Elr - ma oggi si preferisce parlare di Jg - sono stati indicati da uno dei suoi maggiori proponenti, Randall Wray, almeno tre lustri fa:

La prima componente della proposta è relativamente semplice: il governo [s'intende qui lo Stato] agisce come il datore di lavoro di ultima istanza, assumendo tutte le forze di lavoro che non riescono a trovare occupazione nel settore privato [...] Il programma è elaborato per offrire un posto a chiunque sia disponibile a lavorare, lo desideri e ne sia capace [...] I lavoratori Elr possono venire licenziati, con restrizioni poste sulla riassunzione. Quindi il programma fornisce una opportunità garantita di lavorare, però a fronte di standard di prestazione.

Il maggior vantaggio dell'approccio Elr o Jg a paragone degli stimoli fiscali va visto nella rapidità con cui si può creare in breve tempo gran numero di posti di lavoro (del come finanziarli tratta una successiva sezione). Ne esistono però altri. Va detto anzitutto che non è una politica concepita esclusivamente per i periodi di recessione. Può contribuire a tenere piú alto il tasso di occupazione quali che siano le condizioni in essere dell'economia. È una politica che non dipende dalla domanda aggregata per produrre una piena occupazione. Inoltre può e deve essere disegnata in modo mirato al fine di occupare per primi gli appartenenti a determinati gruppi sociali (tipo, ad esempio, i giovani delle grandi città aventi istruzione scarsa, come avvenne nel New Deal), quali fasce d'età, zone del Paese, lunghezza del periodo di disoccupazione o di precariato. Inoltre non fa affidamento a un unico settore, pubblico o privato. Con le parole di un'esperta di questi studi: «Un programma Elr potrebbe essere attuato tramite enti del settore pubblico come di quello privato [...] operanti in partenariato». Ma di rilevanza ancora maggiore è la possibilità di indirizzare l'occupazione a interventi in specifici settori di pubblica utilità che il settore privato non ha interesse ad affrontare da solo.


2. I costi economici, sociali e personali della disoccupazione.

La proposta Elr o Jg si richiama a due giustificazioni di fondo. La prima è che la disoccupazione va considerata un male grave, peggiore del debito pubblico. La seconda è che avere un lavoro va considerato un diritto primario della persona. In questa sezione si tocca la questione dei costi che la disoccupazione induce a diversi livelli dell'organizzazione sociale. La sezione successiva affronta la questione del diritto al lavoro.

La disoccupazione comporta rilevanti costi economici, da individuare nel Pil che non viene prodotto a causa di essa, ben piú che nel costo dei sostegni al reddito dei disoccupati. I 25 milioni di disoccupati rilevati nella Ue al 2013 comportano una riduzione del Pil potenziale dell'intera Unione dell'ordine del 5 per cento l'anno, corrispondente a circa 800 miliardi di euro. Per l'Italia, si tratta di 80 miliardi di ricchezza reale che non viene creata. L'erosione di capacità professionali conseguente alla disoccupazione di lunga durata genera anch'essa costi rilevanti, vuoi per la perdita di produttività del lavoro vuoi per i corsi di formazione intesi tempo dopo a recuperarle.

Di là dai costi economici in senso stretto, la disoccupazione comporta costi sociali quali povertà, perdita della casa, criminalità, denutrizione, abbandoni scolastici, antagonismo etnico, famiglie spezzate, tensioni sociali potenzialmente esplosive. Ne parlava in questi termini già vent'anni fa un economista che si è battuto a lungo per dimostrarlo (era William Vickrey, premio Nobel 1996). E Amartya Sen cosí si è espresso:

Le pene della disoccupazione possono essere enormemente piú gravi di quanto possano suggerire le statistiche sulla distribuzione del reddito [...] I due problemi sono, com'è ovvio, interrelati, ma ciascuno è a modo suo significativo e va distinto dall'altro. I loro effetti negativi sono cumulativi, ed essi agiscono individualmente e congiuntamente nello scardinare e sovvertire la vita personale e sociale.

Negli stessi anni un costituzionalista americano riassumeva cosí i costi personali della disoccupazione:

Se un lavoro stabile, adeguatamente pagato, è una fonte d'indipendenza, la sua assenza significa dipendere da altri; se è un percorso verso la realizzazione personale, la sua assenza significa fallimento; se offre la possibilità di salire su per la scala socioeconomica, la sua assenza vuol dire che la propria posizione sociale è bloccata o in declino; se provvede sicurezza alla famiglia, la sua assenza comporta insicurezza; se sollecita la stima di altri, la sua assenza significa vergogna.

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8. Una proposta per la Ue: assumere la piena occupazione come fine.


Nella versione consolidata del Trattato sull'Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (392 pagine, protocolli e allegati compresi), l'espressione «piena occupazione» ricorre una sola volta, all'articolo 3. Non bastasse, il testo rende chiaro che essa non è affatto un impegno dell'Unione, bensí dovrebbe essere l'esito dell'economia sociale di mercato fortemente competitiva che l'Unione vuole instaurare. In simile miopia rispetto a un tema d'importanza vitale per la sua popolazione si riflette il predominio delle teorie economiche neoliberali, che hanno orientato fin dagli anni Settanta la redazione dell'intero Trattato (e del precedente, che istituiva la Comunità economica europea). Esse guidano tuttora le politiche dei governi Ue che in massa le hanno fatte proprie, e sono incorporate nelle direttive e raccomandazioni emanate di continuo da Commissione europea, Bce, Fmi, Ocse, cui i governi sono tenuti a obbedire - qualora mai essi sognassero di non farlo. Una politica economica mirante alla piena occupazione richiede inevitabilmente l'intervento dello Stato, un'opzione che il neoliberalismo considera esiziale - quasi non si fossero dimostrate tali le politiche che esso ha ispirato. Al massimo il neoliberalismo può accettare il concetto di Nairu prima richiamato, definibile anche come «tasso naturale di disoccupazione»; però se il tasso effettivo di disoccupazione risulta al di sopra di quello naturale, non si deve intervenire su di esso - sostiene il neoliberalismo - bensí stimolare l'economia mediante politiche fiscali e monetarie.

Occorre tuttavia chiedersi se di fronte alla vera e propria emergenza nazionale rappresentata dalla disoccupazione e dal precariato non sia possibile raccogliere le forze sociali, politiche e culturali necessarie per abbattere il muro rappresentato dall'ideologia neoliberale, dal Trattato Ue e dai governi europei che l'hanno finora applicata sotto forma di politiche economiche e sociali regressive, affinché la piena occupazione venga finalmente assunta come obiettivo della politica dell'Unione e sia riconosciuto il principio che essa può venire perseguita efficacemente soltanto con politiche pubbliche. Tra i piani su cui si potrebbe procedere, anche in modo separato, andrebbero collocati i seguenti:

• integrazione e modifiche degli articoli 3 e 127 del Trattato Ue, nonché dell'articolo 2 dello Statuto del Sistema europeo di Banche centrali (Sebc) e della Bce al fine di collocare la piena occupazione tra i fini preminenti dell'Unione e delle sue istituzioni finanziarie;

• richiesta alla Bce di includere tra i principi generali per le operazioni di credito a banche dell'Eurozona la condizione per cui un credito viene concesso soltanto se appare sicuramente promuovere l'occupazione netta nel Paese dell'ente richiedente;

• emissione da parte di uno Stato membro - quale l'Italia - di un prestito obbligazionario, dell'ordine di 20-25 miliardi per i principali Paesi, finalizzato unicamente alla creazione di lavoro mediante programmi del genere Elr o Jg, e parallela richiesta alla Bce di acquistarne una grossa quota sul mercato secondario nel quadro delle sue transazioni monetarie dirette.

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Capitolo dodicesimo

Riportare la finanza al servizio dell'economia reale


Il sistema europeo dell'alta finanza, che incorpora insieme con quello americano il regime di accumulazione finanziaria sviluppatosi a partire dagli anni Settanta-Ottanta in risposta alla stagnazione del regime produttivista, dovrebbe essere riformato a fondo per diverse ragioni. In primo luogo esso ha sviluppato in misura patologica la facoltà di creare denaro dal nulla, praticata in specie dalle banche private ma anche da altri enti finanziari. In secondo luogo presenta gravi difetti strutturali, che rendono impossibile sottoporlo a qualsiasi regolazione efficace e lo hanno fatto diventare vulnerabile al punto che una seconda crisi, persino piú grave di quella del 2007-13 e oltre, potrebbe esplodere entro pochi anni. In terzo luogo, a causa delle predette caratteristiche esso non è di alcuna utilità per l'economia reale, meno che mai per creare occupazione, nonché per la necessaria transizione a un modello produttivo ecologicamente sostenibile, di fronte al fallimento dell'«economia della crescita» in cui si compendiava il regime produttivista. Un'economia, ha scritto un eco-economista, Kent Klitgaard, «che deve produrre crescita al fine di creare profitti e occupazione ma nel frattempo è semplicemente incapace di generare la crescita che ci vorrebbe [...] Noi cresciamo al tempo stesso troppo e troppo poco».

A fronte di tali preoccupanti caratteristiche del sistema finanziario, nelle istituzioni Ue sono in discussione, da anni, varie proposte di riforma che riguardano alcune dei suoi difetti strutturali, altre la necessità di sorvegliarlo in modo piú efficace. In generale sono proposte assai circoscritte, a paragone di quelle formulate da numerosi esperti, centri di ricerca universitari e fondazioni. Un po' meno ampia, ma pure consistente, è l'elaborazione di proposte che muovono dall'esigenza di modificare i rapporti del sistema finanziario con l'economia reale. Per contro la discussione in merito alla necessità di ridurre drasticamente la facoltà delle banche di creare denaro appare per ora ristretta a pochi accademici e centri studi. Le proposte per riformare il sistema finanziario della Ue si possono dunque far rientrare in almeno tre categorie: a) le blande riforme strutturali di cui si discute sia in sedi istituzionali, quali la Commissione europea e il Parlamento europeo, ivi comprese quelle incentrate sul bisogno di una maggiore sorveglianza del sistema da parte della Ce e della Bce, sia in alcuni Parlamenti nazionali; b) le riforme piú profonde, che stando al parere di molti ricercatori sarebbero realmente necessarie non solo per ovviare all'instabilità intrinseca del sistema, ma per riportarlo al servizio dell'economia reale; c) infine, quelle che oltre alle riforme di maggior incidenza strutturale includono misure per eliminare o quantomeno ridurre fortemente la facoltà delle banche private di creare denaro dal nulla. Tra le varie proposte esistono non poche sovrapposizioni, per cui un loro esame dovrà limitarsi, per cosí dire, ai tratti archetipici delle principali di esse.

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Pagina 315

A partire dal 2007 le maggiori banche di investimento del mondo, americane ed europee, hanno conosciuto una grave crisi. Tre di esse (Bear Sterns, Lehman Brothers, Merrill Lynch) non esistono piú come società indipendenti. Altre due (Goldman Sachs, JP Morgan) hanno cambiato statuto, assumendo quello di bank holding companies. Quasi tutte, anche quelle europee, hanno subito pesanti perdite - in buona parte trasferite per vie dirette o indirette ai bilanci pubblici, o alleviate da interventi legislativi ad hoc. Da dove trae origine una simile crisi? La causa principale, si ritiene, va vista nell'eccesso di leveraggio. Infatti, al fine di concedere un elevato volume di prestiti alle società che intendono effettuare acquisizioni, le banche di investimento devono indebitarsi, contraendo a loro volta prestiti a breve (tipo i repos, gli accordi di riacquisto a termine) e a lunga scadenza (tipo le obbligazioni). In tal modo accrescono a dismisura il loro effetto di leva, il rapporto fra capitale proprio e capitale prestato o investito - prendendolo a prestito da terzi. Alla vigilia della crisi, si stima che le principali banche di investimento americane, nonché quelle europee operanti negli Usa non meno che nel vecchio continente - Ubs, Crédit Suisse, Deutsche Bank - operassero con un effetto di leva pari o superiore a 33 a 1. Almeno dieci punti in piú della media delle banche commerciali. Ciò significa che per ogni 1000 dollari o euro investiti mediamente da una banca d'investimento per sostenere o partecipare a un'acquisizione, 970 erano presi a prestito. Nel caso che l'investimento avesse perso anche solo 5 punti percentuali in valore, il capitale proprio - corrispondente al 3 per cento dell'investimento, pari a 30 dollari o euro - era del tutto insufficiente per ripagare le perdite. La conseguenza di tale squilibrio era una sola: il fallimento. Salvo che arrivasse lo Stato a salvare il salvabile.

Fu precisamente quello che avvenne a partire dall'estate del 2007. Tutte le prime cinque banche americane del settore in questione si trovarono rapidamente in gravi difficoltà. A metà marzo 2008 Bear Sterns, dopo avere annunciato perdite per vari miliardi, viene incorporata da JP Morgan al risibile prezzo di 10 dollari per azione - meno di un tredicesimo del valore di pochi mesi prima. In realtà Morgan non paga quasi nulla, perché 30 miliardi di finanziamento sono forniti dalla banca di New York della Fed. Invece Lehman Brothers fallisce a metà settembre 2008 perché il governo americano si rifiuta di salvarla, per motivi finora non ben chiariti. Lo stesso mese Goldman Sachs e Morgan Stanley vengono autorizzate dalla Fed a adottare lo statuto di bank holding companies, il che permette loro di accedere agli aiuti statali non disponibili per le banche di investimento - e di continuare a svolgere esattamente le rischiosissime operazioni di prima. Merrill Lynch viene acquisita da Bank of America ai primi del 2009 e diventa cosí la sua divisione investimenti.

Anche le banche europee citate sopra subiscono perdite per miliardi, sia negli Usa sia in Europa. Ubs viene salvata dal governo svizzero con un'iniezione di 50 miliardi di franchi. In nuce, si può quindi affermare che nell'arco di diversi decenni le banche di investimento abbiano incorporato il peggio del «capitalismo casinò», per dirla con Keynes: irresponsabilità sociale, avidità sfrenata, operazioni ad altissimo rischio, manovre finanziarie a dir poco discutibili, contributo allo sviluppo e al consolidamento dell'economia reale pressoché inesistente o negativo, compensi astronomici ai dirigenti pur in presenza di bilanci disastrosi. Quanto basta per riconoscere che qualsiasi seria riforma del sistema finanziario Ue dovrebbe recare ai primissimi posti la separazione strutturale, e non soltanto legale o organizzativa, delle banche commerciali dalle banche di investimento - fatta salva l'opportunità di sottoporre a qualche forma di regolazione pure queste ultime. Quanto alle dimensioni massime che le banche commerciali non dovrebbero superare, vi torneremo tra poco.

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4. Eliminare o circoscrivere il potere delle banche private di creare denaro.


Se fossero introdotte a livello Ue, le riforme compendiate nella sezione precedente rappresenterebbero un lungo passo al fine di riportare la finanza al servizio dell'economia reale, abbattendo il predominio che il regime di accumulazione finanziaria le ha assicurato negli ultimi trent'anni. Nonostante ciò, resterebbe lontana la meta di mettere finalmente il potere di creare denaro sotto il controllo della collettività, ovvero di uno Stato democraticamente governato, dopo che per secoli le banche private hanno fruito del privilegio di creare masse crescenti di denaro dal nulla, sino a che al presente il denaro bancario ha superato il 95 per cento del totale in circolazione. Ponendo in tal modo gli Stati nella condizione di doversi indebitare prendendo in prestito da esse, tramite il meccanismo delle obbligazioni, somme crescenti di denaro a un elevato tasso di interesse, anziché creare essi medesimi, a interesse zero, il denaro da impiegare per sostenere l'economia, l'occupazione, la spesa sociale.

Al fine di togliere alle banche private o contenere il potere di creare denaro dal nulla è indispensabile togliere loro la facoltà, attualmente quasi illimitata, di concedere prestiti non coperti da depositi o da capitale proprio, o perlomeno ridurla in misura drastica. Questa idea, che ha ripreso a circolare con forza ai giorni nostri anche nella Ue per via della crisi iniziata nel 2007, è stata formulata in varie forme negli anni Trenta da economisti americani di differente orientamento teorico e politico, quale rimedio su base monetaria alla crisi del 1929. Uno dei suoi proponenti piú risoluti fu il professor Henry Simons dell'Università di Chicago, per cui l'insieme di queste proposte divenne noto, tempo dopo, con il nome di Piano di Chicago. L'esposizione piú chiara e sintetica si trova però in un'opera di Irving Fisher del 1935. Il nocciolo della proposta è l'eliminazione della riserva frazionaria, per cui una banca dovrebbe sempre disporre di denaro contante in misura pari all'ammontare dei depositi che ha in bilancio. Supponendo (realisticamente) che una banca operante in modo tradizionale disponga di contante per un ammontare del 10 per cento dei depositi a vista, definiti da Fisher «denaro-assegno», il 90 per cento dovrebbe essere consegnato come collaterale a una «Commissione monetaria» che in cambio verserebbe alla banca l'equivalente in contanti — formato da denaro legale da essa creato sotto controllo governativo. Secondo Fisher da tale riforma la società avrebbe ricavato i seguenti vantaggi:

1. Non si verificherebbero piú corse agli sportelli delle banche commerciali, perché il 100 per cento del denaro dei depositanti sarebbe sempre presente nella banca (o sarebbe comunque disponibile) e i clienti potrebbero sempre incassare i loro averi [...]

2. Vi sarebbe essenzialmente un minor numero di collassi bancari, perché i maggiori creditori di una banca commerciale, quelli che potrebbero provocare un collasso, sarebbero i suoi correntisti, i cui averi sarebbero coperti al 100 per cento [...]

3. Il debito statale gravato da interessi verrebbe decisamente a diminuire, poiché gran parte dei prestiti statali vigenti sarebbe trasmessa dalle banche alla Commissione monetaria (che rappresenta il governo) [...].

4. Il sistema monetario sarebbe semplificato, poiché non esisterebbe piú alcuna differenza sostanziale tra il «denaro da portafoglio» [quello che sta fisicamente in quest'ultimo] e il «denaro-assegno» [...]

5. La funzione delle banche sarebbe semplificata [...] poiché sarebbe introdotta una netta separazione tra depositi a vista e risparmi, i primi garantiti al 100 per cento da contante, i secondi da considerare come un investimento che non richiede la stessa copertura [...]

6. Episodi gravi di inflazione e deflazione sarebbero ostacolati, perché le banche perderebbero il loro attuale potere di creare e poi distruggere «denaro-assegno» [...]

7. Boom e depressioni sarebbero per la massima parte alleviati, perché alla base essi hanno origine anzitutto da inflazione e deflazione [...]

8. Il controllo di industrie da parte delle banche sarebbe per la massima parte evitato, perché le industrie cadono nelle mani delle banche soltanto nei periodi di depressione.


Nel testo citato Fisher rispondeva anche alle principali obiezioni cui poteva esporsi la sua proposta. Le banche avrebbero potuto continuare a prestare tutto il denaro che volevano, a condizione di non crearlo dal nulla e di utilizzare fonti solide quali il capitale proprio, il denaro depositato dai clienti su conti di risparmio, di cui non potrebbero disporre scrivendo assegni, piú il denaro ricevuto per l'estinzione di crediti. Le banche stesse non sarebbero state danneggiate. Al contrario, avrebbero partecipato ai guadagni che si sarebbero originati nel Paese grazie a un sistema monetario piú solido e al ritorno del benessere, in forza dei quali avrebbero ricevuto in deposito maggiori risparmi. Infine arriva la risposta alla domanda chiave: il piano significa nazionalizzare il denaro e le banche? Fisher rispondeva categoricamente: il denaro sí; le banche, no.

Di recente il Piano di Chicago è stato rivisitato da due economisti del Fmi. Le conclusioni cui giungono sono piuttosto sorprendenti. A quasi ottant'anni di distanza, le loro analisi e simulazioni, eseguite con complessi modelli matematici, «convalidano pienamente le affermazioni di Fisher», essi scrivono. E proseguono:

Il Piano di Chicago potrebbe ridurre in modo significativo la volatilità dei cicli economici causata da rapidi mutamenti nell'atteggiamento delle banche verso il rischio del credito, eliminerebbe le corse agli sportelli, e condurrebbe a una istantanea e larga riduzione dei livelli del debito sia pubblico che privato. Questo risultato sarebbe ottenuto facendo del denaro emesso dallo Stato, che rappresenta capitale della nazione piuttosto che debito, l'attivo liquido centrale dell'economia, mentre le banche si concentrerebbero sul loro punto di forza, la concessione di credito a progetti di investimento che richiedono competenza in tema di monitoraggio e gestione del rischio. Noi troviamo che i vantaggi del Piano di Chicago vanno persino al di là di quelli preconizzati da Fisher.

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