Autore Andrea Giardina
Coautoreal.
Titolo Storia mondiale dell'Italia
EdizioneLaterza, Bari-Roma, 2017, i Robinson / Letture , pag. 848, ill., cop.fle., dim. 17x24x4 cm , Isbn 978-88-581-2983-8
CuratoreAndrea Giardina, Emmanuel Betta, Maria Pia Donato, Amedeo Feniello
PrefazioneAndrea Giardina, Patrick Boucheron
LettoreMargherita Cena, 2017
Classe storia contemporanea d'Italia , storia moderna , storia medievale , storia antica , storia sociale , paesi: Italia












 

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Indice


Introduzione                                          XIII
Andrea Giardina

Invito al viaggio                                    XXVII
Patrick Boucheron


          L'ITALIA PRIMA DELL'ITALIA

3200 a.C. Dal ghiaccio il primo uomo delle Alpi          6
          Giovanni Kezich

2000 a.C. Profughi dall'Oriente                         11
          Mario Lentano

1600 a.C. Il popolo delle torri                         16
          Alberto Moravetti

 900 a.C. Gli etruschi, una cultura italica             20
          Gilda Bartoloni

 775 a.C. L'isola delle scimmie                         24
          Michel Gras

 753 a.C. Sangue misto                                  28
          Gianluca De Sanctis

 532 a.C. Sapienza italica                              32
          Mauro Bonazzi

 386 a.C. Paura dei galli                               36
          Tommaso Gnoli


          ITALIA, ITALIE

 218 a.C. L'invasione punica                            44
          Giovanni Brizzi

 205 a.C. Terra Italia                                  48
          Giorgio Ferri

 168 a.C. Un greco in Italia                            52
          John Thornton

 166 a.C. Gli italici di Delo                           56
          David Nonnis

 150 a.C. Dall'Italia alla Groenlandia                  61
          Elio Lo Cascio

  91 a.C. Il toro e la lupa                             65
          Alessandro Cavagna

  88 a.C. Il massacro degli italici                     70
          Luca Fezzi

  73 a.C. Spartaco e gli altri                          74
          Orietta Rossini

  58 a.C. 'De bello Gallico'                            79
          Giuseppe Zecchini

  53 a.C. L'odissea dei legionari                       83
          Giusto Traina

  46 a.C. Il Nilo nel Tevere                            87
          Barbara Gregori

  27 a.C. Tota Italia                                   92
          Giovannella Cresci Marrone


          UNIVERSO ROMA

  25 a.C. Il tempio di tutti gli dèi                   100
          Massimiliano Papini

  20 a.C. Il mondo sulla corazza                       104
          Gianfranco Adornato

   9 d.C. Una strage, un mito                          109
          Livio Zerbini

  64 d.C. Morte degli apostoli                         114
          Daniele Tripaldi

  71 d.C. Il candelabro a Roma                         118
          Giulio Firpo

  72 d.C. Il mondo nel Colosseo, il Colosseo nel mondo 122
          Rossella Rea

  78 d.C. Come elogiare l'Italia                       127
          Ida Gilda Mastrorosa

  98 d.C. Traiano: l'impero scopre i suoi limiti       131
          Ignazio Tantillo

 100 d.C. 'Non conta proprio nulla che la nostra
          infanzia abbia respirato l'aria
          dell'Aventíno?'                              136
          Cecilia Ricci

 119 d.C. I viaggi di Adriano                          141
          Alessandro Galimberti

 130 d.C, Il monte dei Cocci                           146
          Marco Maiuro

 212 d.C. L'impero, una comunità di cittadini          150
          Elisabetta Todisco

 235 d.C. Massimino il Trace, un 'barbaro' per Roma    154
          Pierfrancesco Porena

 260 d.C. L'imperatore prigioniero                     158
          Ornar Coloru

 312 d.C. 'In questo segno vincerai'                   163
          Arnaldo Marcone

 326 d.C. Alla scoperta della Terrasanta               167
          Tessa Canella

 374 d.C. Da Milano al mondo                           172
          Rita Lizzi Testa


          IL CONTINENTE E IL MEDITERRANEO

 493      'Custodire la civiltà è lode dei goti'       179
          Fabrizio Oppedisano

 529      Benedetto, Montecassino e la nuova Regola    184
          Jean-Marie Martin

 554      Splendori da Bisanzio                        189
          Giovanni Alberto Cecconi

 572      Una nuova invasione divide la Penisola       193
          Claudio Azzara

 800      Carlo Magno, Roma e il futuro dell'Europa    197
          Tommaso di Carpegna Falconieri

 968      Liutprando di Cremona e
          la doppia Costantinopoli                     201
          Paolo Chiesa

1002      Il regno d'Italia esce dall'impero           206
          François Bougard

1030      Palermo islamica, una metropoli mediterranea 211
          Alessandro Vanoli

1036      Gli uomini del Nord                          215
          Victor Rivera Magos

1050      I leggendari medici di Salerno               220
          Amalia Galdi

1064      Un saccheggio, una cattedrale e
          la nascita dei comuni                        224
          Lorenzo Tanzini

1088      Una comunità sovranazionale basata
          sulla conoscenza                             229
          Annick Peters-Custot


          L'ORIZZONTE SI ALLARGA

1204      La crociata dell'inganno                     237
          Marina Montesano

1219      San Francesco e il sultano                   242
          Filippo Sedda

1228      E i numeri arrivano in Europa                246
          Amedeo Feniello

1238      Da prigioniero di guerra
          a educatore di cittadini                     250
          Marina Gazzini

1240      Natura e cultura dalla Sicilia               254
          Eva Ponzi

1252      Il fiorino di Firenze,
          il dollaro della crescita medievale          258
          Franco Franceschi

1257      Italiani in guerra per il controllo dei mari 263
          Antonio Musarra

1271      Le meraviglie d'Oriente                      267
          Franco Cardini

1286      Lenti sul mondo                              272
          Maria Paola Zanoboni

1300      Arnolfo nello spazio                         276
          Salvatore Sansone

1305      Una cometa nel cielo di Padova               280
          Silvia Maddalo


          VECCHIO MONDO, NUOVI MONDI

1310      'Ahi serva Italia'                           287
          Francesco Somaini

1343      Le banche fanno crac                         291
          Sergio Tognetti

1347      Untori italiani per la peste nera            295
          Alfredo Santoro

1361      Un condottiero inglese in Italia             299
          Federico Canaccini

1379      Omicidio a Lombard Street                    304
          Amedeo Feniello

1400      Quando erano i tedeschi a emigrare           308
          Philippe Braunstein

1420      Una cupola sospesa su Firenze                313
          Cristiano Giometti

1468      Bessarione e l'altra Bisanzio                318
          Concetta Bianca

1471      Albanesi del regno                           322
          Angela Falcetta

1472      La senyora Catalina                          326
          Gemma Colesanti

1474      Tutelare l'ingegno                           330
          Luca Molà

1492      Mondi nuovi                                  335
          Giuseppe Marcocci

1494      'In un angolo dell'universo'                 339
          Elena Valeri


          TRA GLI IMPERI

1495      Lumi greci, libri italiani                   348
          Erminia Irace

1496      Una processione, un mondo                    352
          Andrea Zannini

1512      Il Banco genovese di San Giorgio
          prima corporation?                           357
          Carlo Taviani

1513      Machiavellico                                362
          Andrea Guidi

1516      Il primo ghetto                              366
          Marina Caffiero

1527      Il sacco di Roma                             370
          Umberto Roberto

1528      Renata di Francia e la Riforma in Italia     374
          Eleonora Belligni

1563      Il mondo italiano della Controriforma        379
          Sabina Pavone

1571      Mediterraneo in guerra: l'ultima crociata?   385
          Maria Antonietta Visceglia

1579      Rifugiati                                    390
          Vincenzo Lavenia

1589      Corsari, schiavi e mori dalla santa vita     395
          Giovanna Fiume

1591      Il porto delle nazioni                       400
          Marina Caffiero

1601      Un gesuita in Cina                           404
          Michela Catto

1610      Avvisi stellari                              408
          Massimo Bucciantini, Michele Camerota,
          Franco Giudice

1636      La sposa italiana                            412
          Angelantonio Spagnoletti

1643      Un cardinale italiano a Parigi               416
          Olivier Poncet

1666      E si recò in Italia                          420
          Giovanna Capitelli

1680      La casa dei violini                          425
          Giovanni Bietti

1686      Un anatomista bolognese a Londra             429
          Maria Pia Donato


          L'ORA DELLE RIVOLUZIONI

1713      Una corona 'italiana' e la fine di un mondo  438
          Patrizia Delpiano

1730      Re di Sardegna e di Madagascar               442
          Guillaume Calafat

1739      Il paese dei cicisbei                        446
          Roberto Bizzocchi

1764      I delitti e le pene                          451
          Edoardo Tortarolo

1765      Vienna, Firenze e ritorno                    455
          Marcello Verga

1768      Dal Paraguay all'Emilia Romagna              459
          Niccolò Guasti

1784      Maccheroni, polenta e pizza                  464
          Manuel Vaquero Piñeiro

1786      Viaggio in Italia                            468
          Cesare de Seta

1790      'Così fan tutte'                             473
          Mélanie Traversier

1792      L'Italia e il Mediterraneo
          all'ora della Rivoluzione                    478
          Antonino De Francesco

1806      Seta ritorta e vino di Marsala               482
          Walter Panciera

1813      Ombre russe                                  486
          Nicoletta Marini d'Armenia

1821      Esuli per il mondo                           490
          Elena Bacchin

1822      L'Italia sublime e i miserabili italiani     495
          Marco Meriggi

1831      La finanza internazionale soccorre il papa   499
          Catherine Brice


          NAZIONE E MONDO

1834      La Giovine Europa                            507
          Pietro Finelli

1843      Il primato degli italiani                    511
          Alberto Mario Banti

1848      Nabucco a New York                           515
          Carlotta Sorba

1849      La Repubblica romana                         519
          Gilles Pécout

1864      Garibaldi globale                            524
          Lucy Riall

1870      Porta Pia: religione universale e
          religione nazionale                          529
          Gian Luca Fruci

1872      Nascita e fortuna di una grande industria    534
          Giorgio Bigatti

1876      L'uomo delinquente                           538
          Emmanuel Betta

1881      Paese che vai Pinocchio che trovi            543
          Stefano Pivato

1883      La Tigre della Malesia                       547
          Paola Irene Galli Mastrodonato

1893      Il massacro di Aigues-Mortes                 551
          Stefano Gallo

1896      Tante Adue per tante memorie                 555
          Uoldelul Chelati Dirar

1898      L'anarchico e l'imperatrice                  559
          Elena Papadia

1907      La Casa dei bambini                          563
          Laura Schettini

1908      Salvare Messina                              568
          Giorgio Boatti

1909      La bellezza della velocità                   572
          Monica Cioli

1911      Mare nostrum                                 577
          Fabio De Ninno

1914      Camicie rosse nelle Argonne                  581
          Hubert Heyriès

1918      Hemingway e la guerra italiana               586
          Matteo Ermacora

1919      Partono i bastimenti per terre assai lontane 590
          Emilio Franzina

1921      Lo sceicco                                   594
          Giorgio Bertellini


          ITALIANI

1922      Una marcia, tante marce                      602
          Giulia Albanese

1926      Un modello chiamato 'Arturo'                 606
          Marco Capra

1927      Sacco e Vanzetti                             610
          Matteo Sanfilippo

1929      Il cavallino rampante                        615
          Rosanna Scatamacchia

1931      Mafiosi a New York                           619
          Vittorio Coco

1931      Il leone del deserto e il suo boia           623
          Mia Fuller

1933      Aquila volante                               628
          Lorenzo Benadusi

1933      Il gigante italiano                          632
          Daniele Marchesini

1935      Togliatti, il Comintern e
          la via italiana al socialismo                636
          Gianluca Fiocco

1936      'Tutti i mezzi di guerra, dico tutti'        641
          Emanuele Ertola

1937      Relazioni pericolose                         645
          Olindo De Napoli

1937      Guadalajara: oggi in Spagna domani nel mondo 650
          Gabriele Ranzato

1938      Una settimana particolare                    654
          Paola S. Salvatori

1938      'Il navigatore italiano è sbarcato
          nel Nuovo mondo'                             658
          Francesco Guerra, Nadia Robotti

1939      I Balcani, un Vietnam italiano               662
          Eric Gobetti

1941      Il Manifesto di Ventotene                    666
          Mauro Campus

1942      'Bombing on Italy'                           670
          Gabriella Gribaudi

1943      La minaccia slava                            675
          Raoul Pupo

1943      Fossoli, anticamera dello sterminio          679
          Simon Levis Sullam

1945      'Roma città aperta'                          683
          David Forgacs

1946      Criminali di guerra noi?                     687
          Filippo Focardi

1947      Se questo è un uomo                          692
          Enzo Traverso


          DI QUA DAL MURO

1948      Raggiungere il welfare insieme               700
          Luciano Segreto

1949      'È nato nu criaturo niro, niro               705
          Vincenza Perilli

1956      'Questo lontano posto divenne
          improvvisamente Italia'                      709
          Paolo Frascani

1957      I Trattati di Roma                           713
          Agostino Giovagnoli

1958      Volare                                       718
          Paolo Soddu

1960      La dolce vita                                722
          Oscar Iarussi

1962      Mattei, l'Italia e le Sette sorelle          727
          Ilaria Tremolada

1962      Il concilio Vaticano secondo                 732
          Gianluca della Maggiore

1964      Olivetti Programma 101                       736
          Tommaso Detti

1968      L'istituzione negata                         740
          John Foot

1974      'Noi e il nostro corpo'                      745
          Enrica Capussotti

1978      La geometrica potenza                        750
          Massimo Mastrogregori

1978      Agonia e fine del papato italiano            754
          Alberto Melloni

1980      Musulmani d'Italia                           759
          Leila El Houssi

1982      Italia-Germania 3 a 1                        764
          Fabien Archambault

1982      Italiani in armi in Libano                   768
          Nicola Labanca

1985      Sigonella e la sovranità dell'Italia         772
          Federico Romero

1986      Slow Food                                    776
          Laura Di Fiore

1988      L'Italia in vendita                          780
          Mario Perugini


          SENZA IL MURO

1989      Gramsci nel mondo                           788
          Paolo Capuzzo

1994      La discesa in campo                         793
          Paolo Pombeni

2001      Genova G8                                   798
          Luigi Manconi, Federica Graziani

2002      Il cantiere dell'euro                       803
          Marcello Messori

2012      Il dragone italiano                         807
          Elisabetta Merlo

2014      Fiat Chrysler Automobiles                   812
          Giuseppe Berta

2015      Lampedusa                                   817
          Ignazio Masulli


Gli autori                                            821
Referenze iconografiche                               825
Indice dei nomi                                       827


 

 

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Pagina XIII

INTRODUZIONE
di ANDREA GIARDINA



Questo libro si apre con le Alpi e si chiude con Lampedusa. Il limite settentrionale della nazione e quello più vicino all'Africa. Non era previsto. Il piano di un'opera come questa non si elabora in ordinata sequenza, dall'uno all'altro capitolo, ma procede come in un puzzle, disponendo le tessere nelle varie zone, alla ricerca delle affinità cromatiche e delle distonie, delle forme coerenti e delle sagome antagoniste. Ora che l'opera è compiuta è facile constatare che questo inquadramento non avrebbe avuto alternative altrettanto valide. Eppure, tra i molti che nel corso dei millenni hanno pensato l'Italia, nessuno avrebbe mai potuto immaginare la solidità attuale di quella coppia. La forza stratificata della geografia può essere invocata fino a un certo punto per le Alpi, ma non per Lampedusa, della quale la maggior parte degli italiani fino a qualche decennio fa ignorava persino l'esistenza, una piattaforma di pietre senza aeroporto, telefono, televisione, elettricità, strade, turisti. E questo malgrado lo splendido nome nel quale è probabile che i marinai greci, senza troppi tormenti etimologici, cogliessero il fascino della 'Lampeggiante', l'isola che li abbagliava con le scintille delle pareti di calcare, alte sul blu profondo.

Un caso esemplare di accelerazione della storia ha fatto invece di Lampedusa, nei nostri giorni, il luogo della nazione Italia che più parla al mondo, anche se un vero dialogo non esiste: i barconi recuperati approdati scomparsi, i salvati senza documenti e gli annegati senza nome, i bambini senza famiglia e le famiglie senza bambini, le imprese dei soccorritori e la generosità degli abitanti, i pescatori che pescano anime e non pesci, la tempra del sindaco donna, il medico diventato celebre suo malgrado, tante storie individuali e collettive compongono una nuova odissea per un pubblico universale, un'enorme tragedia per una dimensione mondiale della storia d'Italia. Tante e non meno luttuose migrazioni sono in atto nel pianeta e molte sono le coste italiane sulle quali si sbarca, ma Lampedusa è lo scenario perfetto, il laboratorio delle vie di fuga e dell'aporia globale.

Nessun determinismo quando la geografia lascia libera la storia. Alpi e Lampedusa stanno addirittura vivendo, proprio in questi anni, una straordinaria inversione di segni. Le montagne, da sempre spazio della comunicazione e insieme baluardo della Penisola, sono diventate nella percezione comune la concrezione che sigilla la solitudine nazionale, il tappo che impedisce a migliaia di senegalesi, sudanesi, guineani, maliani, ivoriani, gambiani, nigeriani, camerunesi, tunisini, marocchini, somali, eritrei, bengalesi di propagarsi in Europa. Quando lungo i confini settentrionali sono riapparsi i gendarmi, le Alpi sono diventate il simbolo della nostra claustrofobia. Lampedusa, che con la sua rassicurante colonia penale, istituita nel 1872, rappresentava un tempo il contenitore del pericolo sociale, appare invece a molti come il simbolo di uno Stato che il mare rende troppo accessibile. La velocità di questa recente inversione suggerisce che l'unico modo sconsigliato di leggere una storia mondiale dell'Italia è quello di chi, lungo i millenni, ricerchi unicamente le continuità eterne e la fissità dell'indole umana, cose che appartengono più alla mistica della nazione che alle stravaganze della storia. Se le personificazioni delle nazioni andassero ancora di moda, oggi l'Italia turrita dovrebbe avere mille abiti e mille corone.

Questo libro è pervaso dai cambiamenti, dalle trasformazioni, dalle cesure, dalle crisi e da qualche catastrofe. Il lettore non troverà in primo piano le grandi periodizzazioni, quelle familiari alla cultura diffusa e quelle più sofisticate, sulle quali gli storici esercitano la loro bravura. Ciò non significa che gli autori non credano in esse e che immaginino una storia d'Italia dominata dalle permanenze. Quanto alle 'costanti', che non sono sinonimo di continuità storica, esse costituiscono certo una trama forte dell'opera, ma non intendono rappresentare sempre e comunque un 'valore' della storia d'Italia: sono una creazione di chi guarda, un riscontro, un riconoscimento, ma il loro senso profondo sta soltanto nei vari laboratori che di volta in volta allestiamo per esaminarle con sguardo critico, senza pathos identitario. Spesso le costanti non sono altro che forme generali che ospitano sostanze diverse.

L'opera propone un racconto ma ad animarlo sono i tanti racconti che ci parlano della mobilità degli uomini e delle cose, nello spazio e nel tempo. Il racconto procede segnato dalle date, in molti casi precise in altri indicative e simboliche, ma i titoli che le accompagnano fanno subito comprendere che non si è entrati né in un manuale né in un'enciclopedia storica. La varietà degli argomenti favorisce una percezione immediata delle asimmetrie dei processi evolutivi, con l'intreccio di aspetti vischiosi e fluidi, allungati e sincopati. Nessuna comunità umana muta all'unisono, ma la storia d'Italia è stata quasi sempre, come si vedrà in tutto íl libro, il reame dell'asincronia. La vitalità dei classici antichi e del diritto romano dopo la caduta di Roma o la luminosità del Barocco nel mezzo di una palese emarginazione economica e politica sono solo due esempi tra i tanti.

L'unità della storia d'Italia è data ovviamente dal quadro geografico, ma ancor più dalle molteplicità etniche e culturali, quelle remote e quelle sopraggiunte nel tempo fino alle immigrazioni dei nostri giorni, dalla vitalità cangiante dell'urbanesimo, dalla convivenza armonica e dissonante dei regimi centrali e delle autonomie, dalla persistenza degli idiomi locali e delle lingue comuni (il latino, l'italiano). Una storia mondiale dell'Italia concepita per i nostri tempi non dovrebbe avere altra caratteristica che l'instabilità di chi guarda, che può volgersi in modalità di lettura: il lettore potrà infatti cominciare a suo piacimento dalle prime pagine, dalle ultime, oppure da un punto qualsiasi, cogliendo connessioni o lasciandosi semplicemente attrarre dal piacere della scoperta, annunciato magari da un titolo invitante.

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Pagina XX

Il carattere degli italiani è uno dei principali protagonisti di questo libro, anche perché forse nessun altro popolo ha ricevuto un numero altrettanto grande di aggettivi: li vediamo perpetuarsi negli stereotipi con i quali viene rappresentato un popolo amato e odiato, ammirato e disprezzato (in vari paesi del mondo 'italiano!' è stato spesso un insulto, ed è importante notare, come ha fatto Ernesto Galli della Loggia, che in questa antropologia elaborata dagli altri gli stereotipi meridionali hanno avuto la netta prevalenza). Il discorso sul carattere italiano si addensa in alcuni nuclei del racconto, dove incontriamo tra gli altri – l'inventario è necessariamente lacunoso – il machiavellico, il condottiero, il Latin lover, l'avventuriero, il terrorista, il mafioso, l'artista, il traditore, ma esso si ritrova non meno evidente come proiezione idealtipica di grandi personaggi che hanno illustrato in positivo o in negativo la storia mondiale dell'Italia.

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Pagina XXII

Una caratteristica della storia mondiale dell'Italia, considerata dentro la prospettiva dei millenni, è la presenza di due entità universali, l'impero romano e la Chiesa cattolica: è a esse che pensava Mommsen quando parlava di «propositi cosmopoliti». In antico, già prima di essere unificata politicamente, l'Italia si trovò inserita nel sistema imperiale romano, e la sua identità dovette convivere, ma a un livello inferiore, con quella rappresentata dalla metropoli. Essa era come ingabbiata in un movimento che la trascendeva, perché la spinta verso l'etnicità fittizia italica subì troppo presto la concorrenza dell'idea più forte espressa dalla potenza e dall'eternità di Roma, che si erano materializzate in un imperium sine fine. Nel sistema del dominio romano non erano contemplate gerarchie etniche concepite come immutabili perché risalenti a un nucleo primordiale: altrimenti i romani si sarebbero detti 'nati dalla terra', come gli ateniesi, e non discendenti di profughi venuti dall'Oriente. L'Italia godeva certo di una considerazione speciale, ma nei tempi lunghissimi a venire (i romani non avevano fretta...) ciascun popolo avrebbe avuto gli stessi diritti, se avesse dimostrato di rispettare la fiducia di Roma per un tempo storicamente adeguato e di condividere alcuni princìpi basilari della sua civilitas, non troppo pochi da dissolvere il senso di appartenenza comune, non troppo numerosi da cancellare i vari aspetti — religiosi, economici, giuridici, culturali in senso lato — che tenevano in vita almeno un residuo riconoscibile delle appartenenze locali. In altri termini, questo significava attribuire un valore assoluto non all'origine ma alla storia. Il destino dell'Italia era nella sua equiparazione alle province, cosa che puntualmente si verificò in età tardoantica. La storia mondiale dell'Italia antica tende dunque a dissolversi in quella dell'universalismo romano, ma l'Italia, per quanto incompiuta, fu una realtà senza la quale sarebbe impossibile immaginare, anche qualora mettessimo in piedi un laboratorio controfattuale, la storia del mondo romano. E così, in questo libro focalizziamo certo le presenze esterne degli italici, ma al tempo stesso proponiamo una sorta di voyeurismo italico, cercando di collocarci idealmente in questo o in quel luogo della Penisola per osservare le proiezioni di Roma nel mondo. L'universalismo romano, che il fascismo volle irrealisticamente resuscitare senza averne né la forza né i valori, e invalidandolo da ultimo con le leggi razziali (ignote ai romani), non ha ovviamente alcuna effettività nell'Italia di oggi.

L'universalismo cattolico rappresenta invece, pur nelle sue alterne fortune e nel mutare delle sue estroversioni, una presenza ininterrotta, dall'antichità ai giorni nostri. In questo libro esso interagisce con la storia mondiale dell'Italia adottando, come è stato fatto per l'impero romano, punti di vista e una retorica specifica che al lettore non sfuggiranno. È esistito indubbiamente un 'cristianesimo italiano', che ha irradiato gli altri paesi del mondo e che è stato riconosciuto come tale. Nel suo svolgimento storico non è stato un fenomeno uniforme: le influenze del cristianesimo orientale, per esempio, sono state a lungo robuste ed è ancora possibile individuarne sostrati significativi. Nel corso dei secoli, il cristianesimo italiano si è tuttavia identificato sempre più con quello 'romano', al punto tale che nessuna distinzione appare possibile. In questo processo, la visione universalistica del papato non si è mai esaurita, malgrado l'esistenza di uno Stato della Chiesa insediato nelle regioni centrali della Penisola e malgrado il titolo di Primate d'Italia spettante al pontefice. Da qualche decennio, il declino e la fine del 'papato italiano', la drastica riduzione dei cardinali italiani, la non meno forte contrazione della percentuale italiana nel clero impostano in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa e l'Italia. Di tutto questo e di altro ancora si parla nel libro, dove i rapporti tra Roma, l'Italia, l'Europa e il mondo, sul filo degli incontri e degli scontri tra le varie fedi e confessioni, hanno com'è giusto un notevole risalto. Come sempre abbiamo adottato una prospettiva centrata sia sulle personalità emergenti, sia sui gruppi e i movimenti, sia sugli Stati e le città.

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Pagina XXV

In un'opera come questa, che ha anche un'ambizione civile, è indispensabile precisare, ricordando le parole di Patrick Boucheron nella sua Histoire mondiale de la France, che il compito di uno storico non è né quello di cantare i destini mondiali della propria nazione, né quello di tessere «le lodi dei meticciati felici e delle circolazioni fecondanti». Aggiunge lo storico: «Bisogna dire ancora una volta che qui non si tratta di celebrare e nemmeno di denunciare? Che la storia sia, da molto tempo ormai, un sapere critico e non un'arte dell'acclamazione o della riprovazione, è un'idea che avremmo potuto ritenere acquisita; al giorno d'oggi essa conta avversari così numerosi che è forse una cosa buona ribadirla nuovamente». Ebbene, il sapere critico che chiamiamo storia ci dice che anche il meticciato, per essere un fenomeno evolutivo, ha bisogno di un habitat adeguato, che dobbiamo costruire politicamente.

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Pagina 2

Prima di chiamarsi Italia la Penisola aveva già una caratteristica che avrebbe qualificato la sua storia ulteriore fino ai nostri giorni: era un miscuglio di genti, lingue, culture, modi di vita, talmente ricco e diversificato che è difficile trovarne uno simile nella storia del mondo, soprattutto se lo paragoniamo all'estensione relativamente modesta del territorio. L'elenco dei popoli che a posteriori chiamiamo 'italici' sarebbe interminabile, ma a esso dovremmo aggiungere tra gli arrivi più recenti almeno i greci, che con le loro colonie hanno dato vita alla Magna Grecia. Quanto alle grandi isole, che i romani solo tardivamente inclusero nell'Italia, la Sardegna ebbe un popolamento abbastanza uniforme, mentre la Sicilia, prima di diventare una provincia romana, fu terra di nativi, indoeuropei, greci e fenici.

Alla grande varietà delle culture si aggiungeva una varietà altrettanto grande di paesaggi, che mutavano rapidamente, dalle coste alle pianure interne, dalle colline alle montagne, alternando climi temperati dove la vita era più dolce, e climi freddi, che in certi mesi dell'anno imponevano vere e proprie strategie di sopravvivenza.

La presenza di tante genti fu favorita dalla posizione geografica. Le Alpi potevano essere certo intese come una protezione, ma non hanno mai fermato chi volesse valicarle. Le coste estese per migliaia di chilometri, fitte di approdi e di porti naturali, invitavano agli sbarchi. L'abbondanza di laghi, fiumi e sorgenti, che oggi riesce difficile immaginare nella sua entità (in antico erano navigabili persino alcune aride fiumare del nostro Meridione) propiziava gli insediamenti, la formazione dei villaggi e delle prime città. Decisiva fu la dislocazione più orizzontale che verticale della Penisola, un vero e proprio ponte tra Est e Ovest, un invito ai contatti e ai trasferimenti.

L'Italia prima d'Italia era inoltre popolata anche da innumerevoli miti di origine, i racconti che ciascuna comunità immaginava per costruire la propria identità. Erano invenzioni accolte come verità, fantasie reali, modi indispensabili per definire sé stessi e gli altri. La maggior parte è andata perduta ma i pochi che rimangono sono frammenti preziosi di una galassia smarrita. Per una fatale coincidenza, il popolo destinato a unificare l'Italia sotto il proprio dominio fu anche quello che accolse un mito delle proprie origini che rispondeva perfettamente alla realtà multietnica della Penisola. I romani dicevano infatti di essere discendenti dei profughi di una città orientale distrutta, Troia. In quanto tali essi non erano consanguinei di nessun altro popolo e proprio per questo, avendo un'identità mistica forte, potevano includere, integrare, mescolarsi senza annientarsi nel crogiolo italico. Inoltre essi raccontavano che i primi abitanti di Roma non era gente di sangue puro (un concetto questo caro ai greci), ma una comunità etnicamente mista, di provenienza inaccertabile, di condizione sociale promiscua. In questo modo i romani davano una proiezione originaria alla straordinaria apertura della loro comunità, nella quale gli antichi vedevano la causa principale della loro potenza.

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Pagina 6

3200 a.C.
DAL GHIACCIO IL PRIMO UOMO DELLE ALPI



Errabondo, scaltro, ingegnoso.
Cacciatore e raccoglitore,
padrone dei grandi spazi selvaggi.
Conosce l'agricoltura e i metalli,
si copre il corpo di tatuaggi:
questo è l'identikit del primo uomo alpino.
Ma su di lui restano ancora
senza risposta un'infinità di domande:
cosa cercava a 3.000 metri di quota?
Cosa l'ha ucciso?
E come ha potuto conservarsi intatto,
per più di 50 secoli?



È l'alba di un giorno di giugno del 3123 a.C., circa venti minuti prima del sorgere del sole. All'erta già da qualche secolo sui loro osservatòri, gli astronomi sumeri improvvisamente avvistano verso sud, in direzione dell'oceano Indiano, un piccolo bagliore insolito, come una specie di cometa che squarcia il cielo dirigendosi verso nord-ovest. In pochi minuti, l'oggetto luminoso è perso di vista perché, attraversato l'equatore celeste all'altezza di Suez, sopra l'isola di Creta è entrato nel cono d'ombra della terra. Il bolide, il meteorite – si tratta in realtà di un asteroide di classe 'Aten', del diametro di circa 1 chilometro – continua però la sua corsa vertiginosa sopra i Balcani, e dalle parti del lago di Ocride entra nell'atmosfera terrestre, sorvolando in poco più di un minuto la costa dalmata, l'Istria e le Venezie, e puntando diritto verso la barriera alpina. L'impatto si ha nel Tirolo, prima con un monte detto Gamskogel, la cui vetta è tranciata di netto, e poi a Köfels, sul medio versante occidentale della Ötztal, dove infatti ci sono le tracce del maggiore cataclisma geologico dell'arco alpino, una frana di proporzioni inaudite.

Nel preciso momento dell'impatto, sopra un'ampia sella sulla testata della valle, a una quarantina di chilometri più a sud, c'è un uomo di guardia. Il luogo, oggi detto Tisenjoch, è un passaggio obbligato ma tutto sommato agevole, ancorché elevatissimo (3.208 metri), per chi voglia transitare dalle valli dell'Adige a quelle dell'Inn e, per tener d'occhio i confini di un pascolo, o come avamposto di caccia o di guerra tribale, la postazione è eccellente. In previsione dell'appostamento notturno, l'uomo si è portato dietro l'equipaggiamento necessario anche in giugno a una notte all'addiaccio a 3.000 metri di quota: mantella, gambali, scarpe imbottite, armi (un arco e delle frecce da completare), e tutto quello che occorre. All'impatto dell'asteroide l'uomo, investito da un'onda d'urto di eccezionale potenza, fa appena in tempo a cercare di proteggersi il viso con il braccio, ed è scagliato all'indietro con tutti i suoi averi sparpagliati alle spalle, mentre una freccia, conficcataglisi a fondo nella scapola dalla faretra per effetto della caduta, lo fa sanguinare. Tuttavia, è la stessa onda d'urto, violentissima, a non lasciargli scampo, mentre quella di calore si protrarrà per un tempo sufficiente a disseccarne a fondo le membra. Questa prolungata esposizione al calore, seguita dal repentino raggelarsi del clima che si verifica dopo ogni onda termica anomala, di origine per esempio vulcanica o meteorica, la cosiddetta 'oscillazione di Piora', ha garantito che le spoglie dell'uomo, conservate in condizioni perfette, siano rimaste sigillate nel ghiaccio per oltre cinquemila anni fino al pomeriggio di settembre del 1991 quando un bidello di Norimberga, Helmut Simon, di passaggio con la moglie, non ne scorgerà i resti affiorare in una pozzanghera d'acqua gelata a una cinquantina di metri dal sentiero, casualmente messi a nudo dall'attuale regime climatico di veloce recessione dei ghiacci millenari d'alta quota.»

La teoria, avanzata un po' in sordina ma non senza le cautele del caso da due inglesi esperti di missilistica, Alan Bond e Mark Hempsell, ha certamente dell'incredibile e non mancherà di far sorridere e anche di irritare qualche specialista della materia, ma certamente non sfigura in esergo a una vicenda in cui tutto è fuori dall'ordinario, a cominciare dalla presenza di resti umani così ben conservati a quelle altitudini estreme, e quindi alle incertezze e alle incresciose imperizie dei primi giorni, al fato del primo scopritore, Helmut Simon, perito anche lui in una tempesta di neve, come per una nemesi, e a tante leggende, tante curiosità anche improprie, e tante teorie più o meno strampalate, di cui quella dell'asteroide non è forse che la più esagerata.

Teoria eterodossa, che ha però il pregio di far riflettere su almeno due degli enigmi irrisolti di questo ritrovamento: il primo riguarda le condizioni specifiche della conservazione del corpo, disseccato prima ancora che propriamente congelato, essendo fra l'altro scampato del tutto indenne all'opera degli avvoltoi e dei corvi, e di qualche lupo o lince di passaggio, che ne avrebbero certamente fatto scempio in condizioni normali. Il secondo è il perché dello sparpagliarsi casuale del corredo, alle spalle dell'uomo ritrovato quasi nudo, e a qualche metro di distanza, a raggiera in direzione sud, come dopo un uragano.

Veniamo quindi al ritrovamento, capolavoro di serendipity. L'antico passaggio del Tisenjoch è da più di un secolo abbandonato in favore di una selletta di poco più bassa ma assai più angusta a un'ora e mezza di cammino verso sud-est, dove già nel 1899 veniva costruito il rifugio (3.016 metri) come punto di appoggio per l'ascensione al Similaun (3.597 metri), e verso la quale, al seguito degli alpinisti, si orientavano anche le transumanze ovicaprine che da millenni passano e ripassano la catena. Dal rifugio, per ritornare al Tisenjoch, nella direzione opposta a quella del Similaun, è una traversata disagevole e infida, con tanto di roccette a strapiombo, che nel 1991 non affronta certamente più quasi nessuno.

Fin da subito, pertanto, il transito in quel punto del signor Simon nel momento stesso in cui il ghiaccio in fusione sta lasciando scoperti i resti dell'antica sentinella, acquista il carattere di una coincidenza eccezionale, così come il passaggio del tutto casuale al rifugio, di lì a due giorni, dei famosi alpinisti Messner e Kammerlander, che proietta sulla scoperta il suo primo provvidenziale riflettore mediatico. Seguivano nella concitazione dei primi giorni alcune vicende controverse e non sempre del tutto chiare circa le modalità di rimozione dei delicatissimi reperti e il temporaneo loro collocarsi presso l'università di Innsbruck, prima della definitiva restituzione a Bolzano (1998), in un museo archeologico di nuova costituzione, quale esito positivo di un lungo braccio di ferro, non tanto tra Italia e Austria, ma tra Bolzano e Innsbruck: una lite in famiglia.

In questo contesto conflittuale, se la vedetta fosse italiana o tedesca, cisalpina o transalpina, è comunque, nel 3100 a.C., una questione senza senso. Del pari, allargando lo sguardo, risulta difficile capire che cosa siano le Alpi in questo momento: se l'estrema propaggine meridionale di un continente che ha per propria arteria principale il Danubio, e che si sta lentamente riempiendo di popoli agricoltori, o piuttosto la muraglia di contenimento del grande bacino mediterraneo dove si sono già affacciate non solo pastorizia e agricoltura, ma anche alcuni grandi centri di culto e il primo urbanesimo.

Ignaro di tutto questo, l'uomo del Tisenjoch, pur di certo gravitante sul lato a solatio della catena alpina, è soprattutto un utente esperto del proprio ambiente, un utente di consumata, inarrivabile perizia e abilità. Il suo corredo rappresenta infatti un meraviglioso campionario di tutto quello che sulle Alpi si può raccogliere in natura e poi utilizzare nell'abbigliamento, nella nutrizione, nella cura del corpo, nell'armamento, elaborato in millenni di attenzione al mondo e di sperimentazione intelligente. Ecco quindi ben selezionate, dal regno animale, le diverse pelli dell'orso (berretto, suole), del cervo (linguette dei gambali), del capriolo (faretra), di pecore e capre peraltro già domestiche (perizoma, gambali, sopravveste), poi il corno del cervo (punteruolo), i tendini e le interiora di qualche bovide (legacci), le penne d'uccello per le frecce, la carne dello stambecco, da consumarsi secca, ecc. Dal regno vegetale, ecco il tasso (l'arco), il viburno (le frecce), il nocciolo e il larice (la gerla), la betulla (due cilindri in corteccia, per portare braci), l'acero (foglie umide per avvolgervi le braci stesse), il frassino (il manico del pugnale), il legno del tiglio (punteruolo) e la sua fibra (cordelle intrecciate), il fieno per imbottire le scarpe, l'erba palustre della stuoia intrecciata, i chicchi di farro nella veste, residui di qualche lontana trebbiatura in fondovalle, il prugnolo da masticare, il fungo con proprietà antibiotiche, quello che serve da esca per accendere il fuoco, la pece di betulla come collante, e la polvere di carbone vegetale con cui, con notevole perizia grafica, si realizzano 61 piccoli tatuaggi a righe sottili. E dal regno minerale, ecco le selci lavorate di fino, un dischetto di dolomia traforata, e naturalmente l'ascia in rame massiccio, che è per l'epoca un oggetto di assoluta, formidabile distinzione.

Questa eccletticità, che riunisce in un'unica cultura la vita di caccia e di raccolta con le proposte già in essere di pastorizia e agricoltura, e con gli inizi della metallurgia, è per l'uomo un punto d'arrivo, il coronamento perfetto del lungo cammino della preistoria, in un momento in cui esso può forse ancora dirsi più padrone che servo del proprio mondo, come invece avverrà a breve con l'agricoltura, e l'instaurarsi dei suoi obblighi senza fine. È questo il mondo delle società di cacciatori più evolute raccontate dall'etnografia, come quella degli indiani della costa nord-occidentale d'America o di certe tribù di pastori del Corno d'Africa: un mondo in cui l'agricoltura, pur già nota e praticata almeno nei suoi princìpi fondamentali, è ancora una strategia di ripiego, un succedaneo, un di più.

L'uomo è ancora quello di sempre, un opportunista errabondo e scaltrissimo, che non teme la solitudine dei grandi spazi selvaggi, e che anzi proprio là trova la sua dimensione eletta, non avendo ancora chinato il capo davanti alle corvée e agli ordini di imbeccata delle società stanziali strutturate che ormai incombono appena dietro l'angolo.

Questa la fascinazione elementare che l'uomo del Tisenjoch – per tutti ormai 'Ötzi', dal nome della valle austriaca che dal Tisenjoch discende – sembra trasmettere alle migliaia di visitatori che affollano il museo di Bolzano, senza dubbio attratte da un richiamo ancestrale: la fascinazione di un antico Alce Nero, di un Toro seduto onnisciente del suo mondo, al cospetto diretto del cosmo, quale la storia successiva d'Europa non ha forse mai più conosciuto. La stessa fascinazione silenziosa, irriducibile e potente di cui scrive Hemingway, nelle Nevi del Kilimangiaro: «Presso la vetta, c'è la carcassa stecchita e congelata di un leopardo. Nessuno ha saputo spiegare che cosa cercasse il leopardo a quell'altitudine».

GIOVANNI KEZICH

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900 a.C.
GLI ETRUSCHI, UNA CULTURA ITALICA



Prima dei romani, nessun altro popolo 'italico'
è stato tanto aperto agli influssi esterni.
Padroni del mare, mercanti, pirati, agricoltori, ingegneri,
costruttori di splendide città e insuperabili interpreti
del volere divino: gli etruschi furono già in antico
una realtà e un mito, come ancora ai nostri giorni.



I greci li chiamavano tirreni (o tirseni), i romani tusci (o etrusci) mentre secondo Dionigi di Alicarnasso, retore e storico greco del I secolo a.C., il loro nome indigeno sarebbe stato rasenna (lo troviamo effettivamente attestato nei testi etruschi nella forma rasna). Dionigi sostiene inoltre che quel popolo era molto antico, che per lingua e costumi non era affine ad alcun altro e che alcuni lo ritenevano nativo della Penisola, altri forestiero. Queste parole hanno fatto scaturire ipotesi di ogni genere sull'origine degli etruschi e sul loro 'mistero'. La tesi dell'origine dalla Lidia (nell'attuale Turchia), sostenuta da alcuni autori antichi, può essere stata indotta dagli intensi contatti che gli etruschi hanno avuto con il Mediterraneo orientale.

Il dibattito si è concentrato soprattutto sul problema della lingua. In verità la lingua etrusca è perfettamente leggibile, essendo scritta in un alfabeto greco. Le nostre difficoltà di comprensione dipendono semmai dal fatto che essa non appartiene al gruppo linguistico indoeuropeo e dalla rarità dei testi bilingui, con la conseguente incertezza sul significato di molte parole. Più di recente si è cercato di far luce sull'origine degli etruschi ricorrendo allo studio dei gruppi sanguigni, ma i risultati sono spesso contradditori e tutt'altro che certi sul piano della stessa scienza della genetica.

Oggi gli storici tendono a concentrarsi più sul problema della 'formazione' della cultura etrusca che su quello delle 'origini'. Infatti non esiste, neppure in germe, una cultura etrusca al di fuori dell'Italia. Alla formazione di quest'ultima concorsero in misura decisiva gli apporti esterni, provenienti dalla Grecia e dal Mediterraneo orientale. Non si tratta di immigrazioni di massa ma di presenze individuali e di gruppo, protratte nel tempo, territorialmente diffuse.

Tra X e IX secolo a.C., nell'Italia centrale, dal Po al Tevere, si registrano importanti trasformazioni, che sono alla base della nascita delle città etrusche. Vengono occupati grandi pianori tufacei come Veio, Vulci, Tarquinia e Caere, alture isolate che dominano laghi o le coste marine come Vetulonia, Populonia e Verucchio, oppure siti che sorvegliano grandi itinerari di passaggio come Bologna e Volsinii (Orvieto). I territori circostanti si spopolano. Pianori e alture si dotano di mura, nascono i primi luoghi di culto e i grandi sepolcreti all'esterno delle aree abitate. Abitazioni e luoghi di culto in capanne si trasformano prima in edifici con strutture lignee e tetti di rami freschi, poi in grandi residenze con zoccolo in pietra e copertura fittile, spesso riccamente decorata.

Queste città, guidate da personaggi e famiglie eminenti, entrano presto in contatto con greci e levantini, attirati non solo dalle ricchezze del sottosuolo tirrenico ma anche dalla richiesta di beni di lusso da parte delle genti indigene. Le tombe principesche dell'Etruria, che riflettono lo stile delle dimore dei proprietari, restituiscono oggetti di lusso provenienti dalla Siria e dall'area fenicia, insieme con beni preziosi di produzione locale. Artigiani orientali danno vita all'oreficeria etrusca a granulazione e a pulviscolo; a scultori siriani viene attribuito l'inizio della scultura prodotta localmente. Ai coloni greci stanziatisi nel golfo di Napoli (Pitecusa a Ischia e Cuma sulla costa vicina) si deve l'inizio della ceramica dipinta e figurata: gli artigiani spesso si sforzano di accontentare la committenza adeguandosi alle esigenze del gusto dei notabili locali dando origine a uno stile spesso meno colto rispetto al modello greco. Cerveteri e Vetulonia sembrano svolgere un ruolo preminente nella produzione di oggetti d'arte.

I vasti territori delle varie città vengono trasformati quasi ovunque, e spesso per intero, in una campagna subordinata alle esigenze dei centri urbani, col conseguente svuotamento di significato di entità istituzionali alternative non urbane, come i pagi e i vici, che altrove in Italia mantengono invece la loro vitalità. Le città sono in grado di realizzare imponenti opere di bonifica e di regimentazione delle acque, che hanno segnato indelebilmente il paesaggio italiano, come in Val di Chiana o nelle pianure costiere del Tirreno fino al delta padano. La disponibilità di una consistente base agraria favorisce, a sua volta, i processi di accumulo della ricchezza, la produzione di un surplus che può essere rimesso in circolazione nel sistema integrato delle produzioni artigianali e del commercio: di qui la funzione trainante esercitata dalle aristocrazie nella gestione degli scambi e nell'acquisizione di beni di prestigio e di tecnologie avanzate mediante l'attrazione di manodopera specializzata.

Una conseguenza degli investimenti fondiari compiuti dalle aristocrazie etrusche fu l'incremento della produzione di olio e soprattutto di vino, quest'ultima eccedente ben presto il fabbisogno interno, al punto da consentire un'esportazione su larga scala, essendo il vino assai richiesto anche dalle popolazioni 'barbare' dell'Occidente. Tra la fine del VII e l'inizio della seconda metà del VI secolo a.C. gli etruschi sono stati forse i principali esportatori di vino nel Mediterraneo occidentale: lo testimonia l'ampia distribuzione delle loro anfore da trasporto, rinvenute in Campania, in Sardegna e soprattutto nel golfo del Leone e oltre, dalla Provenza alla Linguadoca e alla Catalogna, e presenti in queste regioni in quantità superiori a quelle delle coeve anfore fenicio-puniche e greche.

Questo commercio marittimo pone in evidenza l'antica dimestichezza degli etruschi col mare, superiore a quella di qualsiasi altro popolo dell'Occidente. Maestri della navigazione, ricchi di mezzi e di tecniche, gli etruschi esercitano una duplice talassocrazia: nel Tirreno, dove il ruolo marittimo più brillante è esercitato da Caere, e nell'Adriatico, dove primeggia Spina. Non pensiamo tuttavia a mondi chiusi, che si fronteggiano popolo contro popolo. Questa è soprattutto una storia di città, e da una parte e dall'altra gli episodi di violenza (in primo luogo la pirateria, praticata da tutti) convivono con contatti culturali ed economici intensi. Cosa eccezionale, Caere e Spina erano presenti con un loro 'tesoro' a Delfi, il più prestigioso santuario del mondo greco.

Il consolidamento del sistema urbano determina dunque un'espansione della domanda e la conseguente accelerazione delle dinamiche produttive, dove acquistano rilievo le attività artigianali e il commercio. Questo processo favorisce la formazione di nuove forze sociali: da un lato, un'aristocrazia cittadina dotata di risorse fondiarie e mobili, in grado di controllare i rinnovati mezzi di produzione e di scambio, dall'altro, un ampio strato subalterno che fornisce l'indispensabile forza lavoro, semplice manodopera e maestranze qualificate. Nel corso del VI secolo si attua un processo di pianificazione del tessuto abitativo, che porta alla definizione di impianti fondati su una scansione regolare delle strade. Attraverso l'adozione di un impianto regolare, le élites urbane realizzano un paesaggio urbano tendenzialmente egualitario, dove gli spazi politici e í luoghi di culto esprimono la loro supremazia rispetto a ogni forma di particolarismo. Questo modello comunitario si manifesta anche in ambito funerario, con sepolcri e corredi funebri che rifuggono dalle esibizioni di tipo principesco. Parallelamente, il culto aristocratico lascia il posto a quello civico, portando alla nascita dei grandi templi tuscanici.

A fronte dei progressi nel consolidamento dell'istituzione urbana, nello sfruttamento del territorio e nel sistema delle attività produttive e commerciali, non si realizzano nelle città etrusche quelle riforme della comunità politica che altrove conducono all'affermazione di un ceto autonomo di cittadini liberi, come avviene nel caso di Roma con la costituzione centuriata di Servio Tullio: troppo forte è il freno esercitato da un'aristocrazia ristretta che continua a detenere l'egemonia politica.

Nei decenni finali del VI secolo e nel V secolo a.C. la supremazia marittima etrusca viene contrastata dalle colonie greche della Campania (Cuma) e della Sicilia (Siracusa). Gli effetti sono immediati: i grandi porti delle metropoli etrusco-meridionali sono bloccati, mentre viene potenziato a nord il porto di Populonia, destinato soprattutto al traffico di minerali e metalli. Ormai il controllo dei traffici tirrenici è in mano ai siracusani. Tali avvenimenti interrompono la continuità del rapporto con il mondo orientale, con pesanti ripercussioni sulle attività produttive, mentre in Italia centrale comincia ad affermarsi la potenza romana. Dopo aver sconfitto Veio con una guerra decennale (405-396 a.C.), i romani iniziano la conquista dell'Etruria. Ormai il Tevere non segna più il confine tra etruschi e latini. Dalla metà del IV secolo l'Etruria meridionale è nell'orbita di Roma, allorché Tarquinia stabilisce con Roma una tregua di quarant'anni. Dallo scorcio di questo secolo e all'inizio di quello successivo si verifica una successione di scontri vittoriosi di Roma con varie città etrusche. Nel corso di poco più di una generazione l'Etruria viene conquistata da Roma con grande perdita di vite umane, ma senza il saccheggio delle città più importanti, escluse Veio, Roselle e Volsinii. Vengono dedotte man mano colonie e gli etruschi sembra si integrano nella vita e nella politica di Roma.

Nel I secolo d.C. la lingua etrusca non era più parlata e la cultura di quel popolo italico poteva dirsi ormai confluita in quella romana. Anche allora era tuttavia difficile immaginare che cosa sarebbe stata l'Italia romana senza la presenza etrusca, che lasciò segni fondamentali nella religione, nelle istituzioni, nelle tecniche, nei paesaggi. In età moderna la Toscana, per valorizzare la propria identità, avrebbe fatto talvolta riferimento alla dimensione etrusca, ma questi sono miti e fantasie politiche che non rendono conto della complessa esperienza della grande civiltà etrusca.

GILDA BARTOLONI

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753 a.C.
SANGUE MISTO



Una città che nasce dalla mescolanza.
Un amalgama di elementi etnici eterogenei,
un aggregato di culture diverse.
L'Asilo aperto a tutti,
persino a schiavi e a fuggitivi,
sulla cima del Campidoglio divenne per i romani
non solo un'immagine simbolo della propria identità,
ma il motivo ispiratore della loro politica internazionale.



La lupa che allatta i gemelli è l'immagine simbolo di Roma, e rappresenta bene la sua doppia natura, feroce e al tempo stesso accogliente. Questi due caratteri, così strettamente intrecciati nel mito di fondazione e apparentemente inconciliabili, costituiscano i poli estremi che delimitano l'identità politica romana. Ferocia terribile che non si arresta neppure di fronte ai consanguinei. Si racconta che Romolo avesse ucciso il fratello perché, attraversando con un salto il «solco primigenio» che doveva definire i confini della città, si era comportato da hostis, cioè da nemico (è tipico del nemico infatti non passare dalla porta ma scavalcare il muro).

Tuttavia, accanto a questo episodio, troviamo, sempre agli albori di Roma, miti di segno contrario che denotano invece apertura, solidarietà, accoglienza. Plutarco racconta che ancora prima di fondare la città, i due gemelli «istituirono un luogo sacro come asilo per i ribelli, e lo intitolarono al dio Asylaios [il dio dell'Asilo]: vi accoglievano tutti, non restituendo lo schiavo ai padroni, né il povero ai creditori, né l'omicida ai magistrati; anzi sostenevano che per un responso dell'oracolo di Delfi erano in grado di garantire a tutti coloro che vi si rifugiassero il diritto di asilo. In questo modo ben presto la città si riempì di gente, mentre a quanto pare le prime famiglie non superavano il migliaio».

Malgrado il nome greco, l'Asilo doveva avere un suo fondamento culturale e una dimensione topografica reale, forse legata alla presenza di un culto dedicato a un dio indigeno. I romani lo descrivono come uno spazio recintato, compreso fra due boschi, probabilmente un bosco anch'esso, posto a cavallo tra le due cime del Campidoglio, tra il tempio di Giove Ottimo Massimo e quello di Giunone Moneta. A poca distanza, alle pendici del colle, dalla parte del Foro, sorgeva la porta Pandana, la 'porta sempre aperta', il cui nome e la cui funzione sembrano confermare l'originaria vocazione all'accoglienza della città romulea, poiché, non potendo essere chiusa, doveva permettere agli stranieri di accedere liberamente, senza alcun impedimento, all' Asylum sovrastante. Dunque, i primi abitanti della città, che un giorno sarebbe divenuta caput mundi, sarebbero stati schiavi fuggitivi, esuli indigenti o persino assassini, insomma gente poco raccomandabile da cui era meglio tenersi alla larga. Una tale reputazione spiega l'estrema difficoltà incontrata dai romani nel farsi accettare dalle città limitrofe, restie, secondo la tradizione, a concedere in matrimonio le proprie donne a vicini di tal fatta.

Eppure sembra che esistessero in Italia diversi boschi sacri che, come quello aperto dai gemelli sul Campidoglio, garantivano a coloro che vi si rifugiavano il diritto d'asilo. Livio afferma che si trattava di un espediente a cui spesso ricorrevano gli ecisti (i fondatori di città) per esigenze di ordine demografico: «Romolo, seguendo l'antico metodo perseguito dai fondatori di città, che radunavano intorno a sé gente oscura e umile, facendo poi credere loro di essere nati dalla terra, per aumentare la popolazione, aprì un 'asilo' nel luogo che ora, per chi sale sul Campidoglio, appare recintato tra due boschi. Qui si rifugiò dalle popolazioni confinanti un'accozzaglia di gente, senza alcuna distinzione tra liberi e schiavi, avida di cose nuove». Dunque quello di Roma fu solo il più celebre degli antichi asili italici. La sua fortuna dipese da quella di Roma e dall'uso che essa volle fare di questo mito: quell'oscura selva sulla cima del Campidoglio, che garantiva a orde di latitanti e avventurieri fuggiti dai loro paesi di origine l'occasione di rifarsi una vita attraverso una nuova cittadinanza, doveva racchiudere agli occhi del mondo il senso profondo, la formula alchemica dell'identità romana. Ancora in età imperiale, Giovenale precisa che per quanto un romano possa sentirsi nobile e vantare l'antichità della propria stirpe, troverà comunque il suo primo antenato discendere dall'ignobile asilo romuleo. È naturale che una simile tradizione, apparentemente così poco edificante, sia stata spesso utilizzata dalla propaganda antiromana. I romani l'accolsero invece di buon grado nella loro memoria culturale, fino a farne il principio ispiratore della loro politica in Italia prima, e nel Mediterraneo poi.

Ma il carattere composito e allogeno della prima comunità cittadina riemerge anche in una particolare cerimonia del rito di fondazione. Dopo aver seppellito il fratello, racconta ancora Plutarco, Romolo fece venire dall'Etruria degli esperti perché lo istruissero sul modo in cui si dovesse fondare una città. Seguendo le loro indicazioni egli scavò una fossa circolare nei pressi del Comizio dove fece deporre le primizie di tutto ciò che «è bello secondo la consuetudine, o necessario secondo la natura». Quindi, ciascun colono (possiamo presumere che molti di essi provenissero dai vicini centri italici) fu invitato a gettare in questa sorta di pozzo una manciata di terra prelevata dal paese di origine, che sarebbe stata poi mescolata insieme alle altre. Il gesto ha un evidente significato simbolico: attraverso l'impasto delle zolle, infatti, non soltanto si mette fisicamente insieme la terra di provenienza, ma si fondono simbolicamente anche le culture di cui ciascun colono è portatore. In questo modo si 'costruisce' una terra comune, che riassorbendo, almeno idealmente, le differenze etniche e sociali, costituirà il polo identitario della nuova comunità. Non è forse un caso che questo luogo in cui si mescolano e fondano le diverse identità dei primi coloni, vero e proprio crogiolo culturale, sia denominato mundus, termine che in latino indica il 'cielo', ma anche il 'cosmo'. In effetti il rito, per come ce lo descrive Plutarco, assomiglia a una cosmogonia. È proprio intorno al mundus che viene poi tracciato il sulcus primigenius, ossia il solco che delimiterà il percorso delle mura: «Poi segnarono il perimetro della città come un cerchio intorno al centro». L'immagine è quella di un compasso che ruotando intorno all'asta fissata sul mundus-centro, traccia con l'altra, quella mobile, il perimetro-circonferenza del nuovo abitato. Il mundus costituiva dunque il punto di partenza, in senso geometrico e simbolico, di una città che viene pensata da subito in termini cosmogonici. Il fatto è che per i romani la città non è soltanto una 'metafora cognitiva', un modo di pensare e addomesticare il mondo, ma essa stessa concepita come un mondo (il mondo dei romani naturalmente) che nasce dalla mescolanza, dall'amalgama di elementi eterogenei, che si configura sin dall'inizio come aggregato di culture. Per entrarvi a far parte i coloni dovranno mettere insieme, condividere, mescolare le loro origini simbolicamente rappresentate dalle zolle di terra che ciascuno di essi verrà a gettare nel mundus.

Siamo agli antipodi di ciò che professa il mito dell'autoctonia ateniese o tebana, secondo il quale gli abitanti di quelle città sarebbero «nati dalla terra» (Isocrate, Panegirico, 23-26). Se ad Atene o Tebe è la terra che, producendo dal proprio seno gli uomini, fa la città, a Roma avviene esattamente il contrario, sono gli uomini che fanno la città mettendo insieme la terra da cui provengono. Un popolo che si autorappresentava, lo dice Virgilio, come un genus mixtum, ibrido sin dalle origini, non poteva essere particolarmente geloso del proprio sangue, come invece lo furono i greci, e dunque non temeva di condividerlo con altri. Per questo i romani concedevano la cittadinanza a tutti coloro che, indipendentemente dalla loro origo, ossia dal luogo di nascita, se ne dimostravano degni. In altre parole, nell'antropologia politica romana la nozione di 'purezza etnica' era sostanzialmente inesistente.

La concezione romana delle origini, ben espressa nei racconti di fondazione, trova il suo fondamento teorico, una sorta di modello archetipico, in un altro mito, dotato anch'esso di una straordinaria forza politica: quello delle origini troiane. La guerra di Troia costituiva il 'big bang' della storia antica, era la guerra per eccellenza, alla quale, in un modo o nell'altro, tutti i popoli del Mediterraneo, a posteriori, hanno cercato di prendere parte: mettere un piede nel mito omerico, poter vantare antenati che avevano combattuto al fianco di Achille o di Ettore, conferiva un indiscutibile sigillo di nobiltà alle origini di un popolo. La scelta dei romani di presentarsi come discendenti dei troiani non poteva certo essere priva di conseguenze sul piano dell'autorappresentazione politica: significava che i romani, data l'estinzione dei propri antenati culturali, si sentivano un po' come dei 'figli unici' che non avevano consanguinei con cui spartire l'eredità dei loro progenitori. Se nessun altro popolo poteva vantare la loro discendenza, allora voleva dire che tutti gli altri popoli, dentro e fuori dell'Italia, indipendentemente dalla loro lontananza geografica e culturale, erano da loro ugualmente distanti. Per questo nei rapporti internazionali Roma tendeva a sottostimare l'elemento etnico, preferendo piuttosto affidarsi al grado di romanizzazione dei suoi interlocutori. Ma poiché è il tempo, e non i vincoli di sangue, a dettare le regole dell'integrazione, tutti possono divenire romani, il mondo stesso può essere romanizzato. D'altra parte, è questo il destino che già in età augustea Ovidio attribuiva alla città di Romolo (far coincidere i suoi confini con quelli del mondo); un destino che appariva definitivamente compiuto in età tardoantica agli occhi di un altro grande poeta, Rutilio Namaziano, il quale, cantando il tramonto dell'Urbe, non poteva fare a meno di ricordarne la missione civilizzatrice: «Hai fatto di genti diverse una sola patria, / la tua conquista ha giovato a chi viveva senza leggi; / e offrendo ai vinti l'unione nel tuo diritto / ciò che prima era il mondo (orbis) l'hai reso un'unica città (urbem)».

GIANLUCA DE SANCTIS

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Per le élites della Penisola del tempo, il tardo Quattrocento è la fine della libertà italiana. Il sacco di Roma da parte delle truppe dell'imperatore e re di Spagna Carlo V e di mercenari italiani nel 1527 ne è forse l'episodio più drammatico. La dominazione straniera, la decadenza, la marginalizzazione nel nuovo ordine mondiale: è una grammatica che si elabora nel primo Cinquecento, che tornerà in auge tra Sei e Settecento al tramontare dell'egemonia spagnola, e si codificherà nella narrazione in termini nazionali degli storici dell'Ottocento.

L'Italia in un «angolo dell'universo», insomma, come (echeggiando Guicciardini) avrebbe scritto Montesquieu con la penna di nobile magistrato di un regno potente, la Francia. Intanto, si cristallizzano stereotipi dell'italiano (poco importa da che parte della Penisola venga) amorale, intraprendente ma sleale, abile politico e dai gusti stravaganti. Quanto più evanescente la politica, tanto più corposa la vita immaginaria delle nazioni prima delle nazioni.

Tra XV e XVIII secolo, un'ampia parte del globo è dominata da un impero: la Cina dei Ming e dei Qing, l'India dei Mughal, la Persia dei Sefavidi, l'Africa del Manden; nel Mediterraneo e nel mar Rosso, gli ottomani e gli spagnoli, un impero che si estende nelle Americhe e fin nelle Filippine; a Nord, il medievale Sacro Romano Impero, in perenne riconfigurazione, e poi i portoghesi, più tardi i francesi, gli olandesi, gli inglesi, i russi...

Di questi imperi, gli Stati italiani son soggetti come Napoli e Milano, o son tributari. Non hanno grande iniziativa politica, salvo slanci contro il Turco minaccioso. Una Penisola sotto il controllo della Chiesa, dove (come altrove, del resto) si è uccisi per ragioni di fede, e per ragioni di fede si è rinchiusi in ghetti e bagni, dove — bianchi e neri, uomini e donne — si vive da schiavo, si campa in povertà nel feudo e nelle città, si muore di peste. La guerra guerreggiata è rara, non quella di mare e di corsa. Come altrove, si fanno rivolte per il pane e contro i re, e meno perché sono stranieri che perché impongono modi accentratori di governo e tasse.

Ma è anche un mondo dove culture e fedi continuano bene o male a convivere e a stabilire legami che travalicano la Penisola. Prosperano le aristocrazie della spada, della terra e del denaro che in questi imperi globali trovano nuovi circuiti di potere, onore e arricchimento. Per loro natura compositi, gli imperi favoriscono la circolazione delle persone. Le città continuano ad abbellirsi, non fosse altro che per esaltare la religione cattolica. In Italia si va a studiare, a pubblicare l'eredità classica, ad apprendere le lingue, a indagare la natura e la storia e le antichità, a perfezionare le arti del disegno. Semplicemente, per lavorare e per commerciare. O a prender moglie, nel mercato matrimoniale transnazionale della nobiltà.

Una sorta di lunghissimo Rinascimento, a guardar bene, un soft power della debolezza, si direbbe quasi. L'Italia in decadenza è una realtà di intrecci inattesi, di visioni globali, di modelli universali attualizzati, di itinerari sorprendenti, di reti commerciali transimperiali, di individui, oggetti, scritti, conoscenze, immagini che viaggiano tra le quattro parti del mondo. Di contatti e conflitti che sono pur sempre un modo di scambiare: nel Mediterraneo, prima di tutto, dove la frontiera confessionale non è così ermetica come si è a lungo pensato, in un'Europa sempre in guerra, verso Oriente e Occidente.

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1495
LUMI GRECI, LIBRI ITALIANI



A Venezia, nella cooperazione tra mercanti,
umanisti e tipografi,
si realizza l'avventura di Aldo Manuzio.
La stampa, una tecnologia ancora ai suoi albori,
viene utilizzata per rendere accessibile
una lingua del passato.
Mettendo in pagina quattro tradizioni culturali,
nuove scoperte e antiche interpretazioni,
nasce la cultura scientifica moderna.



Il 1° novembre 1495 la tipografia di Aldo Manuzio , sita a Venezia presso la chiesa di Sant'Agostin, pubblicò il primo volume delle opere di Aristotele nel testo originale greco. In tre anni uscirono dai torchi altri quattro volumi, per un totale di 1.792 pagine dal grande formato in folio, evidentemente destinato a un pubblico universitario. All'epoca Manuzio aveva quarant'anni, era un insegnante umanista che aveva intrapreso l'attività di editore da pochi mesi, in un contesto gravido di presagi infausti. L'anno prima, infatti, l'esercito del re di Francia aveva invaso la Penisola e Venezia si era mobilitata per fronteggiare il pericolo. Insomma, la congiuntura sembrava propiziare le armi anziché i libri. Ciononostante, l'Aristotele greco fu la più importante impresa editoriale del Quattrocento e uno spartiacque della cultura europea nella stagione in cui si dischiudevano le rotte transoceaniche.

Si trattava di una novità clamorosa sotto vari aspetti. La serie comprendeva molte, seppur non tutte, quelle opere composte da Aristotele, edite in forma integrale e senza apparati esplicativi, ed era completata dai testi dei più antichi commentatori greci del filosofo, tra i quali Teofrasto e Alessandro di Afrodisia. Per la prima volta, la giovane tecnologia della stampa a caratteri mobili, importata circa trent'anni prima dalla Germania, veniva utilizzata per un'operazione così monumentale e impegnativa sotto il profilo dell'investimento economico.

L'Occidente si nutriva da secoli del pensiero aristotelico, ma per lo più attraverso la cogente mediazione degli interpreti arabi e cristiani. Nell'Europa tardomedievale Aristotele rappresentava il punto di riferimento del sapere negli ambiti della retorica, della politica, della metafisica, della filosofia naturale e di molto altro. Gli studenti universitari si affaticavano sui suoi scritti, illustrati dai professori sulla base di traduzioni in latino e dei commenti di autori come Averroè (Ibn Rushd) o Tommaso d'Aquino, anch'essi tradotti o composti in latino.

Le cose iniziarono a cambiare a partire dal tardo Trecento, allorché l'impegno degli umanisti italiani condusse alla rinascita dell'antica cultura scritta greca. Si scoprirono manoscritti rimasti dimenticati nelle biblioteche dei conventi e vennero ingaggiati insegnanti greci in grado di leggere e pronunciare correttamente il greco antico; soprattutto dopo la conquista ottomana di Bisanzio, arrivarono in Italia testi che si ritenevano perduti o erano noti in maniera frammentaria, attraverso gli adattamenti arabi e latini. Grandi ricadute anche pratiche ebbe, ad esempio, la Geografia di Tolomeo, tradotta in latino all'inizio del Quattrocento e stampata per la prima volta con le illustrazioni a Bologna nel 1477 per poi rimbalzare in Europa e nel mondo ottomano.

La stampa amplificò in maniera decisiva il processo di rinascita della scienza greca ed ellenistica. Certo, i primi tipografi pubblicarono soprattutto edizioni in latino o in volgare, piuttosto che in greco, lingua comprensibile a un pubblico assai ristretto. Tuttavia, a partire dal 1471 talune opere in greco vennero stampate a Milano, Firenze e in altre città italiane; nessuna fu edita nel resto d'Europa prima del 1507. Erano però grammatiche e testi letterari, come Omero e Esopo. Fu questa la grande novità dell'Aristotele in greco.

Per realizzare il suo progetto Manuzio fondò una società insieme a uno stampatore affermato, Andrea Torresano, e a un ricco parente del doge, Pierfrancesco Barbarigo, e ottenne un consistente contributo dal principe di Carpi, Alberto Pio; arruolò collaboratori forestieri quali l'esule cretese Arsenio Apostolis e l'inglese Thomas Linacre, si procurò i migliori manoscritti in circolazione e commissionò a Francesco Griffo l'incisione di appositi caratteri di stampa, in seguito imitatissimi. Venezia rappresentava lo scenario ideale, forse l'unico, per una simile impresa. Era una delle capitali economiche dell'Europa e del Mediterraneo e il principale centro editoriale, con decine di tipografie attive, nelle quali lavoravano greci, tedeschi, dotti ebrei e armeni. Il suo ceto dirigente era formato da patrizi abituati a commerciare con l'Oriente e in forte competizione tra loro, quindi desiderosi di sfoggiare la propria autorevolezza, anche sulla scena culturale. Tra Venezia e l'università di Padova, ma pure a Bologna, Firenze, Ferrara, Napoli e Roma, negli anni Novanta del secolo si era formato un pubblico attratto dallo studio del greco antico. Il programma di Manuzio echeggiava le convinzioni di umanisti come Ermolao Barbaro e Giorgio Valla, i quali ritenevano che la cultura greca fosse importante altrettanto, se non di più, della tradizione latina e che la maniera migliore per accedervi consisteva nel leggere i testi integrali in originale, approntando buone edizioni. La stampa offriva eccezionali opportunità per diffondere tale conoscenza.

Così, a partire dal 1495, Manuzio stampò 94 prime edizioni di autori greci in greco: Aristofane, Erodoto, Tucidide, il già ricordato Aristotele, Platone e gli altri principali filosofi naturali, i medici, i cosmografi e gli astronomi (anche quelli latini), nonché Dioscoride, il più importante autore di materia medica – noi diremmo di farmacologia – dell'antichità. Stampò inoltre numerose opere latine e italiane correlate a testi greci, come il De rerum natura di Lucrezio, testo riscoperto solo nel 1417, che illustrava in versi l'atomismo di Epicuro. Altri tipografi lo imitarono; a Venezia apparvero in greco gli scritti medici di Galeno (1500, dalla tipografia di Zacharias Kallierges e Nikolaos Vlastos, l' Opera omnia dai tipi aldini è del 1525) e le opere attribuite a Ippocrate (1526, stampate dagli eredi di Manuzio e Torresano). Dalla laguna i libri di Aldo vennero venduti in Europa, attraverso la capillare rete commerciale dei mercanti veneziani. Sebbene non fossero volumi per tutte le tasche né per tutti i lettori, formarono la base per una crescente comunità di specialisti, da Oxford a Heidelberg, da Basilea a Alcalà, avida di confrontarsi con i testi dei maestri greci.

Fu una rivoluzione. Già la cultura medievale era stata acutamente consapevole delle contraddizioni rinvenibili negli insegnamenti degli antichi, ma ora leggere quelle opere tutte insieme, nei loro nudi testi, senza i filtri della scolastica medievale – le traduzioni sbilenche, i commenti ingessati – gettava luce sulla poliedricità della cultura scientifica greca ed ellenistica, rivelava dottrine e scuole poco note, evidenziava le ipotesi discordanti intorno ai fenomeni della natura. Disporre della raccolta degli scritti di Aristotele significava constatare fino a che punto essi contenevano teorie contrastanti; l'autore aveva formulato varie ipotesi, cambiato idea. Dello stesso Galeno, caposaldo della cultura medica medievale araba, latina e persiana, ma i cui insegnamenti erano trasmessi attraverso un ristretto numero di scritti, si aveva un quadro assai più articolato.

L'impatto fu notevolissimo anche perché quelle che oggi chiamiamo discipline scientifiche, insegnate nelle università, erano le roccaforti delle tecniche intellettuali tradizionali. Infatti, i commenti medievali seguitarono a essere diffusi attraverso le stampe. A maggior ragione, medici, cosmografi, matematici e filosofi naturali furono sommersi da una polifonia di voci, provenienti da quattro culture diverse – la greca, la latina, l'araba e la medievale cristiana.

I dibattiti si accrebbero, stimolando aggiornate traduzioni dei testi, accessibili ai non grecisti e stampate in tutta Europa, oltre alla stesura di una valanga di ulteriori commenti, indici e riduzioni in uno scenario di espansione dell'istruzione superiore. Tra XV e XVI secolo furono circa ottanta le nuove università nel continente, cui si aggiunsero le istituzioni fondate nei domìni coloniali, nei quali la cultura classica arrivò anche grazie ai gesuiti (la prima università fu fondata a Santo Domingo dai domenicani nel 1538, il primo collegio gesuita di Città di Messico nel 1576).

Gli autori antichi, in primo luogo Aristotele, rappresentarono ancora le guide insostituibili per comprendere i fenomeni della natura, e anzi nei decenni centrali del Cinquecento si consolidò un moderno aristotelismo. Tuttavia il caleidoscopio di insegnamenti che provenivano dal passato agevolò i confronti tra ipotesi differenti e nuovi indirizzi di ricerca. Come avvenne nel caso degli studi sull'anatomia umana, che nelle università italiane, inglesi, spagnole, svizzere e tedesche entrarono a far parte stabilmente del curricolo dei futuri medici sulla scia della riscoperta e nuove traduzioni dei trattati anatomici di Galeno.

Del resto, a imporre di meditare sui testi antichi e metterne alla prova la validità stavano gli orizzonti del Nuovo mondo che si apriva. Gli esploratori avevano constatato che la cosiddetta zona torrida della terra, compresa tra il tropico del Cancro e quello del Capricorno, era abitata; dunque, Aristotele e Averroè sbagliavano nel ritenere che fosse troppo calda per l'uomo. E come inserire nel catalogo di Dioscoride le piante portate dalle Americhe: erano davvero sconosciute? Come usarle in medicina se Galeno non le conosceva? In pochi decenni, una massa enorme di conoscenze nuove o dimenticate entrò in circolazione e venne propagata attraverso la stampa in un mondo sempre più connesso dai circuiti economici, politici e intellettuali degli europei. L'umanità non era mai stata sottoposta a un simile processo di assimilazione. Dall'Italia, grazie alla nuova tecnologia e all'incontro di culture, la riappropriazione degli autori greci produsse la trasformazione dei saperi in un'epoca di tumultuosi mutamenti.

ERMINIA IRACE

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1946
CRIMINALI DI GUERRA
NOI?



Dopo l'8 settembre, gli Alleati cominciarono a preparare
una lista di criminali di guerra da processare e punire.
Oltre 1.000 nomi di italiani risultarono nell'elenco,
ma solo un pugno di malcapitati finiti in mano russa,
greca o iugoslava scontò le proprie colpe.
Mancò una 'Norimberga italiana', una resa dei conti
per sancire responsabilità e crimini.



'Palikuci', i 'brucia case', era questo il nomignolo affibbiato agli occupanti italiani in Iugoslavia durante la seconda guerra mondiale. E non solo lì le nostre truppe si erano guadagnate una triste nomea attuando dal 1941 al 1943 una dura repressione dei movimenti di resistenza sconfinata in azioni cruente rivolte anche contro le popolazioni civili. Non solo in Slovenia, Dalmazia, Croazia, Montenegro, ma anche in Albania, in Grecia e nei territori dell'Unione Sovietica aggrediti insieme ai camerati nazisti, gli italiani avevano attuato misure di controguerriglia sfociate in incendi di villaggi, depredamento o distruzione di beni alimentari, rastrellamenti e rappresaglie con fucilazioni di ostaggi, stragi e deportazioni di uomini donne e bambini. Nel campo di Arbe (Rab) in Croazia furono internati più di 7.000 civili, soprattutto sloveni, di cui circa 1.500 furono lasciati morire di fame, stenti e malattie. A Domenikon, un piccolo paesino della Grecia interna, nel febbraio 1943 i soldati in grigioverde della divisione Pinerolo, dopo un attentato dei partigiani, rastrellarono e passarono per le armi tutti i maschi, esclusi i ragazzini e gli anziani: oltre 140 vittime, 16 greci per ogni italiano caduto nell'imboscata. Va detto che le forze italiane di occupazione non si macchiarono di crimini di massa di tipo genocidiario, come quelli perpetrati dagli alleati tedeschi contro gli ebrei e i rom, e in molte occasioni agirono per mettere in salvo i civili, come nel caso gli ebrei braccati dai tedeschi o dei serbi presi di mira dagli ustaša croati. Gli occupanti italiani commisero tuttavia gravi crimini di guerra e di questi crimini fu chiesto loro conto dopo la resa del paese nel settembre 1943.

Uscita dalla guerra come nazione nemica sconfitta sottoposta a resa incondizionata, l'Italia era tenuta – in base a una clausola del cosiddetto 'lungo armistizio' firmato a Malta il 29 settembre 1943 – a consegnare agli Alleati «Benito Mussolini, i suoi principali associati fascisti e tutte le persone sospette di aver commesso delitti di guerra». L'impegno a punire tutti i criminali di guerra dell'Asse, compresi gli italiani, fu ribadito il mese successivo da Stati Uniti, Unione Sovietica e Gran Bretagna alla conferenza di Mosca. E poco dopo fu istituita a Londra la United Nations War Crimes Commission (Unwcc), una commissione cui partecipavano 17 paesi, incaricata di raccogliere e vagliare le accuse di crimini di guerra commessi dal Terzo Reich e dai suoi alleati al fine di compilare liste di criminali di guerra da sottoporre a giudizio al termine del conflitto. Alla fine più di mille risultarono gli italiani, fra militari e funzionari dell'amministrazione fascista, accusati di violenze e crimini di guerra contro civili iscritti nelle liste della Unwcc o richiesti direttamente al governo di Roma dopo la firma del trattato di pace nel febbraio del 1947. Circa 750 furono richiesti dalla Iugoslavia di Tito, poco meno di duecento dalla Grecia, 142 dall'Albania, 30 dalla Francia, 12 dall'Unione Sovietica, 10 dall'Etiopia (che poi si limitò a rivendicarne solo due ma di grande spicco: Pietro Badoglio e Rodolfo Graziani). A questi vanno aggiunti gli italiani indagati dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti per crimini commessi contro i militari alleati. Furono un centinaio gli italiani processati da corti militari alleate in Italia per questo tipo di crimini e non mancarono alcune sentenze di morte, come quella a carico del generale Nicola Bellomo. Tutti gli altri invece riuscirono a farla franca, nessuno fu estradato come previsto dagli accordi internazionali. Diversamente dalla Germania e dal Giappone, l'Italia riuscì a evitare la punizione dei suoi criminali di guerra. Solo un pugno di malcapitati, caduti dopo l'armistizio nelle mani delle autorità iugoslave, greche, albanesi o sovietiche, scontò le proprie colpe vere o presunte. Mancò però una resa dei conti giudiziaria su vasta scala, mancò quella che possiamo definire una 'Norimberga italiana'.

Come si arrivò a quest'esito? Diversamente dal Reich nazista e dal Giappone imperiale, l'Italia dopo la sconfitta poté mantenere un governo legittimo, riconosciuto dai vincitori come 'cobelligerante', che fin dall'inizio mise in atto una strategia di difesa nei confronti dei connazionali accusati di crimini di guerra. L'azione fu concertata innanzitutto dagli apparati del ministero della Guerra e del ministero degli Esteri, già implicati nelle politiche di occupazione dell'Italia fascista. Per difendere gli interessi nazionali, ma anche per tutelare il destino personale di molti militari e funzionari che figuravano nelle liste dei criminali di guerra, tali apparati elaborarono una strategia che faceva perno su alcuni punti fondamentali: 1) la rivendicazione del diritto di giudicare i criminali di guerra presso tribunali italiani; 2) la rivendicazione del carattere umanitario delle occupazioni italiane e dei meriti acquisiti nella protezione dei civili, in particolare degli ebrei; 3) la distinzione netta della condotta italiana da quella brutale degli ex alleati tedeschi, cui si univa la rivendicazione del contributo prestato alla lotta contro la Germania dopo l'8 settembre 1943; 4) la colpevolizzazione dei partigiani (specie comunisti) per l'imbarbarimento della guerra. A fare propria questa linea difensiva fu prima il governo monarchico guidato da Badoglio e poi, dalla primavera 1944, tutti i governi di unità nazionale antifascista.

Le due direttrici principali su cui fu impostata l'azione italiana furono la preparazione di una 'controdocumentazione' per rispondere alle accuse di crimini di guerra (in primo luogo a quelle mosse dalla Iugoslavia, l'accusatore più tenace) e la rivendicazione del diritto di giudicare in Italia i presunti criminali di guerra. La preparazione della 'controdocumentazione' ebbe come scopo principale non di accertare le responsabilità delle persone incriminate dalla Iugoslavia, ma di raccogliere prove sulla loro innocenza e di ribaltare le accuse sui partigiani iugoslavi. Sfruttando i documenti raccolti, il ministero della Guerra preparò dei dossier sull'occupazione italiana della Iugoslavia, che il ministero degli Esteri inviò alle tre grandi potenze occidentali – Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia –, col fine di ottenere appoggio politico-diplomatico ed evitare la consegna dei criminali di guerra. In questi dossier gli occupanti italiani erano raffigurati come soldati bonari, solleciti a difendere le popolazioni civili dalle angherie dei partigiani comunisti e degli ustaša croati. Si affermò, in spregio alla realtà, che le truppe italiane nella loro condotta bellica non avevano mai violato le regole internazionali, salvo casi sporadici, ove ciò era accaduto come naturale reazione agli atti di barbarie compiuti dai 'ribelli comunisti'. A queste accuse relative al periodo dell'occupazione 1941-1943, si aggiunse una gran mole di documentazione sulle uccisioni di italiani compiute da parte iugoslava dopo il settembre del 1943 e dopo la fine della guerra, le cosiddette foibe. Anche questa 'controdocumentazione' fu utilizzata come arma diplomatica e servì ad alimentare un'intensa campagna di stampa contro i delitti iugoslavi, che raggiunse l'acme nel corso del 1946, anno di discussione del trattato di pace. Sulla base del materiale raccolto, il ministero degli Esteri apprestò infine una 'controlista' di criminali di guerra iugoslavi con circa 200 nominativi, fra cui figurava il maresciallo Tito. I crimini imputati andavano dalle sevizie alle uccisioni indiscriminate, dallo scempio dei cadaveri al cannibalismo. Gli accusatori venivano così portati sul banco degli accusati.

La seconda strada scelta dall'Italia per opporsi alle richieste di consegna dei propri criminali di guerra fu la rivendicazione del diritto italiano di processare i responsabili. Per dimostrare la serietà del proposito di fare giustizia 'in casa propria', nel maggio 1946 fu istituita presso il ministero della Guerra una commissione d'inchiesta col compito di accertare le responsabilità di militari e degli italiani accusati di crimini di guerra e di deferire gli eventuali colpevoli alla giustizia militare italiana. La commissione si rivelò in realtà un ottimo strumento per rinviare sine die la consegna dei criminali di guerra e per preparare il loro completo salvataggio. Va detto che, malgrado la sua impostazione innocentista, la commissione deferì alla giustizia militare una quarantina di persone a carico delle quali erano state riscontrate prove di colpevolezza. Fra queste figuravano i vertici dell'esercito e dell'amministrazione fascista in Iugoslavia, come i generali Mario Roatta, Mario Robotti e Alessandro Pirzio Biroli, come Emilio Grazioli già Alto commissario della provincia di Lubiana o come Francesco Giunta e Giuseppe Bastianini, ex governatori della Dalmazia. Dal 1946 al 1947 il ministero degli Esteri, guidato da due figure di antifascisti irreprensibili come Pietro Nenni e Carlo Sforza, sollecitò lo svolgimento dei processi. Poi, nel 1948, dopo l'estromissione delle sinistre dal governo (maggio 1947) e nel clima dell'incipiente guerra fredda, anche gli Esteri si allinearono alla posizione del ministero della Difesa e della procura generale militare, decisi a procrastinare a tempo indefinito l'inizio dei procedimenti giudiziari. Il governo De Gasperi avallò pienamente questa decisione. Del resto, Roma aveva avuto l'appoggio degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, preoccupati di non compromettere il destino di numerosi generali italiani accusati di crimini di guerra sui quali le potenze occidentali contavano per la ricostituzione delle forze armate italiane.

Dopo la rottura di Stalin con Tito nel giugno del 1948, persino la Iugoslavia, priva dell'appoggio sovietico, rinunciò a chiedere la consegna dei criminali di guerra italiani. E anche gli altri paesi, come la Grecia, fecero lo stesso. Solo l'Etiopia intraprese un ultimo tentativo infruttuoso nel 1949. L'Italia, dal canto suo, evitò di procedere contro i criminali di guerra deferiti dalla commissione d'inchiesta alla giustizia militare. Nel luglio 1951 la magistratura militare archiviò tutte le istruttorie ricorrendo a un cavillo giuridico basato sulla mancanza di reciprocità da parte iugoslava: in sostanza, siccome Belgrado non processava i responsabili dei crimini delle foibe, Roma faceva altrettanto con i suoi cittadini responsabili di crimini di guerra in Iugoslavia.

Per oltre cinquant'anni un impenetrabile velo di oblio ha coperto la vicenda della mancata punizione dei criminali di guerra italiani. Gli storici hanno infine alzato quel velo, senza tuttavia innescare finora un dibattito capace di coinvolgere l'opinione pubblica e scuotere la coscienza del paese. Un tentativo di riaprire nel 2009 la questione sul piano giudiziario è naufragato senza alcun esito. Gli italiani continuano dunque a rimandare una resa dei conti con il retaggio del fascismo, crogiolandosi nel comodo alibi della 'brava gente': ma non siamo stati solo 'salvatori di ebrei'.

FILIPPO FOCARDI

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All'uscita della seconda guerra mondiale il Muro non c'era ancora. Ma era come se ci fosse già. Il mondo si stava organizzando in un ordine duro, vincolante, che obbligava ognuno a scegliere da che parte stare, soprattutto gli Stati. La guerra, ora 'fredda', imponeva loro di scegliere e quella scelta comportava molte cose, di segno opposto, vantaggi e svantaggi. In questo assetto, che riduceva la possibilità di scelta, che asfissiava con le sue logiche binarie e le sue continue richieste di fedeltà, l'Italia aveva una sovranità politica per molti versi limitata – non solo perché era uscita dalla guerra come paese sconfitto –, ma godeva anche di una rendita di posizione. Il suo essere conficcata geograficamente nel centro del Mediterraneo e a pochi chilometri dalle coste iugoslave, ne faceva un paese importante dal punto di vista geopolitico e militare, per poter contrastare da vicino il blocco sovietico e per controllare le sponde del Nord Africa e le vie d'accesso al Medio Oriente. Ma non solo. L'aver al proprio interno un partito comunista di massa, forte anche nella sua rappresentanza all'interno degli organismi internazionali del comunismo, ne faceva un paese dagli equilibri politici delicati e potenzialmente destabilizzanti. Questo garantì fin da subito all'Italia una sorta di trattamento di riguardo, che iniziò con una relativa attenzione verso l'eredità del ventennio fascista e delle sue scorie, quando i conti con quell'esperienza furono accantonati, per poi essere largamente dimenticati.

Non era solo questione di politica. Nuovi paesi si affacciavano alle relazioni internazionali da posizioni di forza e, soprattutto, aprivano spazi sempre più ampi per il mercato. L'India, con un voto del parlamento inglese nel 1947, e la Cina, con una manifestazione politica formidabile, avevano avviato il loro processo di indipendenza, inaugurando quella stupefacente trasformazione degli equilibri tra le nazioni che passa sotto il nome di decolonizzazione e che tra le tante cose portò l'Italia a incontrare gli italiani di pelle scura, che la richiamavano al proprio retaggio coloniale. In questo quadro, l'Italia si trovò a doversi ricostruire, nella materialità del proprio tessuto produttivo ed economico e nella immaterialità della propria cultura. Con tutti i suoi limiti, l'ordine vincolante della guerra fredda forniva un orientamento, una protezione dalle intemperie della politica e del mercato. Nella faticosa stagione della ricostruzione, che mosse milioni di italiani verso altri paesi, l'Italia scoprì la durezza della propria condizione economica e sociale, che obbligava le persone a spostarsi a milioni dal Sud verso le fabbriche del Nord Italia e ancora più su verso altri paesi. E al tempo stesso, illusa di essere in un ambito di libera sovranità, si scontrò in diverse occasioni con i limiti di quella propria sovranità, a Sigonella, come nella riflessione sull'assassinio di Aldo Moro. Ma al tempo stesso cominciava a delinearsi una rappresentazione dell'Italia che rilanciava un altro mito, quello dello stile di vita italiano, che si nutriva dell'immaginario filmico, del cibo, dell'ambiente, della creatività. Risorse vere o immaginarie cui attingere quando quell'ordine che vincolava ma proteggeva si sarebbe incrinato.

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1960
LA DOLCE VITA



La giuria del festival di Cannes,
presieduta da Georges Simenon,
assegna a Federico Fellini la Palma d'oro.
Nel tempo, il film diventa un'icona
dell'Italian way of life in tutto il mondo,
un marchio turistico e
uno stile che ancora ipnotizza.
Trasformando un ritratto grottesco in un elogio acritico.



Oltre tredici milioni e seicentomila persone nel corso del 1960 accorrono in sala per La dolce vita di Federico Fellini, che secondo i dati Siae è il sesto tra i film più visti in Italia dal 1950 a oggi nella classifica dominata da Guerra e pace di Ling Vidor (1955). Tra gli spettatori non mancano i minori di sedici anni, nonostante il divieto della commissione ministeriale, che soltanto nel 1975 sarà abbassato ai minori di quattordici. I ragazzi, soprattutto in provincia dove il controllo è lasco, s'ingegnano pur di assaporare 'il film del peccato' (carta d'identità del fratello maggiore, affabile inganno delle maschere, ingresso clandestino), evocandone quindi le meraviglie con i coetanei che non hanno avuto il coraggio della trasgressione.

Alla vigilia, Peppino Amato, il coproduttore con Angelo Rizzoli di La dolce vita, è facile profeta e se ne esce con una delle sue proverbiali storpiature: «Per questo film l'attesa è sporadica!» (voleva dire 'spasmodica'). Il 5 febbraio 1960 l'anteprima della pellicola al Capitol di Milano è l'inizio di una bufera: c'è addirittura chi sputa contro Fellini e, immediate, giungono le richieste di censura da parte ecclesiastica. «Sconcia vita» e «Basta» s'intitolano due anonimi commenti sulle colonne dell'"Osservatore Romano", il quotidiano della Santa Sede, attribuiti al parlamentare democristiano Oscar Luigi Scalfaro, che sarà poi presidente della repubblica.

Eppure la marcia trionfale del film non si ferma, anzi. Il 20 maggio La dolce vita vince la Palma d'oro del festival di Cannes, la cui giuria è presieduta dallo scrittore belga Georges Simenon, investigatore delle inquietudini esistenziali in romanzi non solo polizieschi, che vede nel riminese Fellini un fratello elettivo. «Siamo rimasti così in pochi a essere scontenti di noi stessi», recita una battuta della sceneggiatura firmata dal regista con Ennio Flaiano, Tullio Pinelli e Brunello Rondi. Nondimeno il grottesco messo in luce dallo sguardo antropologico di Fellini è scambiato per un elogio acritico dell'Italia euforica e mondana nelle stagioni del boom o 'miracolo economico' che dir si voglia. Una svista dovuta al titolo zuccheroso del film, la cui ironia è surclassata dallo scandalo. L'abbaglio di massa permane e non ha risparmiato La grande bellezza di Paolo Sorrentino (2013, premio Oscar nel 2014), opera di evidente derivazione felliniana sin dalla figura di Jep Gambardella (Toni Servillo), considerata un inno al Belpaese del quale, invece, mostra i malinconici trastulli e il sostanziale disfacimento.

Nel cinquantenario di La dolce vita l'"Osservatore Romano" ha pubblicato un saggio elogiativo che fa ammenda dell'anatema ecclesiastico e nel medesimo 2010 il regista italoamericano Martin Scorsese ha propiziato il restauro del film. Le immagini di Marcello Mastroianni e di Anita Ekberg sono state riconsegnate all'originario splendore del bianco e nero (la fotografia è di Otello Martelli), scandito dalle musiche sublimi di Nino Rota. Ma appare più difficile restituire a La dolce vita la sua autenticità nel merito, che certo non stagna a mollo nella fontana di Trevi in cui Anitona irretisce il protagonista Marcello Rubini (Mastroianni). Questi è un giornalista votato a dissipare sia il proprio talento sia l'idea stessa di notizia, perché Fellini – a ben vedere – pronostica con largo anticipo la commistione tra cronache e gossip o fake news, in cui da tempo viviamo. A quanto accade per strada, nella via Veneto ricostruita sul set di Cinecittà, il protagonista presta un'attenzione distratta: un ossimoro fecondo perché nell'ozio, nella noia, nell'attesa, nella sua accidia con echi di Oblomov alligna un'insolita capacità conoscitiva.

Già, Fellini con La dolce vita cambia registro, si accomiata dal neorealismo ben stemperato persistente da I vitelloni (1953) a Le notti di Cabiria (1957), e prende a coltivare una meravigliosa anarchia drammaturgica, una Babele di lingue, pensieri, visioni; davvero una «bella confusione», come Ennio Flaiano nel 1963 gli suggerirà – invano – di intitolare 8½. Ingannare Thanatos con Eros, instaurare una tregua col tragico: questa è la vocazione sottesa a La dolce vita, che esce pur sempre all'alba del decennio delle rivolte giovanili e delle filosofie decostruttive o psichedeliche, da Feyerabend e Derrida, a Leary e Castaneda che incuriosì molto Fellini.

Scrive lo storico del cinema Gian Piero Brunetta: «Uno dei fondamenti della poetica neorealistica, la tendenza a far coincidere il reale con il visibile, viene tranquillamente superato: il visibile si può aprire a dimensioni molto più vaste del reale». Prima di La dolce vita il regista quarantenne ha vinto due dei cinque Oscar che l'attendono, grazie a La strada (1954, Academy Award nel '57) e a Le notti di Cabiria (premiato nel '58), e ora può finalmente consentirsi il lusso di assecondare una rabdomanzia per immagini. La dolce vita nasce dal grembo di «una specie di giungla tiepida, tranquilla, in cui ci si può nascondere bene». È la definizione che Marcello conia di Roma chiacchierando con l'inquieta aristocratica Maddalena (Anouk Aimée), una notte in piazza del Popolo, prima di fare l'amore con lei in casa di una prostituta.

Così, nello scandaglio dell'Italia del 1960, Fellini coglie la nascente comunicazione di massa calamitata dal chiacchiericcio e la crisi delle élites sociali e culturali prossime a disertare per incapacità o disperazione (l'episodio del suicidio dell'intellettuale Steiner). Il Nostro è capace di stare dentro la Dolce Vita e al contempo di osservarla in prospettiva, senza indulgenza. Nella sua geniale mescolanza di pettegolezzo e di documentazione 'in diretta', di divismo e di vita quotidiana, di spettacolo e di politica, il film riserva più di un'intuizione di quanto si sarebbe inverato decenni dopo, nell'epoca del reality show e del fescennino al potere.

Nei mesi del 1960 in cui La dolce vita è in cartellone, il quotidiano britannico "Fínancial Times" conferisce l''Oscar delle valute' in circolazione alla lira e il reddito nazionale fa registrare un incremento del 5 per cento. Il miraracolo economico si nutre anche dell'inurbamento di forza lavoro: milioni di emigranti lasciano le campagne del Sud per le città industriali del Nord, la Torino della Fiat in primis. L'esodo approfondisce il divario territoriale e non sana la storica incompiutezza nazionale, nonostante la Rai-Tv riesca in parte a omologare la lingua (e i costumi sociali, come lamenterà Pasolini). A dispetto della verdiana 'forza del destino' che destò il Risorgimento, l'unità italiana tende periodicamente ad assopirsi ovvero a non compiersi.

Tuttavia lo storico britannico Christopher Duggan scorge un'eccezione alla nostra perenne lacuna di patria proprio nella Dolce Vita. Vero. Il film diventa un'icona dell' Italian way of life, esercita un fascino ipnotizzante all'estero, conia neologismi come 'paparazzo' ed è utilizzato per denominare negozi, ristoranti, attività di ogni genere. È un marchio turistico che ancora funziona o un 'attrattore culturale', per dirla nel gergo dell'euro-burocrazia brussellese oggi in voga.

I francesi vantano l'École Nationale d'Administration e un senso dello Stato difficile da pareggiare? Bene, noi replichiamo nell'inglese di una maggiorata svedese la cui nevrosi baltica si annacqua nell'indolenza mediterranea: «Marcello, come here». L'epifania di Anita Ekberg è erotica, ma anche celestiale, con un sentore di divinità in terra o magari da 'marziana a Roma' alla maniera di Flaiano. La celeberrima scena del bagno nella fontana di Trevi, al pari dei fotogrammi di Audrey Hepburn e Gregory Peck sulla Vespa in Vacanze romane di William Wyler (1953), ridefinisce l'identità italiana nel dopoguerra: basta con le miserie neorealiste di De Sica e del «Dottor Rossellino», come una comparsa appellerà Fellini in vena di sfottò del suo stesso maestro Roberto Rossellini in Bloc-notes di un regista (1969). Anita è una pantera, «oltretutto fosforescente», secondo Federico. È un'incarnazione del desiderio maschile, eppure riluce di una distanza siderale dalla prosa del mondo, di nostalgia della felicità infantile... «Bevete più latte, il latte fa bene, il latte conviene a tutte le età», è il ritornello che ne accompagnerà le apparizioni in Le tentazioni del dottor Antonio, episodio fellíniano del film miscellaneo Boccaccio '70 (1962).

La dolce vita che molti assumono alla stregua di un'apologia del vizio, o del tempo perso tra le braccia di una Roma seducente e paralizzante, riserva piuttosto una panoramica compassionevole sulla «vita agra», come la chiamerà Luciano Bianciardi, di un paese in bilico tra passato e futuro. Del resto, anche Roma nel film non è soltanto via Veneto o la fontana di Trevi; Roma è margini, borgate, rovine, caos, scenari cari a Pasolini che in quei mesi prepara Accattone fotografando volti e luoghi insieme a Tazio Secchiaroli, cui Federico s'ispira per il personaggio di Paparazzo (Walter Santesso). I quartieri sorvolati nel prologo di La dolce vita danno le coordinate di una città lacerata fra arcaismo e malintesa modernità: bambini che calciano in strade polverose e belle signore al bordo di una piscina sulla terrazza, mentre un elicottero trasporta verso la basilica di San Pietro una statua di Cristo a braccia aperte... La dolce vita, con le sue tre ore di andamento disordinato episodico sincopato, si avvia alla conclusione nei decadenti rituali aristocratici nel castello di Bassano Romano. Poi, ecco l'orgiastico e patetico finale in una villa di Fregene, un crescendo del degrado che soltanto la luce dell'alba interrompe. Marcello e gli altri, ormai stracchi, attraverso una pineta raggiungono il mare, dove trovano la carcassa di un pesce spiaggiato, un mostro marino con un che della balena di Pinocchio e l'occhio sbarrato da un funebre stupore. Non lontano c'è Paola (Valeria Ciangottini), la ragazzina che Marcello aveva già incontrato in una misera trattoria rivierasca. Lei gli vuol dire qualcosa, ma lui non riesce a cogliere le sue parole nel vento e le replica con un sorriso impotente.

«Non è necessario che le cose mostrate siano autentiche. In genere è meglio che non lo siano. Ciò che dev'essere autentico è l'emozione nel vedere e nell'esprimere», amava dire Fellini. Il suo cinema, nel controluce della finzione, si accosta al reale con infinita curiosità, senza preconcetti, attento solo a coglierne í chiaroscuri e la vertiginosa bellezza dell'ignoto nel noto: la dolce vita.

Post Scriptum. Ah, nel film Marcello Mastroianni non indossa il maglione 'dolcevita' a collo alto e risvoltato («da non confondersi col lupetto», specificano le riviste di moda). Ma tutto il mondo è convinto del contrario e leggerete ovunque che il nome deriva dal film. Il che naturalmente è falso, quindi fellinianamente vero.

OSCAR IARUSSI

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Pagina 736

1964
OLIVETTI PROGRAMMA 101



Prima della Xerox, della Apple e dell'H-P,
il personal computer nasce in Italia, a Ivrea?
Tra mito, sfortuna e occasioni mancate,
la storia della 'Perottina' o P101
ci racconta molto sulle capacità innovative
del nostro paese, come anche dei difetti endemici
del suo sistema produttivo.



Nell'autunno del 1964 una piccola équipe dell'Olivetti guidata da Pier Giorgio Perotto, composta da Giovanni De Sandre, Gastone Garziera e pochi altri, concluse un lavoro iniziato due anni prima per progettare e costruire un minicomputer destinato a utenti non specialisti. Quella macchina – detta familiarmente la 'Perottina' e poi denominata la Programma 101 (P101), al femminile – è stata considerata dai protagonisti come il primo personal computer (Pc) mai realizzato. In seguito, come spesso accade, vari autori italiani hanno insistito molto su questo preteso 'primato nazionale', leggendolo come un'occasione perduta o addirittura come una specie di scippo. Si è così proposto di modificare la storia corrente e più accreditata di tali macchine, i cui inizi vengono di solito collocati negli Stati Uniti del 1975-1977, quando furono messi in commercio Altair 8800 e i primi personal della Apple. Per capire se fu davvero così, e in tal caso perché la P101 non ebbe alcun seguito, occorre ripercorrere gli aspetti essenziali di questa storia e farlo con le cautele del caso perché la sua prima fonte – parziale per definizione – altri non è che lo stesso Perotto.

Prima di tutto, però, va detto che si trattava senza dubbio di un'innovazione precorritrice e per molti aspetti geniale. Non lo era solo per le sue dimensioni simili a quelle di una macchina da scrivere (19 x 48 x 61 cm), molto ma molto più ridotte di quelle del primo minicomputer realizzato nel 1962 da Wesley Clark al Massachusetts Institute of Technology. Né era tale unicamente per alcune tecnologie di notevole rilievo, fra le quali in particolare una scheda magnetica che a ragione è stata considerata un'anticipatrice del floppy disk. Lo era anche perché, essendo pensata per utenti inesperti, aveva un linguaggio di programmazione facile da apprendere e da usare. Senza soffermarsi su altre caratteristiche tecniche della P101, fra cui una stampante da 30 caratteri al secondo, quella macchina aveva infine un design di tale efficacia, da far sì che venisse esposta al Museum of Modern Art di New York. Opera di un giovane architetto che sarebbe divenuto un protagonista del design industriale italiano, Mario Bellini, come ha scritto AnnMarie Brennan l'involucro di alluminio della P101 «creò l'immagine di un oggetto che svolse il proprio ruolo rappresentando un elegante frammento di un futuro ottimistico; il suo obiettivo era di fare 'qualcosa di amichevole'».

Non può dunque sorprendere l'eclatante successo di pubblico e di stampa che arrise alla 'Perottina' quando nell'ottobre del 1965 venne presentata a New York alla grande fiera della Business Equipment Manufacturers Association. Allora fu peraltro un successo inatteso, tant'è vero che al centro dello stand Olivetti troneggiavano calcolatrici meccaniche come la Logos 27, mentre la P101 era esposta in fondo a una saletta periferica. Così nel 1966 la macchina entrò in produzione e negli anni seguenti ne furono venduti 44.000 esemplari, in massima parte negli Stati Uniti, dove anche la Nasa ne acquistò alcuni. Il prezzo iniziale era di 3.200 dollari: l'equivalente di 2 milioni di lire di allora, più o meno il costo di quattro Fiat 500. Che le prospettive aperte dalla P101 apparissero molto promettenti lo confermò del resto la Hewlett-Packard quando nel 1967 realizzò una macchina simile, corrispondendo poi all'Olivetti 900.000 dollari come riconoscimento del suo brevetto.

Eppure all'inizio degli anni Settanta l'impresa era finita e la P101 non venne più prodotta. Quell'esito deludente è stato spiegato da Perotto più o meno in questi termini. Nel 1963-1964 l'Olivetti era stata afflitta da una grave crisi finanziaria e nell'azienda erano entrate società come la Fiat, l'Iri, Mediobanca e altre, che avevano espresso un gruppo dirigente ben poco propenso all'innovazione. Per Luciano Gallino in realtà i problemi dell'Olivetti furono enfatizzati, ma in ogni caso nel 1964 la sua divisione elettronica fu ceduta alla General Electric. Fece eccezione soltanto il gruppo di Perotto, che si avvalse proprio dell'autonomia derivante da una posizione marginale all'interno dell'azienda per portare avanti senza condizionamenti il suo progetto. Quando la Programma 101 entrò in produzione, però, l'Olivetti non disponeva più di un importante patrimonio di risorse come quello della divisione elettronica, essenziale per poterla sviluppare.

E sì che in quegli anni, soprattutto per iniziativa di Roberto Olivetti, l'azienda aveva avuto anche altre intuizioni anticipatrici, come quella che l'aveva portata a fondare con l'americana Fairchild una società denominata Sgs per produrre semiconduttori (dispositivi su cui si basano circuiti ad alto rendimento). Nel 1968, però, la partner dell'Olivetti abbandonò l'impresa e anche questa non ebbe seguito, tanto più che nello stesso anno la Fairchild fu a sua volta lasciata da un personaggio di spicco come Bob Noyce. Primo a concepire i circuiti integrati o microchips, quest'ultimo fondò infatti con Gordon Moore la Intel Corporation, dove poco dopo venne inventato il microprocessore: uno strumento di dimensioni molto ridotte, composto da un solo circuito integrato capace di ospitare un numero enorme di transistor.

Si può solo commentare che, se pure come ha scritto Perotto all'Olivetti mancava «una visione di scenario evolutivo» tale da consentirle di pianificare il futuro, a tutto ciò sembra essersi aggiunta una certa dose di sfortuna. Resta tuttavia il fatto che uno sviluppo della P101 era a dir poco improbabile in assenza del microprocessore, il cui primo modello (l'Intel 4004 progettato da Federico Faggin, un italiano trasferitosi negli Stati Uniti) sopraggiunse soltanto nel 1971, seguito l'anno dopo dall'Intel 8008. Con il microprocessore di là da venire, in effetti, definire la P101 come un Pc sarebbe oltremodo discutibile, se non del tutto improprio. Rimane comunque da capire se del personal computer la 'Perottina' conteneva o meno altre componenti, e in caso affermativo quali.

Ma che cos'era in realtà un Pc negli anni Settanta? Proporne una definizione univoca sarebbe arrischiato, ma senza chiamare in causa Altair 8800 (che aveva scarse prestazioni ed era poco user friendly), un buon punto di riferimento per rispondere a questa domanda può essere una macchina realizzata nel 1973 dalla Xerox Corporation. Rimasta sconosciuta ai più perché non venne commercializzata e perciò ebbe qualche diffusione solo fra i ricercatori del settore, si chiamava Alto ed era una workstation personale dotata, oltre che di un microprocessore Intel, di una Ram da 128 Kb espandibile a 512, di un hard disk da 2,5 Mb, di un monitor grafico e di un mouse.

Inventato a Stanford da Douglas Engelbart e Bill English negli stessi anni in cui veniva sviluppata la Programma 101, il mouse era stato presentato al pubblico in un convegno svoltosi a San Francisco nel 1968, ma non è il caso di tenerne conto perché ebbe una commercializzazione tardiva e neppure i primi personal computer della Apple ne disponevano. Comunque la P101 non aveva un monitor, tanto meno grafico come richiedeva il mouse. Si trattava inoltre di una macchina pensata unicamente per il calcolo, che quindi non disponeva di una delle funzioni basilari del Pc, cioè di un word processor. E se pure i primi programmi di quel tipo erano stati realizzati nel 1964 per i terminali dei grossi mainframes di allora, quelli destinati a mini o a personal computer arrivarono anch'essi soltanto negli anni Settanta.

Se ne può concludere che la 'Perottina' era sì una macchina per vari aspetti precorritrice degli sviluppi successivi, ma difficilmente può essere considerata come un Pc. Molto più pertinente è in effetti definirla come un desk o desktop computer (una macchina da scrivania). Non a caso il 4 ottobre 1965 "The New York Times" e altri giornali americani ne parlarono come del «first desk top computer of the world». Dopodiché negli anni Ottanta anche l'azienda di Ivrea produsse un personal computer di notevole successo, l'M24, ma si trattava pur sempre di una macchina Ibm compatibile, che «di olivettiano aveva solo il design» (Gallino).

A questo punto resta solo da cercar di capire quali fossero, già negli anni Sessanta, i motivi del primato di cui godeva l'informatica statunitense. Senza pretendere di menzionarli tutti, tra questi possono essere citati l'ampiezza della domanda esistente nel mercato, grazie alla quale non a caso la P101 fu venduta soprattutto oltreoceano; la presenza di intensi rapporti bidirezionali fra i numerosi centri universitari d'eccellenza e le aziende; un'elevata mobilità dei ricercatori dagli uni alle altre; il contributo decisivo portato allo sviluppo del settore dai finanziamenti federali, e in particolare da quelli della Difesa. Per ciò che riguarda le origini e i primi passi dei personal computer, peraltro, tali fattori erano presupposti tanto essenziali, quanto indiretti. I primi Pc erano infatti invenzioni 'da garage', opera di hobbisti attivi fuori dalle università e dalle imprese, e ciò che rese possibile il loro sviluppo fu la larga disponibilità di venture capital esistente sul mercato americano: investimenti ad alto rischio volti a finanziare il lancio o la crescita di iniziative imprenditoriali dotate di notevoli potenzialità.

TOMMASO DETTI

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Nel 1989 il Muro cade, e con esso crolla quell'ordine che, con tutte le sue asprezze e i suoi vincoli, aveva comunque costituito un punto di riferimento con il quale pensare il mondo e pensarsi nel mondo. Ora la globalizzazione dei mercati e delle relazioni si manifestava in tutta la sua imprevedibilità, senza possibilità di far riferimento a rendite di posizione, a protezioni o a bussole per orientarsi. L'Italia doveva cominciare a pensare al proprio ruolo e alle proprie relazioni nel mondo in modo diverso.

Gli effetti del crollo di quel muro si manifestarono soprattutto in politica, dove quella eccezione nel contesto occidentale che l'Italia si era considerata veniva a cadere. Portando con sé un mondo di appartenenze e fedeltà politiche. Tutto cambiava e si imponeva un nuovo modello politico che avrebbe poi segnato l'immagine del paese per i successivi vent'anni. L'Italia tornava a essere un caso che anticipava, per la inedita combinazione di ricchezza e controllo dei mezzi di comunicazione che l'uomo politico che vinse le elezioni nel 1994 riuscì a incarnare. Quell'esempio sarebbe tornato costantemente a segnare il confronto con le elezioni politiche in altri paesi, la Francia di Sarkozy, gli Stati Uniti di Trump, dove fortune, media e populismo avrebbero segnato la novità nello stile politico dei governanti. Cambiava molto il modo di stare nel mercato. Il crollo del blocco sovietico aveva aperto mercati nuovi, per la domanda, ma soprattutto per l'offerta. Era la faccia dura della globalizzazione, che portava alla delocalizzazione della produzione, anche di industrie cardine del cosiddetto made in Italy, che inseguendo le logiche della riduzione dei costi spostavano produzione e capannoni in paesi dell'Est Europa prima e dell'Asia poi. Oppure, imponendo fusioni e ristrutturazioni che stravolgevano la dimensione industriale del paese e ne modificavano la stessa identità.

Il venir meno dei confini saldi e certi della 'cortina di ferro', della posizione di frontiera, costringevano a guardare oltre. Un nuovo orizzonte si riapriva, quello della integrazione europea, il primo mondo dell'Italia, alla quale essa aveva guardato e partecipato in maniera attiva dalla fine della seconda guerra mondiale. Un'ancora di salvezza, anche finanziaria, nel pieno di una tempesta che sembrava pronta a spazzar via la stessa unità nazionale.

Intorno il mondo non si ferma, sposta ancora una volta il suo baricentro, ora verso il Pacifico, verso i paesi delle 'tigri emergenti'. Nell'area mediorientale, smottano sistemi politici ormai esausti. Masse enormi di persone si mettono in marcia per raggiungere il centro della ricchezza materiale e immateriale, fuggendo guerre, carestie, epidemie. Le Alpi e il mare, che per secoli hanno rappresentato per l'Italia vie di comunicazione e di transito, di contatto e di relazione, diventano gabbie che costringono o una tana da proteggere.

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1989
GRAMSCI NEL MONDO



Nello stesso anno in cui a Berlino cade il Muro,
nasce l'associazione che riunisce i tanti studiosi
di Antonio Gramsci nel mondo.
Nato in una 'colonia interna',
il comunista sardo si rivela come
il pensatore italiano più influente del nostro tempo.
Soprattutto quando parliamo
di 'modernità passiva' o di 'subalternità'.



All men are intellectuals. Sembra fosse questa la più popolare tra le frasi di Gramsci affisse sul monumento in suo onore realizzato a South Bronx nell'estate del 2013, chiara dimostrazione del rilievo globale di Gramsci come pensatore, politico e figura umana che affrontò con coraggio il durissimo regime carcerario al quale lo sottopose il regime fascista. Nel Bronx, o meglio nell'ambiente dell'intellettualità afroamericana, Gramsci era presente fin da quando Cornel West lo aveva usato nei suoi scritti filosofici e nei testi hip hop. La massiccia presenza di Gramsci nella controcultura radicale americana all'inizio del XXI secolo lo ha messo al centro di un conflitto politico. Il suo 'marxismo culturale', infatti, secondo autorevoli esponenti del pensiero neoconservatore, aveva contribuito a rilanciare un pensiero critico del capitalismo. Sconfitto sul campo nella guerra fredda, lo spettro del comunismo riappariva in questa nuova forma nel cuore pensante dell'impero americano e innervava molteplici esperienze politiche radicali in molte periferie del Sud del mondo.

Il successo globale di Gramsci parte da molto lontano. Nel 1989, a seguito di un convegno svoltosi a Formia su Gramsci nel mondo, nasceva la International Gramsci Society con l'intento di facilitare e intensificare i contatti tra i molti studiosi di Gramsci sparsi per tutto il pianeta. Colui che nel dopoguerra era stato presentato, dalla lettura togliattiana, come un pensatore tipicamente italiano, iscritto nel canone intellettuale del nostro paese, era divenuto oggetto di interesse ai quattro angoli del globo, dove il suo pensiero e il suo esempio politico erano ripresi attraverso letture originali e politicamente vivaci. Possiamo perciò parlare di un Gramsci che diviene globale proprio nel momento terminale della guerra fredda e che subentra al 'Gramsci nazionale' che era stato uno dei cardini dell'ideologia del Partito comunista italiano nel dopoguerra? In verità Gramsci globale lo era sempre stato.

Gramsci era morto il 27 aprile 1937 e al suo funerale parteciparono solo due persone: il fratello Carlo e la cognata Tatiana Schucht. Amici e compagni si trovavano in carcere, all'estero o in clandestinità e quel funerale deserto sembrava l'inconfutabile segno di un profondo isolamento e di una definitiva sconfitta. Quell'uomo, che pur distrutto nel fisico aveva mostrato una indomita resistenza intellettuale, era entrato in prigione l'8 novembre del 1926 da leader del Pcd'I (Partito comunista d'Italia). La denominazione del suo partito rendeva evidente il legame con un movimento politico ben più ampio, del quale il Partito comunista d'Italia rappresentava soltanto una sezione nazionale e che aveva in progetto una rivoluzione mondiale. Della natura internazionale di quel movimento Gramsci era stato parte attiva e integrante, trascorrendo un anno e mezzo della sua vita a Mosca dove era giunto, dopo un lungo viaggio, all'inizio di giugno del 1922. Nella capitale del comunismo mondiale a Gramsci accaddero le cose più importanti della sua vita: conobbe la moglie Giulia e divenne il leader del Partito comunista d'Italia.

Il destino internazionale di Gramsci parte da qui, dalla sua esperienza biografica prima ancora che dal suo pensiero che nella storia del marxismo si è distinto per la sensibilità geografica, per il continuo raccordo di contesti locali, indagati con precisione e attenzione, e il 'mondo grande e terribile' che costituisce l'irriducibile cornice nella quale si colloca ogni azione umana. La stessa possibilità di accedere alla principale fonte per lo studio del suo pensiero, i Quaderni scritti tra il 1929 e il 1935, è stata resa possibile dall'internazionalità del movimento al quale apparteneva. Fu la cognata Tatiana Schucht, che ne aveva accompagnato la dolorosa esperienza carceraria con affetto e fermezza di carattere, a recuperare i Quaderni del carcere e a metterli in salvo facendoli pervenire a Mosca, dove Togliatti li prese in consegna e ne iniziò lo studio che avrebbe condotto alla prima edizione tematica.

Se Gramsci è stato parte di un movimento politico che aveva ambizioni globali, le circostanze della sua vita lo avevano costretto a compiere la sua principale impresa intellettuale in grande solitudine. Un'opera che in Italia venne resa nota alla fine degli anni Quaranta e che, sebbene limitatamente a ristretti circoli intellettuali, iniziò a circolare per il mondo ben prima di quanto normalmente si ritenga.

La fortuna di Gramsci in America Latina ha avuto come centro di irradiazione l'Argentina, dove una prima raccolta di scritti carcerari venne pubblicata già nel 1950 e alla fine del decennio iniziò la traduzione dell'edizione tematica dei Quaderni. Il maggior interprete di questa stagione della ricezione gramsciana latinoamericana è stato José Aricó che nel 1963 fondò una rivista dal titolo gramsciano, "Pasado y Presente", iniziando ad allontanarsi dal dogmatismo del partito comunista argentino. Nella ricezione argentina, le categorie gramsciane maggiormente utilizzate erano quelle di egemonia, filosofia della prassi, nazionale-popolare e la concezione dei consigli.

Dall'Argentina, l'opera di Gramsci si diffuse in tutta l'America ispanica, attraverso la forzata migrazione di molti intellettuali che si erano indirizzati soprattutto verso il Messico dopo il colpo di Stato del 1976. Per la prima traduzione in portoghese occorre attendere il 1967 e nel dibattito intellettuale brasiliano la nozione di rivoluzione passiva divenne uno strumento fondamentale per la rilettura della storia brasiliana a partire dall'epoca di Getúlio Vargas. Negli anni Sessanta il pensiero di Gramsci raggiunse anche Cuba, dove per alcuni anni costituì un utilissimo antidoto alle rigide dottrine dispensate dal marxismo-leninismo sovietico che era arrivato dall'Urss assieme agli aiuti militari. Per una rivoluzione che doveva costruire un'egemonia, oltre che risolvere i problemi tecnici ed economici della nuova società, un marxista con la sensibilità culturale di Gramsci si rivelò prezioso. Venne messo da parte negli anni Settanta, quando il conformismo ideologico del regime si fece più rigido.

Nel mondo anglofono la prima raccolta di scritti venne pubblicata a Londra nel 1957, The Modern Prince and Other Writings, e circolò in ambienti intellettuali abbastanza ristretti, formati da giovani comunisti e antistalinisti che andarono a costituire la nuova sinistra britannica negli anni Sessanta, attorno alla rivista "New Left Review".

Fino agli anni Settanta, insomma, la diffusione gramsciana all'estero avvenne per lo più negli ambienti politici radicali anglofoni e nella sinistra latinoamericana eterodossa. Gramsci veniva tradotto, studiato e utilizzato al di fuori, o ai margini, dei partiti comunisti. L'unico partito comunista al mondo nel quale Gramsci costituiva un riferimento politico intellettuale fondamentale era in Italia. Negli anni Settanta si aprì invece un nuovo capitolo della fortuna di Gramsci quando iniziò a essere sempre più utilizzato in ambito accademico, in particolare negli studi culturali e postcoloniali.

La fondamentale premessa di questo allargamento della fruizione gramsciana è costituita dalla pubblicazione, nel 1971, di una nuova, ben più consistente, raccolta degli scritti carcerari, a tutt'oggi l'antologia più utilizzata nel mondo anglofono: la Selections from the Prison Notebooks of Antonio Gramsci, a cura di Quintin Hoare e Geoffrey Nowell-Smith. Quest'ampia raccolta di testi si prestava più delle precedenti all'elaborazione di una teoria critica della cultura di impianto materialistico. Vi troviamo gli scritti sugli intellettuali, il rapporto tra Stato e società civile, il Risorgimento, americanismo e fordismo, il partito e Machiavelli. Utilizzando questi scritti Raymond Williams riconfigurò il campo della cultura sulla base del concetto di egemonia, superando la querelle tra 'culturalisti', che la vedevano come espressione di una soggettività, e strutturalisti, che la riducevano a un'ideologia ancorata a una base di classe. Stuart Hall poi, negli anni Ottanta, sviluppava su basi gramsciane un'analisi del thatcherismo come progetto egemonico, promotore di una 'modernizzazione regressiva' incardinata nel nuovo regime neoliberista e postfordista del capitalismo. Era sul piano simbolico e del linguaggio, scriveva Hall, che la Thatcher era riuscita a vincere la sua battaglia.

E di pochi anni dopo era la proliferazione delle categorie gramsciane nel Sud del mondo attraverso gli studi postcoloniali e gli studi subalterni. Edward Said, intellettuale palestinese e professore della Columbia University, apriva il ca mpo degli studi postcoloniali con il suo volume Orientalismo (1978), nel quale utilizzava il concetto di egemonia per designare l'apparato culturale che aveva sorretto l'esperienza storica del colonialismo europeo e al quale erano soggetti gli stessi popoli colonizzati, che riconoscevano e introiettavano le rappresentazioni di sé impartite loro dai dominatori. In un testo di quindici anni dopo, Cultura e imperialismo, Said riprendeva il saggio gramsciano sulla questione meridionale per valorizzarne la torsione geografica alla quale aveva sottoposto il materialismo storico fondato su un unitario parametro temporale che scandisce il ritmo di una storia pensata come universale. Il meridionalismo di Gramsci diventava così uno strumento per la comprensione critica delle forme di assoggettamento del Sud globale.

Nel 1982 veniva edito a Dehli il primo volume di una serie di pubblicazioni del collettivo angloindiano Subaltern Studies, guidato da Ranajit Guha. Sin dalla denominazione del gruppo vi era un esplicito riferimento alla categoria di subalterno analizzata da Gramsci nei Quaderni. Era l'avvio di un cantiere di ricerca sul ruolo storico delle classi subalterne che dall'India avrebbe in pochi anni raggiunto un'influenza intellettuale mondiale, mentre altre categorie, come quella di rivoluzione passiva, venivano utilizzate da studiosi come Guha e Partha Chatterjee per una profonda rivisitazione della storia dell'India coloniale e postcoloniale.

Il comunista sardo che proveniva da una 'colonia interna' era giunto a influenzare il pensiero politico fin negli slum e nelle vaste aree rurali del Sud del mondo. Da qui, Gramsci fece ritorno in Italia sul finire del Novecento: tornava in patria un autore restituito a quella dimensione globale che era stata il suo orizzonte di vita.

PAOLO CAPUZZO

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2014
FIAT CHRYSLER AUTOMOBILES



Nel 2008 la crisi globale investe in pieno l'industria dell'auto.
La Fiat, in difficoltà da tempo, ha dimensioni
ormai troppo ridotte per sopravvivere nello scenario mondiale.
L'Italia corre il rischio di perdere per sempre
uno dei settori che hanno costruito la sua identità
di nazione industriale.
Poi accade qualcosa di imprevisto...



Il 12 ottobre 2014 a Torino l'alleanza tra due storici gruppi dell'industria automobilistica, l'italiana Fiat e l'americana Chrysler, stipulata nella primavera del 2009, si convertì nella costituzione di un nuovo soggetto d'impresa, Fiat Chrysler Automobiles. La nuova Fca era un portato, allo stesso tempo, della crisi globale del 2008 e del lungo processo di declino e di trasformazione che per oltre un decennio aveva coinvolto entrambe le case, alla ricerca di una nuova via di sviluppo.

Nel 1999 la Fiat, ormai unica casa italiana produttrice di automobili, aveva celebrato il proprio centesimo anniversario in un clima di crisi latente. La quota di mercato delle vetture coi marchi Fiat (cioè anche Lancia e Alfa Romeo) appariva in contrazione, mentre il gruppo stentava a produrre nuovi modelli di successo. Erano lontani i tempi, ancora alla metà degli anni Ottanta, quando Fíat Auto si disputava il primato europeo con la tedesca Volkswagen, che in seguito avrebbe raddoppiato i propri volumi produttivi. Soprattutto, il management del gruppo torinese non appariva in grado di raggiungere gli obiettivi prefissati.

Ciò indusse l'anno successivo la famiglia Agnelli, che deteneva il controllo della Fiat, a ricercare un'alleanza con un'impresa del settore di dimensioni molto più grandi. Alla fine la scelta cadde sull'americana General Motors, il primo produttore d'auto al mondo. Anche la casa americana era però un gigante dai piedi d'argilla perché, pur conseguendo il più alto livello di vendite, realizzava profitti soltanto nel mercato nordamericano.

L'alleanza tra due debolezze non generò alcun risultato positivo, tanto che nel 2005 l'intesa con la Generai Motors finì con l'essere sciolta. Fra il 2002 e il 2004 la crisi della Fiat si rivelò in tutta la sua gravità, accentuata dalla scomparsa del principale azionista, Giovanni Agnelli, nel 2003, e del fratello Umberto l'anno successivo. A quel punto, la famiglia non aveva più un proprio esponente cui affidare la presidenza della Fiat, tanto che essa venne affidata a Luca Cordero di Montezemolo, alla testa della Ferrari e assai vicino agli Agnelli.

Nello stesso frangente, la guida operativa del gruppo andò a un manager italo-canadese, ma attivo in Svizzera, che aveva fama di solido ristrutturatore di aziende, Sergio Marchionne.

L'artefice del processo di risanamento e dell'avvio del rilancio della Fiat fu proprio Marchionne, che condusse una rigorosa riorganizzazione interna alle imprese del gruppo, imponendo un ferreo controllo delle strutture di costo. Quest'opera condusse a un recupero di redditività e anche a un rilancio produttivo, che ebbe il culmine con la presentazione a Torino, nel luglio del 2007, della nuova 500, simbolo della rinascita del gruppo.

La Fiat, tuttavia, non disponeva delle dimensioni per affrontare nel lungo periodo, con le sue sole risorse, un mercato complesso come quello dell'automobile. Questo limite divenne evidente alla fine del 2008, quando la crisi globale si abbatté in primo luogo sull'industria dell'auto, causando una caduta verticale delle vendite sul mercato statunitense. Due delle storiche case automobilistiche di Detroit, Generai Motors e Chrysler, apparvero subito a rischio, perché avevano conti che non permettevano loro di superare la crisi. La nuova amministrazione democratica guidata dal presidente Barack Obama decise di correre in soccorso di Detroit, da un lato concentrando i debiti di General Motors e Chrysler in apposite bad companies, e dall'altro avviando un'operazione di radicale ristrutturazione e risanamento. Chrysler era l'impresa più compromessa, perché veniva da una serie di falliti tentativi di riorganizzazione. Nessun gruppo automobilistico voleva correre il rischio di prendersi in carico la più piccola e sinistrata di quelle che (con Ford) erano state le Big Three di Detroit.

Solo Marchionne si fece avanti prospettando la possibilità di un'alleanza tra Fiat e Chrysler. La Fiat non aveva capitali da immettere, ma portava in dote le sue dotazioni tecnologiche e il suo sistema di competenze. Poiché quella di Marchionne era l'unica offerta in campo, la task force sull'industria dell'auto nominata da Obama dovette accettarla nella primavera del 2009. In realtà, il disegno originario di Marchionne non si limitava ad acquisire il controllo della Chrysler, perché aveva un respiro strategico ben più vasto. Mirava infatti ad acquisire anche la Opel, la consociata europea della General Motors, contando sul fatto che i suoi conti erano in forte passività e la casa madre attraversava una congiuntura di grande difficoltà. Egli, tuttavia, non aveva tenuto nel debito conto le resistenze tedesche. La recisa opposizione del governo tedesco, nell'estate del 2009, alla fine piegò l'iniziativa di Marchionne, che così dovette rinunciare al progetto di dare vita a un gruppo automobilistico capace di produrre circa 6 milioni di vetture all'anno, cioè quella che l'amministratore delegato della Fiat (e ora anche della Chrysler) considerava la soglia per veder garantita la sopravvivenza nel sistema dell'auto. Marchionne fece di necessità virtù e si attrezzò in vista della fusione tra i marchi Fiat e Chrysler. L'azione da lui promossa fu come sempre improntata a un rigoroso contenimento dei costi: si razionalizzò la struttura produttiva, si operò una rilevante riduzione dei salari per i lavoratori di minore anzianità, si modernizzarono gli impianti, ricorrendo alle tecnologie italiane. Il risultato fu che dal 2010 in poi ricominciò la crescita delle vendite dei marchi Chrysler, in un mercato nordamericano che sarebbe cresciuto ininterrottamente sino alla fine del 2016.

L'attività di razionalizzazione naturalmente non si limitò all'area Usa, ma investì anche l'Italia e gli altri paesi dove la Fiat era presente (soprattutto il Brasile, dov'era il primo produttore). Marchionne voleva dimostrare che tutte le fabbriche nel mondo di Fiat e Chrysler sarebbero state gestite allo stesso modo, con gli stessi criteri e i medesimi parametri di efficienza. Quest'obiettivo lo indusse a lanciare nel 2010 il programma che denominò «Fabbrica Italia», con lo scopo dichiarato di far crescere la produzione d'auto nel paese. Per dare corso al suo programma, Marchionne intendeva attuare una radicale ristrutturazione degli impianti italiani, con cospicui investimenti nelle tecnologie di produzione. Ciò comportava peraltro un riassetto completo dell'organizzazione del lavoro ispirato ai princìpi del World Class Manufacturing, che avrebbe garantito l'applicazione di analoghi parametri nelle fabbriche di tutto il mondo. Una simile riorganizzazione presupponeva una revisione della normativa sindacale sulle pause e su alcune modalità della prestazione di lavoro, che implicava l'abbandono dello storico accordo su ritmi e pause del 5 agosto 1971, un'autentica pietra angolare delle relazioni industriali alla Fiat.

La Fiom-Cgil si oppose frontalmente alla nuova politica sindacale del gruppo e si rifiutò di firmare, nell'estate del 2010, il contratto di lavoro per lo stabilimento di Pomigliano d'Arco in provincia di Napoli, destinato alla fabbricazione delle Fiat Panda. Fu indetto un referendum, che vide l'affermazione a maggioranza dell'approvazione dell'accordo sindacale, sostenuto dalle altre organizzazioni metalmeccaniche, Fim-Cisl, Uilm e Fismic. Superato lo scoglio di Pomigliano, se ne presentò uno ancora più grande a Mirafiori, il simbolo stesso della produzione automobilistica in Italia, dove lo scontro con la Fiom si inasprì ulteriormente. Intanto, la Fiat aveva fatto la mossa di uscire da Confindustria, al fine di non riconoscere più la validità del contratto collettivo dei metalmeccanici, sostituito da un accordo valido esclusivamente per il gruppo. Anche a Mirafiori la Fiom uscì sconfitta, seppure di stretta misura, e il contenzioso si trasferì nelle aule di tribunale. Alla fine la Corte costituzionale riconobbe la validità del contratto aziendale, assicurando una forma di rappresentanza anche alla Fiom, che tuttavia, rifiutandosi di firmare l'intesa aziendale, si trovò esclusa dal tavolo delle trattative.

Intanto la fusione tra Fiat e Chrysler era ormai in dirittura d'arrivo. Il nuovo gruppo che nacque da essa (denominato Fca, Fiat Chrsyler Automobiles) si costituì portando la sede legale in Olanda, dov'erano maggiori i vantaggi legali, e la sede fiscale a Londra, che assicurava maggiori benefici in merito alla tassazione. Di fatto, íl quartier generale operativo del gruppo finì con l'essere a Detroit, nel Michigan, con un ruolo di guida europea per il Lingotto, la sede storica della Fiat a Torino.

Per qualche anno, grazie soprattutto alla buona performance del mercato nordamericano, Fiat Chrysler conseguì risultati complessivamente soddisfacenti, che la portarono a realizzare un volume di circa 5 milioni di auto vendute all'anno. Ma un settore come l' automotive, il sistema della mobilità, soggetto a un processo d'incalzante mutamento tecnologico, grazie anche all'ingresso di nuovi soggetti imprenditoriali come Google, esige una capacità d'investimento accessibile soltanto ai gruppi di maggiori dimensioni. Di qui la proposta di Marchionne di promuovere un 'consolidamento' del settore d'auto, cioè una convergenza fra i gruppi maggiori grazie a nuove alleanze.

Finora la sua sollecitazione è caduta nel vuoto. Essa si era indirizzata in primo luogo verso la General Motors, il rinato gruppo americano (oggi terzo nella classifica mondiale dei produttori), addirittura vagliando per un po' la possibilità di un'Opa nei confronti di una realtà d'impresa assai più grande di Fca per volume d'affari e per capitalizzazione. In seguito, è stata scandagliata anche l'eventualità di sviluppare un legame con la Volkswagen (primo produttore d'auto al mondo), ma nemmeno la casa di Wolfsburg ha voluto prendere in considerazione l'ipotesi.

A questo punto il futuro di Fca (che Marchionne si accinge a lasciare a inizio 2019) appare ancora indeterminato, sospeso fra la possibilità di una nuova fusione e quella di accordi specifici per i suoi marchi (in particolare i più prestigiosi, Maserati e Alfa Romeo), mentre il gioiello principale, la Ferrari, è già stato scorporato e portato dentro il perimetro di Exor, la finanziaria che gestisce le partecipazioni della famiglia Agnelli. È chiaro che il ridimensionamento dell'esperienza di Fiat Chrysler comporterebbe per l'Italia industriale un ulteriore cambiamento di profilo, con la rinuncia a esercitare un ruolo di punta nel sistema mondiale dell'auto e della mobilità.

GIUSEPPE BERTA

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2015
LAMPEDUSA



Nel Mediterraneo si susseguono i viaggi di migranti
che dall'Africa e dal Medio Oriente
provano a raggiungere le coste italiane.
Cercano scampo da guerre e povertà.
Migliaia muoiono in mare.
Gli altri raccontano le sofferenze e le violenze
subite in lunghi e drammatici viaggi.
Ma nessuno può fermarli. Dobbiamo averne paura
o sono portatori di cambiamenti come altre volte
nella storia d'Italia?



Nella notte del 17 aprile 2015 sulla spiaggia di Garabulli, in Libia, quasi mille persone aspettano il proprio turno. Sono in procinto di imbarcarsi su un vecchio peschereccio senza nome, solo una scritta in arabo «Benedetto da Allah». Lunga 21 metri e larga 8, questa barca di solito trasporta una quindicina di pescatori. Quando salpa, la mattina del 18 aprile, ha un carico di oltre 700 persone che provengono da paesi dell'Africa e dall'Asia. Gli uomini sul ponte, le donne e i bambini sotto, nella stiva e chiusi a chiave. Una vera comunità di destini che si è formata già mesi prima, quando in molti si sono conosciuti affrontando assieme l'attraversamento del deserto del Sahara.

Lentamente la barca senza nome avanza nel Canale di Sicilia verso l'Italia fino a quando vengono avvistate delle luci: sono i fanali di un mercantile filippino, il King Jacob. Il capitano Ambrousi si accorge che «la piccola luce a circa un miglio di distanza proviene da una barca dov'è ammassato un numero indescrivibile di persone» e prova ad avvicinarsi per cominciare le operazioni di soccorso. Il peschereccio prova ad accostare ma sbaglia la manovra e sperona con la prua il mercantile urtando il proprio fianco destro contro il cargo. In preda al panico, tutti si accalcano su un lato e la barca si rovescia. In venti minuti è tutto finito.

Immediatamente convergono sul punto del naufragio quattro elicotteri, un aereo e 18 imbarcazioni. Per ore i soccorritori raccolgono solo morti, poi, miracolosamente, il primo sopravvissuto: Elassan Ibnu Abdirazak, 16 anni, dalla Somalia. Alla fine, di 700 passeggeri, si salvano solo in 28: 12 vengono dal Mali, 4 dall'Eritrea, 3 dal Bangladesh, 2 dal Senegal, 2 dalla Somalia, uno dalla Sierra Leone, uno dal Gambia, uno dalla Costa d'Avorio, uno dalla Tunisia e uno dalla Siria. Paesi da cui si parte perché investiti dall'instabilità politica o dalle dittature, da guerre civili o dalla siccità, da crisi alimentari o, semplicemente, perché non si intravede alcun futuro.

Il giorno dopo, l'Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite definisce l'evento come «la più grande tragedia nelle acque del Mediterraneo dopo la fine della seconda guerra mondiale». La tempistica di questa tragedia non è però casuale. Se nell'ottobre del 2013 l'Italia aveva lanciato l'operazione di ricerca e soccorso Mare Nostrum con una dotazione di 9,5 milioni di euro al mese e 9 navi, dalla fine del 2014 l'Unione Europea l'ha sostituita con la missione di pattugliamento e difesa Triton, finanziata con 2,9 milioni di euro al mese, 7 navi e un numero di uomini tre volte inferiori.

La tragedia s'impone dunque all'attenzione dei mezzi d'informazione italiani e scuote la coscienza del paese, moltiplicando appelli e prese di posizione. Soprattutto impone una presa di consapevolezza sul dramma dei migranti che, con ogni mezzo e al prezzo d'indicibili sofferenze, cercano di raggiungere i paesi più ricchi d'Europa, gli Usa e il Canada. Il fenomeno è andato crescendo dalla fine degli anni Novanta e particolarmente nell'ultimo lustro, ma non rappresenta uno tsunami che minaccia di abbattersi sulle società dei paesi di più antico sviluppo e di travolgerne i sistemi di vita. Si tratta piuttosto dell'avanguardia di una nuova migrazione destinata ad aumentare nei prossimi decenni; ma che, proprio per questo, può e deve essere ben governata nell'interesse delle popolazioni già residenti e dei nuovi arrivati.

Intanto, l'impennata di arrivi in Europa registrata nel 2015, più che quadrupla rispetto ai 216.000 del 2014, è imputabile al drammatico accentuarsi delle guerre in Siria ed Afghanistan. Infatti i profughi da quei due paesi sono stati il 71 per cento del totale, per lo più diretti verso la rotta balcanica. Mentre gli sbarchi in Italia sono stati di 153.000 persone provenienti in gran parte da Eritrea, Nigeria, Somalia, Sudan e Gambia. Dopo il finanziamento accordato dall'Ue alla Turchia nel marzo del 2016 perché sbarrasse la strada ai migranti diretti verso la rotta balcanica, il 93 per cento degli arrivi in Europa è avvenuto via mare. Il totale in tutto il 2016 è stato di 381.000 persone. Se confrontiamo questo numero con i 507 milioni di abitanti dell'Ue a 28, la sproporzione appare del tutto evidente e non si vede proprio come gli immigrati, ancorché fossero accolti in blocco, possano far diminuire gli standard di vita della popolazione residente da più lunga data. Ma a questa vanno aggiunte altre considerazioni. Nel 2016 il totale di rifugiati, richiedenti asilo, sfollati e altri sotto il mandato dell'Unhcr era 65,6 milioni. Di essi coloro che si possono propriamente definire rifugiati e richiedenti asilo assommavano a circa 20 milioni, provenienti soprattutto da Siria, Afghanistan, Iraq, Yemen, Sudan, Sud Sudan, Repubblica democratica del Congo, Nigeria, senza dimenticare le ex colonie italiane Somalia ed Eritrea. Di questi la maggior parte ha trovato accoglienza presso i paesi limitrofi. In particolare, Turchia, Pakistan, Libano, Iran, Giordania, Etiopia, Kenya, Ciad, Camerun, Uganda ne hanno accolti 10,3 milioni. Invece quasi tutti i governi dei paesi Ue, benché molto più ricchi e tecnologicamente avanzati, dichiarano una pretesa impossibilità di accoglienza di poche decine di migliaia o oppongono netto rifiuto alle pur insufficienti proposte di ricollocazione fatte dalla Commissione europea.

Da ultimo siamo giunti al punto di stipulare accordi con i paesi di partenza e di transito perché impediscano l'emigrazione all'origine. Si occulta il fatto che gli immigrati costituiscono un'indispensabile risorsa. Nei documenti della stessa Commissione si esprime forte preoccupazione per l'invecchiamento della popolazione europea e la diminuzione di quella in età lavorativa. Infatti nei paesi membri se agli over 65, in costante crescita, si sommano bambini e ragazzi al di sotto di 15 anni, sia pure in calo, a oggi meno di due persone potenzialmente al lavoro devono sostenere le spese d'istruzione, sanità, pensioni, oltre a quelle generali dello Stato per ogni persona anziana o molto giovane. E il loro numero è in costante diminuzione: talché da due passeranno a 1,57 nel 2030, rendendo la situazione insostenibile. Altri studi dimostrano che per garantire l'attuale livello delle spese sociali negli Stati dell'Ue occorrerebbe un aumento suppletivo della popolazione di 42 milioni di persone in cinque anni e di un numero proporzionalmente maggiore nei successivi. Il che è concepibile solo a condizione di politiche di accoglienza e rapida regolarizzazione di immigrati.

Non meno importante è il possibile apporto degli immigrati in termini di crescita produttiva, date le previsioni di aumento medio del Pil degli Stati membri che la stessa Commissione valuta intorno all'1,4 per cento nei prossimi decenni. Se prendiamo per esempio la situazione italiana, nel 2014 l'ammontare delle tasse e dei contributi pagati dagli immigrati di prima generazione, cioè nati all'estero, ha superato di 4 miliardi il totale delle spese pubbliche per le politiche di accoglienza e tutti i servizi di welfare di cui essi hanno usufruito. Inoltre essi hanno concorso alla creazione di ricchezza nella misura dell'8,8 per cento del Pil. E conti simili valgono anche per gli altri paesi che sono mete preferite degli immigrati. Non risponde al vero nemmeno la credenza, largamente diffusa e poco o affatto contrastata dai governi, secondo la quale gli immigrati sottraggano lavoro alla popolazione già residente. Che si tratti di una convinzione fallace è dimostrato, tra l'altro, dal confronto tra i dati riguardanti l'immigrazione e quelli riguardanti la disoccupazione. Dopo la crisi del 2008, la disoccupazione ha continuato ad aumentare in Italia, in Spagna e in Francia, mentre negli ultimi due-tre anni è stata contenuta in Gran Bretagna, è calata negli Usa ed è diminuita decisamente in Germania. Invece l'immigrazione è cresciuta in tutti questi paesi e in misure non rapportabili a quelle della disoccupazione. In definitiva, i due andamenti sono indipendenti e non relazionabili tra loro.

Disoccupazione, sottoccupazione, precarietà e, più in generale, arretramento delle condizioni di lavoro nei paesi dell'area euro-atlantica, dipendono dalla massiccia delocalizzazione di attività produttive in paesi meno sviluppati per sfruttare manodopera a bassissimo costo, dall'automazione e dal processo di finanziarizzazione dell'intero sistema economico. Gli effetti di tale ristrutturazione sono stati particolarmente pesanti. Nei paesi di più antico sviluppo le diseguaglianze sono cresciute a tal punto da determinare una sorta di piano inclinato sul quale continuano a scivolare non solo le classi lavoratrici, ma anche i ceti medi. Ciò significa che per la maggioranza della popolazione, in Italia come altrove, sono venute meno la possibilità di mobilità sociale e la speranza di migliorare le proprie condizioni e quelle dei figli. Ciò è causa di profondo malessere e disorientamento. Le conseguenze si sono viste anche sul piano politico, con l'ascesa di partiti nazionalisti e xenofobi e un poco nobile inseguimento su questo terreno anche da parte di altri, per meri calcoli elettorali. A questo punto il fenomeno migratorio costituisce un vero e proprio punto di biforcazione storica.

Da un lato, è probabile che cresca il consenso verso chi alimenta false paure e fa leva su istinti di autodifesa: la prospettiva è quella di una chiusura crescente in false identità di nazione, razza, 'civiltà'; anche se l'esperienza storica insegna che una società chiusa non è grado di sopravvivere. L'alternativa è una scelta politica diversa che punti a un'organizzazione sociale aperta alle trasformazioni. Trasformazioni che comprendano quelle di cui i movimenti migratori sono portatori su più piani come tante volte, anzi continuamente, si è visto nella storia d'Italia.

IGNAZIO MASULLI

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