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| << | < | > | >> |IndiceXIII Premessa all'edizione italiana di Fiorello Cortiana XXIII Introduzione all'edizione italiana La conoscenza come bene comune nell'epoca della rivoluzione digitale di Paolo Ferri XLIX Prefazione Parte prima Studiare i beni comuni della conoscenza 3 1. Introduzione Panoramica sui beni comuni della conoscenza di Charlotte Hess e Elinor Ostrom 3 L'intento di questo libro 4 Breve storia degli studi sui beni comuni della conoscenza 5 Lo studio dei beni comuni tradizionali 9 La conoscenza come risorsa 13 La tragicommedia dei beni comuni 16 Due filoni 17 Chiarire la confusione che circonda i beni comuni della conoscenza 19 Ecosistema della conoscenza, azione collettiva e autogoverno: panoramica dei capitoli di questo libro 26 Dove ci conduce questo libro 29 2. Lo sviluppo del paradigma dei beni comuni di David Bollier 34 I beni comuni come linguaggio nuovo 38 Varietà di beni comuni dell'informazione 43 Il futuro dei beni comuni 45 3. Un framework per l'analisi dei beni comuni della conoscenza di Elinor Ostrom e Charlotte Hess 45 Studiare le istituzioni 49 Caratteristiche della risorsa 60 L'arena di azione 66 Modalità di interazione 69 Risultati 72 Criteri di valutazione 77 Esigenze di governo adattivo in un sistema complesso 79 Conclusione Parte seconda Proteggere i beni comuni della conoscenza 83 4. Contrastare la "recinzione": rivendicare i beni comuni della conoscenza di Nancy Kranich 84 La "recinzione" dei beni comuni scientifici e accademici 96 Rivendicare i beni comuni della conoscenza 98 Contrastare la "recinzione" dei beni comuni della conoscenza 113 Il ruolo delle biblioteche di ricerca 115 Trasformare le biblioteche di ricerca in beni comuni della conoscenza del XXI secolo 117 Governare i beni comuni della conoscenza 118 Finanziare i beni comuni della conoscenza 120 Sostenere la causa dei beni comuni della conoscenza 123 Opportunità di ricerca 123 Conclusione 127 5. Merton liberato? Accesso libero e decentralizzato a materiali culturali e scientifici di James Boyle 129 «Potrai avere la mia Biblioteca del Congresso solo quando...» 134 Una rete globale open source per il controllo delle informazioni 140 Oltre l'archivio specialistico? Utenti come progettisti 144 Con abbastanza cervelli diventa tutto interessante? 148 Conclusione 151 6. Preservare i beni comuni della conoscenza di Donald J. Waters 152 La natura mutevole della conservazione nei sistemi di comunicazione scientifica 155 La conservazione delle riviste elettroniche come problema dei beni comuni 158 Ruoli, responsabilità e modelli organizzativi 165 Caratteristiche delle iniziative basate su comunità per la conservazione dei beni comuni della conoscenza 172 Conclusione Parte terza Costruire nuovi beni comuni della conoscenza 177 7. Creare un bene comune attraverso il libero accesso di Peter Suber 177 Che cos'è il libero accesso? 182 Contenuto esente da royalty e generatore di royalty 189 Letteratura di ricerca ad accesso libero come bene comune intellettuale 196 Tragedie dei beni comuni OA 205 Il primato degli autori per il conseguimento di un bene comune OA 212 Diverse prospettive sui beni comuni OA 216 Cenni sulle iniziative di Fase 2 221 8. Come costruire un bene comune: la proprietà intellettuale è limitante, agevolante o irrilevante? di Shubha Ghosh 225 Gli argomenti pro e contro la proprietà intellettuale 239 Alcuni principi guida per la progettazione di un bene comune 251 La condivisione dei file e l'utilizzo sperimentale: due beni comuni molto esemplificativi e controversi 261 Conclusione 263 9. L'azione collettiva, l'impegno civile e i beni comuni della conoscenza di Peter Levine 264 Un esempio 266 I beni comuni associativi 275 Educazione civica dei giovani 282 L'università impegnata 286 Radici locali 290 Lavoro pubblico 294 Conclusione 297 10. Il software gratuito/open source come modello per l'istituzione di beni comuni nella scienza di Charles M. Schweik 300 Panoramica dei beni comuni del Free/Libre and Open-Source Software (Foss) 302 Regole in uso: "copyleft", licenze FOSS e governo del progetto 310 Estendere il paradigma collaborativo FOSS per creare un bene comune della scienza 326 Conclusione 329 11. La comunicazione scientifica e le biblioteche: le opportunità dei beni comuni di Wendy Pradt Lougee 330 Convenzioni comunicative nei beni comuni 333 Tendenze distribuite e aperte 335 Che cosa cambia: contenuto e pubblicazione 336 Che cosa cambia: le discipline 340 Che cosa cambia: le biblioteche 349 Conclusione 353 12. EconPort: creare e mantenere un bene comune della conoscenza di James C. Cox e J. Todd Swarthout 354 Microeconomia ed esperimenti 355 Esperimenti di microeconomia per la didattica 356 I laboratori di economia sperimentale come strutture di informazione 359 EconPort: una biblioteca digitale per la didattica della microeconomia 361 EconPort come bene pubblico locale (fruibile globalmente) 362 EconPort come bene comune della conoscenza associativo 366 Sostenibilità: promuovere una comunità di utenti e la diffusione dei workshop 367 Conclusione 369 Glossario 375 Bibliografia 405 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina XIIIPremessa all'edizione italiana
di Fiorello Cortiana
Figli dell'affanno individuale, del potere terreno del sacro e poi delle ideologie, gli uomini hanno faticato a riconoscere i beni comuni come tali. Una ulteriore difficoltà è legata al riconoscimento dei beni comuni come condizione essenziale per la vita del vivente, umano e non, sulla Terra. Ci occorre un nuovo sguardo epistemologico, spirituale ed esistenziale, adeguato a vedere e riconoscere i beni comuni. Questo inizio di secolo e di millennio sembra un pettine al quale sono arrivati i nodi critici di un modello di sviluppo energivoro, dei problemi drammatici che già oggi il cambiamento climatico prefigura e della logica speculativa del "denaro da denaro", peraltro nominale. Una nuova consapevolezza inizia a emergere come necessità: noi non ci salveremo per reazione a un disastro più grande degli altri, noi ci salveremo in virtù di una scelta di valore. Ciò che cambia oggi è il contesto relazionale che interessa il genere umano e la relazione tra genere umano e il vivente tutto. La Rete non è un supporto informativo che succede al telegrafo, al telefono, alla radio, al televisore, al calcolatore elettronico: la sua natura interattiva e la sua pervasività, la convergenza e la tracciabilità del/nel mondo digitale, con o senza fili, la configurano come un sistema di comunicazione e di conoscenza. La Rete digitale si presenta come un'estensione delle relazioni sociali, con una potenzialità elaborativa mai conosciuta prima nella storia dell'umanità. Essa non è un mondo parallelo, ma un'estensione del mondo relazionale e informazionale della nostra società: si configura come un sistema relazionale con potenzialità mai conosciute fino a ora dall'umanità, uno spazio pubblico illimitato. Internet, con le sue potenzialità di calcolo, la connessione senza fine di nodi, la non conoscenza di confini, costituisce un'impresa cognitiva collettiva. Questa condizione propone in forme nuove la conoscenza: la propone come "bene comune". Nel corso dei millenni ogni evoluzione umana è stata legata a percorsi informazionali, che hanno consentito contaminazioni e, quindi, nuove combinazioni, come è avvenuto nella sfera biologica per le colture e per le pratiche terapeutiche. Di più: è valso per le religioni, come per le culture, attraverso i diversi linguaggi espressivi artistici. Oggi, questi percorsi e questi scambi informazionali sperimentano una condizione straordinaria in Rete, perché in Rete i contenuti non conoscono la scarsità e un numero illimitato di persone può contribuire al loro sviluppo con una relazione evolutiva incrementale. Nel "mondo materiale" ogni contenuto è legato al proprio supporto, che sia un libro o un CD musicale: se il possessore di un contenuto/supporto lo cede a qualsiasi titolo, lo rivende o lo presta o lo regala, in ogni caso non potrà più disporne. Se lo stesso contenuto, invece, viene immesso nella rete digitale interattiva, è a disposizione di un numero illimitato di persone. Le caratteristiche di interattività, non scarsità e viralità della Rete cambiano per la prima volta non solo le condizioni del mercato cartaceo e audiovisivo: è l'idea stessa di conoscenza che diventa una funzione sociale non più esclusiva. Nella "società della conoscenza" la produzione di valore cambia, la natura del lavoro e della produzione sono chiamate in causa in modo non rinviabile dalla dimensione digitale, con la sua pervasività, la sua interconnessione e la sua interazione. L'innovazione tecnologica nell'era digitale interessa tanto il prodotto quanto il processo, e così la dimensione cognitiva del lavoro diviene centrale nella produzione di valore anche nei processi di innovazione che interessano settori maturi. Il lavoro cognitivo pone in discussione i parametri quantitativi quali quelli legati allo sforzo fisico e/o al tempo impiegato: entra in gioco la dimensione soggettiva e la centralità delle persone, e il consumatore partecipa direttamente alla definizione del prodotto. Dai contenuti audiovisivi alle modificazioni delle soluzioni di design, nella produzione creativa del lavoro cognitivo è esaltata la modalità concorsuale collettiva, con processi di relazione assolutamente diversi da quelli lineari. La conoscenza e la sua condivisione sono condizioni costitutive per la produzione di valore cognitivo e prevedono l'apertura evolutiva a modalità e a codici espressivi imprevedibili: risulta perciò necessario operare scelte tecnologiche e normative tali da non precludere il futuro, dobbiamo imparare ad avere una cultura dell'inaspettato. I nodi critici venuti al pettine all'inizio di questo terzo millennio sono in gran parte figli della separazione — se non anche dell'antinomia — tra sapere e sapienza, cioè tra la dimensione calcolabile e codificata del lavoro cognitivo e quella legata a pratiche ed esperienze dell'attività umana la cui efficacia era verificata nella quotidianità di comunità. La Rete permette di condividere le informazioni e le pratiche e i prodotti a esse legate. La viralità della Rete, e non la sua presunta virtualità, avvicina le riflessioni e il racconto alle pratiche cui si riferiscono fin quasi ad annullare il distacco, risultando perciò propedeutica proprio all'incontro e alla condivisione di pratiche e a una feconda ricomposizione del rapporto tra sapere e sapienza. È la società della conoscenza — digitale, interattiva, convergente e pervasiva — che consente questa ricomposizione, un'estensione del sistema di relazione sociale, un ecosistema cognitivo a carattere virale nel quale gli sguardi e i paradigmi, le modalità di produzione e di scambio di contenuti sono di natura informazionale. In questa relazione olistica troviamo oggi la concretizzazione della domanda suggestiva che, in Mind and Nature, proponeva Gregory Bateson: «Quale struttura connette il granchio con l'aragosta, l'orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei noi con l'ameba da una parte e con lo schizofrenico dall'altra?» (Bateson 1979) La conoscenza, quindi, la sua acquisizione da parte di ognuno con i suoi percorsi culturali ed empirici come parte di una conoscenza più ampia prodotta dalla relazione informazionale del vivente tra sfera biologica (a partire dalla dimensione cellulare) e sfera antropologica (a partire dal rapporto tra pensiero ed evoluzione). Le cellule comunicano fra loro utilizzando codici di significazione, per questo una terapia informazionale attraverso le cellule staminali può riprogrammare il sistema. È significativo che la relazione informazionale come "struttura che connette" sia una definizione che ha trovato conferma nel lavoro di scienziati che hanno affrontato, proprio in chiave non riduzionista, quello che nel Novecento è stato chiamato "il male del secolo". Luigi Oreste Speciani nel suo Di cancro si vive (Speciani 1982) proponeva questa considerazione: «Se il cancro è un difetto dell'organizzazione vuol dire che la vita normale di ogni essere pluricellulare (uomo, animale, pianta) non è altro che massa cellulare (tumore!) organizzata. Da almeno quattro secoli questo organizzatore è stato cercato analiticamente da tutti, prima nelle cellule intere, poi nei suoi organi subcellulari senza mai scoprirlo, perché l'organizzatore non è a livello cellulare (se non con i suoi vari strumenti operativi) ma a livello centrale, attinente l'uomo intero». Oggi sono molti gli scienziati nel mondo che si stanno convincendo che le cellule tumorali sono strettamente correlate con le staminali e sperano con questo di arrivare a una terapia. Non sorprende anche la riflessione di Pier Mario Biava nel suo Il cancro e la ricerca del senso perduto: «Dietro l'aumento di complessità dovuta agli eventi evolutivi vi sarebbero processi coerenti di informazione, che assicurerebbero il comportamento cooperativo di tutti i componenti del sistema fino ad arrivare alla comparsa della coscienza individuale e collettiva» (Biava 2008). Quella coscienza che sola garantisce la saggezza sistemica, la cui carenza è sempre punita, come profetizzava Bateson e come verifichiamo noi oggi. Nell'era digitale, nella società della conoscenza, il vero capitale è costituito dalle persone e dalla loro qualità, fatta di esperienza, impegno, idee e modalità relazionali. È comprensibile che di fronte a una sollecitazione così profonda dei nostri modelli di relazione sociale e di sviluppo prendano corpo, con consapevolezza o meno, approcci di natura omeostatica a salvaguardia di un sistema che ci accompagna da secoli. Sono reazioni di natura normativa e tecnologica finalizzate a ripristinare le condizioni di scarsità relativamente ai contenuti informazionali scambiati e scambiabili in rete. I sistemi di Digital Right Management (DRM), la criminalizzazione dello scambio tra pari, il Peer to Peer, insieme a modelli di marketing che consentono un accesso illimitato ai contenuti di cui dispone una società a condizione dell'esclusività del rapporto di abbonamento produttore/consumatore, pur se comprensibili, appaiono come responsabili di una dissipazione cognitiva enorme. Fidelizzazione come costrizione: se non puoi recintare i commons recinta gli utilizzatori. I latifondisti del copyright e dei servizi di accesso ai contenuti configurano, secoli dopo, una nuova "tragedia dei beni comuni". Abbiamo alcuni esempi delle potenzialità di questa condivisione partecipata della conoscenza. Il primo è Wikipedia, l'enciclopedia in rete cui concorrono, collaborano, interagiscono e definiscono le modalità e le regole della collaborazione milioni di persone. L'efficacia di questa produzione cognitiva collettiva gratuita è verificabile da chiunque. Il grande merito di questa esperienza è stato quello di proporre, sul piano della condivisione dei contenuti e in modalità aperta, il modello già sperimentato con successo, anche imprenditoriale, dalle "comunità dei pinguini" – le comunità Linux, del software libero – con il loro esercizio della cultura del dono. Una pratica che, attraverso la condivisione del dono, scommette sullo sviluppo e sulla diffusione di una cultura della reciprocità, non facendone una precondizione da negoziare attraverso modalità quantitative. Un altro esempio significativo è costituito dai civic networks, le reti civiche precursori dei social networks planetari. Le esperienze di partecipazione informata ai processi di pianifi- cazione pubblica, nella gestione delle risorse e nell'uso del territorio, come l'Agenda 21 online (il programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile), sviluppano un'opinione pubblica. È evidente che una partecipazione informata non mette in discussione le prerogative di rappresentanza della politica popolare come definita dalle specifiche carte costituzionali. Ed è altresì evidente che attraverso la Rete si crea una necessità di giustificazione e di trasparenza degli indirizzi istituzionali. Tutto ciò contribuisce a migliorare la qualità del vivere sociale favorendo lo sviluppo di un "sistema territoriale qualitativo" per i servizi, per l'attività amministrativa, per la pianificazione territoriale e per la qualità dei suoi progetti: quanti "effetti NIMBY" in meno! Ciò ha delle conseguenze importanti sul piano del consenso e delle forme della partecipazione politica: si pensi alla campagna elettorale di Barack Obama e al prosieguo delle iniziative di comunicazione e relazione del nuovo presidente degli Stati Uniti d'America. Alcune esperienze di politica pubblica in relazione progettuale con la sussidiarietà e l'esperienza, e i risultati di un importante politico internazionale, riconoscono e propongono Internet come impresa cognitiva collettiva con capacità di produzioni civiche e di politica pubblica.
Non si può dire che la maggioranza dei regimi politici e degli esponenti che
in essi operano abbiano lo stesso sguardo e lo stesso approccio. Prevalgono la
preoccupazione per una partecipazione informata
e diretta alle vicende locali e globali del pianeta insieme al tentativo
di ricondurre tutta questa improvvisa autonomia a una subordinazione
controllata. Nel nome della lotta alla contraffazione, piuttosto che
della lotta al terrorismo, della lotta alla pornografia o della necessaria
"conformità alla morale socialista", non solo i regimi autoritari, ma
anche quelli democratici occidentali provano a utilizzare la pervasività
digitale come possibile tracciabilità assoluta.
Marshall McLuhan,
Oggi il medium non costituisce, in sé, il messaggio, e questo vale anche per il sistema interattivo di Internet. Oggi il medium è la natura della relazione informazionale e sociale che si dà o meno in Rete. In un convegno del 2004 di Condividi la Conoscenza i rappresentanti delle 195 tribù dell'Amazzonia hanno sintetizzato con molta chiarezza il concetto di condivisione di un bene comune e di un "business model" adeguato. Parlando e partendo dal Guaraná, seguendo il percorso sapienziale che passa di padre in figlio, hanno detto: «A noi popoli dell'Amazzonia non importa avere l'esclusiva, magari brevettata, sul Guaraná, per noi lo possono produrre anche in Africa, la cosa importante è che il Guaraná dell'Amazzonia sia quello prodotto con le nostre metodologie e possa essere controllato e garantito da un'apposita denominazione». Gli esempi richiamati sopra ci dicono che sarebbe senza senso un confronto tra "apocalittici" e "integrati" a proposito delle aspettative e delle azioni messe in atto nella Rete. L'ambivalenza del sistema digitale interattivo è nella sua natura costitutiva, che va assunta per intero: essa non conferma né smentisce le potenzialità e i rischi, ma richiede una nuova modalità di definizione di una politica pubblica per il bene comune della conoscenza nell'era digitale. Per questo appare parziale la definizione di "classe creativa" proposta da Richard Florida (Florida 2002, 2005); i processi che interagiscono sulla Rete sono così articolati e differenziati che richiamano piuttosto la definizione gramsciana di "blocco sociale", un blocco sociale dell'innovazione qualitativa che vive in un ecosistema cognitivo. Solo la capacità di riconoscere profonde affinità che nelle diverse pratiche rimandano alla conoscenza come bene comune può consentire alle culture politiche e alle esperienze di politica pubblica rispondenti a interessi generali — di queste e delle future generazioni — di confrontarsi con una realtà plurale capace di definire delle condizioni/necessità/libertà costituzionali per la Rete e per le sue straordinarie opportunità. Proviamo a elencarne alcune. Occorre definire in modo partecipato un welfare per la Conoscenza attraverso un patto con le nuove generazioni di lavoratori cognitivi. La definizione di uno dei fattori abilitanti per un'economia della conoscenza risiede nella riduzione e nel superamento del cultural divide per un uso della Rete non solo appropriato, ma consapevole. La neutralità della Rete è la garanzia per il concorso competitivo per applicazioni, servizi e contenuti che si definiscono e si propongono attraverso la Rete stessa. Solo standard aperti e condivisi e l' interoperabilità garantiscono la possibilità di sviluppo qualitativo di tutte le evoluzioni tecnologiche e la possibilità per i consumatori di un pieno utilizzo della convergenza digitale con il libero trasferimento e la libera fruizione dei contenuti e dei programmi. È la competitività e non la rendita di posizione dell' incumbent a permettere l'innovazione. Il mondo dell'Information Technology è tutto meno che virtuale: l'"impronta dell'IT" è pesante e dà luogo a uno straordinario consumo di energia e a un'incredibile quantità di rifiuti. Allo stesso tempo, proprio la capacità di innovazione che gli è propria può consentirgli straordinari risparmi energetici, oltre al contributo al risparmio attraverso l'innovazione delle diverse attività, nonché la possibilità dell'uso di materiali innovativi e riciclabili. Oggi il 90% degli articoli scientifici pubblicati è chiuso in roccaforti private con accesso a pagamento, uno strumento di controllo del sapere in mano a pochi privati: la mappatura della ricerca mondiale è uno strumento potente e pericoloso di metainformazione. Il variegato mondo della Rete deve intervenire in Europa affinché si traduca l'affermazione del Libro Verde per cui «la produzione, la diffusione e la valorizzazione delle conoscenze sono al centro del sistema della ricerca». La separazione tra Rete e servizi deve essere garantita dall'Authority, oltre all'obbligo di servizio pubblico che gli operatori devono garantire nelle aree disagiate; occorre inoltre un'integrazione di sistema tra le reti esistenti e in previsione affinché le potenzialità della Rete costituiscano un'opportunità per ognuno. Le misure di sostegno e incentivo alla collaborazione devono essere centrate sullo sviluppo dell'informatica per innovare in modo efficace e adattativo la catena di produzione del valore. Condividere i codici aperti, riusare le applicazioni: così facendo la PA può rendere visibile ed efficace la Rete come impresa cognitiva collettiva. Occorre fare incontrare credito e creatività, è necessario e virtuoso riequilibrare l'investimento pubblico e quello privato nella relazione ricerca-sviluppo-trasferimento-creazione d'impresa attraendo i capitali privati con incentivi fiscali, semplificazione delle procedure e facilità di accesso al capitale di rischio. La libertà di un cittadino passa non solo attraverso la sua piena disponibilità del proprio corpo e delle informazioni a esso legate, ma anche attraverso la libertà di pensiero, di scelta, di fede e delle informazioni a essi collegate. Nella società digitale il cittadino deve essere pienamente consapevole delle possibili rilevazioni di informazioni a lui collegate e dei loro possibili usi. La definizione di "dato personale" contenuta nella legislazione italiana comprende anche l'indirizzo IP di un utente Internet, il quale, in relazione a queste possibilità, deve poter dare il proprio consenso informato. Ben oltre il "diritto ad essere lasciati soli", la privacy nella dimensione digitale interconnessa ha ormai assunto una funzione di significazione dei caratteri democratici di un sistema, rilevando altresì il diritto a esprimere la piena e specifica personalità di ogni cittadino. Occorrono nuove regole e nuovi modi di fare le regole: affinché le regole di riferimento per una policy siano efficaci fattori abilitanti per un'economia della conoscenza è indispensabile una partecipazione informata alla loro definizione da parte di tutti gli attori interessati. Fatte salve le prerogative proprie dei legislatori e delle autorità indipendenti preposte, bisogna che la partecipazione informata sia costante e garantita da aggregatori di sensibilità differenti. Gli appuntamenti promossi dalle Nazioni Unite, dopo il WSIS (Summit mondiale sulla società dell'informazione, http://www.itu.int/wsis/index.html) attraverso gli Internet Governance Forum, hanno visto l'avvio della definizione della "Carta dei diritti e dei doveri di Internet", di un Internet Bill of Rights, attraverso un processo multistakeholder e multilevel (http://www.intgovforum.org/cms/). È più funzionale un quadro aperto che richieda dialogo e contaminazione in luogo dell'esclusività, condizioni per la creatività in luogo della ripetitività, modelli economici e commerciali basati sull'aumento qualitativo e quantitativo del prodotto immateriale condiviso in luogo del suo consumo ed esaurimento, la condivisione in luogo della scarsità, la responsabilità in luogo del controllo. Fare dell'Europa «l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale» entro il 2010, questo l'obiettivo dell'"Agenda di Lisbona" del 2000 dei Paesi europei (http://it.wikipedia.org/wiki/Strategia_di_Lisbona). Occorrono garanzie costitutive per queste ambizioni e per le libertà richiamate sopra, occorrono una consapevolezza e una cultura che le riconoscano come bisogni e che le esigano come diritti. La funzione di riprogrammazione, che nella relazione informazionale cellulare svolgono le cellule staminali e che possiamo valorizzare attraverso il paradigma della complessità, nella società può essere svolta da una politica adeguata che consideri la qualità delle relazioni sociali e i fattori che la consentono come dei beni comuni. Quindi norme e infrastrutture per l'accesso e la condivisione della conoscenza e una partecipazione informata ai processi decisionali. | << | < | > | >> |Pagina XXIIIIntroduzione all'edizione italianaLa conoscenza come bene comune nell'epoca della rivoluzione digitale
di Paolo Ferri
Che cosa sono i beni comuni: la pubblicità privata della conoscenza Questo volume presenta per la prima volta in Italia un settore di studi che nel nostro Paese non è ancora stato oggetto di approfondimenti sistematici. Si tratta dell'analisi dei "beni comuni della conoscenza". Per approfondire questa tematica è necessario, innanzitutto, fornire una definizione più generale relativa al significato del temine "beni comuni". Nella tradizione giuridica anglosassone (che differisce in questo da quella dell'Europa continentale) vengono definiti commons — beni comuni — quei beni che sono proprietà di una comunità e dei quali la comunità può disporre liberamente; si tratta cioè di beni che appartengono alla stesso gruppo di individui e di cui i membri di questo gruppo possono liberamente disporre. La nozione di "beni comuni" identifica, perciò, tutti quei beni materiali e immateriali — l'ambiente, le foreste, il mare come ecosistema e come territorio di pesca, le acque interne, le infrastrutture e i servizi di pubblica utilità — ma anche immateriali — la fiducia sociale, la solidarietà, la sicurezza e ovviamente la conoscenza (su supporto analogico o digitale) — che costituiscono un patrimonio collettivo di una comunità e il cui sfruttamento deve essere regolato, per impedire che queste risorse comuni, a causa del depauperamento indiscriminato a opera di questo o quel soggetto, si esauriscano. Proprio in questo consiste la "tragedia dei beni comuni" evidenziata per la prima volta da Garret Hardin, biologo e genetista statunitense, in un articolo pubblicato nel 1968 su "Science" (Hardin 1968, p. 1244). | << | < | > | >> |Pagina XXVI beni comuni della conoscenza e la rivoluzione digitale: dalla Galassia Gutenberg alla Galassia InternetOra, chiarito, il concetto di commons, cominciamo a prendere in considerazione il concetto di beni comuni della "conoscenza": l'oggetto di questo volume. In primo luogo si tratta di precisare che cosa essi siano, ossia il significato del termine "conoscenza" connesso alla nozione di beni comuni. Affermano Ostrom e Hess: «In questo libro impieghiamo il termine "conoscenza" per riferirci a tutte le forme di sapere conseguito attraverso l'esperienza o lo studio, sia esso espresso in forma di cultura locale, scientifica, erudita o in qualsiasi altra. Il concetto include anche le opere creative come per esempio la musica, le arti visive e il teatro». Per Hess e Ostrom, cioè, tutta la conoscenza sociale che si è accumulata nel corso dei millenni della storia umana costituisce non solo il frutto di una competizione di interessi, ma anche e soprattutto un bene comune: il risultato della cooperazione e degli sforzi delle generazioni di filosofi, artisti, teologi, letterati e scienziati che l'hanno progressivamente creata. Il fatto che la conoscenza costituisca un bene comune è sancito, oltre che dal "senso comune", anche dalle carte costituzionali di tutte le nazioni civilizzate, nonché da una serie di convezioni e trattati internazionali. La Costituzione della Repubblica Italiana, per esempio, recita all'articolo 21: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione»; ancora: «La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi» (art. 33); «La scuola è aperta a tutti. L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» (art. 34). La conoscenza e l'accesso al sapere è quindi un bene comune tutelato dalla Costituzione italiana come da quella di tutti i Paesi OCDE/OCSE, ma i trattati internazionali non fanno che confermare questa impostazione. La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, che da sessant'anni illumina una strada che non è stata ancora percorsa nella maggior parte degli Stati, ribadisce e rafforza il carattere comune e gratuito di questo del diritto alla conoscenza. All'articolo 26 afferma: «Ogni individuo ha diritto all'istruzione. L'istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L'istruzione elementare deve essere obbligatoria. L'istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l'istruzione superiore deve essere ugualmente accessibile a tutti sulla base del merito». La natura di "bene comune" della conoscenza, della formazione e della crescita individuale del capitale sociale risulta evidente dal fatto che dopo settant'anni termina anche la più restrittiva normativa sul diritto d'autore e la conoscenza e il sapere tornano a costituire un bene comune. La scienza è un bene comune, la conoscenza un bene comune. Sono un bene comune dell'umanità anche ogni progresso e ogni innovazione che contribuiscano alla crescita della capacità dell'uomo di migliorare le sue condizioni di vita o di adattarsi in maniera proattiva al proprio ambiente sociale ed esistenziale. Questi beni comuni della conoscenza sono un patrimonio comune anche se sono tutelati dal "diritto d'autore", dal momento che il legittimo godimento di questo diritto non può prescindere dal carattere "pubblico" e "conosciuto" del bene comune della conoscenza, sul quale l'autore o il content provider (l'editore nell'epoca gutenberghiana) esercitano questo diritto: infatti, se un film o un libro non vengono distribuiti e pubblicati, se un brevetto non viene registrato e utilizzato queste opere dell'ingegno non possono generare nessun profitto né per i detentori dei diritti né per coloro i quali ne beneficiano in veste di lettori o utenti. La contraddizione intrinseca tra il carattere "comune" e "pubblico" della conoscenza e il carattere, almeno temporaneamente, "privato" dei prodotti dell'ingegno che sono legittimamente soggetti allo sfruttamento economico da parte dei loro ideatori, inventori, divulgatori, editori e distributori è un dato strutturale della società moderna e contemporanea, anzi è uno dei tratti fondativi della modernità. Questa antinomia che correla la libertà di opinione, il diritto d'autore e la pubblicità e la "comunalità", cioè l'essere comune della conoscenza (Nancy 1983), nasce con l'età dei lumi (Habermas 1971) prima nel mondo anglosassone e poi in quello continentale. Come sostiene infatti Maria Chiara Pievatolo (Pievatolo 2007), nella prima età moderna la pubblicazione a stampa era soggetta a "privilegi" o autorizzazioni esclusive conferite dal sovrano; per esempio, in Inghilterra a regolare la stampa era il Licensing Act del 1662. Lo scopo di tale legge era la regolamentazione e il controllo "politico" del nascente mercato delle idee. In questo la sua funzione era direttamente correlata alla censura, tanto da essere spesso indistinguibile da questa. La corona inglese era titolare del diritto di stampare nella sua interezza: nessuno era autorizzato alla stampa, se non tramite un privilegio speciale da essa concesso. Dopo il 1695, il Licensing Act non fu più rinnovato, anche a causa delle numerose critiche che gli erano state rivolte: tra le voci critiche figura anche John Locke, che per primo criticò la corona sulla base della libertà dell'autore. In considerazione di tali rilievi, nel 1710 il Parlamento britannico approvò la prima legge europea sul copyright, lo Statute of Anne. In questo testo – sostiene Pievatolo — «per la prima volta, l'autore, in luogo dello stampatore, è riconosciuto come titolare originario del monopolio sulla riproduzione del proprio lavoro. Questo monopolio, però, non è più perpetuo, bensì temporaneo: il termine è di 21 anni per le opere già pubblicate al momento dell'entrata in vigore dello statuto e, per tutte le opere uscite dopo, di 14 — raddoppiabili solo con un atto esplicito di volontà dell'autore». | << | < | > | >> |Pagina XXIXMa oggi, con l'affermarsi della "società informazionale" (Castells 1996) e della convergenza/divergenza multimediale, il diritto alla pubblicità e alla disponibilità della conoscenza – un diritto fondamentale nelle società democratiche – è messo in discussione in maniera violenta, non solo e non tanto dalle politiche neoliberiste che dominano il panorama dell'economia politica internazionale (almeno sino alla crisi del 2008, che forse sancirà una ripresa neokeynesiana), ma soprattutto da un fattore di natura tecnologica: la rivoluzione digitale, giunta ormai alla versione del Web 2.0 (Ferri 1998, 2004).Internet e la digitalizzazione dei supporti di trasmissione dei saperi sono spesso guardati con entusiasmo rispetto alle loro possibilità di democratizzazione del sapere e della società da coloro che adottano un visione democratica e liberal del rapporto fra istruzione, conoscenza e cittadinanza. Tuttavia la digitalizzazione e la mobilità globale dei contenuti e della conoscenza sulle reti, al pari di ogni innovazione tecnologica, sono ambivalenti, come notavano acutamente già nel 1968, ai primordi delle comunicazioni digitali, Licklieder e Taylor, gli inventori del protocollo TCP/IP (l'"accesso remoto" che ci permette di accedere a Internet): «Per la società, l'impatto sarà più o meno buono, principalmente a seconda di come verrà risolta la seguente questione: essere collegati sarà un privilegio o un diritto? Se la possibilità di sfruttare il vantaggio dell'"amplificazione dell'intelligenza" sarà riservato a una élite privilegiata della popolazione, la Rete non farà che esasperare le differenze tra le opportunità intellettuali. Se invece l'idea della Rete dovesse restare, come noi speravamo progettandola, un ausilio per l'istruzione, e se tutte le menti vi dovessero reagire positivamente, di certo il beneficio per il genere umano sarà smisurato» (Licklieder e Taylor 1968). Il fatto è che una tecnologia, quella delle comunicazioni digitali, che nelle intenzioni di molti tra i suoi ideatori e creatori – da Licklieder e Taylor allo stesso Tim Berners-Lee – era intesa come uno strumento di democratizzazione della conoscenza, si sta trasformando in un nuovo confine (o, meglio, in un reticolo di confini) che si può varcare solo attraverso password e user Id a pagamento. Si tratta (Castells 1998) della nuova forma di segmentazione escludente della società. È il nuovo confine che separa coloro che hanno accesso a Internet, circa due miliardi di persone, da coloro che l'accesso non lo hanno. Inoltre, all'interno dei connessi – i "salvati" della società informazionale – esiste un'ulteriore barriera. Si tratta cioè della possibilità di accedere o meno alla conoscenza archiviata nelle basi dati di "editori scientifici privati" o di enti di ricerca pubblici e privati che garantiscono un accesso di "prima mano" ai saperi innovativi e alle ricerche originali. Solo un'élite dei due miliardi di connessi – pochi politici, imprenditori, ricercatori e gli studenti di alcune università – si possono permettere, per posizione sociale o per censo (il pagamento degli abbonamenti), di accedere a queste autostrade della conoscenza innovativa e creativa, mentre la maggior parte della popolazione dei "connessi comuni" non vi accede affatto o lo fa, per così dire, in maniera indiretta o dopo alcuni anni, attraverso i motori di ricerca e la peer to peer communication. La rivoluzione digitale, come già segnalato più volte da Manuel Castells rischia, cioè, di aprire una nuova segmentazione di "censo intellettuale" – un cultural digital divide – tra connessi di serie A e connessi serie B, oltre che tra connessi e non connessi. Tutto ciò contrasta ovviamente con il carattere comune della conoscenza "privatamente pubblica" che stava alla base del diritto d'autore e del sistema gutenberghiano di diffusione della conoscenza. I beni comuni della conoscenza, come tutti gli "oggetti culturali" della nostra contemporanea società informazionale (Geertz 1999; Griwold 1997, pp. 189-209), per esempio i libri, i giornali e le biblioteche che costituiscono, veicolano, archiviano e diffondono il sapere, sono stati interessati a partire dalla seconda metà del secolo scorso da una spettacolare rivoluzione, che li ha profondamente ridefiniti, così come sono state ridefinite le modalità di creazione, produzione, diffusione e comunicazione del sapere e della conoscenza (Ferri 1998). Il supporto sul quale i beni comuni della conoscenza sono stati archiviati è cambiato ed è divenuto digitale. E questa rivoluzione ha mutato e sta mutando tutta la catena del valore correlata alla conoscenza e al sapere, così come all'intrattenimento e allo svago. Il modello uno-molti della diffusione gutenberghiana del sapere, incarnato dal libro, sta cedendo il passo a un modello a rete a elevata differenza di potenziale dei suoi poli: i poli della rete Internet e delle numerose intranet proprietarie che delimitano ed escludono moltissimi utenti dai loro giacimenti di conoscenza. La conoscenza, cioè, nella transizione dalla sua creazione, archiviazione, conservazione e diffusione in formato analogico (ossia cartaceo) alla sua creazione, archiviazione, conservazione e diffusione in formato digitale rischia di perdere il suo carattere pubblico. Nel mondo gutenberghiano era la carta — il libro — il vettore della trasmissione del sapere e il centro della catena del valore. La conoscenza era un bene materiale, fatto di atomi. Il sapere incarnato nei libri e nelle riviste doveva essere pubblicato e trasmesso attraverso la mediazione di un medium di massa analogico, la stampa su carta, nel suo transito dai centri di ricerca e produzione culturale alla "sfera pubblica", che ne fruiva a pagamento o gratuitamente attraverso punti di distribuzione fisica: la libreria, l'edicola, la biblioteca. I libri, i quotidiani, le riviste scientifiche e no venivano commercializzati e acquistati a un prezzo di mercato ragionevolmente basso, o archiviati nelle biblioteche pubbliche o private per la pubblica fruizione. In questo modo le unità discrete materiali che veicolavano la conoscenza (i libri, i numeri delle riviste, i quotidiani) erano disponibili per l'acquisto o per la consultazione da parte appunto di tutto il pubblico che godeva dei diritti di cittadinanza. Come ben nota Nancy Kranich nel capitolo 4 del presente volume (significativo il titolo Contrastare la "recinzione": rivendicare i beni comuni della conoscenza), oggi si assiste per contro a un nuovo processo di recinzione e di accumulazione originaria digitale della conoscenza, un tempo comune, che investe tutti i beni comuni culturali. | << | < | > | >> |Pagina XXXVIII beni comuni della conoscenza nell'epoca della società informazionale: una prospettiva neokeynesianaLa partita, quindi, non è chiusa a favore della globalizzazione digitale escludente e delle grandi centrali di content providing digitale globale. Il gioco è, per contro, appena cominciato. Contemporaneamente alla tendenza alla "recinzione" dei beni comuni della conoscenza, che rappresenta il lato competitivo dell'evoluzione filogenetica delle società di capitalismo avanzato, si è sviluppato il correlato cooperativo di questa evoluzione della specie umana da Homo sapiens sapiens a Homo digitalis. Noi, moderni simbionti tecnologici (Longo 2003), oltre a competere per il predomino sulle risorse "informazionali" e sulla conoscenza utile, siamo stati anche in grado di sviluppare una serie di antidoti di natura solidaristica e "comunitaria" a questo processo. In tutto il mondo e sulla rete Internet, parallelamente alle "nuove enclosures", si vanno sempre più diffondendo istituzioni, associazioni e comunità di ricercatori e di utenti dei "beni comuni", intellettuali digitali che si oppongono a questo processo e che si propongono il fine opposto: quello di tutelare i nuovi beni comuni digitali della conoscenza. Ne sono un esempio le comunità di sviluppatori open source che hanno dato vita al sistema operativo Linux (Ferri 2003, p. 56) e che in tutto il modo producono quotidianamente migliaia di applicazioni open source per rendere più agevole l'accesso democratico alle risorse di elaborazione e la libera generazione di contenuti. La tendenza ad aprire il codice sorgente dei software, quella a scambiarsi risorse digitali tra pari – il peering – e la battaglia cooperativa per la libertà e gratuità della conoscenza utile in rete – la Wikinomics di Tapscott e Williams 2008 – rappresentano il correlato cooperativo della rivoluzione digitale, a fronte di quello competitivo sviluppato attraverso la politica delle "recinzioni". Non si tratta di un fenomeno marginale o di nicchia, ma di un comportamento sociale sempre più diffuso, in particolare tra le giovani generazione (Mantovani e Ferri 2008). In alcuni settori del software, per esempio, l' open source è dominate: il 95% dei server che permettono di accedere a Internet è gestito da un programma open source, Apache, nato all'interno della comunità Linux. I server open source Apache governano perciò anche il flusso delle "recinzioni" digitali e paradossalmente questo processo "escludente" corre sul filo di un progetto che si svolge nella direzione opposta, quella della "apertura" e della "libera accessibilità" a tutti gli utenti dei beni comuni della conoscenza quali il software, i contenuti e le conoscenze per progettarlo. Ora, molti dei capitoli del volume che stiamo presentando sono dedicati a spiegare e concettualizzare e a modellizzare questi fenomeni. Il lettore, scorrendo l'indice, riconosce le tracce del percorso delineato dai curatori Elinor Ostrom e Charlotte Hess. I capitoli che lo compongono offrono una descrizione dell'evoluzione della nozione di "bene comune" digitale della conoscenza e un nuovo paradigma per la sua interpretazione nell'epoca della rivoluzione informazionale (capitoli 1-3), descrivono poi, come abbiamo visto, il nuovo processo di "accumulazione originaria" e "recinzione" che sta caratterizzando i beni comuni della conoscenza (capitolo 4), ma soprattutto si occupano (capitoli 6-11) di analizzare il modo in cui sulla rete stessa il "popolo mondo" degli utenti attivi dell'Internet possa offrire un'alternativa alla privatizzazione neoliberista dei contenuti e delle conoscenze. Si tratta del non facile compito di individuare una nuova politica di gestione di questi beni comuni delineando, nello stesso tempo, il modo in cui essi possono essere preservati, difesi e sviluppati. Una prospettiva neokeynesiana che tende a trasformare una rivoluzione tecnologica potenzialmente escludente in «un reale e incommensurabile beneficio per l'umanità», secondo l'intuizione originaria di Licklieder e Taylor (1968). Essere connessi è ancora un privilegio, e non un diritto di cittadinanza, ma la strada verso questo obiettivo e questo nuovo diritto è aperta e ben tracciata. In particolare, il movimento dei Commons, insieme a quello Open source/Open content, rappresenta la punta avanzata dell'opposizione democratica alle politica delle "recinzioni" e della privatizzazione della conoscenza comune voluta dei nuovi robber barons del capitalismo informazionale. Lasciamo ai curatori del presente volume l'analisi in dettaglio del modo in cui i giacimenti informativi, di conoscenza, sapere e software, oggi potenzialmente disponibili a tutti sulla rete Internet, possono essere preservati, incrementati e difesi (capitoli 6-11), ma vogliamo rimarcare ancora un volta l'importanza di questa battaglia civile e desideriamo farlo attraverso una provocazione intellettuale forse paradossale, e cioè ascrivere i movimenti dell' open source, dell' open content, e del free software alla tradizione "socialdemocratica", "neokeynesiana" e democratica invece di classificarli esclusivamente, come spesso avviene, nel novero dei movimenti "controculturali", "alternativi" o, secondo le interpretazioni più conservatrici, "eversivi" e "antagonisti". Ovviamente ogni movimento e gruppo si definisce da solo e da solo genera la sua autorappresentazione, non spetta perciò a noi classificarlo o ascriverlo a questa o a quella tradizione. È tuttavia molto interessante ricostruire, in maniera ovviamente parziale, la genealogia teorica e pratica di questa realtà sociale e produttiva. Non si tratta di smorzare l'aura trasgressiva e anarchica che informa le comunità Linux o dell' open content (capitoli 7, 10 e 11 del presente volume), o che ha animato in passato il movimento "cyberpunk" e quello del free software di Stalmann, ma di provare a comprendere come l'insieme dei gruppi che promuovono il libero accesso all'informazione, alla comunicazione e al software abbia la loro origine nell'alveo dello stesso filone progressivo e democratico della "borghesia rivoluzionaria" illuminista (Berman 1982, pp. 13-14; Marx e Engels 1848). È proprio la borghesia democratica, infatti, che a partire dalla seconda metà del XVIII secolo si è affermata come classe "rivoluzionaria" della storia mondiale almeno per i successivi due secoli. Ora la nostra tesi, forse paradossale, si prova a dimostrare che il movimento dell' open source e dell' open content, sempre tradizionalmente contrapposto alla cultura del copyright e al diritto d'autore, non costituisca altro che la sua metamorfosi nell'epoca della società informazionale e della rivoluzione digitale. Si tratterebbe cioè di un'evoluzione della stessa cultura "borghese" e "rivoluzionaria" che ha creato e difeso la "cultura del diritto d'autore" e il diritto d'autore stesso come strumento di difesa dei diritti dell'individuo contro il potere arbitrario dei sovrani e dei mecenati. Come Diderot e Condorcet difendevano le libertà individuali di espressione, stampa e comunicazione, il movimento dei Commons difende oggi i diritti universali di accesso al sapere, alla comunicazione, all'innovazione e alla creatività. Ma come può una galassia di movimenti e di individui che si autodefinisce come fautrice del "copy-left", del "Creative commons", dell"Open content" o del "no-copyright" – quindi strutturalmente portatrice di una differente cultura se non di una strutturale avversione alla cultura del diritto d'autore – essere genealogicamente correlata a questa stessa tradizione? Proviamo a dimostrarlo. Il fatto è che mentre nel mondo dell'editoria gutenberghiana ci occupavamo di beni strutturalmente "rivali" – beni cioè, come i libri o le riviste fatti di atomi, il cui utilizzo o la cui sottrazione (nel caso delle librerie e delle biblioteche) da parte di un soggetto ne limita la possibilità di (o impedisce del tutto il) godimento da parte di un altro soggetto – ora la tecnologia digitale ha trasformato per sempre il carattere "rivale" dei beni della conoscenza. Afferma a questo proposito David Bollier nel capitolo 2 del presente volume: "Per esempio, le opere creative e le informazioni erano costrette entro contenitori fisici (carta, vinile, pellicola), che richiedevano una serie di pratiche sociali e relazioni di mercato che oggi sono poste in discussione dalle reti digitali. Molte persone vedono i beni comuni come un modello utile per dare senso alle nuove dinamiche della società e del mercato che stanno alla base di tanta creatività e creazione di conoscenza». Vale a dire che nell'epoca della "rivoluzione informazionale" e della transizione al digitale la questione è mutata radicalmente. La transizione di supporto, cioè il fatto che i beni comuni della conoscenza siano archiviati in digitale e non più all'interno delle pagine di libri o riviste di carta, ha alterato il loro carattere di "rivalità": scaricare un contenuto da Internet non lo rende indisponibile per un altro soggetto, anzi lo moltiplica, aumentando le possibilità di diffusione virale del bene digitale. La duplicazione può dare origine a un numero n di altre moltiplicazioni virali di quel "meme digitale" che non sono più rivali (quindi i termini "pirateria" e "furto", spesso usati per la duplicazione a fini non commerciali dei contenuti, sono decisamente impropri o scorretti). Se la conoscenza esce dall'alveo dei beni rivali essa può solo a questo punto essere classificata come un bene pubblico o come un bene privato, dal momento che non rientra nelle altre due possibili definizioni di bene: le risorse comuni, che sono però "rivali", ma non escludibili (i giacimenti naturali di risorse ittiche per esempio), e i monopoli naturali" (Mankiw 2004) che sono escludibili (cioè possono essere gestiti da un solo soggetto di mercato), ma non rivali. La conoscenza come bene pubblico o privato dunque? Analizziamo sinteticamente i pregi e i difetti di queste due soluzioni. Nel primo caso la conoscenza, sempre intesa come conoscenza utile, si presenta come un bene né rivale né escludibile, dal momento che il suo godimento da parte di molti soggetti non implica né un danno per la comunità degli altri potenziali utenti di quel bene, né il suo esaurimento come nel caso delle risorse comuni materiali e non digitali; questo infatti non è possibile, grazie alla loro indefinita replicabilità. Nel secondo caso la conoscenza diviene un bene privato, ma a questo punto cessa il suo statuto pubblico e comune, dal momento che il carattere proprio dei beni privati è la loro escludibilità, e cioè il diritto legale e/o tecnologico a impedire a qualcuno di goderne. Se così fosse, però, verrebbe meno non solo il diritto alla libertà di istruzione sancito da tutte le costituzioni moderne e contemporanee e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, ma si sancirebbe una disuguaglianza e una discriminazione – ci si augura solo censuaria (ma potrebbe essere anche di razza e di genere) – per i cittadini rispetto a un diritto primario: il diritto alle pari opportunità di tutti i cittadini di accedere in maniera egualitaria alla cultura e l'istruzione. La scelta tutta politica tra carattere pubblico e privato della conoscenza non pare ammettere alternativa di sorta per chi si dichiari democratico ed erede dei valori delle rivoluzioni americana e francese. In tale prospettiva, la conoscenza non può che essere considerata come un bene pubblico, a meno di non accettare la disuguaglianza tra i cittadini come un dato strutturale delle nostre "democrazie", contravvenendo ad alcuni diritti fondamentali sanciti fin dall'epoca dei lumi quali il diritto all'istruzione, al perseguimento della felicità e all'uguaglianza. Se il ragionamento condotto fin qui è corretto, dovrebbe allora risultare evidente anche dallo schema proposto nel capitolo 3 (Ostrom e Hess) di questo volume (tabella 3.1, p. 71) come i danni prodotti da una scelta politica in favore della conoscenza come bene privato minino alle basi alcuni diritti fondamentali delle società democratiche, ma siano, come dimostra chiaramente la tabella, anche disfunzionali rispetto alla crescita di un asset fondamentale per la creazione del valore nelle società informazionali: l'asset immateriale della crescita dell'innovazione e della creatività. Un asset che è centrale, come abbiamo visto, per la creazione del valore nelle nostre contemporanee società della conoscenza. Come si vede, una volta rimosso, a causa del cambiamento di supporto, il problema della "rivalità" dallo statuto dei beni comuni digitali della conoscenza, cambia radicalmente anche il diritto alla loro fruizione, e cioè i beni comuni della conoscenza non possono che essere considerati beni pubblici e non privati. E allo stesso modo chi si batte, per fini non commerciali ovviamente, per questo obiettivo non può essere accusato di delitti contro la proprietà e di "eversione della legge", giacché non fa che perseguire, all'interno delle mutate condizioni tecnologiche, la battaglia illuministica per la libertà di espressione, di "stampa" e di comunicazione. Così, anche se dalla sua nascita il movimento dell' open source, così come quello dei Commons, si autopercepisce spesso e viene comunemente interpretato come un movimento "underground", "controculturale", esso sorprendentemente si batte per la conservazione e non per l'eversione degli obiettivi democratici ed egualitari che la "borghesia illuminista" inglese e francese propugnava contro l'Ancien régime nel tardo XVIII secolo. Un Ancien régime che oggi è incarnato, secondo questa interpretazione, ovviamente partigiana, dai tycoon che negli anni novanta hanno propugnato il free-friction capitalism e che in realtà si comportano come novelli robber barons della conoscenza prodotta all'interno delle reti sociali del capitalismo globale informazionale. Ovvero come mietitori di conoscenza sociale utilizzata a fini di profitto privato. Ma restano ancora da chiarire molti aspetti della genealogia che abbiamo stabilito tra movimento dei Commons, dell' open source/open content e la "borghesia rivoluzionaria" illuminista: la seconda, per esempio, difendeva il diritto d'autore, mentre il primo lo mette radicalmente, direttamente o indirettamente, in discussione. Restano aperte, cioè, un serie di domande che ovviamente non ammettono un risposta univoca, ma che obbligano tutto gli attori del mercato della conoscenza a una serie di ponderate riflessioni. Le elenchiamo qui di seguito. – Come è possibile conciliare gli interessi degli editori gutenberghiani in transizione con la altrettanto legittima e, come abbiamo visto, proveniente dalla stessa tradizione culturale, aspirazione del movimento open source/open content alla pubblicità e fruibilità gratuita dei contenuti della ricerca e della cultura alta? – Come garantire nello scenario del content providing digitale globale il legittimo godimento dei diritti d'autore da parte dei creatori e dei diffusori della conoscenza intesa come bene pubblico, nell'epoca dell'infinita riproducibilità digitale dei contenuti e della loro estrema mobilità sulla Rete, stante il fallimento di ogni politica "proibizionista" fino a ora messa in campo? – Come allo stesso tempo garantire un mercato delle idee o, più prosaicamente, un mercato libero e democratico dei contenuti della conoscenza se viene meno il diritto d'autore e d'edizione? – Come evitare che le grandi concentrazioni internazionali dell'editoria o del networking assumano il monopolio nella distribuzione digitale dei contenuti e quello della conoscenza e dei saperi sulle reti? – Come è possibile la remunerazione del lavoro editoriale e del lavoro degli autori e degli editori indipendenti, senza che un oligopolista – come del resto sta tentando di fare Google con il progetto Google Books (http://books.google.com) – si renda progressivamente monopolista dei contenuti e della conoscenza stessa attraverso la leva della sua possibile posizione dominate sul mercato della pubblicità online?
– In che modo conservare la biodiversità delle culture e delle lingue,
dei sapere locali e nazionali non anglofoni in un mondo sempre più
globalizzato nel quale gli attori del mercato del
content providing
globale sono per lo più anglosassoni e anglofoni?
La modesta proposta, forse utopistica, che formuliamo in conclusione di questa introduzione è quella di ipotizzare un nuovo welfare della "conoscenza digitale", che da un lato garantisca la pubblicità e la gratuità digitale dei giacimenti informativi, in particolare dei contenuti scientifici ed educativi, e dall'altro permetta un sistema di remunerazione del lavoro di creazione, produzione e diffusione della conoscenza comune digitale. Il garante di questa duplice e apparentemente contraddittoria necessità non può che essere la comunità stessa dei cittadini di un territorio, di una nazione o di un aggregato sovranazionale, perché solo le istanze democratiche di governo della comunità possono risolvere la nuova contraddizione tra carattere pubblico e insieme privato dei beni comuni della conoscenza digitale. Il mercato, infatti, è da un lato impotente, non sa garantirsi dalla duplicazione digitale dei contenuti, e dall'altro tende ad affermare sistemi monopolistici privati di controllo sui medesimi. Sarà, in quest'ottica, onere dei governi – regionali, nazionali o sovranazionali – farsi carico di una parte, più o meno consistente a seconda dei casi, del finanziamento dell'industria culturale, in particolare di quella che produce contenuti formativi, scientifici, universitari e di ricerca attraverso lo strumento della fiscalità generale. Una politica neokeynesiana da applicare al mondo della creazione, della diffusione e della distribuzione digitale della conoscenza e dei saperi formativi e di ricerca. Questa "modesta proposta" si fonda su tre elementi. Il primo è costituito, a nostro avviso, dal riconoscimento del diritto all'accesso alle reti e alla fruizione dei contenuti e della conoscenza scientifica archiviata online in termini di diritto di cittadinanza fondamentale, attraverso il suo inserimento nelle carte costituzionali e nelle convenzioni internazionali del nostro mondo globalizzato. Un diritto sostenuto, nella sua applicazione, dall'istituzione di un apposita imposta a carico della fiscalità generale, una "tassa sull'accesso alla conoscenza" omologa, per esempio, della fiscalità che sostiene l'energia, la sanità o il sistema pensionistico. Il secondo pilastro, ipotizzabile almeno tecnologicamente nell'epoca della Galassia Internet, è quello della costituzione di una serie di agenzie indipendenti nazionali e internazionali che permettano il monitoraggio, sul modello, per esempio, della vecchia SIAE, del numero di download di questo o quel contenuto scientifico o didattico, così come il monitoraggio delle page view e del numero dei link o dei siti che puntano al medesimo contenuto. Un "Auditel" del Web della conoscenza che permetta di rilevare l'utilizzo e la popolarità presso gli utenti di questa o quella unità di contenuto, secondo un meccanismo analogo a quello attraverso il quale Google ci permette di indagare il ranking dei siti web o Wordpress di monitorare gli accessi ai blog. Il terzo elemento di questa possibile ridefinizione della catena del valore dell'industria culturale nell'epoca digitale consisterebbe nell'utilizzare i proventi della "tassa sulla conoscenza" ricavati dalla fiscalità generale per remunerare in parte o totalmente, a seconda della rilevanza pubblica e sociale del contenuto (sulla base dei dati forniti dalle agenzie indipendenti), i costi sostenuti da content provider/ editori per sostenere i costi fissi e i costi variabili della produzione e della distribuzione digitale di contenuti relativi alla formazione e ricerca scientifica. Si tratta di un sasso gettato nello stagno, una provocazione intellettuale per aprire, anche in Italia, un serio e approfondito dibattito sulla "sostenibilità" dei beni comuni della conoscenza nell'epoca della transizione al digitale. | << | < | > | >> |Pagina 19Ecosistema della conoscenza, azione collettiva e autogoverno: panoramica dei capitoli di questo libroIl mondo in rapida espansione dell'informazione digitale distribuita possiede in sé possibilità infinite, ma anche minacce e insidie incalcolabili. Le tendenze – parallele ma contraddittorie – in forza delle quali, da un lato, si dispone attraverso Internet di un accesso senza precedenti alle informazioni, mentre dall'altro incombono restrizioni (legislazione sempre più severa sulla proprietà intellettuale, iperbrevettazione, vincoli di licenza, i prezzi elevati, indisponibilità e mancata conservazione delle informazioni) mettono in luce l'ambiguità delle caratteristiche profonde di questa risorsa. La conoscenza, che nella sua forma digitale sembra possedere il dono dell'ubiquità, in realtà oggi è più vulnerabile che mai. Per esempio, quando biblioteche e singoli individui acquistavano una rivista cartacea, la dispersione territoriale di una molteplicità di copie garantiva la conservazione delle opere. Quando invece le riviste vengono pubblicate in forma digitale e concesse in licenza alle biblioteche o agli individui, le opere sono centralizzate e vulnerabili ai capricci dell'editore o del caso. Se un utente fa affidamento sul fatto che certi periodici siano indicizzati in LexisNexis o altri importanti servizi di indicizzazione sarà frustrato nell'apprendere, un giorno, che le opere di suo interesse sono state abbandonate e non verranno più indicizzate. Molte informazioni di fonte governativa che erano liberamente disponibili online sono state oscurate dopo l'11 settembre e non più sostituite. Per non parlare della facilità con cui i cyberterroristi possono infettare o danneggiare un sistema, o sottrarre informazioni confidenziali. Per altro verso, le iniziative di azione collettiva, come il libero accesso e lo sviluppo di software Free/Libre e Open Source, assicurano oggi alle risorse digitali un'accessibilità e una robustezza decisamente superiori. È in corso un ampio dibattito sulle iniziative da avviare per accrescere la sicurezza della conoscenza digitale senza bloccarne l'accesso a chi può trarre beneficio dal suo utilizzo. Molti di questi problemi saranno oggetto dei capitoli che seguono. Questo libro è articolato in tre parti. La Parte prima si focalizza sui nuovi modi di concettualizzare e analizzare la conoscenza come risorsa complessa, globale e condivisa. Nel capitolo 2 David Bollier riflette sull'evoluzione del significato dei beni comuni, da concetto descrittivo di alcuni sviluppi storici fino alle sue attuali applicazioni all'ambito della conoscenza. Benché il saggio di Garrett Hardin che abbiamo citato abbia il merito di aver richiamato l'attenzione sulla nozione di beni comuni, i suoi errori hanno anche avuto l'effetto di screditare l'efficacia dei beni comuni come strumento di governo comunitario: del resto, se una "tragedia" dei beni comuni è inevitabile, a che pro studiarli? Quando, a metà degli anni ottanta, sono emerse le pecche di tale analisi, si è rinnovato l'interesse degli studiosi per i beni comuni, che hanno ulteriormente acquisito centralità nelle analisi alla metà degli anni novanta, quando Internet ha generato nuovi tipi di comunità e comunicazioni sociali in una sfera pubblica del tutto nuova, il cyberspazio. Eppure, nonostante questi sviluppi, ancora per molti il concetto di beni comuni resta nuovo e alieno. Consapevole di questa situazione, Bollier aiuta i lettori a mettere a punto nuove mappe cognitive che consentano di visualizzare in una diversa luce i beni comuni della conoscenza. Richiama l'attenzione sul profondo mutamento che essere online ha prodotto nella nostra vita quotidiana, e sui nuovi problemi, inimmaginabili anche solo pochi decenni fa, generati dai radicali mutamenti negli aspetti sociali ed economici della produzione di conoscenza. Oggi, invece di stracciarsi le vesti per l'assenza di una chiara definizione dei diritti di proprietà intellettuale, i ricercatori seri sono preoccupati per l'imposizione del controllo privato su conoscenze che a giudizio di molti dovrebbero essere di pubblico dominio. La sfida è quella di riuscire a creare sistemi normativi attinenti questi nuovi beni comuni che, da un lato, garantiscano l'accesso di tutti alle conoscenze che permettono di sviluppare le potenzialità umane e, dall'altro, assicurino riconoscimento e sostegno a coloro che creano il sapere nelle sue varie forme. Nel capitolo 3 Elinor Ostrom e Charlotte Hess presentano l'Institutional Analysis and Development Framework (IAD framework), sviluppato nel corso di vari decenni dai colleghi del Workshop in Political Theory and Policy Analysis presso l'Indiana University. L'IAD framework è un risultato della nostra ampia ricerca sui beni pubblici urbani, fra cui l'ordine pubblico e l'istruzione (vedi McGinnis 1999 per una panoramica, e Ostrom 2005 per un'esposizione più diffusa). È stato poi sviluppato ulteriormente nel tentativo, da parte nostra e dei nostri colleghi, di comprendere sistemi sociali-ecologici complessi e interconnessi: cercavamo di capire come regole diverse influiscano sulla possibilità di mantenere o distruggere le risorse comuni, come i bacini idrici, i sistemi di irrigazione, i pascoli e le foreste. Crediamo che il framework si mostrerà utile anche per comprendere la conoscenza come bene comune, sia relativamente agli aspetti che ne fanno un bene pubblico, sia per quelli che la qualificano come risorsa comune. Il nostro obiettivo è renderlo sempre più accessibile, al fine di accrescere l'interesse nei suoi confronti e promuoverne applicazioni future. Come esempio, applichiamo il framework – sia pure in modo non rigoroso – all'attività di realizzazione di un "repository universitario": un bene comune complesso che è prodotto localmente ma i cui frutti sono colti a livello globale. La Parte seconda del libro raccoglie i contributi di una serie di noti autori sul problema della salvaguardia dei beni comuni della conoscenza, a partire dalla tradizionale opposizione alla loro recinzione. Nel capitolo 4 Nancy Kranich analizza diversi tipi di "recinzione" per i beni comuni della conoscenza, fornendo un'approfondita analisi del ruolo delle biblioteche di ricerca nel preservare la conoscenza e nel renderla disponibile ai cittadini, definendole una pietra angolare della democrazia nel mondo contemporaneo. Traccia poi un quadro storico delle attuali "recinzioni" imposte a queste istituzioni, comprese quelle indotte dai costi sempre più elevati delle riviste. In larga parte, le attuali crisi di budget sono l'involontaria conseguenza del fatto che negli anni ottanta le associazioni scientifiche e accademiche affidarono la pubblicazione dei loro periodici ad aziende private, per ottenere riviste con alta qualità di stampa a un prezzo più basso. Purtroppo, dal 1986 a oggi il costo dei periodici è salito di oltre tre volte rispetto all'indice dei prezzi al consumo. Ciò ha comportato conseguenze negative anche per la pubblicazione di libri e la disponibilità di comunicazioni scientifiche a stampa, soprattutto quelle prodotte da università con stringenti problemi di budget. Questi sviluppi – oltre agli emendamenti alle leggi sul copyright, alla stretta sulle informazioni di origine governativa e ad altre forme di recinzione – configurano il contesto delle iniziative descritte dalla Kranich: un complesso di sforzi volti a rivendicare il libero accesso alle risorse scientifiche e intellettuali attraverso il ricorso mirato a nuove tecnologie e nuove interpretazioni giuridiche. L'autrice suggerisce inoltre metodi per promuovere a livello teorico e pratico la sostenibilità dei beni comuni della conoscenza. James Boyle è un noto e autorevole fautore della tutela del pubblico dominio intellettuale. Nel capitolo 5 crea un corto circuito fra due riflessioni a prima vista disparate. Basandosi sul lavoro svolto dal sociologo Robert Merton, discute le possibili conseguenze di un isolamento del lavoro accademico e scientifico rispetto all'opinione pubblica. Postula che un accesso più ampio ai materiali culturali e scientifici da parte di individui e gruppi esterni al mondo accademico possa avere un notevole impatto sull'erudizione, la cultura e forse anche sulla scienza, e sostiene che i beni comuni della conoscenza non debbano essere ristretti alla comunità accademica. Boyle discute inoltre della recinzione delle idee attraverso il copyright e delle restrizioni sulle licenze, ponendo alcuni interessanti interrogativi. Per esempio, l'autore di una serie di libri di grande successo – Boyle cita la serie di Harry Potter di J.K. Rowling – dovrebbe davvero preoccuparsi che il copyright protegga il suo lavoro per settant'anni dopo la propria morte, anziché solo per cinquanta? Certo, se fosse una grande azienda a detenerne i diritti, sarebbe interessata a garantirsi la tutela il più a lungo possibile. Ma per un singolo individuo, quegli anni in più non possono costituire un incentivo a dedicarsi con impegno e costanza alla produzione di buoni libri, di ricerche innovative o di musica affascinante. A un costo elevato per il pubblico, quegli anni in più di protezione generano piuttosto profitti per altri, che non hanno fatto l'investimento iniziale nella produzione di opere creative. Il capitolo mostra che la conoscenza è il regno del pubblico e che quanto più possibile di essa dev'essere liberamente disponibile. Nel capitolo 6 Donald Waters affronta il difficile problema della salvaguardia e della conservazione dei beni comuni della conoscenza, focalizzandosi sui collegamenti web che vengono preservati rispetto a quelli che invece scompaiono. Nell'editoria tradizionale, gli studiosi usano le note a piè di pagina per collegare le proprie affermazioni alla fonte che conferisce loro autorità. Oggi, sempre più studiosi collegano il loro lavoro alle pagine web di altri ricercatori, e il problema della preservazione delle informazioni digitali diventa sempre più critico, soprattutto dal momento che l'aspettativa media di vita di una pagina web è limitata a pochi mesi. Conservare le riviste specializzate in formato elettronico diventa una sfida fondamentale per la comunità scientifica, dato il numero di citazioni che oggi fanno riferimento a una fonte potenzialmente effimera. In passato, libri e riviste non erano mai pubblicati in grosse quantità, e dunque le biblioteche ritenevano che il proprio ruolo consistesse anzitutto nel conservare queste preziose risorse per le epoche future. Waters sottolinea il problema del free riding nella creazione e nella gestione dei documenti d'archivio: senza archivi funzionali, la comunicazione scientifica di oggi potrebbe non giungere agli studiosi di domani. L'autore illustra poi le caratteristiche basilari necessarie per garantire la preservazione della conoscenza elettronica, in relazione alla protezione legale, ai modelli di business e agli incentivi a ottenerla. La Parte terza prende le mosse dalla storia dell'azione collettiva, del libero scambio di idee e della collaborazione nell'interesse del bene collettivo. Nel capitolo 7 Peter Suber sostiene in modo articolato e convincente i vantaggi del rendere disponibili online ricerche e pubblicazioni attraverso il libero accesso. Ogni autore è in grado di partecipare alla costruzione di uno dei più ricchi beni comuni della conoscenza, fornendo articoli oggetto di peer review e i relativi preprint, la fonte primaria della letteratura scientifica. Suber illustra concretamente i passi necessari per conoscere il movimento open access (OA) e prendervi parte. Mostra le peculiarità della letteratura royalty-free, le condizioni e gli incentivi che spingono gli autori ad acconsentire all'OA, e alcuni ostacoli ai beni comuni OA che hanno il sapore di una "tragedia dei beni comuni". Importante è poi la sua disamina dei diversi modelli di sovvenzione, dal momento che, mentre l'utente gode di libero accesso, il produttore deve affrontare i costi della peer review, della preparazione del manoscritto e della diffusione in rete, e a volte anche quelli della digitalizzazione, della correzione del testo e della conservazione a lungo termine. Lo studioso illustra la differenza tra archivi ad accesso libero che non cercano di fornire peer review e riviste ad accesso libero, che svolgono l'importante compito della peer review nella comunicazione scientifica. La longevità della televisione e della radio, che forniscono libero accesso agli utenti, rende Suber fiducioso che sia finanziariamente praticabile un'analoga longevità per la pubblicazione digitale in un forum ad accesso libero. Perseguire tale obiettivo richiede tuttavia un considerevole spirito imprenditoriale, nell'odierna transizione da materiali interamente a stampa verso una combinazione di pubblicazioni a stampa ed elettroniche. Suber fornisce poi un'analisi accurata delle varie categorie di proprietà intellettuale e conclude con una disamina delle svariate "tragedie" dei beni comuni ad accesso libero che le università, le case editrici, gli studiosi e il pubblico dovranno superare. Nel capitolo 8 Shubha Ghosh sostiene con efficacia la necessità di approfondire il ruolo dei diritti di proprietà intellettuale nella costruzione dei beni comuni della conoscenza. Focalizzandosi soprattutto su brevetti e copyright, l'autore passa al vaglio una serie di concetti e soluzioni soltanto apparentemente semplici, per poi presentarci una discussione della proprietà intellettuale in quanto fattore ora limitante, ora agevolante, ora irrilevante, mostrandoci che alla base di tutte e tre queste posizioni esiste una logica. Ghosh sposta poi l'attenzione dal concetto di proprietà intellettuale come fine a quello di proprietà intellettuale come mezzo, trasformandola in un potenziale strumento per la costruzione dei beni comuni dell'informazione. Propone quindi tre principi guida cui attenersi nella definizione delle politiche sulla proprietà intellettuale e nella progettazione efficace di beni comuni: imitazione, scambio e governo; ed esplora infine importanti dilemmi circa la separazione tra mercato e Stato, mostrando come non sia ragionevole imporne una demarcazione rigida. Nel capitolo 9 Peter Levine dimostra — basandosi sulla propria esperienza presso il Prince George's Information Commons nel Maryland — come un bene comune della conoscenza possa essere usato con profitto per stimolare gli studenti e, più in generale, i cittadini a partecipare a ricerche di valore pubblico, attingendo ai beni comuni della conoscenza e allo stesso tempo contribuendo alla loro creazione. Levine propone un'utile distinzione tra beni comuni "libertari" e beni comuni "associativi": un bene comune libertario è un bene a cui chiunque può scegliere di accedere, mentre quelli associativi sono aperti ai membri di un gruppo specifico ma possono non essere accessibili al pubblico in generale. Prima dell'era digitale, per esempio, le biblioteche cartacee erano condivise da gruppi di individui su base prevalentemente locale. Levine sostiene che i beni comuni necessitano di tutela da parte dei gruppi interessati alla loro produzione, cura e mantenimento; dunque, sostiene che i beni comuni associativi avranno in futuro un ruolo importante nell'utilizzo democratico dei beni comuni della conoscenza, e a tal proposito descrive l'operato della University of Maryland nello sviluppo di un efficace bene comune associativo per studenti e cittadini della contea di Prince George. Producendo conoscenza per i beni comuni, gli studenti apprendono informazioni sulle questioni pubbliche in un modo che non sarebbe possibile altrimenti. Levine esorta poi altri studiosi a sviluppare beni comuni associativi di questo tipo come mezzo per generare conoscenze significative e per formare gli studenti sui temi attinenti le loro comunità e sui modi produrre e valutare le conoscenze che le riguardano. Nel capitolo 10 Charles Schweik sostiene che i principi collaborativi che stanno alla base dei progetti di sviluppo del software Free/Libre e Open Source (FOSS) potrebbero essere applicati allo sviluppo di nuovi beni comuni della conoscenza in ambito scientifico. Per sostenere questa tesi, Schweik applica dapprima l'analisi istituzionale e il framework di sviluppo presentati nel capitolo 3 per esaminare le diverse modalità d'azione relativi ai beni comuni del software open source; quindi interconnette le modalità d'azione di volta in volta prescelte concretamente dagli attori con le relative comunità e le regole operative adottate nella produzione e nella protezione del software. Schweik fornisce un'esauriente disamina storica delle iniziative volte a sviluppare accordi di licenza per il software open source e dell'ampia diffusione di questi tipi di accordi per la protezione e la produzione delle informazioni. Estende poi l'analisi fino a includere, oltre al software, una gamma più ampia di artefatti, per discutere il problema generale delle licenze relative al contenuto digitale scientifico. I lettori meno informati sullo sviluppo del software open source troveranno in questo capitolo una sintesi particolarmente utile della sua evoluzione. Wendy Pradt Lougee incentra il capitolo 11 sui profondi mutamenti in corso nel mondo della comunicazione scientifica e accademica. La sua discussione sui beni comuni esplora le comunità sempre più collaborative presenti nel mondo accademico. In passato, le biblioteche universitarie costituivano un ambito separato dal resto dell'accademia; oggi, invece, i confini tra la produzione e la diffusione dell'informazione accademica e scientifica, oltre a quelli che delimitano i soggetti coinvolti nel processo, sono diventati piuttosto sfumati. Nell'ambito della comunicazione scientifica, oggi l'attenzione si focalizza sul processo anziché sul prodotto. Lougee analizza i metodi tradizionali di comunicazione scientifica e illustra la varietà di norme tra le diverse discipline. Tali differenze sono evidenziate nel modo in cui particolari discipline si sono adattate all'ambiente digitale, oltre che nel modo in cui le biblioteche si sono evolute da archivi o custodi di beni dell'informazione fino a diventare collaboratori e potenzialmente catalizzatori all'interno di comunità formate sulla base di interessi condivisi.
Il capitolo 12 fornisce un perfetto esempio di come confini e soggetti
attivi nei beni comuni della conoscenza siano sempre meno netti. Gli economisti
James C. Cox e J. Todd Swarthout descrivono una
biblioteca digitale da loro realizzata come infrastruttura per l'insegnamento
indipendente dalla biblioteca universitaria. Al centro della
trattazione c'è EconPort, una biblioteca digitale ad accesso libero e
open source
per studenti e ricercatori di microeconomia sperimentale:
di fatto, un nuovo bene comune della conoscenza. Cox e Swarthout
descrivono i contenuti di EconPort e la filosofia educativa che soggiace alla
sua creazione. Presentano, dal punto di vista dell'economista,
una straordinaria analisi degli incentivi, dei rischi e delle possibili
esternalità negative insiti nella creazione e nel mantenimento di una
biblioteca digitale e di un laboratorio sperimentale localizzati e incentrati su
una disciplina. Dibattono anche di questioni relative alla
conservazione di una risorsa così univocamente mirata.
Dove ci conduce questo libro Con questo libro dissodiamo un nuovo terreno e forse gettiamo qualche seme. La nostra speranza è che le pagine che seguono possano fungere da linee guida per ricerche successive. Questo volume riunisce studiosi di diverse discipline, affronta alcuni punti critici relativi ai nuovi tipi di beni comuni e presenta uno strumento analitico che aiuta a chiarificare le complessità del contesto in rapido mutamento del mondo della conoscenza e dell'informazione. Speriamo di far nascere nei lettori la coscienza che molti problemi oggi assai avvertiti hanno origini comuni che l'analisi può portare alla luce. Come costruire forme efficaci di azione collettiva e iniziative di autorganizzazione e autogoverno? Come liberarci da sistemi limitanti e a percorso obbligato, e progettare invece con creatività nuovi sistemi che si avvalgano delle illimitate capacità delle tecnologie dell'informazione digitale? Com'è possibile salvaguardare con efficacia tutto ciò che ha valore nel mantenimento e nella preservazione della documentazione culturale e scientifica? Come stabilire le priorità, di fronte a tanta nuova ricchezza di informazioni digitali? Come valutare il nostro attuale lavoro? Come monitorare i nostri progressi? Chi dovrebbe governare Internet? Come ottenere equità e giustizia? Come proteggere gli interessi e la libertà creativa degli autori, assicurando al contempo il più ampio accesso possibile alla nuova conoscenza e alle nuove informazioni? Come possono le università coprire i costi dell'acquisto di riviste i cui prezzi stanno aumentando in modo esponenziale? In che modo lo sviluppo degli archivi digitali influirà sul lavoro degli editori accademici? Come possono essere conservati per i secoli futuri i lavori scientifici esclusivamente in digitale? Quali sono i modelli di business appropriati ed efficaci per la conservazione della conoscenza?
Tutti questi interrogativi attengono alle sfide, oggi pressanti, relative
alla predisposizione di assetti istituzionali efficaci per potenziare la
produzione, l'accesso, l'utilizzo e la conservazione di una grande varietà di
beni comuni della conoscenza. Viviamo tempi stimolanti per
chi intenda affrontare questi interessanti interrogativi ed elaborare
migliori strumenti analitici ed empirici per fornirvi una risposta.
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