Autore Henry James
Titolo La fonte sacra
EdizioneEinaudi, Torino, 1989 [1984], Gli struzzi 351 , pag. 236, cop.fle., dim. 11,4x19,5x1,6 cm
OriginaleThe Sacred Fount [1901]
PrefazioneSergio Perosa
TraduttoreSergio Perosa
LettoreAngela Razzini, 1990
Classe classici statunitensi












 

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Pagina 3

I


Era il caso, mi parve - prevedendosi una numerosa comitiva - di cercare di vedere alla stazione gli altri, probabili amici o magari nemici, che fossero della partita. Simili anticipazioni, è vero, erano fonte di timori quando non alimentavano speranze, ma bisognava aggiungere che talvolta, in simili casi, sorgevano ambiguità alquanto felici. Nello scompartimento, ci si trovava di fronte il cipiglio di persone che l'indomani, dopo la prima colazione, si sarebbero dimostrate deliziose; ci si sentiva rivolgere la parola da gente che in seguito avrebbe rivelato scarsa socievolezza; si fondavano fiduciose speranze su altri che non sarebbero piú riapparsi - che si sarebbero fermati a Birmingham. Ma non appena scorsi Gilbert Long, un po' piú avanti sul marciapiede, lo riconobbi come uno dei miei elementi. La considerazione non dipese tanto dal mio desiderio, quanto dal fatto che mi ricordai d'averlo già incontrato piú d'una volta a Newmarch. Era un amico di casa - lui non si sarebbe fermato a Birmingham. Nello stesso tempo, tanto poco mi aspettavo d'esserne riconosciuto, che m'arrestai prima della carrozza presso cui indugiava, e mi cercai un posto che non ci avrebbe resi vicini.

L'avevo incontrato soltanto a Newmarch - un luogo d'un fascino cosí speciale da creare un certo legame fra i suoi frequentatori; ma nel frattempo non era mai successo che mi riconoscesse, tanto che io potevo soltanto ritenerlo stupido, se non volevo considerarlo insolente. Di fatto, era stupido, e in quanto tale Newmarch non era posto per lui: ma senza dubbio egli aveva anche un suo sistema, che applicava senza discernimento. Mi chiesi, mentre facevo sistemare nell'angolo le mie cose, cosa ci trovasse in lui Newmarch - perché Newmarch doveva sempre scorgere qualcosa prima di fare un cenno. Forse era la sua sorprendente avvenenza ad aprirgli la via - il suo metro e ottanta e passa di statura, i capelli un po' corti, fittamente riccioluti, il gran volto sbarbato e radioso. Era un bel mobile umano - faceva apparire piú folto un crocchio di persone. Questa, almeno, era l'impressione che ne avevo avuto prima di ridiscendere sul marciapiede e sulle prime mi trovai provvisto solo di meraviglia al vederlo dirigersi verso di me come per salutarmi. Se finalmente aveva deciso di trattarmi come un conoscente, era pur sempre il caso di lasciare che fosse lui a venire fin da me. E fu proprio quel che fece, e con tanta naturalezza, mi affretto ad aggiungere, che in capo a un minuto conversavamo assieme come se fra noi ci fosse stata una tradizione di immediata intimità. Era molto avvenente - lo notai di nuovo - ma non piú un modello di avvenenza, come m'era sembrato di ricordare; d'altro canto i suoi modi s'eran fatti distintamente piú disinvolti. Accennò ai nostri precedenti incontri e agli amici comuni - si disse lieto che fossi anch'io della partita; diede un'occhiata al mio scompartimento e gli parve migliore del suo. Un minuto dopo chiamò un facchino che gli trasferisse i bagagli, e mentre badava a quella bisogna, io ravvisai altri della comitiva, che stavano trovando o già avevano trovato posto.

Ciò durò finché Long non ritornò col facchino, e con una signora che io non conoscevo, e alla quale egli aveva evidentemente detto che avrebbe potuto comodamente sistemarsi nel nostro scompartimento. Il facchino le portava infatti la borsa da viaggio, che depose su un posto libero, dando quindi modo alla signora di volgersi subito verso di me con un rimprovero:

«Non mi pare sia molto carino da parte sua non rivolgermi la parola».

Sbarrai gli occhi, ma subito la sua voce mi rivelò la sua identità: e riflettei che avrebbe potuto facilmente considerarmi la stessa specie di somaro che io avevo considerato Long. Giacché era evidente che non era altri che Grace Brissenden. Avevamo lo scompartimento tutto per noi, e viaggiammo cosí per piú d'un'ora, durante la quale, nel mio angolo, ebbi i miei compagni di fronte. Sulle prime prendemmo a conversare un po', ma quando il treno - un diretto - cominciò a sfrecciare veloce e a sferragliare in proporzione, rinunciammo allo sforzo di competere con la sua musica. Nel frattempo, però, c'eravamo scambiati una o due informazioni da rimuginare in silenzio. Brissenden sarebbe venuto piú tardi - e la cosa non era poi tanto importante. Ma sua moglie era informata, sapeva dei vari altri che avremmo incontrato; in attesa della partenza aveva nominato persone e cose; ci aveva detto che Obert, dell'Accademia-Reale, era già sul treno, che suo marito avrebbe accompagnato Lady John, che la signora Froome e Lord Lutley, secondo la nuova bellissima moda, partivano, viaggiavano e arrivavano assieme - col seguito dei servitori, per giunta, come si fosse trattato d'una stessa famiglia. Mi sovvenne, mentre stavo lí seduto, che quando aveva detto che Lady John sarebbe stata accompagnata da Brissenden, il terzo membro del nostro trio aveva espresso interesse e sorpresa - e li aveva espressi in modo da farle rispondere con un sorriso: «Davvero non Io sapeva?» Il colloquio s'era svolto sul marciapiede mentre, approfittando dell'ultimo minuto, rimanevamo nei pressi della sportello.

«Perché mai dovrei saperlo? »

Ed ella, amabilmente, s'era limitata a rispondere:

«Oh, è solo che pensavo che lei sapesse sempre!»

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