Autore Masha Gessen
Titolo Il futuro è storia
EdizioneSellerio, Palermo, 2019, Il contesto 95 , pag. 712, cop.fle., dim. 13,5x21x3,4 cm , Isbn 978-88-389-3853-5
OriginaleThe Future is History [2017]
TraduttoreAndrea Grechi
LettoreCristina Lupo, 2019
Classe paesi: Russia , storia: Europa












 

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Indice


Il futuro è storia

Personaggi                               11

Prologo                                  13


    Parte prima. Nati nell'Urss

 1. Nati nel 1984                        21
 2. Vite ai raggi X                      37
 3. Privilegio                           59
 4. Homo sovieticus                      77


    Parte seconda. Rivoluzione

 5. Mago dei cigni                      107
 6. L'Esecuzione della Casa Bianca      144
 7. Tutti vogliono essere milionari     174


    Parte terza. Disfacimento

 8. Il dolore negato                    199
 9. Vecchie canzoni                     235
10. Da capo, tutto da capo              266


    Parte quarta. Resurrezione

11. La vita dopo la morte               295
12. La minaccia arancione               322
13. Tutto in famiglia                   354


    Parte quinta. Protesta

14. Il futuro è storia                  397
15. Buduscego net                       428
16. Nastri bianchi                      446
17. Masa: 6 maggio 2012                 486


    Parte sesta. Repressione

18. Serëža: 18 luglio 2013              511
19. Lëša: 11 giugno 2013                541
20. Una nazione divisa                  572
21. Žanna: 27 febbraio 2015             611
22. Guerra per sempre                   631


Epilogo                                 646

Note                                    661

Indice dei nomi                         697

Ringraziamenti                          705


 

 

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Pagina 13

Prologo



Mi sono state raccontate molte storie sulla Russia, e alcune ne ho raccontate anche io. Quando avevo undici o dodici anni, sul finire degli anni Settanta, mia madre mi raccontava che la Russia era uno Stato totalitario; lo paragonava al regime nazista, una considerazione e un'affermazione straordinarie per un cittadino sovietico. I miei genitori mi dicevano che il regime sovietico sarebbe durato in eterno, ed era per quel motivo che dovevamo lasciare il paese.

Quando ero una giovane giornalista, alla fine degli anni Ottanta, il regime sovietico cominciò a vacillare e poi si disintegrò in un cumulo di macerie, o così si raccontava. Mi unii alle schiere di giornalisti che documentavano, in preda all'entusiasmo, l'adesione del mio paese alla libertà e il suo cammino verso la democrazia.

Dai trenta ai cinquant'anni, mi trovai a documentare la morte di una democrazia che non era mai veramente nata. Circolavano versioni diverse, a questo riguardo: molti erano dell'idea che la Russia avesse semplicemente fatto un passo indietro nella strada verso la democrazia; altri davano la colpa a Vladimir Putin e al Kgb; altri ancora, a una presunta passione dei russi per il pugno di ferro; e, infine, c'era chi se la prendeva con l'Occidente, autoritario e tracotante. A un certo punto, arrivai a convincermi che, prima o poi, avrei scritto la storia del declino e della caduta del regime di Putin. Poco tempo dopo, mi ritrovai a lasciare nuovamente la Russia, ma questa volta ero una persona di mezza età, con dei figli; e com'era avvenuto a mia madre prima di me, spiegavo loro per quale motivo non potevamo più vivere nel nostro paese.

Le ragioni erano sufficientemente chiare. Da quasi due decenni i cittadini russi stavano assistendo alla perdita dei propri diritti e delle proprie libertà. Nel 2012, il governo di Putin ha dato avvio a un giro di vite in piena regola. Il paese ha dichiarato guerra al nemico, dentro e fuori i confini. Nel 2008 aveva invaso la Georgia e nel 2014 ha attaccato l'Ucraina, annettendo vasti territori. La Russia stava anche conducendo una guerra dell'informazione contro la democrazia occidentale, come idea e come attuazione concreta. Gli osservatori occidentali ci hanno messo un po' a capire cosa stesse avvenendo, ma oramai le vicende delle varie guerre della Russia sono ben note. Nell'odierno immaginario americano, la Russia ha assunto nuovamente il suo ruolo di impero del male e minaccia esistenziale.

Il giro di vite, le guerre, e anche il ritorno della Russia al suo antico ruolo sulla scena internazionale sono cose effettivamente avvenute, di cui sono stata testimone, e io volevo raccontare quella storia. Ma volevo anche raccontare quel che non è avvenuto: la storia della libertà che non è stata abbracciata e della democrazia che non è stata desiderata. Come raccontare una storia del genere? Dove individuare le ragioni di queste mancanze? Da quale momento cominciare, e da chi?

I libri di maggior successo sulla Russia, o su qualsiasi nazione in genere, rientrano in due grandi categorie: quelli che parlano dei potenti (gli zar, Stalin, Putin e le loro cerchie), che si pongono l'obiettivo di spiegare in che modo il paese è stato ed è governato, e quelli che parlano della «gente comune», che si prefiggono di spiegare che cosa significa vivere in questo paese. Ho scritto libri di entrambi i generi e ne ho letti tanti altri. Ma anche i migliori di questi libri - anzi, forse specialmente i migliori - forniscono solamente una visione parziale della storia di un paese. Se concepiamo il giornalismo, come lo concepisco io, nei termini della favola indiana dei sei uomini ciechi e dell'elefante, la gran parte dei libri sulla Russia descrivono soltanto la testa o le zampe dell'elefante. E anche se alcuni libri forniscono descrizioni della coda, della proboscide e del corpo, sono pochissimi quelli che tentano di spiegare in che modo l'animale si tiene in piedi, o che tipo di animale è. La mia ambizione, in questo caso, era sia di descrivere sia di definire l'elefante.

Ho deciso di incominciare dal declino del regime sovietico: forse l'assunto secondo cui è «collassato» andava rimesso in discussione. Ho scelto inoltre di focalizzare l'attenzione sulle persone per le quali la fine dell'Urss era stata il primo ricordo formativo, o uno dei primi: la generazione dei russi nati nella prima metà degli anni Ottanta. Cresciuti nel decennio successivo, forse quello più controverso nella storia russa, alcuni lo ricordano come un'epoca di liberazione e riscatto, mentre per altri rappresenta caos e dolore. Le persone di quella generazione hanno vissuto le loro intere vite adulte in una Russia guidata da Vladimir Putin. Nella scelta dei protagonisti del mio racconto, sono inoltre andata in cerca di individui le cui esistenze erano state radicalmente trasformate dal giro di vite avviato da Putin nel 2012. Lëša, Maša, Serëža e Žanna, quattro giovani provenienti da città e famiglie diverse, e anche da differenti realtà del mondo sovietico, mi hanno permesso di raccontare che cosa significava crescere in un paese che si stava aprendo e diventare adulti in una società che si stava chiudendo.

Nella ricerca di questi protagonisti, ho fatto quello che i giornalisti fanno abitualmente: cercare persone che fossero sia «ordinarie», nella misura in cui le loro esperienze incarnavano le esperienze di milioni di altri individui, sia fuori dal comune: intelligenti, appassionate, introspettive, in grado di raccontare vividamente ed efficacemente le proprie storie. Ma la capacità di trovare un senso nella propria esistenza è strettamente connessa alla libertà. Il regime sovietico privò la popolazione non solo della possibilità di vivere liberamente, ma anche della capacità di comprendere appieno quel che le era stato sottratto, e in che modo. Il regime si prefiggeva l'obiettivo di annientare la memoria storica e individuale, nonché gli studi teorici sulla società. L'offensiva concertata contro le scienze sociali fece sì che, per decenni, gli studiosi occidentali si trovassero in posizione migliore rispetto ai loro omologhi russi per interpretare le vicende della Russia, ma, in quanto osservatori esterni, con accesso limitato alle informazioni, essi non erano di certo in condizione di colmare quella lacuna. Ben più che una questione puramente accademica, si trattò di un attacco all'umanità stessa della società russa, che smarrì gli strumenti e persino il linguaggio necessari per comprendersi. Le uniche storie su se stessa, che la Russia raccontava a se stessa, erano quelle create dagli ideologi sovietici. Se un paese, nell'epoca contemporanea, è privo di sociologi, psicologi o filosofi, che cosa può sapere di sé? E i suoi cittadini, che cosa possono sapere di loro stessi? Mi sono resa conto che mia madre, per il semplice fatto di classificare il regime sovietico paragonandolo a un altro, aveva avuto bisogno di un grado di libertà straordinario, che le derivava, almeno in parte, dall'aver già deciso di espatriare.

Per riuscire a interpretare l'enorme tragedia legata alla perdita degli strumenti di comprensione intellettuale, mi sono messa alla ricerca di russi che avevano tentato di maneggiarli, sia in epoca sovietica sia in epoca post-sovietica. Il cast di personaggi è così arrivato a comprendere un sociologo, uno psicoanalista e un filosofo. Se esistono persone che dispongono degli strumenti per definire l'elefante, non possono essere che loro. Non sono né «persone ordinarie» - le storie delle loro battaglie per riportare in vita le rispettive discipline sono tutt'altro che rappresentative - né «individui potenti»: sono persone che cercano di comprendere. Nell'era di Putin ile scienze sociali sono state sconfitte e degradate in nuovi modi, e i protagonisti da me individuati hanno dovuto fronteggiare una nuova serie di scelte impossibili.

Intrecciando queste storie, mi immaginavo nell'atto di scrivere un lungo racconto russo (non di finzione) che mirasse a cogliere la trama delle tragedie individuali e al contempo le vicende e le idee che le avevano plasmate. Il risultato, mi auguro, è un libro che illustra non solo che cosa ha significato vivere in Russia negli ultimi trent'anni, ma anche cos'è stata la Russia in questo lasso di tempo, cos'è diventata e in che modo. Anche l'elefante fa una breve apparizione (si veda pagina 529).

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Pagina 21

1
Nati nel 1984





MAŠA


Il giorno del settantesimo anniversario della grande rivoluzione socialista d'Ottobre, la nonna di Maša, una scienziata aerospaziale, portò la nipote di tre anni e mezzo alla chiesa di San Giovanni il Guerriero, nel centro di Mosca, per battezzarla. Maša era all'incirca tre anni più grande di tutti gli altri bambini presenti in chiesa quel giorno. La nonna, Galina Vasil'evna, aveva cinquantacinque anni, più o meno l'età della maggior parte degli adulti. Erano anziani - a cinquantacinque anni le donne sovietiche andavano in pensione, ed era raro incontrare una donna di quell'età che non fosse ancora diventata nonna - ma non così anziani da ricordare l'epoca nella quale in Russia la religione era praticata pubblicamente e orgogliosamente. Fino a poco tempo prima, Galina Vasil'evna non aveva dato molto peso alla religione. Sua madre andava in chiesa e l'aveva battezzata. Galina Vasil'evna aveva studiato fisica all'università e, benché si fosse laureata prima dell'introduzione obbligatoria del corso sui «Fondamenti scientifici dell'ateismo» in ogni facoltà, le era stato insegnato che la religione era l'oppio dei popoli.

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Pagina 32

Quando Žanna arrivò ai tre anni, o giù di li, gli argomenti di conversazione, attorno al tavolo di quella vecchia casa di legno, cominciarono a cambiare. Dall'effetto Doppler anomalo, o da qualsiasi altra questione teorica Boris avesse in mente, si passò a parlare dell'impianto di generazione di calore a energia nucleare che stava per essere costruito a Gor'kij. I lavori di scavo erano già iniziati. Dal terribile incidente avvenuto nella centrale nucleare di Černobyl, in Ucraina, era trascorso appena un anno; il governo aveva cercato di stendere una coltre di silenzio sulla catastrofe, ma era riuscito solo a rallentare la circolazione delle informazioni. Oramai, l'entità dei danni e dei rischi era di dominio pubblico. Dina Jakovlevna, che era una pediatra, assillava il figlio: «Come puoi, tu che sei un fisico, restare a guardare quando un affare del genere sta per essere costruito in piena città?».

Da quando Žanna, Raisa, Boris e anche Dina Jakovlevna erano venuti al mondo, i cittadini sovietici erano sempre rimasti a guardare mentre il governo metteva deliberatamente in pericolo le loro vite, ma qualcosa era cambiato. Nel 1985, il nuovo segretario generale del Partito comunista - il capo di Stato dell'Unione Sovietica - aveva annunciato quello che definì «un nuovo corso». Non era il primo segretario generale a pronunciare parole simili, e non era nuovo neanche il termine perestrojka, che significa «ricostruzione» o «ristrutturazione», ma adesso qualcosa stava effettivamente cambiando. Dina Jakovlevna andò a una manifestazione di protesta contro il progetto dell'impianto nucleare; solo un anno prima, una manifestazione che non fosse stata preventivamente autorizzata dal Partito sarebbe stata considerata un crimine contro lo Stato, e i partecipanti sarebbero stati arrestati e processati. Dopo sette anni di confino, Sacharov ebbe il permesso di lasciare Gor'kij e tornare a Mosca. Il fisico, tra gli inventori della bomba all'idrogeno sovietica, si era da tempo convertito in un paladino della sicurezza nucleare. Boris andò a trovarlo nel suo appartamento di Mosca e registrò un'intervista nella quale il grand'uomo prendeva posizione contro l'impianto nucleare; Sacharov concluse l'intervista, pubblicata sul quotidiano locale Gor'kovskij rabočij («Il lavoratore di Gor'kij»), affermando: «Spero che riusciate a cambiare il corso degli eventi. Sono completamente al vostro fianco».

Alla fine, il progetto di costruzione dell'impianto nucleare fu abbandonato e Boris aveva trovato qualcosa che lo appassionava come o forse più della fisica. Il termine politika cominciò a risuonare con sempre maggior frequenza attorno al tavolo, in seguito accompagnato dalla parola vybory («elezioni»).


Sia Maša che Žanna erano nate in Unione Sovietica, lo Stato totalitario più longevo del mondo, nel 1984, l'anno che nell'immaginario occidentale era assurto a emblema del totalitarismo. Il libro di George Orwell non poteva certo essere pubblicato in una società che corrispondeva esattamente a quanto descritto nell'opera, pertanto i lettori sovietici non vi ebbero accesso fino al 1989, quando le restrizioni della censura si allentarono quanto bastava per consentire alla principale rivista letteraria del paese di stamparne una traduzione. Nel 1969, però, un giornalista di nome Andrej Amal'rik aveva pubblicato - vale a dire battuto a macchina e distribuito tra gli amici - un voluminoso saggio intitolato Riuscirà l'Unione Sovietica a sopravvivere fino al 1984?, nel quale sosteneva che il regime era diretto verso l'implosione. Amal'rik, che aveva già scontato un periodo di carcere come prigioniero politico, venne arrestato insieme a un uomo accusato di aver distribuito il libro, ed entrambi furono condannati a una pena detentiva. Nella dichiarazione finale resa in aula, Amal'rik disse: «Capisco bene che processi come questo mirino a spaventare tanta gente - e saranno in tanti a essere spaventati - eppure io credo che un processo di liberazione delle idee sia iniziato e sia ormai irreversibile». Trascorse oltre tre anni dietro le sbarre, seguiti da tre anni di esilio interno, e poi fu costretto a lasciare l'Unione Sovietica. Nel 1980 perse la vita in un incidente stradale, in Spagna, mentre si stava recando a una conferenza sui diritti umani. Il regime sovietico andò avanti e sopravvisse anche al 1984.


Ma fu proprio l'anno successivo che qualcosa cominciò a incrinarsi. La causa fu forse il nuovo segretario generale, Michail Gorbacëv, quando invocò la necessità di un cambiamento e annunciò la glasnost' e la perestrojka? Oppure stava semplicemente dando voce al processo che Amal'rik aveva tentato di descrivere una quindicina di anni prima? Amal'rik aveva sostenuto che l'ideologia marxista non aveva mai fatto veramente presa nel paese, che la Chiesa ortodossa russa aveva perso il controllo sulla popolazione, e che in assenza di un sistema di valori in grado di tenerla unita, l'Unione Sovietica, sollecitata in direzioni opposte da forze sociali aventi aspirazioni diverse, era inevitabilmente destinata all'autodistruzione.

Amal'rik era uno dei rari cittadini sovietici che riteneva il sistema fondamentalmente instabile; la maggior parte lo considerava scolpito nella pietra - o, piuttosto, nel cemento armato di stampo sovietico - ed era convinto che sarebbe durato in eterno. Nell'anno del processo ad Amal'rik, un altro scrittore dissidente, Aleksandr Galič, compose una canzone nella quale descriveva un gruppo di amici che ascoltavano alcune sue registrazioni. Uno di loro era dell'idea che il cantante stesse correndo grossi rischi con le sue battute antisovietiche. «L'autore non ha nulla da temere», risponde il padrone di casa. «Č morto circa cento anni fa» (nel 1974 Galic fu costretto a emigrare e morì nella sua casa di Parigi tre anni dopo, fulminato da una scarica elettrica).

Tutti coloro che riflettevano sull'Unione Sovietica, dentro e fuori il paese, avevano in comune due handicap: dovevano basare le loro conclusioni su conoscenze frammentarie e formularle in un linguaggio inadeguato allo scopo. Oltre a occultare tutte le informazioni essenziali e gran parte di quelle non essenziali dietro un muro di segreti e menzogne, il paese, per decenni, condusse una guerra a tutto campo contro il sapere stesso. La battaglia più simbolica di questa guerra, per quanto non la più violenta, fu combattuta nel 1922, quando Lenin ordinò la deportazione all'estero di almeno duecento (le stime degli storici variano) intellettuali - dottori, economisti, filosofi e altri - per mezzo di quella che divenne nota come la «nave dei filosofi» (in realtà le imbarcazioni furono più d'una). Le deportazioni furono fatte passare per un'alternativa umana alla pena di morte. Le successive generazioni di intellettuali non furono altrettanto fortunate: chi era ritenuto sleale nei confronti del regime veniva imprigionato, spesso giustiziato, e quasi sempre allontanato dalla sua disciplina d'elezione. Con l'evolversi del regime, le restrizioni imposte alle scienze sociali si andarono ampliando e, per effetto del mero trascorrere degli anni, si fecero sempre più profonde. Mentre la corsa agli armamenti incentivava il governo sovietico a coltivare e a rammodernare le scienze esatte e la tecnologia, non c'era nulla - o quasi - che potesse motivare il regime a promuovere lo sviluppo della filosofia, della storia e delle scienze sociali. Queste discipline si atrofizzarono a tal punto che, come scrisse un importante economista russo nel 2015, i maggiori economisti sovietici degli anni Settanta non erano in grado di comprendere il lavoro svolto da quelli che li avevano preceduti di mezzo secolo.

Negli anni Ottanta, agli studiosi di scienze sociali dell'Unione Sovietica mancavano non soltanto le informazioni, ma anche le competenze, le conoscenze teoriche e il linguaggio necessario per comprendere la società in cui vivevano. Pochissimi di loro ci stavano provando, nonostante tutte le avversità e tutti gli ostacoli, e brancolavano nel buio.

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Pagina 52

L'anno era il 1968, e il fatto che il trentottenne Levada definisse se stesso un sociologo e la sua materia sociologia era quasi rivoluzionario. La sociologia non era propriamente bandita in Unione Sovietica, ma il nome della disciplina era stato ridotto a una sorta di parolaccia. Era stato lo stesso Lenin a inaugurarne l'uso offensivo. Il problema con la sociologia era praticamente identico a quello con la psicoanalisi: la materia non si prestava a essere una «scienza» utilizzabile per costruire una nuova società di uomini nuovi. Un anno prima che salpasse la nave dei filosofi, uno degli alleati più stretti di Lenin, Nikolaj Bucharin, pubblicò la Teoria del materialismo storico, una sorta di compendio marxista scritto in un linguaggio popolare e accessibile, rivolto al proletariato. In questo manuale Bucharin fece tre cose che si rivelarono fatali per la sociologia sovietica: introdusse nuove idee che riteneva teorie marxiste d'avanguardia, lo sottotitolò Manuale popolare di sociologia marxista e proclamò la preminenza della sociologia tra le scienze sociali in quanto essa «prende in esame non un singolo aspetto della vita pubblica, bensì l'intera vita pubblica in tutta la sua complessità». Lenin provò una profonda avversione per il libro, e la parola «sociologia» ne pagò le spese. La sottolineò lungo tutto il libro e a margine annotò un piccolo campionario di commenti: «Ah-ah!», «Eccentrico!», «Aiuto!», e così via. Passati otto anni, quando Bucharin fu rimosso in una lotta per il potere all'interno del Partito, Stalin rivangò la diffidenza di Lenin definendo l'opera di Bucharin come la vittima della «pretenziosità ipertrofica di un teorico da quattro soldi». Alla fine, Bucharin venne giustiziato, ma già da molto prima la sociologia era stata costretta alla clandestinità.

Una cauta opera di riesumazione ebbe inizio dopo la Seconda guerra mondiale. L'Istituto di Filosofia dell'Accademia sovietica delle scienze fu autorizzato a riconoscere l'esistenza di una disciplina chiamata «sociologia». Il contesto nel quale il termine fece la sua comparsa fu l'analisi critica delle teorie sociologiche occidentali, che offriva agli accademici il pretesto per studiarle. Essi si guardarono bene dal definire «sociologia» il proprio lavoro: nel 1968, a un dipartimento interno all'Accademia delle Scienze fu concesso di trasformarsi in istituto, ma prese la denominazione di Istituto di Studi Sociali oggettivi. Levada, che aveva una formazione da filosofo, venne chiamato a dirigere il Dipartimento di Teoria all'interno della nuova struttura.

La risoluzione del Politburo che dava vita all'istituto fu contrassegnata «top secret», così come un documento successivo che ne delineava l'ambito di attività. La segretezza, unitamente al nome dell'istituto - «di studi sociali», anziché «di sociologia» - lasciava intendere che il Politburo sapeva di essere in procinto di addentrarsi in un terreno sensibile e forse minato. I potenziali benefici, comunque, superavano i rischi. La nuova struttura fu incaricata non solo di criticare la teoria borghese ma anche di studiare la società sovietica. Era lo stesso Comitato centrale a dover approvare gli studi e ricevere i risultati. Si era nel 1968, l'anno della Primavera di Praga, quando il Partito comunista cecoslovacco tentò di sganciarsi dall'Unione Sovietica e perseguire la propria versione di socialismo, relativamente più aperta. Il Politburo era preoccupato che idee simili potessero circolare in Unione Sovietica. In effetti, quell'estate, dopo che i carri armati sovietici invasero Praga, otto persone straordinariamente coraggiose inscenarono una protesta nella Piazza Rossa: furono tutte arrestate. L'anno seguente, Amal'rik avrebbe scritto il suo saggio nel quale si chiedeva se l'Unione Sovietica sarebbe arrivata al 1984. Anche il Politburo voleva conoscere la risposta a quella domanda: a tal fine decretò che l'Istituto per gli studi sociali oggettivi dovesse disporre di tutto il personale necessario, 250 ricercatori, entro il 1971. Ma ovviamente in Unione Sovietica mancavano sociologi di formazione, così il nuovo istituto ottenne una dispensa speciale per assumere ricercatori privi di titoli di specializzazione. Levada era tra i pochissimi cittadini sovietici che avevano una formazione in sociologia. Si era laureato in filosofia all'Università statale di Mosca, aveva studiato le teorie sociologiche che aveva trovato nello specchran e poi era andato a svolgere attività di ricerca nella Cina comunista: il sistema era più tollerante, se le ricerche riguardavano altre società. Ora, Levada era di fatto legittimato come sociologo, e insegnava al Dipartimento di Giornalismo.

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Pagina 558

Quell'anno Putin ospitò la decima edizione del Valdai Club, un prestigioso forum internazionale nel quale esponeva le sue idee su un determinato argomento a beneficio di un selezionato parterre di esperti e osservatori di cose russe. Quell'anno parlò della sovranità e dell'identità nazionale della Russia:

La Russia sta affrontando una seria sfida alla sua identità. Questo tema tocca aspetti che hanno a che fare sia con la moralità che con la politica estera. Assistiamo, da parte di molti paesi euroatlantici, al ripudio delle radici, compresi i valori cristiani, che costituiscono le fondamenta della civiltà occidentale. Ripudiano i propri fondamenti morali e tutte le identità tradizionali: nazionali, culturali, religiose e finanche di genere. Perseguono politiche che pongono su un piano di equivalenza famiglie numerose e relazioni tra persone dello stesso sesso, fede in Dio e culto di Satana. Un eccesso di correttezza politica ha portato a un punto tale che si parla addirittura della nascita di partiti politici che promuovono la pedofilia. In molti paesi europei le persone si vergognano e temono di parlare del proprio credo religioso... E questo è il modello che viene aggressivamente imposto al mondo intero. Sono convinto che questa sia la strada verso il degrado e l'imbarbarimento, verso una profonda crisi demografica e morale.


Satana, pedofilia, aggressione americana, morte della civiltà cristiana e, naturalmente, una minaccia demografica: adesso tutto era colpa dei gay.

Era stato annunciato che nel settembre successivo il Cremlino e la Chiesa avrebbero ospitato insieme il Congresso mondiale delle famiglie, l'organizzazione fondata nel Dipartimento di Sociologia nel 1995. La sua sede era in Illinois, e le sue riunioni fino a quel momento si erano svolte in Europa, Stati Uniti e Australia. Negli Stati Uniti, gli osservatori delle organizzazioni di estrema destra la consideravano un prodotto d'esportazione della politica americana. Ma i russi, con i loro soldi e l'autorevolezza attribuita alla loro causa dallo Stato, stavano assumendo ruoli di comando nell'organizzazione, che ora avrebbe ricevuto un'accoglienza in grande stile. Le sessioni del Congresso si sarebbero svolte nel Palazzo dei Congressi del Cremlino, all'interno delle mura della cittadella, e poco distante, nella cattedrale di Cristo Salvatore, la più grande del paese, dove le Pussy Riot avevano messo in scena la loro «preghiera punk» nel 2012.

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Una nazione divisa



Nell'autunno del 2013, Maša trascorreva le giornate in tribunale e le serate nei caffè e nei bar, a volte lavorando per conto proprio o su incarico di giornalisti stranieri, ma più spesso non lavorando affatto. Era quasi sempre arrabbiata e il più delle volte finiva le serate ubriaca. C'erano molte discussioni che ricordava solo per la gola irritata al mattino.

I volti in quei caffè le erano familiari dai tempi delle proteste. Ora tutti erano tornati alla vita di sempre, nei canali televisivi, nelle agenzie di pubblicità e, in non pochi casi, negli uffici governativi. Anche loro erano spesso ubriachi al termine della serata - specialmente i funzionari statali. Una sera, uno di questi diede un colpetto alla sedia accanto con la sua mano tozza. Aveva qualcosa da dire a Maša: ci sarebbe stata un'amnistia, ufficialmente collegata al ventesimo anniversario della Costituzione di El'cin, ma in realtà mirata a far fare bella figura a Putin in vista delle Olimpiadi invernali di Soči. Le donne erano sempre tra i beneficiari dei provvedimenti di amnistia, in particolare se avevano figli piccoli; pertanto, disse quell'uomo, il calvario di Maša sarebbe presto finito.

Lei ci credeva. I suoi amici le dicevano che era una pia illusione. Le fecero notare che, da come si comportava, sembrava che Putin se ne infischiasse bellamente di migliorare la propria immagine per le olimpiadi. Le Pussy Riot erano ancora dietro le sbarre - una di loro aveva iniziato uno sciopero della fame per protestare contro le razioni misere e le sedici ore al giorno di lavoro coatto alle quali era costretta nella colonia penale; e, a dispetto della lettera aperta che era stata pubblicata in tutto il mondo, lo Stato appariva disposto a lasciarla morire di fame. Il detenuto più celebre del paese, Michail Chodorkovskij, stava per entrare nel decimo anno di prigionia, senza che se ne intravedesse la fine. E a settembre, militari russi con uniformi prive di insegne avevano sequestrato una nave di Greenpeace battente bandiera olandese in acque internazionali, l'avevano rimorchiata fino al porto di Murmansk e lì avevano affidato al carcere locale l'equipaggio, composto da una trentina di persone di varie nazionalità. Il fatto che la brutalità della polizia russa superasse ogni immaginazione, sostenevano questi amici, non era un buon motivo per dubitare delle sue minacce - tutto il contrario.

«Io non finirò in prigione», ribatteva costantemente Maša. «Cammino sotto la pioggia, ma non mi bagno». Era un'espressione idiomatica, normalmente usata alla terza persona, ma quell'autunno la fece sua. E fu in quell'autunno che cominciò a vomitare sangue.

A dicembre, uno dopo l'altro, i leader occidentali annunciarono l'intenzione di non presenziare ai Giochi olimpici di Soči. Il presidente tedesco Joachim Gauck fu il primo a comunicare che non sarebbe intervenuto, seguito dai presidenti di Polonia, Estonia e Francia e dal primo ministro belga. Da ultimo, il presidente americano Barack Obama scelse la sua delegazione: non comprendeva alcun politico di alto livello - fatto che non si verificava da quasi due decenni - ma al contrario, in quello che era un affronto ben calcolato, due atleti dichiaratamente omosessuali. Il giorno seguente arrivò l'amnistia: Maša non sarebbe andata in prigione, le Riot sarebbero state rilasciate e così anche i trenta attivisti di Greenpeace. E al termine della sua conferenza stampa di fine anno, il 20 dicembre, Putin fece un annuncio che nemmeno i suoi strettissimi collaboratori si aspettavano: avrebbe rilasciato Chodorkovskij. Nel giro di qualche ora, l'ex magnate del petrolio venne fatto uscire dalla prigione e dal paese - in direzione Berlino, dove la madre giaceva gravemente malata. Condizione necessaria per il rilascio di Chodorkovskij era che non avrebbe mai più messo piede in Russia, a meno che non avesse voluto farsi arrestare di nuovo. Spogliato della sua azienda e di gran parte del suo patrimonio, si sarebbe dovuto rifare una vita in terra straniera. Sbarcò in Germania con indosso un giubbetto del personale aeroportuale che gli era stato dato durante il volo, per rimpiazzare la divisa nera da galeotto.

Maša, al contrario, era ancora nella sua città e indossava i suoi vecchi vestiti. Nessuno l'avrebbe trasferita verso la sua nuova vita, ora che non era più un'imputata a tempo pieno in un processo politico. Che cosa avrebbe dovuto fare di se stessa?


Nell'anno e mezzo vissuto come una prigioniera politica de facto, Maša non aveva prestato molta attenzione al mondo esterno. L'avvenimento più importante in questo mondo esterno erano le proteste in corso in Ucraina. Il presidente aveva fatto retromarcia sulla firma di un accordo di partenariato con l'Unione europea, e da novembre le proteste degli ucraini stavano andando avanti senza sosta. Come la rivoluzione arancione di nove anni prima, le proteste aggregavano persone di idee politiche assai diverse. Cosmopoliti che volevano che il loro paese entrasse a far parte della Comunità europea si accompagnavano a nazionalisti che volevano liberarsi dall'influenza di Mosca. Come la volta precedente, i manifestanti occuparono il centro di Kiev e si prepararono a restarci per tutto il tempo necessario. Esattamente come nove anni prima, tutti a Mosca sembravano guardare all'Ucraina unicamente attraverso lo specchio della Russia. Un gruppo di oltre cinquanta scrittori sottoscrisse una lettera aperta ai manifestanti: «Ci auguriamo che possiate farcela», concludevano. «Per noi sarebbe un segnale che anche in Russia possiamo conquistare i nostri diritti e le nostre libertà».

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I Giochi olimpici di Soči presero il via lo stesso giorno di quella riunione del personale. I corrispondenti stranieri inondarono i social network con fotografie d'acqua corrente lurida e cronache di inverosimili malfunzionamenti in alberghi ancora in costruzione. Ma la cerimonia d'apertura fu spettacolare, e la Russia si aggiudicò il maggior numero di medaglie d'oro: tredici. Se Maša si fosse sentita meno disorientata e assediata, forse il suo patriottismo sarebbe stato maggiore.

In Ucraina, a Majdan, ci fu un nuovo bagno di sangue. Adesso le vittime erano diventate oltre cento, compresi parecchi uomini delle forze dell'ordine. Il 21 febbraio, più di centomila persone si radunarono a Majdan per rendere omaggio ai manifestanti uccisi. Alla sera, la piazza minacciò di prendere d'assalto gli edifici governativi se il presidente non avesse rassegnato le dimissioni. Janukovič abbandonò la capitale, cercando rifugio prima nell'est del paese e poi in Russia. L'indomani, Maša ricevette una telefonata da Kiev: uno dei Berkut che aveva conosciuto quella sera di gennaio la stava chiamando per informarla che un suo collega era stato ucciso. Era uno di quelli che Maša aveva intervistato. Avvertiva una sensazione molto strana, come se ne fosse in qualche modo responsabile.

Un amico la chiamò dalla Crimea: adesso erano tutti lì, e Maša doveva assolutamente raggiungerlo. Lei ci andò. Il giorno dopo il suo arrivo, si rese conto che qualcosa eta cambiato improvvisamente. Le strade erano invase da uomini armati in uniformi prive di insegne. Se ne andavano in giro sorridendo. Nel giro di poche ore, i residenti uscirono di casa per farsi fotografare con loro. Nessuno poteva saperlo con certezza, ma l'impressione generale era che si trattasse di soldati russi mandati nella penisola sul Mar Nero, a schiacciante maggioranza russofona, per salvarla dal Majdan. Era quello che ripetevano tutti: «Salvateci dal Majdan». Adesso che le strade erano presidiate da quella specie di esercito irregolare, tutti sembravano al settimo cielo.

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L'intervento della Russia non era soltanto giusto, proseguì Putin, ma si fondava su un precedente creato dagli stessi Stati Uniti, quando avevano favorito la secessione del Kosovo dalla Serbia. L'unica differenza tra il Kosovo e la Crimea, sostenne, era che il primo aveva ricevuto il sostegno degli Stati Uniti, che si sentivano in diritto di dettare le regole del gioco nel mondo dopo la guerra fredda. «Ci hanno fregato», disse. In realtà disse nagnuli, un'espressione volgare traducibile più accuratamente con «ci hanno fottuto», evocando la nitida immagine di uno stupro. I traduttori del Cremlino decisero di renderla con: «misero tutti d'accordo».

Putin riprese la litania di rimostranze contro l'America: dopo il Kosovo «c'era stata una lunga sequela di "rivoluzioni colorate" manovrate dall'esterno» - quelle ucraine erano solo due delle tante. I paesi nei quali venivano «orchestrate» queste rivoluzioni erano poi «costretti ad accettare condizioni e principi inadatti allo stile di vita, alle tradizioni e alla cultura della popolazione»:

Ci hanno mentito, ripetutamente. Hanno preso decisioni alle nostre spalle e poi ci hanno messo davanti al fatto compiuto. E quello che è accaduto con l'allargamento della Nato verso est, quando hanno insediato avamposti militari ai nostri confini. Hanno continuato a ripeterci che non è affar nostro. Facile dirlo, per loro.

La Russia non poteva più accettare questo stato di cose. «Come una molla sottoposta a eccessiva tensione», qualcosa si era spezzato:

Evidentemente, incontreremo delle resistenze all'esterno. Dobbiamo decidere se siamo pronti a dimostrarci intransigenti nella tutela dei nostri interessi nazionali, o se saremo sempre disposti a cedere, arretrando quando in realtà non si sa bene verso cosa dovremmo arretrare. Alcuni politici occidentali ci stanno già minacciando, non solo con le sanzioni, ma anche agitando lo spauracchio di problemi interni al nostro paese. Mi domando a cosa si riferiscano: stanno forse riponendo le loro speranze in una quinta colonna, in traditori della nazione d'ogni sorta, oppure si immaginano di poter esercitare un impatto negativo sull'economia russa, scatenando così il malcontento popolare?... Dobbiamo intraprendere azioni adeguate.

Era una dichiarazione di guerra, benché nel seguito del suo discorso Putin ironizzasse sui timori di un conflitto:

Parlano di aggressione, di un qualche genere di intervento russo in Crimea. Che strano. A me non viene in mente alcun precedente storico di un intervento che si sia concluso senza che fosse sparato un solo colpo, senza vittime.

Era davvero così? A Gudkov ne venivano in mente diversi. Un esempio era la Anschluss nazista dell'Austria nel 1938. La conquista dei Sudeti, in Cecoslovacchia, ne era un altro. Non avevano comportato un solo colpo d'arma da fuoco - piuttosto, tra gli altri strumenti incruenti, si erano avvalsi di un plebiscito e di un discorso, quello del settembre 1938 nel quale Hitler aveva denunciato l'ipocrisia delle democrazie occidentali, che a suo dire si erano rifiutate di riconoscere la reale volontà del popolo. Aveva affermato che l'unico interesse della Francia in Cecoslovacchia era quello di utilizzarla come base per sferrare un attacco contro la Germania. Ma, soprattutto, aveva tirato in ballo la minoranza di etnia germanica in Cecoslovacchia, che, a suo modo di vedere, era «privata del proprio diritto all'autodeterminazione in nome dell'autodeterminazione [cecoslovacca]». La Germania aveva tollerato questa situazione - i confini che dividevano la nazione tedesca - in primo luogo per la sua debolezza all'indomani della Prima guerra mondiale e in seguito nell'interesse della pace e della stabilità in Europa, ma questo era stato «erroneamente interpretato come un segno di debolezza». Ora, aveva concluso Hitler, la Germania stava finalmente affermando i propri diritti, adempiendo al proprio sacrosanto dovere nei confronti dei tedeschi oppressi in Cecoslovacchia.

Gran parte dei contenuti del discorso di Putin sulla Crimea riecheggiavano sue precedenti dichiarazioni: la tragedia del collasso dell'Unione Sovietica, l'ipocrisia degli Stati Uniti, la slealtà della Nato, l'idea che l'America orchestri le rivoluzioni e poi imponga i propri valori sulle culture tradizionali, l'immancabile colpo basso che di quei tempi doveva per forza essere di natura omofobica, e perfino il nemico interno, la «quinta colonna». Ma l'idea di una nazione divisa e di un dovere morale verso i connazionali all'estero che prevaleva sulle leggi e sui confini nazionali aveva un antecedente diverso: rievocava direttamente il discorso di Hitler sui Sudeti. Ciò indusse Gudkov a leggere o a rileggere i pensatori che avevano scritto a proposito del nazismo. A un tratto si rese conto che tutte le sue riflessioni sull'ideologia scontavano un vizio di fondo. Gli era stato insegnato che un'ideologia totalitaria, per definirsi tale, doveva necessariamente includere una visione del futuro. Ma questa non era mai stata una caratteristica distintiva del nazismo. Quella nazista era stata una visione arcaica, una promessa di semplicità, il ritorno a un passato idealizzato nel quale la legge era l'istinto naturale e la nazione era una tribù.

Forse di questo si trattava, dunque. La Crimea era l'ideologia della Russia. Ecco perché assommava in sé tutti i temi che Putin aveva toccato in precedenza. E a giudicare dalle reazioni al suo discorso, e dai dati dei sondaggi, funzionava come un'ideologia: la Crimea aveva l'effetto di mobilitare la nazione. Le rilevazioni effettuate dal Centro Levada indicavano che l'88 per cento della popolazione era favorevole all'annessione della Crimea e che solo l'1 per cento affermava di essere «nettamente contrario». Un dato, quest'ultimo, inferiore al margine d'errore statistico: era come se queste persone - persone come Gudkov - non esistessero.

Hannah Arendt aveva scritto che un'ideologia non è altro che una singola idea portata all'estremo. Nessuna ideologia è intrinsecamente totalitaria, ma ogni ideologia contiene in nuce i germi del totalitarismo; può chiudersi a riccio su se stessa, estraniandosi completamente dalla realtà, con un unico dogma che oscura il mondo intero. I leader totalitari, scrisse Arendt, non erano attratti tanto dall'idea in sé quanto dalla possibilità di utilizzarla come motore e pretesto per agire. Facevano derivare le «leggi della storia» da quell'unica idea prescelta e poi mobilitavano il popolo per applicare pedissequamente queste leggi immaginarie.

Dal momento che adesso un'ideologia c'era, quantomeno in apparenza, la Russia soddisfaceva tutte le caratteristiche previste dai tradizionali modelli di società totalitaria - eccetto, forse, quelle del modello di Gudkov, che comprendeva anche la povertà coatta.

Forse era così che andavano le cose quando una società totalitaria si ricostituiva autonomamente, piuttosto che essere foggiata da un regime totalitario: l'ideologia si coagulava per ultima. Gudkov considerava il totalitarismo russo una forma recidivante di totalitarismo, come un'infezione; analogamente al caso di un'infezione, la recidiva può non essere letale come la malattia originale, ma i sintomi sono riconoscibili in quanto analoghi a quelli mostrati in occasione della prima insorgenza.

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L'intero paese si sentiva vulnerabile. Per accorgersene bastava accendere la televisione, cosa che Arutjunjan faceva di rado. In televisione tutti non facevano altro che urlare di continuo. C'erano dibattiti - era così che li chiamavano - nei quali due o più persone apparentemente in rappresentanza di due aspetti della questione si gridavano addosso per un'ora e mezza di seguito. «L'America ci vuole deboli!», berciava un politico che guardacaso era il nipote di Vjaceslav Molotov, il ministro dell'epoca staliniana che aveva firmato il patto con i nazisti. «Cosa dovrebbe fare la Russia secondo lei?», ribatteva con toni altrettanto esagitati il suo presunto avversario, la cui fazione avrebbe teoricamente dovuto perorare la causa della pace con gli Stati Uniti ma che era lì solo per trasmettere ansia. Mentre i due ospiti urlavano dalla paura, il moderatore, che vestiva interamente di nero in ogni puntata, gridava per spaventare i partecipanti e il pubblico.

I telegiornali e i contenitori mattutini mandavano in onda servizi fatti con lo stampino che generavano ansia. A un reportage sul pericolo delle droghe, o dei maniaci sessuali, seguiva l'immancabile approfondimento in studio: a quel punto una persona, presentata come un attivista, spiegava che il governo non stava facendo abbastanza per contrastare il pericolo. «Per gli spacciatori ci vorrebbe la pena di morte! I pedofili andrebbero castrati!». Alla fine del monologo, i conduttori - in genere un uomo e una donna - strillavano in preda al panico che nessuno stava proteggendo i bambini dalle droghe e dai pedofili. Il format del programma si rifaceva a una tradizione sovietica, nella quale era sempre la presunta «gente comune» che implorava il Partito di varare misure più restrittive e punitive, ma il suo obiettivo principale era quello di mantenere un grado d'ansia costantemente elevato.

Quali opzioni offriva questo paese terrorizzante ai suoi cittadini intollerabilmente ansiosi? Potevano raggomitolarsi in uno stato di passività assoluta, oppure aderire a un tutto più grande di loro. Se qualsiasi bene poteva essere sottratto in maniera sommaria, nessuno poteva più sentirsi sicuro che fosse veramente suo. Però poteva compiacersi, assieme agli altri cittadini, che la Crimea fosse «loro». Poteva identificarsi nella visione del mondo paranoica secondo la quale il resto del mondo, guidato dagli Stati Uniti, voleva indebolire e distruggere la Russia. La paranoia offriva un po' di conforto: quantomeno, localizzava con certezza al di fuori dell'individuo, e anche del paese, la fonte di quell'ansia opprimente. Questo senso di appartenenza, e anche la possibilità di affidarsi a qualcuno più forte, era un grande sollievo. Ma appartenere richiedeva una vigilanza continua. Occorreva prestare attenzione: oggi era l'Ucraina la guerra importante che si combatteva, domani poteva essere la Siria. Nella visione del mondo paranoica, la fonte del pericolo era un bersaglio in continuo spostamento. Si poteva provare un senso d'appartenenza, ma non ci si sentiva mai in pieno controllo.

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Epilogo



Il 12 giugno 2017 fu il ventisettesimo anniversario della dichiarazione di sovranità della Russia, quale che sia il suo significato, nonché il ventiseiesimo anniversario dell'elezione di Boris El'cin alla presidenza: una festività nazionale. Per i primi dieci anni la ricorrenza era stata denominata «Giorno dell'approvazione della Dichiarazione di sovranità», ma nel 2002 aveva preso il nome di «Giorno della Russia». La dichiarazione di sovranità - il primo passo della Russia verso l'allontanamento dal progetto sovietico - non era più un evento da celebrare. La festività doveva essere spoliticizzata, senza però sacrificarne lo spirito patriottico. Col passare degli anni, le celebrazioni fecero sempre più uso di musica tradizionale, musica pop e spettacoli teatrali di carattere storico. La festività finì per diventare una cacofonia.

In occasione del Giorno della Russia 2017 furono arrestate 1.720 persone, la più grande ondata di arresti degli ultimi decenni. Aleksej Naval'nyj aveva invitato la gente a scendere in piazza, e decine di migliaia di persone avevano invaso le strade da Kaliningrad a Vladivostok, la protesta geograficamente più capillare nella storia russa. La maggior parte delle persone fermate tornò in libertà nel giro di poche ore; molte furono condannate al pagamento di un'ammenda e a pochi giorni di carcere, tra i cinque e i trenta; qualcuno probabilmente avrebbe rischiato di scontare diversi anni di detenzione in una colonia penale. Dopo all'incirca una settimana, venne fuori che alcuni detenuti a Mosca erano stati torturati, e che le guardie penitenziarie di San Pietroburgo avevano iniettato gas tossici nelle celle in cui erano rinchiusi i prigionieri.

A Mosca, alcuni degli oltre ottocento detenuti dovettero passare la notte stesi su delle panche nel cortiletto di un commissariato, perché all'interno non c'era spazio sufficiente, ma le scene viste in giro per la città, quel giorno, erano apparse più farsesche che non tragiche o spaventose. Il Giorno della Russia, quell'anno, era stato trasformato in una rievocazione storica. Non era stato scelto un periodo particolare, ma si notava una certa preferenza per il Medioevo. Un gruppetto di bambini indossava costumi di seta rossi che ricordavano vagamente i foulard dei Giovani Pionieri, ma gran parte degli adulti si era abbigliata con armature in cotta di maglia e brandiva scudi e spade. Tuttavia, non mancavano gli appassionati di uniformi della Seconda guerra mondiale, che si aggiravano attorno a barricate costruite con sacchi di iuta riempiti di sabbia. A un certo punto, un uomo vestito da contadino del Novecento - un costume che in un contesto differente si sarebbe potuto scambiare per un travestimento da fricchettone - si inerpicò su una parete di sacchi con un cartello recante la scritta, in inglese: «Putin dice bugie». Mentre si arrampicava, urlò in russo: «Putin è un ladro!». Quando raggiunse la sommità, un uomo con la divisa della Nkvd - la polizia segreta del periodo della Seconda guerra mondiale - si gettò a capofitto verso i sacchi. Il manifestante ruzzolò tra le braccia di altri due uomini in costume da polizia segreta, che lo consegnarono a due poliziotti della nostra epoca.

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