Autore Jennifer Guerra
Titolo Il corpo elettrico
SottotitoloIl desiderio nel femminismo che verrà
EdizioneTlon, Roma, 2020, Numeri primi 13 , pag. 150, cop.fle., dim. 12x19x1,2 cm , Isbn 978-88-99684-70-9
LettoreGiorgia Pezzali, 2020
Classe femminismo









 

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Indice


Premessa                                         11

Nota alla traduzione                             13


Capitolo 1  IL PERSONALE È POLITICO              15

Capitolo 2  CONTENUTI E CONTENITORI              37

Capitolo 3  "LO SI DIVENTA"                      59

Capitolo 4  DALLA PARTE DELLE BAMBINE            81

Capitolo 5  QUESTO È IL MIO SANGUE              103

Capitolo 6  UNA BUONA EROINA È UN'EROINA MORTA  123


Bibliografia                                    145


 

 

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Pagina 11

PREMESSA



                                            I'm every woman, it's all in me

                                                Chaka Khan, I'm Every Woman



«Quello che riguarda un solo corpo di una sola donna nel mondo riguarda tutte le donne».

È una frase che mi sono ripetuta come un mantra ogni volta che ho cercato di non ignorare la storia di uno stupro, di un aborto, di una visita dal ginecologo di un'amica, di una pillola del giorno dopo negata. Ogni volta che mi sono sforzata di capire, di andare più a fondo per comprendere quelle dinamiche legate al corpo queer a me così estranee eppure così vicine.

Questo libro nasce in un momento politico e sociale complesso, in un giorno in cui sento il bisogno di prendere parte a qualcosa, di fare un'azione significativa. Se chiudo gli occhi, in questo momento vedo un mondo in fiamme: vedo governi sempre più autoritari e repressivi, proteste di piazza che scuotono tutto il mondo, persone sempre più frustrate da una società che sembra aver perso ogni parvenza di serenità e condivisione. Ho paura, e ho paura che per me e le mie sorelle cominci un abbrutimento, un'abitudine alla paura. Ho pensato alle cose che potrebbero toglierci: i diritti, su cui bisogna sempre vigilare e che non bisogna mai dare per scontati, i soldi - e quelli figuriamoci -, le libertà.

Ma c'è una cosa che non potranno mai toglierci: il corpo. Il corpo pieno, desiderante e straripante, il «corpo elettrico», come diceva Walt Whitman. Questa strana, meravigliosa macchina dove tutto è in lotta e allo stesso tempo in equilibrio.

Il corpo delle donne, a prescindere da cosa abbiano in mezzo alle gambe, è il corpo per eccellenza. Chris Kraus nel suo meraviglioso romanzo I love Dick dice una cosa importantissima: «Per me il semplice fatto che le donne parlino, siano paradossali, inspiegabili, volubili, autodistruttive, ma soprattutto pubbliche, è la cosa più rivoluzionaria del mondo». Il concetto di "pubblico" sembra la cosa più estranea che ci sia al nostro corpo, che siamo abituate a pensare nella sua forma privata e personale. Ma in realtà i nostri corpi non sono semplicemente nostri: c'è sempre un'autorità con cui dobbiamo fare i conti. Sono esposti, regolamentati, sfruttati, ingabbiati, scherniti, giudicati, toccati. E per questo sono un terreno politico, uno spazio fisico dove possiamo giocarci la nostra rivoluzione. Per anni le donne hanno fatto politica tramite il loro corpo, battagliando sul diritto all'aborto, sul riconoscimento dell'identità trans, sulla tutela dalla violenza di genere. Così facendo hanno reso il loro corpo pubblico, come mai prima era stato fatto.

È necessario ripartire dal corpo, il bene che nessuno può toglierci. Questo è il mio corpo, che non offro in sacrificio per nessuno. Questo è il nostro corpo, tanti corpi che ne fanno uno solo.

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Pagina 15

Capitolo 1
Il personale è politico



Il corpo delle donne è sempre stato un oggetto privato. Dagli assorbenti passati dalla compagna di banco con sotterfugi e giochi di mano che farebbero invidia a uno spacciatore, alle misteriose formule magiche con cui eludiamo tutto ciò che ruota intorno al nostro stato di salute ("le mie cose", "sono un po' indisposta", "ha un brutto male", "in quei giorni"), il corpo nella sua estensione fisica diventa una sorta di fantasma, con cui preferiamo confrontarci solo nello specchio di camera nostra, nel camerino, tutt'al più dal medico. Eppure, di corpi di donne ne vediamo ogni giorno, a migliaia, di ogni forma e dimensione: sono quelli che incrociamo per strada e quelli delle influencer di Instagram, sono quelli dei film e quelli delle pubblicità dello yogurt.

I corpi sono sette miliardi, come le persone sulla Terra, e i corpi delle donne sono circa la metà, tre miliardi e mezzo. Ciascuno di essi è sottoposto a tensioni e stimoli diversi. A volte sono stimoli positivi, passi in avanti, salti di gioia. Altre volte sono limitazioni alla nostra libertà e individualità, gabbie in cui veniamo messe o muri che ci erigiamo intorno da sole. I nostri corpi sono vivi nel mondo e il mondo li condiziona e li modifica: portando in giro i nostri corpi, accettiamo di interagire con esso. Li rendiamo, in un certo senso, pubblici.

Negli anni Sessanta un vecchio slogan femminista diceva che il "personale è politico". Questa idea viene da un pamphlet scritto nel 1969 da Carol Hanisch, quindi da quello che convenzionalmente viene chiamato "femminismo storico" o "femminismo della seconda ondata". Come una marea, la storia dei femminismi si suddivide convenzionalmente in varie ondate: la prima ondata coincide con la fine del XIX secolo e l'inizio del XX e con le lotte, soprattutto nel mondo anglosassone ma anche in Italia, per il diritto al voto. Con il suffragio avvenne anche un generale miglioramento delle condizioni sociali delle donne, che poterono accedere, in vari Paesi occidentali, a un'istruzione, a salari più adeguati e alle libere professioni. La seconda ondata corrisponde invece alla grande stagione del femminismo che va dagli anni Sessanta agli anni Ottanta. In quest'epoca vennero a galla tutti quegli aspetti della vita personale di una donna di grande impatto sul piano sociale e politico, come la sessualità, la gravidanza e la maternità. Oggi questa suddivisione cronologica è stata messa in discussione per due validissime ragioni.

La prima è che categorizzare in maniera così netta la storia delle donne significa separarla dalla cosiddetta "storia con la S maiuscola", come se le donne non vi fossero coinvolte.

La seconda è che la teoria delle ondate dà l'idea che il movimento delle donne non sia organico, ma frammentato. In realtà le questioni che hanno caratterizzato ciascuna ondata si riverberano e si intersecano anche in quelle seguenti. E infatti sono qui a parlarvi degli anni Settanta. In ogni caso, per ragioni di chiarezza, anche io mi adeguo a usare questa divisione.

Carol Hanisch coniò il suo slogan in risposta alla chiusura che i vari movimenti libertari, come quello per i diritti civili e quello pacifista, mostravano nei confronti delle donne, i cui problemi e rivendicazioni venivano considerati di minore importanza rispetto alla causa perché "personali". Scriveva Hanisch:

Come donna di un movimento, sono stata spinta a essere forte, altruista, aperta verso l'altro, pronta al sacrificio, e in generale in controllo della mia vita. Ammettere i problemi nella mia vita è ritenuto debole. Quindi io voglio essere una donna forte, in termini di movimento, e non ammettere che ho dei problemi reali a cui non riesco a trovare una soluzione personale [...]. È a questo punto un'azione politica dirlo così com'è, dire ciò che penso realmente della mia vita anziché ciò che mi hanno sempre detto di dire.

Le sue parole risuonarono per tutta la stagione femminista degli anni Settanta, spingendo le donne del neonato Women's Liberation Movement a organizzarsi in spazi autogestiti, all'interno dei quali potevano parlare liberamente di tutto ciò che le riguardava da vicino, partendo da ciò che meglio conoscevano: la propria esperienza. Questi gruppi autorganizzati e privi di gerarchia o statuto, detti gruppi di "autocoscienza", erano frequentati da persone di tutte le età, dalle liceali alle nonne. Si parlava soprattutto di sesso, di mestruazioni, di parto, di salute mentale, di fantasie sessuali, di contraccezione e di aborto. Fino a quel momento le donne raramente avevano spazi per poter parlare fra loro.

L'autocoscienza fu, innanzitutto, un tentativo di costruire una coscienza collettiva che per troppo tempo era stata negata: non solo di sé, al di là dei ruoli prestabiliti di moglie e madre, ma anche di classe: le donne si scoprirono e si definirono un "soggetto politico". L'idea che il personale fosse politico generò nuove forme di attivismo che andavano dal rifiuto di lavare i piatti alle manifestazioni in piazza per l'accesso alla contraccezione. Per la prima volta le donne divennero consapevoli del proprio genere come segmento sociale all'interno di un'istituzione ben definita e definibile: il patriarcato, l'oppressore che riuscirono a individuare proprio percependosi oppresse. Questo le dotò di tutti gli strumenti per organizzarsi politicamente come un corpo di azione e rivendicazione. Tale progresso fu possibile grazie a un passaggio obbligato: rendere visibile la sfera privata.

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Pagina 22

Mentre delegavamo l'educazione sessuale alle istituzioni non interessate o incapaci di fornircene una, il nostro concetto di "privato" cambiava. Dopo gli anni Settanta - decennio, assieme a quello precedente, di grandi lotte e grandi scoperte - c'è stata una battuta d'arresto nell'autocoscienza del corpo femminile. È come se dopo la grande stagione del desiderio, così come la battezzò la femminista italiana Lia Cigarini, d'improvviso si sia tornati verso una chiusura nei confronti di tutto ciò che riguarda il corpo delle donne. Costruire una coscienza aveva significato riconoscere la natura pulsante del sé, la propria autonomia e la propria capacità non solo di sentire il mondo, ma anche di comprenderlo. È stata la scoperta del proprio desiderio e della sua natura necessariamente politicizzata, se accettiamo l'idea che il personale (la coscienza) sia politico. Delegando la coscienza all'istituzione, pensando che l'oppressore (il sistema patriarcale) si fosse finalmente accorto di noi e delle nostre esigenze personali, abbiamo lasciato che il desiderio si depoliticizzasse.

Così in breve tempo il personale si è trasformato in individuale. Abbiamo scoperto il sesso, l'abbiamo fatto e questo ci è bastato. Non era importante come avvenisse. Ci siamo limitate a individuare un problema che, per usare un termine caro al femminismo degli anni Settanta, si chiama "differenza sessuale". Abbiamo cioè notato che il modo in cui uomini e donne vivevano la sessualità era inconciliabile. Noi sempre misurate, caste, timorate. Loro sempre tracotanti, esagerati, virili. Questa differenza ha cominciato a pesare, ma per le ragioni sbagliate. Siamo volute diventare come gli uomini. Siamo cadute nella trappola separatoria che vuole le donne da una parte e gli uomini dall'altra, come su due binari paralleli destinati a non incontrarsi mai. È stato un errore di calcolo. Abbiamo pensato che se avessimo cominciato a comportarci come gli uomini ci saremmo finalmente liberate. Il nostro personale è diventato un soddisfacimento egoistico di tutto ciò che abbiamo desiderato e non abbiamo mai avuto, contrariamente a quello che hanno avuto i nostri fratelli, i nostri amici o i nostri compagni. Ma questa differenza sessuale non basta a renderci più unite, più forti, più consapevoli. Anzi, serve solo a separarci. Separarci dagli uomini e separarci tra di noi. L'individualismo ci ha rese perennemente schiave della competizione, che si manifesta nei modi più subdoli, e quasi sempre in direzione del corpo. Non solo ci accapigliamo per essere le più belle del reame, ma anche le amanti più capaci (a far godere il maschio), addirittura le partorienti più brave (ci sono donne che fanno a gara vantandosi della propria rapidità nel travaglio). In questa dicotomia abbiamo deciso di escludere con consapevolezza tutte quelle individualità non binarie che in questo schema non trovano posto. Perse a rincorrere l'oro olimpico di vere donne, intente a mettere paletti tra brave e cattive femmine, abbiamo sacrificato l'individualità sull'altare dell'individualismo. E abbiamo fatto un casino.

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Pagina 57

Nel continuo lavoro per dare un valore al nostro corpo cerchiamo un termine di paragone, un obiettivo. Così arriviamo a considerare "normale" ciò che non ha nulla di naturale: è "normale" essere prive di peli (non lo è), avere la pelle priva di qualsiasi traccia di texture (non lo è), che la carnagione sia solo bianca (non lo è), essere perennemente giovani (non lo è). La deviazione verso questa "normalità a-normale" è inaccettabile. Queste privazioni, queste discipline, questi sacrifici del corpo, ci hanno rese perfetti contenitori, nella convinzione che essi rispecchino il nostro contenuto. Questa "normalità a-normale" è però dettata soltanto dall'industria capitalistica della bellezza che risponde allo sguardo maschile e da nessun'altra ragione. Il fatto che il nostro corpo sia necessario al funzionamento di questo meccanismo rafforza sempre più l'idea che esso sia un bene di scambio, qualcosa su cui investire, qualcosa da cui trarre profitto. E così lo spezzettiamo in tante piccole parti, le tette, il culo, le gambe, la faccia, ciascuna con il suo valore. Non ci pensiamo complete. Troppo spesso indulgiamo a immaginare il corpo e l'anima come due entità separate, che hanno diversa importanza. L'anima è il contenuto avvolto dal corpo, che è il contenitore. Vorremmo che le due entità corrispondessero e per questo diventiamo matte ad apparire sempre belle e intelligenti. Quelle che si concentrano su una cosa piuttosto che sull'altra sono in alternativa sceme o brutte. Forse dovremmo semplicemente abbandonare quest'idea e cominciare a pensarci come una cosa sola. La nostra anima non è distaccata dal corpo: è il nostro corpo che fa da tramite con il resto del mondo. È il nostro corpo che ci fa provare piacere o dolore. Le nostre gambe, per quanto le riteniamo corte, grosse o brutte, ci portano nei posti e dalle persone che amiamo.

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Pagina 79

Ho intitolato questo capitolo "Lo si diventa" per citare forse la frase più famosa di Simone de Beauvoir: «Donne non si nasce, lo si diventa». È la primissima sentenza del capitolo de Il secondo sesso dedicato all'infanzia, nella prima parte del libro, ovvero quella sulla formazione. Nelle righe successive la filosofa dice due cose molto importanti. La prima è che nessun aspetto biologico, psichico o economico può definire la donna; e la seconda, fondamentale per capire questa frase ormai relegata a citazione motivazionale da stampare su segnalibri e magliette, è che il corpo è «prima di tutto l'irradiarsi di una soggettività, lo strumento indispensabile per conoscere il mondo». E costruirlo, aggiungerei io.

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Pagina 81

Capitolo 4
Dalla parte delle bambine



Dalla parte delle bambine è un libro del 1973 scritto da Elena Gianini Belotti. Quando scrisse questo saggio, Gianini Belotti aveva quarantaquattro anni e la sua infanzia l'aveva trascorsa in un tempo in cui le bambine non contavano quasi nulla. Dovevano essere modeste, zitte, beneducate, carine, volenterose, misurate, religiose. Non serviva che studiassero o lavorassero, ma era importante che sapessero sin da subito e alla perfezione come governare la casa ed educare i figli col medesimo rigore con cui erano state tirate su loro. Le bambine erano spose in miniatura, piccole madonne, abituate a conformarsi a un modello di remissiva devozione. Una volta diventata adulta, la scrittrice si rese conto che anche trent'anni dopo le cose per le bambine non erano poi così cambiate. In parte i costumi si erano certamente evoluti: le donne cominciavano a emanciparsi lentamente dai dettami del padre o del marito, era stato introdotto il divorzio, la sessualità diventava sempre più libera, si cominciava a parlare di aborto. Dall'America, soprattutto, era arrivato il movimento femminista con le sue lotte e le sue rivendicazioni. Eppure, il modo in cui venivano educati i bambini e le bambine continuava a essere radicalmente diverso, quasi come se il maschio e la femmina non fossero due sessi diversi, ma proprio due specie diverse. Scrive Gianini Belotti nella premessa del saggio:

La cultura alla quale apparteniamo, come ogni cultura, si serve di tutti i mezzi a sua disposizione per ottenere dagli individui dei due sessi il comportamento più adeguato ai valori che le preme conservare e trasmettere.

I valori che alla società preme conservare e trasmettere sono, senza dubbio, i vecchi ruoli di genere. Quante volte li abbiamo visti in azione? Le bambine sono abituate sin dall'infanzia a giocare con le bambole, mentre i coetanei maschi con le costruzioni. Alle bambine si dice di non correre per non sporcare il vestito - non sia mai rovinassero la loro immagine esteriore! - mentre il bambino viene incoraggiato a muoversi e giocare come meglio crede. Sono esempi banali, quotidiani, se vogliamo, triti e ritriti. Ovviamente questi condizionamenti non terminano con la fine dell'infanzia, ma si protraggono per tutta la vita. E dimostrato infatti che tale educazione così differenziata produce, soprattutto nelle bambine, grossi problemi di autostima.

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Pagina 95

Nel saggio Gli uomini mi spiegano le cose , Rebecca Solnit fà un paragone importantissimo: quando gli uomini mettono a tacere le donne è come se compiessero una sopraffazione fisica,

[...] insegnando loro, come fanno le molestie per strada, che questo mondo non appartiene a loro. Per noi è un addestramento all'insicurezza e all'autolimitazione, mentre gli uomini mettono in esercizio la propria immotivata tracotanza.

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Pagina 141

La narrazione della donna arrabbiata è un'alternativa efficace alla narrazione stereotipata della donna morta: la rabbia è azione, volontà, risposta a quell'illusione di universalità che il Manifesto di Rivolta Femminile chiamava in causa. La rabbia è desiderio, da cui siamo partite e dove ora arriviamo. La cultura patriarcale ci ha abituate a ragionare per estremi. «Una buona eroina è un'eroina morta», scriveva Susan Brownmiller. Secondo i canoni del sistema patriarcale, dovremmo essere contemporaneamente delle eroine - sempre pronte a prodigarsi per gli altri, perfettamente aderenti a un codice etico inattaccabile - e delle sante - inermi e inoffensive. Per secoli ci hanno tacciate di essere schiave dei nostri istinti e delle nostre passioni e, con questa scusa, ci hanno relegate a un ruolo secondario nella società, considerandoci incapaci di prendere le redini non dico del mondo, ma anche soltanto delle nostre stesse vite. Per secoli ogni nostra scelta è stata imposta da un'autorità maschile. Ogni nostra ambizione, soffocata. Le donne più scomode, quelle che si sono ribellate, sono state eliminate, sia fisicamente sia attraverso la pratica machista della delegittimazione, secondo cui i saperi delle donne non sono scienza, sono folklore; le arti delle donne non sono "belle", sono "applicate"; i romanzi scritti dalle donne non sono letteratura, sono rosa. Ci è stato sempre imposto di adeguarci a una visione delle cose, a un canone, a un'idea di mondo senza che mai nessuno ci abbia chiesto il nostro parere. Senza che nessuno abbia mai tenuto conto del nostro desiderio.

Caro patriarcato, le colpe che ci attribuisci non sono del nostro corpo. Hai sbagliato tutto. Non siamo arrabbiate perché abbiamo "le nostre cose", perché siamo isteriche, o perché non scopiamo abbastanza. Non sono gli "istinti misteriosi" a guidarci, né i nostri ormoni. Come diceva Simone de Beauvoir , non siamo nate donne, lo siamo diventate: se siamo arrabbiate, è perché abbiamo scelto di esserlo. Siamo arrabbiate perché le nostre vite traboccano di desiderio, un desiderio che viene costantemente represso. Così cerchiamo spazi, occasioni, una voce per esprimerlo. Caro patriarcato, ci dici in continuazione che dovremmo essere contente di come stanno le cose, che noi stiamo esagerando. Ci sono le quote rosa, i sussidi di maternità, le leggi di tutela. Ma questo non ci basta: «Vogliamo il pane, ma anche le rose». E non le chiediamo a te, ce le prendiamo da sole.

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