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| << | < | > | >> |IndiceTute bianche: disobbedienza e contropotere Prologo di Luca Casarini 7 Prefazione. Un filo rosso dalla Selva Lacandona fino a Puerta del Sol 15 Introduzione 19 1. Dal Chiapas alla battaglia di Seattle 33 2. Le Tute bianche 47 3. Il Movimento di resistenza globale di Madrid 77 4. Praga 2000: democrazia 91 5. L@s Invisibles 119 6. Le Tute bianche uccise dal successo 151 7. Genova 2001: assassini 159 8. Madrid 2003: no alla guerra 203 9. 13M: eventi leninisti 265 10. Futuro anteriore: i Disobbedienti e il 15M 275 La disobbedienza come gesto per una politica audace Epilogo di Eρigo Errejón Galván 281 Bibliografia 289 Documenti consultati 298 |
| << | < | > | >> |Pagina 15La caduta del muro di Berlino rappresentò per molti studiosi il crepuscolo delle mobilitazioni sociali associate all'anticapitalismo. Erano tempi di rivoluzioni di velluto che, sebbene piacquero a chi sperava potessero rappresentare una nuova primavera di Praga antiburocratica, non ebbero altro effetto che quello di consolidare la transazione dei sistemi del cosiddetto socialismo realmente esistente a sistemi ultraliberali di democrazia procedimentale. Era anche l'epoca dell'istituzionalizzazione di buona parte dei cosiddetti movimenti sociali (in particolare dei verdi tedeschi trasformati in ecocapitalisti) e dell'addomesticamento della solidarietà internazionale che prendeva la forma di ONG e associazioni umanitarie. Sebbene le scienze sociali dessero ormai per assodati i movimenti sociali e le forme d'intervento politico non convenzionali, gli imperativi dei governi statali condizionavano lo studio dell'azione collettiva. Tuttavia, con il fondamentale precedente dell'esperienza neozapatista in Chiapas dal 1994, il nuovo millennio iniziò per i movimenti sull'onda delle proteste di Seattle contro l'Organizzazione mondiale del commercio. Da lì, le mobilitazioni contro le organizzazioni mondiali di gestione economica e politica si estesero in tutto il mondo sotto forma di giornate di azione globale. In Europa, il meeting di Praga tra la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, a settembre del 2000, aprì un ciclo che culminò, poco meno di un anno dopo, con l'imponente mobilitazione di Genova contro il G8. Le proteste di Genova rappresentarono l'apice di un movimento le cui principali caratteristiche furono due. In primo luogo, il dispiegarsi di forme di azione collettiva conflittuali: le giornate di azione globale puntavano ai blocchi e agli scontri (più o meno simbolici a seconda dei gruppi e dei casi) a ogni vertice delle istituzioni di controllo globale. In secondo luogo, il movimento fu in grado di far procedere la protesta politica al di là dei limiti dello stato identificando l'avversario politico con la globalizzazione neoliberale, e non soltanto con le sue istituzioni di controllo statale. I movimenti globali riuscirono a fare politica laddove si concentra la maggior parte del potere, ovvero nel territorio dell'economia politica globale, rendendo visibili i limiti delle mobilitazioni tanto dei partiti di sinistra e dei sindacati quanto dei movimenti nazionalisti che continuavano a privilegiare gli scenari statali. In sostanza, ripresentarono qualcosa che fu fondamentale per lo sviluppo dei movimenti socialisti fin dal XIX secolo, ma che fu estremamente difficile nel XX: la mobilitazione politica oltre i confini dello stato. Per i collettivi giovanili della sinistra radicale europea, l'irruzione della protesta globale inaugurò un nuovo periodo. Tecniche proprie di un repertorio globale di azione collettiva furono sperimentate da una nuova generazione di attivisti per la quale Internet, l'organizzazione in rete e la comunicazione politica rappresentavano le chiavi dell'organizzazione e dell'intervento politico. In questo libro si analizzano i tentativi di adattare a Madrid quella che venne chiamata "Disobbedienza italiana", a nostro parere l'espressione più esaustiva di questo nuovo modo, rappresentato dalle proteste globali, di pensare globalmente e agire localmente. Quei giovani madrileni, che percorsero i centri sociali occupati del Nord Italia e che parteciparono attivamente alle proteste di Praga e Genova, rivestirono poi un ruolo cruciale, nel 2003, nelle proteste di Madrid contro la guerra e la loro eredità, sotto forma di modalità di intervento e discussione, è poi stata presente nelle mobilitazioni giovanili che, da allora, hanno avuto luogo a Madrid; dal 13M (Movimiento Social Universitario 13 de marzo), passando per il Movimento per una casa degna, i movimenti studenteschi contro la LOU (Ley Orgánica de Universidades) e il Plan Bolonia e, infine, Juventud Sin Futuro e il movimento 15M (noto anche come Movimiento de los Indignados). L'inarrestabile ascesa del movimento 15M a Madrid, dopo le proteste di Juventud Sin Futuro e di Democracia Real Ya, ha sorpreso tanto gli analisti politici quanto i militanti dei collettivi sociali. Per questo, proprio ora, è fondamentale tracciare la genealogia del movimento, l'origine dei suoi repertori e le fonti d'ispirazione dei suoi primi attivisti. In qualche modo il 15M ha portato a rivalutare le teorie e le modalità di protesta inaugurate dal movimento globale. Da una parte, una critica alle dinamiche dell'economia globale come primaria minaccia per la democrazia, e dall'altra la disobbedienza politica come principale strumento d'intervento (dalla prima occupazione di Puerta del Sol, passando per le concentrazioni proibite dalle giunte elettorali, fino agli attacchi nei comuni e nelle assemblee legislative).
Questo libro, che parte da una precedente tesi di dottorato, vuole essere un
contributo alla memoria collettiva dei
movimenti sociali a Madrid, perché soltanto attraverso una
conoscenza critica e profonda delle esperienze di protesta i
movimenti e i loro attivisti possono accumulare gli strumenti
necessari per affrontare le sfide della lotta politica in momenti
di agitazione e crisi come quelli che stiamo vivendo.
| << | < | > | >> |Pagina 19Le Tute bianche non erano né un'avanguardia del movimento né una corrente o una frangia di esso. La tuta bianca divenne uno strumento, un simbolo e un'identità aperta a disposizione del movimento. Chiunque poteva indossare una tuta bianca finché rispettava un certo stile... Wu Ming 1 (2002) La Disobbedienza italiana Questo libro non vuole essere il racconto del percorso storico dei movimenti no global a Madrid, sebbene contenga molto di tale percorso. Ciò che qui ci interessa analizzare è l'impatto di una serie di tecniche di azione collettiva comunicativa nate in Italia e il tentativo, da parte di un gruppo di giovani militanti del Movimiento de Resistencia Global di Madrid, di adattarle alla propria realtà e di configurarle come strumento politico per l'azione e la comunicazione. Crediamo che il tracciare in modo dettagliato la genealogia della Disobbedienza italiana sia giustificato dal fatto che i contatti e le esperienze condivise tra collettivi italiani e madrileni siano andati avanti fino ai giorni nostri e che, in parte grazie alle borse di studio Erasmus, lo "scambio" di militanti disobbedienti si sia prolungato per dieci anni, dando un'impronta molto particolare al modo di pensare e di praticare la politica da parte di alcuni collettivi di Madrid. A metà degli anni novanta, alcuni centri sociali occupati dell'area autonoma italiana si posero due problemi teorico-pratici. Il primo consisteva nel come dare visibilità politica a una serie di soggetti immigrati, disoccupati, giovani lavoratori precari ecc. non rappresentati da partiti e sindacati tradizionali, ma assolutamente vittime delle politiche di adeguamento. Il secondo problema era come superare l'identità di guerriglia urbana associata all'autonomia, cosa che derivava dalle lotte operaie e studentesche degli anni settanta, ma che negli anni novanta portava alla criminalizzazione e all'emarginazione del movimento. Facendo proprio il discorso neozapatista che arrivava dal Chiapas, le Tute bianche furono lo strumento teorico e pratico per affrontare entrambe le questioni. Dal neozapatismo venne presa la teoria che considerava la globalizzazione neoliberista come l'avversario, andando così oltre la politica nazionale. L'EZLN (Esercito zapatista di liberazione nazionale), inoltre, apportava teorie che andavano oltre le retoriche rivoluzionarie della sinistra radicale degli anni sessanta e settanta e una pratica la cui dimensione "armata" acquisiva un senso più comunicativo che militare; il successo degli zapatisti non dipendeva tanto dalla loro scarsa forza armata, bensì dalle loro enormi capacità e abilità comunicative. Le Tute bianche rappresentarono il tentativo di adattare il neozapatismo alle cosiddette "società avanzate". "Dietro al passamontagna ci siete voi che siamo noi," avevano dichiarato gli zapatisti. La versione europea dei passamontagna furono le Tute bianche, uno strumento per rendere visibile l'invisibilità degli esclusi dalla rappresentanza politica e sindacale e per praticare l'azione collettiva. Per le Tute bianche la rappresentazione del conflitto nelle strade era per prima cosa un elemento comunicativo piuttosto che "militare" o di esercizio rivoluzionario. E così si costruì una prassi di azione, definita come "disobbedienza civile", diversa dalla guerriglia urbana e anche diversa dalle convenzionali proteste o dalle forme di resistenza passiva alla Gandhi. Le Tute bianche si presentavano alle manifestazioni calzate nelle loro tute da lavoro, munite di caschi e scudi, con indosso maschere antigas, parastinchi, armature di gommapiuma e ogni sorta di protezioni pensate per sfidare i cordoni della polizia contro le iniziative non violente dei manifestanti. Le Tute bianche rifiutavano e si dissociavano da qualsiasi azione aggressiva contro le forze dell'ordine (lancio di oggetti, percosse ecc.) e si limitavano a creare una barriera con i loro corpi protetti e pronti a resistere a qualsiasi intervento degli agenti. Tra l'altro era solito che negoziassero con i capi della polizia i livelli delle loro azioni e l'intensità della pressione della polizia per impedirle. Sebbene le forze dell'ordine non mantenessero sempre gli accordi, grazie ai negoziati le Tute bianche a volte riuscivano a rendere compatibile la spettacolarità mediatica dei loro scontri con gli antisommossa, con una certa sicurezza per i propri attivisti, e riuscivano a suscitare simpatie mentre rendevano più difficile il tentativo di essere criminalizzati. I disobbedienti italiani svolsero un ruolo cruciale nell'organizzazione e sviluppo delle giornate di azione globale europea più importanti, precedenti alle proteste contro la guerra in Iraq, in particolar modo durante le giornate di protesta contro il vertice della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale (FMI) a Praga, a settembre del 2000, e in quelle contro il meeting del Gruppo dei sette paesi più industrializzati e la Russia, a Genova, a luglio del 2001. La Disobbedienza italiana suscitò un grande interesse in molti collettivi in Europa e in America che cercarono di adattarla alla propria specifica realtà. Il miglior indicatore del suo successo fu la rinuncia, da parte della polizia, a qualsiasi tipo di negoziazione nelle manifestazioni di Genova, optando fin dal primo momento per un modello repressivo senza concessioni, come dimostriamo in questo libro. Θ quell'insieme di dispositivi per l'azione collettiva (protezioni e strumenti difensivi per agire e, soprattutto, la dinamica dei negoziati) che chiamiamo Disobbedienza italiana. Abbiamo optato per questa definizione per via della sua chiarezza nell'evitare equivoci con altre forme di azione collettiva e, in particolare, con altre forme di concepire e mettere in pratica la disobbedienza civile.
Sebbene l'origine e il massimo sviluppo di questo modo di
disobbedire sia italiano, fu realizzabile anche in altri contesti.
Di fatto, il successo della Disobbedienza italiana fu dovuto al
suo aver messo a punto uno strumento per l'azione collettiva globale non
ascrivibile e interpretabile solo in funzione dei
limiti di uno stato concreto. Questo insieme di tecniche s'iniziarono a
sviluppare dopo Seattle, come ora spiegheremo, e
riportarono vari successi. Un anno dopo, a Praga, molti collettivi di attivisti
europei entrarono in contatto con le Tute bianche e poterono praticare con loro
una forma di disobbedienza collettiva fino ad allora inedita fuori dall'Italia.
Tra le due-trecento Tute bianche che affrontarono gli antisommossa
cechi il 26 settembre del 2000 c'erano decine di giovani attivisti madrileni.
Organizzazione del presente studio In questo libro vengono studiate le forme di azione collettiva dispiegate in alcune giornate di azione globale nell'Unione Europea tra settembre del 2000 e marzo del 2004 da parte di un concreto settore dei movimenti, i Disobbedienti, analizzando in modo comparativo le esperienze di tale settore in Italia e a Madrid. Per organizzare il nostro studio, abbiamo stabilito due fasi nel percorso europeo dei movimenti globali. Θ necessario avvertire che qualsiasi delimitazione, tanto temporale, nel parlare di fasi, cicli o subcicli di protesta, quanto soggettiva e spaziale, nel preferire certi collettivi ad altri, è per forza relativa. Nel nostro caso, riferirci a certe date, includere alcuni gruppi o escluderli o non fare riferimento ad altri, risponde al bisogno di rendere possibile la ricerca. In questo senso, la nostra proposta di analisi, che parte dallo studio di una specifica componente del movimento, non ha la pretesa di essere né definitiva né completa. Altre ricerche hanno percorso diverse strade di avvicinamento allo stesso fenomeno, strade che ci sembrano assolutamente ragionevoli e che hanno contribuito a dimostrare che lo studio dei movimenti globali contro il capitalismo richiede, per via della sua enorme ampiezza, diversi punti di vista. L'organizzazione del nostro studio risponde a un tentativo di spiegare l'emergenza di un attore politico postnazionale, molteplice ed eterogeneo, partendo dall'analisi delle forme di azione collettiva di alcuni collettivi disobbedienti italiani e madrileni, in scenari europei tra il 2000 e il 2004.
La seguente immagine schematizza l'organizzazione espositiva di questo
libro.
| << | < | > | >> |Pagina 47Se i passamontagna nel Sud-Est messicano sono il modo della realtà del Chiapas per mostrarsi agli occhi del mondo, le Tute bianche sono l'adattamento della lezione in Europa. Centro sociale Leoncavallo Autonomia, centri sociali e neozapatismo L'origine esatta delle Tute bianche non è semplice da indicare. Come affermato da Wu Ming 1 (2002), in uno dei pochi documenti sulla storia di questo gruppo che precedono il presente lavoro, fuori dai confini italiani non è facile comprenderne la portata. Per questo membro del collettivo politico-letterario Wu Ming, se vogliamo capire la loro esperienza politica, è necessario ricostruire almeno tre anelli della catena che forma il DNA delle Tute bianche. Il primo anello è l'autonomia italiana degli anni settanta, il secondo l'influenza e la ricezione del neozapatismo da parte di un settore dei centri sociali italiani occupati, e il terzo è un lavoro molto particolare di costruzione di miti mitopoiesi utili per l'azione. Qui ci occuperemo dei primi due e riserveremo il terzo per le conclusioni. In Italia, i settori politici dell'estrema sinistra e i centri sociali, che daranno origine alle Tute bianche, sono storicamente legati alle esperienze autonome degli anni sessanta e settanta. Nelle esperienze di lotta politica di quegli anni, la cui intensità non aveva precedenti in Italia fin dai tempi della Resistenza antifascista, confluirono alcuni gruppi con tradizioni e strategie proprie dell'estrema sinistra classica con nuove tendenze controculturali, in un movimento generale di critica al marxismo ufficiale e alla strategia possibilista dell'onnipotente Partito comunista italiano (PCI). | << | < | > | >> |Pagina 159Il punto cruciale della giornata di venerdì 20 è l'attacco dei carabinieri alla manifestazione delle Tute bianche [...]. Il nemico viene scelto con precisione: i disobbedienti che, rispetto ai pacifisti, sono un nemico ideologicamente naturale e, dal punto di vista mediatico, ambigui nella loro pratica. Davide Ferrario (2002), regista cinematografico e autore del documentario Le strade di Genova Continuiamo qui con l'analisi della Disobbedienza italiana nei giorni di azione globale, anche se in questo caso, dal punto di vista di uno dei suoi vincoli principali, vale a dire la gestione dell'ordine pubblico da parte delle forze di polizia. Se nel caso di Praga descrivevamo le chiavi per comprendere lo sviluppo del successo dell'azione collettiva degli attivisti del 26 settembre 2000, nel caso di Genova analizzeremo il comportamento delle forze dell'ordine durante tutto il venerdì 20 luglio 2001. Cercheremo di dimostrare come l'obiettivo delle unità antisommossa a Genova (in modo particolare i carabinieri) fu quello di distruggere le possibilità di impatto politico della Disobbedienza italiana come forma di azione collettiva comunicativa che stava diventando egemonica. Per questo i carabinieri, e in misura minore altri corpi di polizia, cercarono incessantemente uno scenario che facilitasse situazioni vicine alla violenza politica. Abbiamo già detto che analizzando singolarmente i collettivi che (a Roma e a Madrid) hanno messo in pratica la Disobbedienza italiana, oggetto di questo libro, si giunge alla conclusione che questa forma di azione collettiva rispecchia, a nostro giudizio, buona parte dei caratteri dell'azione collettiva dei movimenti globali. Una delle ragioni che ci ha condotto a tale conclusione è proprio il fatto che la repressione di Genova ebbe come obiettivo quello di sconfiggere politicamente i Disobbedienti. L'azione dei carabinieri di venerdì 20 luglio 2001 contro i Disobbedenti, in quelli che abbiamo chiamato "gli scontri di via Tolemaide", tentò di forzare uno sviluppo degli scontri che poteva senza dubbio causare morti, sia da parte dei manifestanti come effettivamente accadde con Carlo Giuliani , sia da parte delle forze dell'ordine. Siamo consapevoli del fatto che queste affermazioni specialmente la seconda possono sembrare azzardate. Per questo abbiamo dato al capitolo un'organizzazione particolare includendo, oltre a riferimenti documentari e bibliografici, mappe, fotografie e link di video che abbiamo caricato su YouTube in modo che i lettori possano vederli. Anche se potrà risultare noiosa la lettura di un capitolo che costringe parallelamente all'esame di mappe e alla visione di filmati, crediamo che questo sia l'unico modo per dimostrare che le nostre affermazioni (e l'analisi politica che ne deriva) non sono avventate o irresponsabili. Proseguendo, analizzeremo in che modo le tattiche poste in essere il 20 luglio del 2001 dai carabinieri italiani in maggior misura, e dalla polizia e altri corpi preposti alla gestione dell'ordine pubblico in minor misura, risposero a una strategia diretta alla distruzione politica della Disobbedienza italiana come forma di azione collettiva. Concretamente, studieremo in primo luogo l'indifferenza delle forze dell'ordine rispetto al cosiddetto Black Bloc, o Blocco nero, tra le undici del mattino e le tre del pomeriggio all'incirca. In secondo luogo, analizzeremo come questa indifferenza si trasformerà in intensissima azione repressiva rispetto al blocco dei Disobbedienti, più o meno fra le tre e le sei del pomeriggio. Azioni e omissioni delle forze dell'ordine il 20 luglio furono inquadrate in una strategia ben precisa il cui obiettivo fondamentale era stroncare politicamente il movimento globale attraverso la distruzione dei Disobbedienti. La nostra affermazione, secondo la quale il modello repressivo applicato a Genova ebbe come obiettivi politici principali neutralizzare la disobbedienza politica italiana come possibilità di azione collettiva e distruggere completamente la capacità di crescita politica dei collettivi che la stavano mettendo in pratica, non è un'idea originale. Come vedremo, è stata esposta e dimostrata empiricamente in diversi studi che si basano su documenti audiovisivi e su dichiarazioni derivate dalle diverse indagini portate a termine, sia a livello giudiziario sia da ricerche sviluppate da studiosi universitari e giornalisti. Di tutti gli studi, le ricerche e i documenti, quello che più ha influito sull'elaborazione di questo capitolo è il lavoro documentale di Davide Ferrario Le strade di Genova (disponibile su YouTube), del quale analizzeremo alcuni frammenti. | << | < | > | >> |Pagina 190Lezioni genovesiQuali ragioni politiche potevano esserci per attaccare in quel modo i Disobbedienti? Riteniamo che la risposta stia nel fatto che le Tute bianche erano riuscite a egemonizzare una parte molto importante dei movimenti in Italia, oltre a diventare un polo di attrazione per buona parte dell'ala radicale dei movimenti in Europa. A questo bisogna aggiungere che stava crescendo anche la loro influenza politica sui settori più moderati dei movimenti, trascinando un numero sempre maggiore di gruppi verso le loro posizioni. L'inclusione della Disobbedienza italiana nel Patto di lavoro ne è l'esempio migliore. I Disobbedienti erano allora il più "pericoloso" tra i settori provenienti dall'estrema sinistra, proprio per la loro capacità di attrazione e il loro notevole impatto politico-mediatico. Erano cresciuti politicamente senza aver reso compatibile la fuga dalla marginalità con le forme conflittuali di azione collettiva. Erano riusciti a cambiare senza vendersi, ritagliandosi uno spazio politico di azione che era di grande efficacia comunicativa, distinto dalla violenza politica, ma anche dalle forme abituali di intervento istituzionale. Il 19 luglio, un giorno prima che il blocco dei Disobbedienti partisse dallo stadio Carlini diretto verso la zona rossa, i portavoce di tre realtà politiche italiane annunciavano un progetto di unità d'azione intorno alla pratica e al discorso della disobbedienza. Da una parte c'erano i napoletani della Rete no global, che riuniva un ampio spettro di centri sociali del Sud Italia, fino ad allora critici con i centri sociali delle Tute bianche; dall'altra, si aggregavano alla Disobbedienza italiana anche i giovani di Rifondazione comunista, che già dalla mobilitazione di Praga si erano avvicinati a quella forma di azione collettiva. Francesco Caruso, portavoce della Rete no global, dichiarava: "Da questo stadio usciremo senza divise" riferendosi essenzialmente alle Tute bianche "e senza divisioni. [...] Siamo una moltitudine di diversi che prende la parola." Nicola Frantoianni, in rappresentanza dei giovani comunisti, da parte sua faceva notare: "Siamo tutti insieme, ma è una cosa che va al di là dell'unità di un giorno. [...] Ci hanno dato una ragione in più e un'occasione per ritrovarci tutti insieme." Per ultimo prese la parola Casarini, portavoce delle Tute bianche, che disse: "Queste moltitudini, come le abbiamo chiamate, si ritrovano intorno alla pratica e al senso della disobbedienza civile; le Tute Bianche sono una parte di questa moltitudine, solo una parte; né gli unici, né i migliori." | << | < | > | >> |Pagina 194La Disobbedienza italiana, legittimata politicamente dalla quasi totalità del movimento, era diventata una scommessa politica di massa che avrebbe rappresentato lo scontro dei movimenti globali con il G8. Le conseguenze politiche che questa modalità di scontro poteva portare con sé furono, a nostro avviso, la chiave per comprendere il ruolo di alcune forme di repressione come quelle che abbiamo analizzato.Il modo in cui i carabinieri attaccarono il blocco dei Disobbedienti in via Tolemaide rese necessario alterare quella modalità, più o meno simbolica, di confronto previsto, trasformandola in uno scontro diretto che non costò altre vite di manifestanti o di agenti solo grazie all'impressionante autocontrollo degli attivisti. Non bisogna dimenticare che, durante gli scontri di via Tolemaide, solo i carabinieri spararono almeno quindici proiettili, come si deduce dal rapporto del colonnello Tesser (Mascia, 2001), cosa che, anche con propositi esclusivi di intimidazione, nelle manifestazioni era rigorosamente vietata da una circolare del 1990 (Gubitosa, 2003, p. 228). I Disobbedienti furono vittime di una gestione dell'ordine pubblico studiata e destinata a generare uno scenario che favoriva forme di violenza politica. Come abbiamo spiegato, in uno dei tentativi più scandalosi di provocare una situazione limite, si verificherà l'uccisione di Carlo Giuliani e si trattava, come detto, della terza situazione con queste caratteristiche cercata dai carabinieri. Il disegno politico-sociale creato a Genova fu un tentativo di antidoto europeo contro un dispositivo di azione collettiva che si distanziava sia dalle forme di intervento convenzionali, sia dalla violenza politica, "strangolando" quel terzo spazio politico. Davanti al modello repressivo di Genova, le uniche alternative di iniziativa politica sul piano dello scontro, per le organizzazioni e i collettivi dei movimenti globali, erano o manifestarsi in modo convenzionale rinunciando così a tutto il loro potenziale comunicativo, oppure scegliere una modalità di guerriglia urbana nella quale la morte (sia di manifestanti sia di membri delle forze dell'ordine) appariva come un'eventualità assolutamente possibile, eventualità inconcepibile per il movimento e incompatibile con il suo enorme successo sociale. Questo disegno genovese della repressione non ci pare tipicamente italiano, ma si configurò come un insieme di misure di possibile applicazione europea, quando le circostanze lo avrebbero richiesto. Così era accaduto, sebbene con una diversa intensità, a Gφteborg, due mesi prima di Genova, a Barcellona nel mese di luglio e a Madrid nel maggio 2003, come analizzeremo in dettaglio nel prossimo capitolo. | << | < | > | >> |Pagina 270Il flash/smart mob è una modalità di convocazione attraverso messaggi sul cellulare o SMS che può avere differenti finalità (marce, concentramenti, voto, semplice circolazione di informazioni ecc). Dagli inizi di questo secolo, il flash mob ha cominciato a svilupparsi in diversi contesti. Θ stato molto importante nelle Filippine nel 2001 nelle proteste contro Joseph Estrada (Francescutti, Baer, García de Madariaga, López, 2005, p. 81) e ha avuto grande diffusione anche in iniziative ludico-controculturali negli Stati Uniti e nel Regno Unito (Adell, 2004, p. 227). A prima vista potrebbero identificarsi come flash mob anche certe campagne con fini commerciali e politici. Tra queste non bisogna dimenticare quelle lanciate da leader politici del tutto diversi tra loro come Berlusconi in Italia, Putin in Russia, Chávez in Venezuela o il precedente capo della Chiesa cattolica, Karol Wojtyla (López Martin, 2004, p. 11). Ma ciò che differenzia quest'uso verticale della tecnologia una sola unità centrale che emette dai flash mob, è che in questi ultimi il controllo dei messaggi è decentrato, e richiede la cooperazione di "unità intelligenti" collegate alla Rete: è quella che si può definire una tecnica di swarning o "a sciame". La caratteristica fondamentale del flash/smart mob è proprio la frammentazione e la confusione tra emittenti e recettori. Nel flash mob già non c'è bisogno di direzione, di un centro depositario dell'intelligenza politica imprescindibile per l'intervento, proprio dei modelli politici classici (dalle strutture amministrative dello stato fino a qualsiasi organizzazione politica). Al contrario, il flash/smart mob richiede la presenza di moltitudini di unità intelligenti che cooperano in rete, che danno luogo a una "direzione politica in Rete".La forma rete non solo rappresenta il paradigma organizzativo per definire i movimenti globali (a meno che Naomi Klein parlasse dello sciame di zanzare!), ma esprime anche le dinamiche di funzionamento del capitalismo nella sua fase attuale. Il 13 marzo 2004, dopo i primi messaggi, una molteplicità di intelligenze si mise in funzione. Simultaneamente, ogni unità che riceveva il messaggio doveva decidere a chi inoltrare gli SMS, in funzione a diversi tipi di criteri politico-personali (valutazione della gravità della situazione, simpatia e fiducia nelle persone alle quali si manda il messaggio ecc.). Ogni destinatario, oltre a essere un nodo della rete, diventa un dirigente e organizzatore di un dispositivo di organizzazione politica molteplice e cooperativo. L'intenzionalità delle persone che fecero circolare il messaggio il 13M è quello che diede politicità a quella che, in sé, era una struttura cooperativa in Rete già esistente. Il fulcro dell'importanza del 13M non risiede nel suo maggiore o minore peso nel risultato elettorale, ma nel fatto che rappresentò "una modalità di intervento politico che indicava [...] alcune delle chiavi fondamentali per l'organizzazione delle future resistenze." (Mestre, 2004, p. 139). Quell'insieme di tecniche comunicative di azione collettiva, visibile da Seattle a Madrid, è solo l'inizio di ciò che sta per arrivare. Non crediamo ci siano ragionevoli possibilità di tornare indietro, dal momento che i conflitti tendono a situarsi sempre al centro della produzione e questo centro è più che mai la comunicazione sociale, articolata intorno alle tecnologie dell'informazione. Il ruolo delle reti sociali nelle rivolte democratiche arabe e nel 15M crediamo sia una prova di quello che stiamo affermando. Dopo gli attentati di Al Qaeda a Madrid e la loro gestione a livello di comunicazione, la rivolta del 13M divenne una sfida diretta al sistema politico statale. Non a caso Antonio Negri si riferì al 13M parlando di eventi leninisti. In una giornata di riflessione elettorale, i manifestanti agirono contro la rappresentazione formale/costituzionale della sovranità (parlamento e governo) e contro la normativa elettorale che la regola (in questo caso, contro il divieto di realizzare manifestazioni durante questa giornata di riflessione). Lo strumento utilizzato fu di tipo comunicativo, cominciando con un flash/smart mob che invitava a riunirsi davanti alle sedi del PP. Le tecnologie dell'informazione ebbero ancora una volta un ruolo chiave, sia nella convocazione, sia nella diffusione del concentramento una volta che questa si stava realizzando. Θ paradossale, tra l'altro, che i primi mezzi di comunicazione appostati davanti alla sede di Calle Genova, che fecero circolare le immagini della mobilitazione, fossero stranieri. Θ il caso di chiedersi (e la destra lo ha fatto) se ci fossero degli organizzatori dietro i primi messaggi mandati via cellulare: sappiamo che così fu, e abbiamo parlato con alcuni di loro. Ma nessuno poteva assicurare il successo dell'iniziativa. Contavano solo su un'ipotesi, vale a dire che il messaggio avrebbe circolato in maniera straordinaria e avrebbe spinto all'azione davanti a una circostanza speciale. I "cospiratori" del 13M non contavano a priori su nessun tipo di capacità organizzativa effettiva, eppure la convocazione funzionò e la risposta fu massiva. Questo si spiega solo se comprendiamo certi elementi di cambio epocale nel modo di concepire le proteste. Ciò che vedemmo il 13 marzo fu l'espressione di nuovi modi di conflittualità politica che, in Europa, erano stati sviluppati dal movimento globale. | << | < | > | >> |Pagina 275La militanza politica rivoluzionaria deve riscoprire la forma che è sempre stata sua: non l'attività rappresentativa, ma l'attività costituente. Toni Negri e Michael Hardt (2002, p. 372) Crediamo che le diverse esperienze dei Disobbedienti, in Italia e a Madrid, furono un tentativo di avanzare nella direzione indicata da Hardt e Negri nella citazione con la quale iniziamo queste conclusioni. Ciò che abbiamo visto durante gli ultimi mesi in Spagna con il movimento 15M è praticamente la creazione della politica costituente (come alternativa a quella rappresentativa), concretizzata nelle pratiche di disobbedienza. Per quella generazione di giovani attivisti era necessario reinventare le forme e í simboli della politica e la Disobbedienza italiana fu un esperimento in quel senso. Come dice Wu Ming 1, l'estetica di combattimento delle Tute bianche aveva una lettura dell'azione che faceva prevalere la costruzione di un significato dell'azione sulle conseguenze materiali della stessa. Un buon esempio di tutto questo è il modo in cui le Tute bianche rivendicarono pubblicamente la distruzione di un McDonald's a Praga il 26 settembre del 2000:
La scelta di distruggere un McDonald's [...] una distruzione
pubblica, autodifesa e rivendicata come azione diretta legittima e non
clandestina [...]. Un'azione diretta di disobbedienza
civile e di nuova legalità, dal basso. [...] A Praga decidemmo
di iniziare da questo: ampliare il concetto e la pratica della
disobbedienza civile e dell'azione diretta senza restringerla ad
atti liberatori e fugaci, come vere spiegazioni di massa della
nuova legalità costituente. L'obiettivo è stato pienamente raggiunto: in Italia
molti, diversi da noi, rivendicano che il fatto
di attaccare uno dei simboli del mondo delle multinazionali e
della globalizzazione neoliberale non è un reato.
Parlando di "nuova legalità dal basso" non facevano che prefigurare il carattere costituente delle loro pratiche, materializzato in questo caso nell'attacco contro uno dei simboli della globalizzazione capitalista. Per i Disobbedienti, la chiave della prassi antagonista era la creazione di un quadro di senso collettivo (la costruzione del "noi" e del "loro" nella più pura tradizione del frame analysis, se si vuole), la creazione, in definitiva, della "battaglia medievale" della quale parlava Casarini, nella quale i potenti devono blindarsi nei loro castelli davanti all'assedio degli umili. Non è esattamente quello che abbiamo visto poco tempo fa nel parlamento della Catalogna assediato dagli Indignados? I Disobbedienti scoprirono un meccanismo politico di produzione di un senso in accordo con questi tempi dominati dalle tecnologie della comunicazione. Furono capaci di creare simboli (cruciali nelle narrative di tutti i movimenti sociali che hanno avuto successo) e che, nel bene o nel male, si sono dimostrati storicamente indispensabili al successo dell'azione collettiva. Come diceva Wallerstein (1987), le identità nazionali, popolari ed etniche, per quanto abbia pesato alla sinistra mondiale, si sono rivelate storicamente imprescindibili nella costruzione di quel fόr sich (il marxista "per sé" come coscienza di classe che trascende l'"in sé") che ha bisogno di un'azione politica trasformatrice. Buona parte dei fondamenti di tali identità sono miti che non avrebbero resistito a un esame storico: i Disobbedienti sono stati capaci di ricreare e ridefinire miti per agire lì dove c'è il potere, al di là dello stato. D'altra parte, come fa notare Wu Ming 1 (2002), ai nostri giorni le posizioni neosituazioniste di certi settori anarcoidi o ínsurrezionalisti che respingono quella che chiamano "cooptazione dello spettacolo" hanno peccato sempre di enorme candore e di totale inefficacia politica. Tali posizioni settarie sono, in ultima istanza, anche posizioni meramente estetiche che tentano di generare identità. Il problema è che appartengono a un'altra epoca, fuori dal loro tempo, semplicemente passati di moda, intendendo quest'ultima come sensibilità estetica che aspira a essere egemonica. I problemi di certe sinistre nel rapportarsi ad alcune delle nuove espressioni di mobilitazione riguardano proprio questo. Pochi gruppi hanno compreso così bene le chiavi dell'azione nella società dello spettacolo come i Disobbedienti. Nessuno può negare, giunti a questo punto, che uno dei motivi del successo dei movimenti globali sia stato proprio il rinnovamento estetico e simbolico espresso nelle loro forme di azione e nei loro discorsi, come anche nel modo di legare il passato e il presente delle lotte. Dagli zapatisti messicani ai movimenti indigenisti della Bolivia e ai piqueteros argentini, passando per il José Bové distruttore dei McDonald's e i pink blocks fino ai centri sociali italiani, il rinnovamento nella produzione delle narrative, anche quando riattualizza miti del passato, rappresenta poco meno che una condizione di possibilità per i movimenti antagonisti del presente. I social network, nella loro forma "democratizzatrice" 2.0, sono state l'ultimo scenario di questo rinnovamento dei movimenti. Nel caso dei movimenti globali europei, i Disobbedienti furono capaci di anticipare e sviluppare molte delle chiavi di azione collettiva che abbiamo visto prima nei giorni di azione globale, poi nelle proteste contro la guerra, e infine in questa nuova ondata di mobilitazioni la cui forma fondamentale è stata l'occupazione illegale delle piazze. Nel caso madrileno, si aggiunge una chiara eredità tra generazioni, separate da dieci anni appena, che si è manifestata in buona parte delle mobilitazioni (contro la guerra, per la casa, nelle proteste studentesche e, infine, nelle manifestazioni di Juventud sin Futuro che confluirono nel 15M) svoltesi nella capitale a partire dall'anno 2000. Qualcuno potrebbe dire (e non senza una parte di ragione) che i Disobbedienti non sono la concretizzazione di un piano strategico preconcetto. Senza alcun dubbio, è vero che la disobbedienza è stata un work in progress, per cui talvolta le teorizzazioni non furono messe in pratica, ma, molte volte, furono una maniera di interpretare i risultati dell'azione, sempre subordinata alle contingenze del presente, a improvvisazioni, alla fortuna ecc. Tuttavia succede sempre così quando analizziamo e relazioniamo la pratica e la teoria di qualsiasi attore politico in qualsivoglia circostanza. In ogni caso, i Disobbedienti sono stati rappresentativi di una tendenza generale nei movimenti sociali di tutto il mondo che, da allora, ha trovato molte conferme. Non solo rifletterono sulla possibilità di costruire scenari di comunicazione politica a partire dallo scontro, riconfigurando la disobbedienza civile e adattandola alle nuove tendenze militanti e culturali proprie dello sviluppo postfordiano in Europa, ma indicarono anche una possibilità strategica per i settori politici dell'estrema sinistra europea, che non vedevano chiaramente la possibilità di puntare sulla forma partito, né tantomeno erano a loro agio nella marginalità o nella fuga verso "il sociale" o la "solidarietà". I Disobbedienti hanno dimostrato che era possibile fare politica sullo scenario globale senza essere un partito, che si può stare al centro dei dibattiti senza lasciarsi cooptare dal sistema rappresentativo. Tale apporto è stata la chiave, a nostro avviso, per capire ciò che sta accadendo in questi momenti, in cui il potente movimento degli Indignados ridefinisce le agende e lo stesso concetto di partecipazione politica.
Sono passati già oltre undici anni da quelle giornate di Praga
nelle quali, per la prima volta, il FMI e la BM dovettero sospendere una
riunione per la pressione dei manifestanti, più di dieci
anni dalle proteste di Genova durante le quali morì, vittima
di una pallottola sparata da un agente delle forze dell'ordine,
l'attivista Carlo Giuliani, e poco più di sette da quella giornata
di riflessione del 13 marzo 2004 nella quale la folla, indignata
per le menzogne del governo del Partido Popular, sfidò il sistema politico con
uno spiegamento di disobbedienza massiva.
Eppure, il 15M ha fatto sì che tutti quegli eventi non appartengano al passato
ma, semmai, a un futuro anteriore.
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