Autore Naomi Klein
Titolo Una rivoluzione ci salverà
SottotitoloPerché il capitalismo non è sostenibile
EdizioneRizzoli, Milano, 2015 , pag. 736, cop.ril.sov., dim. 14x22x4,7 cm , Isbn 978-88-17-07927-3
OriginaleThis Changes Everything. Capitalism vs. The Climate [2014]
TraduttoreMonica Bottini, Daniele Didero, Natalia Sabatini, Leonardo Taiuti
LettoreRiccardo Terzi, 2015
Classe economia , ecologia , energia , natura , politica , movimenti , globalizzazione , paesi: Canada , paesi: USA












 

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Indice


Introduzione                                      9


                     PARTE PRIMA
               UNA PESSIMA TEMPISTICA

1.    La destra ha ragione                       49

2.    Soldi che scottano                         95

3.    Pubblico e privato                        138

4.    Pianificare e vietare                     171

5.    Oltre l'estrattivismo                     225


                     PARTE SECONDA
                SOGNARE A OCCHI APERTI

6.    Dare frutto senza mettere radici          261

7.    Nessun messia                             312

8.    Offuscare il Sole                         345


                      PARTE TERZA
                COMINCIARE IN OGNI CASO

9.    Blockadia                                 393

10.   L'amore salverà questo posto              451

11.   Voi e quale esercito?                     488

12.   Condividere il cielo                      514

13.   Il diritto di rigenerare                  553


Conclusione                                     595
Ringraziamenti                                  619

Note                                            627
Indice dei nomi                                 729


 

 

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È inutile dire che questo «piano Marshall per la Terra» sarebbe molto costoso: si parla di centinaia di miliardi — se non trilioni — di dollari (la Navarro Llanos era riluttante a indicare una cifra). E magari qualcuno avrà pensato che un costo del genere sarebbe bastato già da solo a fermare la proposta sul nascere: in fondo eravamo nel 2009, nel pieno imperversare della crisi finanziaria globale. Tuttavia, la logica opprimente dell'austerity — far pagare i conti dei banchieri alla popolazione sotto forma di licenziamenti nel settore pubblico, chiusure delle scuole eccetera — non era ancora diventata la normalità; così, anziché far sembrare meno plausibili le idee della Navarro Llanos, la crisi aveva l'effetto opposto.

Tutti noi avevamo appena assistito a come, nel momento in cui le nostre élite decidevano di dichiarare una crisi, venivano messi in campo trilioni di dollari: se avessimo lasciato fallire le banche, ci dicevano, il resto dell'economia sarebbe crollato. Era una questione di sopravvivenza collettiva e occorreva quindi trovare il denaro necessario. Nel frattempo, vennero messe in luce alcune grandi illusioni del nostro sistema economico (Ti servono più soldi? Stampali!). Qualche anno prima i governi avevano adottato un simile approccio alle finanze pubbliche dopo gli attacchi terroristici dell'11 settembre: in molti Paesi occidentali, quando si trattava di costruire gli apparati di sicurezza e sorveglianza in patria e di condurre operazioni militari all'estero, i bilanci non sembravano mai essere un problema.

Tuttavia, i nostri leader non hanno mai concesso al cambiamento climatico lo stesso trattamento riservato a queste crisi, benché il rischio da esso comportato — in termini di perdite di vite umane — superi di gran lunga quello legato al crollo di qualche banca o di qualche grattacielo. I tagli alle emissioni di gas serra invocati dagli scienziati come necessari per ridurre grandemente il pericolo di catastrofi vengono considerati semplici suggerimenti indicativi, azioni da poter rimandare più o meno all'infinito. Certo, ciò che è definito una crisi non è solo realtà dei fatti, bensì un'espressione di potere e di priorità. Nonostante tutto, non siamo obbligati a fare da semplici spettatori. I politici non sono i soli ad avere il potere di dichiarare una crisi: possono farlo anche i movimenti di massa di gente comune.

Per le élite britanniche e americane, la schiavitù non fu una crisi finché l'abolizionismo non la rese tale. La discriminazione razziale non fu una crisi finché non fu resa tale dal movimento per i diritti civili. La discriminazione sessuale non fu una crisi fino all'arrivo del femminismo. L'apartheid non fu una crisi finché non venne resa tale dal movimento anti-apartheid.

Analogamente, se un numero sufficiente di persone smettesse di voltarsi dall'altra parte e decidesse che il cambiamento climatico è una crisi degna di una risposta al livello di un piano Marshall, esso diverrebbe davvero una crisi e la classe politica dovrebbe rispondere in modo adeguato, sia rendendo disponibili le risorse per affrontarla, sia piegando quelle regole del libero mercato che si sono dimostrate così flessibili quand'erano in gioco gli interessi delle caste. Di tanto in tanto, quando una particolare crisi ci costringe a una riflessione sul cambiamento climatico, cogliamo un barlume di questa potenzialità. «I soldi non sono un problema in questa missione di soccorso. Spenderemo tutto il denaro che si mostrerà necessario» ha dichiarato il primo ministro britannico David Cameron — mister Austerity in persona — quando vaste aree del suo Paese si sono ritrovate sommerse dopo la storica alluvione del febbraio 2014 e l'opinione pubblica era infuriata perché il suo governo non stava facendo abbastanza per aiutare la gente.

Ascoltando l'ambasciatrice Navarro Llanos presentarmi la prospettiva boliviana, ho iniziato a comprendere come il cambiamento climatico — se trattato al pari di una vera emergenza planetaria, come le inondazioni conseguenti alla crescita del livello delle acque — potrebbe diventare una forza galvanizzante per l'umanità: non solo ci lascerebbe tutti più protetti dagli eventi meteorologici estremi, ma renderebbe le nostre società più sicure e più giuste sotto un'altra serie di profili. Le risorse necessarie per abbandonare in fretta i combustibili fossili e prepararci ai turbamenti meteorologici che ci attendono potrebbero infatti sollevare dalla miseria larghissimi strati dell'umanità, offrendo alle popolazioni quei servizi di cui ora sono prive, dall'acqua pulita all'elettricità. Questa visione del futuro non si limita alla mera questione di sopravvivenza o resistenza al cambiamento climatico, e va oltre le strategie di «mitigazione» o «adattamento» (nel cupo linguaggio delle Nazioni Unite). È una visione in cui ci serviamo collettivamente della crisi per saltare da qualche altra parte, per raggiungere una situazione che, in tutta franchezza, mi sembra migliore di quella in cui ci troviamo oggi.

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Non c'è nulla di cui stupirsi. Trovare nuovi modi per privatizzare i beni comuni e trarre profitto dai disastri è proprio ciò per cui il nostro attuale sistema è costruito: abbandonato a se stesso, non è in grado di fare altro. La dottrina dello shock, comunque, non è l'unico modo in cui le società rispondono alle crisi: lo abbiamo visto negli ultimi anni, quando il tracollo finanziario iniziato a Wall Street nel 2008 si è ripercosso in tutto il mondo. Un improvviso aumento nei prezzi dei generi alimentari ha contribuito a creare le condizioni per la Primavera araba. Le politiche di austerità hanno ispirato movimenti di massa dalla Grecia alla Spagna, dal Cile agli Stati Uniti al Québec. Molti di noi stanno diventando sempre più abili a tener testa a quanti vorrebbero sfruttare con cinismo le crisi per saccheggiare la sfera pubblica. Tuttavia, queste proteste ci hanno anche insegnato che non basta dire di no: se i movimenti di opposizione non vogliono limitarsi a una brillante fiammata per poi estinguersi, devono avere una visione complessiva ed esauriente di ciò che dovrebbe emergere al posto del nostro fatiscente sistema, così come devono pianificare strategie politiche serie che li guidino nel perseguimento di tali obiettivi.

Un tempo i progressisti sapevano come fare. C'è una ricca storia di grandi vittorie populiste ottenute sul fronte della giustizia sociale ed economica nel bel mezzo di una qualche crisi di larga scala: tra queste, le più degne di nota sono le politiche del New Deal, implementate a seguito del crollo del mercato del 1929, e la nascita di innumerevoli programmi sociali dopo la Seconda guerra mondiale. Il supporto elettorale per queste politiche era tale che, per tradurle in legge, non c'era bisogno di ricorrere a quel genere di imbrogli autoritari che ho documentato in Shock economy

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Così, la mia mente continua a ritornare alla domanda: che cosa c'è che non va in noi? Che cosa ci trattiene davvero dallo spegnere l'incendio che minaccia di ridurre in cenere la nostra casa collettiva?

Penso che la risposta sia molto più semplice di quello che molti ci hanno spinto a credere: non abbiamo intrapreso le azioni necessarie a ridurre le emissioni perché esse sono sostanzialmente in conflitto con il capitalismo deregolamentato, ossia con l'ideologia imperante nel periodo in cui cercavamo di trovare una via d'uscita alla crisi. Siamo bloccati perché le azioni che garantirebbero ottime chance di evitare la catastrofe – e di cui beneficerebbe la stragrande maggioranza delle persone – rappresentano una minaccia estrema per quell'élite che tiene le redini della nostra economia, del nostro sistema politico e di molti dei nostri media. Se si fosse presentato in altre circostanze della nostra storia, il problema del cambiamento climatico forse non sarebbe stato insormontabile. Purtroppo, però, per grande sfortuna collettiva, la comunità scientifica ha formulato la diagnosi decisiva riguardo alla minaccia climatica proprio nel picco di potere sul piano politico, culturale e intellettuale goduto dalle élite dagli anni Venti a oggi. In effetti, i governi e gli scienziati hanno iniziato a discutere seriamente di un taglio radicale delle emissioni dei gas serra nel 1988, ovvero nell'anno che ha segnato l'alba della cosiddetta «globalizzazione» con la firma dell'accordo fra Canada e Stati Uniti che dava vita al più grande rapporto economico bilaterale del mondo, poi ampliato nel NAFTA (North American Free Trade Agreement, l'Accordo di libero scambio fra gli Stati nordamericani), con l'inclusione del Messico.

In futuro, quando gli storici prenderanno in esame gli ultimi venticinque anni di negoziati internazionali, emergeranno due processi significativi: il processo climatico, che ha arrancato a fatica, mancando completamente i propri obiettivi; e il processo della globalizzazione economica voluta dalle corporation, saltato di vittoria in vittoria, dal primo accordo di libero scambio alla WTO, dalla privatizzazione di massa delle economie dell'ex Unione Sovietica alla trasformazione di vaste regioni asiatiche in zone di libero scambio e all'«aggiustamento strutturale» dell'Africa. Certo, anche quest'ultimo processo ha subìto qualche battuta d'arresto (per esempio, quando l'opposizione popolare ha bloccato qualche negoziato commerciale o qualche accordo di libero scambio), ma l'ideologia alla base dell'intero progetto, che in realtà non ha mai riguardato il commercio di beni attraverso le frontiere (vendere vino francese in Brasile, per esempio, o software statunitensi in Cina), ha conquistato un successo duraturo. Ci si è sempre serviti di questi accordi di ampia portata, insieme a tutta un'altra serie di strumenti, per stabilizzare un quadro politico globale tale da garantire alle multinazionali la massima libertà di produrre i propri beni al costo più basso possibile e di venderli sottostando al minor numero possibile di normative, il tutto pagando il minimo possibile di tasse. Concedendo alle grandi imprese tutti questi benefici, ci avevano detto, avremmo alimentato la crescita economica, i cui frutti si sarebbero infine riversati su ognuno di noi. I singoli accordi commerciali erano importanti solo nella misura in cui si allineavano con questa agenda politico-economica più ampia, articolandola nei dettagli.

I tre pilastri politici di questa nuova era ci sono fin troppo familiari: la privatizzazione della sfera pubblica, la deregolamentazione del settore delle corporation e la riduzione delle tasse a carico di queste ultime, finanziata con i tagli alla spesa pubblica. Molto è stato scritto sui costi reali di tali politiche: l'instabilità dei mercati finanziari, gli eccessi degli ultraricchi e la disperazione dei poveri (sempre più sacrificabili), nonché il declino delle infrastrutture e dei servizi pubblici. Molto poco, però, è stato scritto su come il fondamentalismo di mercato ha sistematicamente sabotato, fin dai primi momenti, la nostra risposta collettiva al cambiamento climatico, una minaccia che si è affacciata proprio mentre questa ideologia raggiungeva il suo apogeo.

Il problema centrale è stato che il ferreo controllo esercitato dalla logica di mercato sulla vita pubblica in questo periodo storico ha fatto sì che le risposte più dirette e scontate al cambiamento climatico sembrassero eresie politiche. Com'era possibile, per esempio, che le società investissero somme enormi nelle infrastrutture e nei servizi pubblici a zero emissioni carboniche in un momento in cui la sfera pubblica veniva sistematicamente smantellata e messa all'asta? Com'era possibile che i governi imponessero pesanti regolamentazioni, tasse e sanzioni alle compagnie del settore dei combustibili fossili proprio mentre tutte queste misure venivano liquidate come residuati di un comunismo basato su «comando e controllo»? E com'era possibile che il settore delle energie rinnovabili ricevesse il supporto e la protezione di cui aveva bisogno per rimpiazzare i combustibili fossili quando il termine stesso «protezionismo» era diventato una parolaccia?

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Esaminerò più in profondità questi dati nel capitolo 2, per ora ci interessa soltanto il punto centrale: che, cioè, il nostro sistema economico e il nostro sistema planetario sono oggi in conflitto. O, per essere più precisi, che la nostra economia è in conflitto con molte forme di vita sulla Terra, compresa la stessa vita umana. Da un lato, ciò di cui il clima ha bisogno per evitare il collasso è una contrazione nel nostro modo di utilizzare le risorse; dall'altro, il nostro modello economico richiede, per evitare il collasso, una continua espansione senza vincoli. Solo uno di questi due insiemi di regole può essere cambiato, è non è quello delle leggi di natura.

Per fortuna, è possibile trasformare la nostra economia in modo da ridurre lo sfruttamento delle risorse; ed è possibile farlo secondo modalità eque, proteggendo i soggetti più vulnerabili e addossando il grosso del carico ai maggiori responsabili della crisi. Possiamo incoraggiare i settori economici a basse emissioni carboniche a espandersi e creare posti di lavoro e quelli ad alte emissioni carboniche a restringersi. Il problema, però, è che un processo di pianificazione e gestione economica su questa scala è totalmente al di fuori della portata dell'ideologia imperante: l'unico tipo di contrazione che l'odierno sistema sia in grado di gestire è un crollo brutale, dove sono i soggetti più vulnerabili a soffrire maggiormente.

Ci troviamo così di fronte a una dura scelta: permettere che lo sconvolgimento del clima trasformi ogni aspetto del nostro mondo oppure cambiare quasi ogni aspetto della nostra economia per scongiurare questa sorte. Occorre però essere molto chiari: avendo sprecato decenni a negare collettivamente il problema, oggi non abbiamo più a disposizione opzioni graduali, incrementali. I leggeri ritocchi allo status quo non sono più un'opzione in campo climatico, da quando, negli anni Novanta, abbiamo ingigantito il «sogno americano» rendendolo globale. E non sono più soltanto i radicali a ravvisare la necessità di un cambiamento estremo e risolutivo. Nel 2012 ventuno vincitori delle scorse edizioni del prestigioso premio Blue Planet (un gruppo che comprende James Hansen – ex direttore del Goddard Institute for Space Studies della NASA – e Gro Harlem Brundtland, ex primo ministro norvegese) hanno redatto uno storico rapporto che dichiarava: «Di fronte a un'emergenza senza precedenti, la società non ha altra scelta se non quella di prendere una drastica iniziativa per evitare il collasso della civiltà. O cambieremo i nostri stili di vita costruendo un tipo del tutto nuovo di società globale, oppure sarà il mondo a cambiarli per noi».

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Presentando íl cambiamento climatico come uno scontro fra il capitalismo e il pianeta, non sto dicendo nulla di nuovo. La battaglia è già iniziata, ma per ora il capitalismo sta vincendo a mani basse. Vince ogni volta che la necessità della crescita economica viene accampata come scusa per rimandare una volta di più le iniziative a favore del clima o per infrangere gli impegni già presi sul fronte della riduzione delle emissioni. Vince quando ai greci viene detto che la loro unica via d'uscita dalla crisi economica consiste nell'aprire i loro splendidi mari a trivellazioni ad alto rischio per l'estrazione di gas e petrolio. Vince quando i canadesi si sentono dire che la loro unica speranza di non fare la fine della Grecia è permettere che le foreste boreali vengano spianate per poter estrarre il bitume semisolido dalle sabbie dell'Alberta. Vince quando un parco di Istanbul viene abbattuto per far posto all'ennesimo centro commerciale. Vince quando a Pechino i genitori si sentono dire che il fatto di mandare i loro figli a scuola ansimanti sotto le maschere antinquinamento (foggiate in modo da assomigliare ai personaggi dei cartoni animati) è un prezzo accettabile da pagare per il progresso economico. Vince ogni volta che ci rassegniamo a dover scegliere soltanto fra cose negative: austerità o trivellazioni, avvelenamento o povertà.

La sfida, quindi, non si riduce a spendere tanto denaro e cambiare molte politiche: prima che tali cambiamenti divengano anche solo possibili, dobbiamo imparare a pensare in un modo diverso, radicalmente diverso. Oggi il trionfo della logica di mercato, con il suo ethos incentrato sul predominio e la competizione spietata, sta paralizzando quasi tutti i tentativi seri di rispondere al cambiamento climatico. L'accanita competizione fra le nazioni ha bloccato per decenni i negoziati climatici all'ONU: i Paesi ricchi puntano i piedi e dichiarano che non taglieranno le emissioni, perché rischierebbero di perdere la loro posizione privilegiata nella gerarchia globale; i Paesi poveri, dal canto opposto, affermano che non intendono rinunciare al loro diritto di inquinare tanto quanto hanno fatto i Paesi ricchi nella loro strada verso il successo, anche se ciò significa aggravare un disastro che colpisce soprattutto i poveri. Perché una simile situazione possa cambiare, occorre una visione del mondo in cui la natura, le altre nazioni e i nostri vicini non siano considerati come avversari bensì come partner in un grande progetto comune di reinvenzione.

Non è una domanda da poco, ma le cose si stanno facendo sempre più difficili. A causa dei nostri infiniti rinvii, oggi dobbiamo far partire questa imponente trasformazione senza alcun indugio. L'International Energy Agency (IEA) avverte che se non riusciamo a mettere sotto controllo le nostre emissioni entro il 2017 — una data tremendamente vicina — la nostra economia fondata sui combustibili fossili ci porterà a livelli di riscaldamento dalla pericolosità estrema. «A quel punto, le infrastrutture energetiche già in piedi genereranno tutte le emissioni di CO2 consentite» dal nostro bilancio carbonico al fine di limitare il riscaldamento a 2 gradi Celsius, «non lasciando così nessuno spazio per la costruzione di ulteriori centrali elettriche, fabbriche e infrastrutture — a meno che non siano a emissioni zero, cosa che risulterebbe estremamente costosa.»

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La strategia proposta in questo libro è quindi diversa: pensare in grande, scendere in profondità e allontanare il polo ideologico da quel soffocante fondamentalismo di mercato che rappresenta il più grande nemico per la salute del pianeta. Se riusciamo a spostare — anche solo di poco — il nostro contesto culturale, ci sarà un po' di margine di manovra per quelle politiche riformiste assennate che, perlomeno, potranno iniziare a far sì che i valori dell'anidride carbonica atmosferica prendano a muoversi nella direzione giusta. Dopodiché, dato che una vittoria tira l'altra, chi può dire come andranno a finire le cose? Magari, nel giro di pochi anni, alcune delle idee presentate in queste pagine, che oggi suonano quantomeno radicali — come un reddito di base per tutti, la riscrittura delle leggi commerciali o un reale riconoscimento del diritto delle popolazioni indigene a proteggere enormi parti del mondo dalle estrazioni inquinanti —, inizieranno a sembrare ragionevoli, o forse addirittura fondamentali.

Per un quarto di secolo abbiamo tentato l'approccio soft del cambiamento incrementale, cercando di piegare le necessità fisiche del pianeta al bisogno, da parte del nostro modello economico, di una costante crescita e di nuove opportunità di profitto. I risultati sono stati disastrosi e ci hanno lasciati in un pericolo molto più grande di quando avevamo iniziato.

Certo, non è detto che un approccio più sistematico avrà maggior successo (anche se, come vedremo più avanti, non mancano precedenti storici che ci fanno ben sperare). In realtà questo è il libro più difficile che io abbia mai scritto, proprio perché la ricerca mi ha condotto a esaminare risposte tanto radicali. Non ho dubbi riguardo alla loro necessità, ma ogni giorno mi interrogo sulla loro fattibilità politica, soprattutto considerando le rigide scadenze che il cambiamento climatico ci impone.

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Commercio e clima: due processi isolati

Durante questo periodo di rapido cambiamento, i negoziati commerciali e quelli sul clima procedevano di pari passo su strade parallele, raggiungendo una serie di storici traguardi a distanza di un paio d'anni l'uno dall'altro. Nel 1992 i governi si incontrarono per il primo Summit sulla Terra dell'ONU a Rio, dove firmarono la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (UNFCCC, United Nations Framework Convention on Climate Change), che avrebbe fatto da punto di partenza per tutti i successivi negoziati climatici. Quello stesso anno venne siglato anche l'Accordo di libero scambio fra gli Stati nordamericani (NAFTA, North American Free Trade Agreement), che sarebbe entrato in vigore due anni dopo. Sempre nel 1994 si conclusero i negoziati per la creazione della WTO, il nuovo organo per il controllo degli scambi globali che avrebbe fatto il suo debutto l'anno seguente. Nel 1997 venne adottato il protocollo di Kyoto, con i primi obiettivi vincolanti per la riduzione delle emissioni. Nel 2001 la Cina entrò a far parte a pieno titolo della WTO, al culmine di un processo di liberalizzazione del commercio e degli investimenti iniziato decenni prima.

La cosa che più colpisce in questi processi paralleli (commerciale e climatico) è come siano rimasti isolati l'uno dall'altro. Sembrava quasi che ognuno di essi fingesse che l'altro non esistesse, ignorando persino le più elementari domande sull'impatto che ciascuno avrebbe avuto sull'altro. Per esempio: che impatto avrebbero avuto le distanze molto più lunghe ora percorse (su navi portacontainer e jumbo jet ultrainquinanti, oppure a bordo di tir diesel) dai beni basilari sulle emissioni carboniche che i negoziati sul clima si proponevano di ridurre? O ancora: che impatto avrebbero avuto le forti protezioni imposte — sotto l'egida della WTO — per i brevetti tecnologici sulle richieste, avanzate dalle nazioni in via di sviluppo nel corso dei negoziati climatici, di trasferimenti gratuiti di tecnologie verdi per aiutarle a creare un'economia a basse emissioni carboniche? E, cosa forse più importante di tutte, in che misura le clausole per cui società private potevano adire le vie legali contro i governi nazionali (riguardo quelle leggi che ne avessero limitato i profitti) avrebbero dissuaso i governi dall'adottare normative antinquinamento rigorose, proprio per timore di essere citati in giudizio?

I negoziatori dei governi non discussero di questi problemi e non ci fu alcun tentativo di risolvere le palesi contraddizioni fra i due processi. E nessuno si chiese mai chi avrebbe vinto qualora i due progetti in competizione — tagliare le emissioni da una parte, abbattere le barriere commerciali dall'altra — fossero entrati in diretto conflitto. Di fatto, gli impegni presi durante i negoziati climatici funzionavano tutti nel quadro di un sistema basato sulla fiducia, con un meccanismo debole e poco minaccioso per sanzionare i Paesi che non onoravano le promesse. Gli impegni assunti sotto gli accordi commerciali, dal canto opposto, venivano fatti rispettare tramite un sistema di risoluzione delle dispute dotato di poteri reali, e la mancata osservanza delle clausole avrebbe portato i governi di fronte a un tribunale commerciale, spesso con la prospettiva di vedersi comminare una pesante sanzione.

In definitiva, la gerarchia era talmente chiara che i negoziatori climatici dichiararono formalmente la loro subordinazione al sistema commerciale fin dall'inizio. L'accordo sul clima firmato al Summit della Terra di Rio del 1992 affermava infatti con chiarezza che «le misure adottate per combattere il cambiamento climatico, incluse quelle unilaterali, non dovrebbero costituire [...] delle forme mascherate di restrizioni sul commercio internazionale». (Espressioni simili compaiono anche nel testo del protocollo di Kyoto.) Come dichiara il politologo australiano Robyn Eckersley, questo è stato «il momento cruciale che ha plasmato il rapporto fra il regime commerciale e quello climatico», perché «anziché spingere per la ricalibrazione delle norme commerciali internazionali in modo che si conformassero ai requisiti della protezione climatica [...] i negoziatori del regime climatico hanno garantito che il libero scambio e l'espansione dell'economia globale sarebbero stati protetti da quelle politiche climatiche che avrebbero potuto rivelarsi restrittive per gli scambi». Ciò, in pratica, assicurava che il processo dei negoziati climatici non avrebbe neppure potuto prendere in considerazione quella sorta di misure coraggiose ma «restrittive per gli scambi» che si sarebbero potute coordinare a livello internazionale (dalle clausole sull'acquisto locale nei programmi per le energie rinnovabili alle restrizioni sul commercio dei prodotti con impronte carboniche particolarmente elevate).

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Gli accordi commerciali internazionali sono stati solo una delle ragioni per cui i governi hanno abbracciato questo particolare modello di sviluppo rapido e inquinante, orientato alle esportazioni; ogni Paese aveva le sue peculiarità. In molti casi (ma non in quello della Cina), le condizioni legate ai prestiti concessi dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale sono state uno dei fattori determinanti, così come l'ortodossia economica impartita a quegli studenti delle élite che avevano frequentato atenei come Harvard e l'Università di Chicago. Questi e altri fattori hanno avuto un ruolo nel plasmare quello che veniva indicato (mai in tono ironico) come il «Consenso di Washington». Alla base di tutto c'è sempre la costante spinta verso una crescita economica infinita, una spinta le cui radici – come vedremo più avanti – sono molto più profonde della storia commerciale degli ultimi decenni. Non ci sono però dubbi sul fatto che l'odierna architettura degli scambi e l'ideologia economica da essa incarnata abbiano avuto un ruolo centrale nel far salire alle stelle le emissioni.

Questo perché una delle principali forze propulsive del sistema commerciale progettato negli anni Ottanta e Novanta è sempre stata la volontà di concedere alle multinazionali la libertà di perlustrare il globo alla ricerca della forza lavoro più economica e meglio sfruttabile. Questa ricerca è passata per le fabbriche d'assemblaggio del Messico e dell'America centrale e si è soffermata a lungo nella Corea del Sud; alla fine degli anni Novanta, però, quasi tutte le strade portavano in Cina: un Paese dove le paghe erano straordinariamente basse, c'era una brutale repressione dei sindacati e lo Stato era disposto a spendere fondi in apparenza illimitati in enormi progetti di infrastrutture (porti moderni, reti di autostrade, innumerevoli centrali elettriche a carbone, imponenti dighe), il tutto per assicurarsi che le fabbriche fossero sempre attive e che i beni arrivassero dalle catene di montaggio alle navi portacontainer nei tempi stabiliti. In altre parole, era il sogno degli amanti del libero mercato, ma un incubo per l'ambiente.

Un incubo perché c'è una stretta correlazione fra bassi stipendi ed emissioni elevate; o, per citare Malm, c'è «un rapporto causale fra la ricerca di forza lavoro disciplinata e a buon mercato e l'aumento delle emissioni di CO2». E perché mai non dovrebbe esserci? Quella stessa logica che vuole sfruttare gli operai fino all'osso, facendoli lavorare tutto il giorno per qualche spicciolo, sarà anche pronta a bruciare montagne di carbone senza spendere quasi nulla per i controlli antinquinamento, perché questo è il modo più economico per produrre. Così, quando le fabbriche si trasferivano in Cina, diventavano anche molto più sporche. Come evidenzia Malm, tra il 1995 e il 2000 l'uso del carbone in Cina era in leggero declino, ma con il boom dell'industria manifatturiera è tornato di nuovo a lievitare. Non è che le aziende che andavano a produrre in Cina volessero far salire le emissioni: cercavano manodopera a basso costo, e hanno trovato un pacchetto tutto compreso che con lo sfruttamento dei lavoratori includeva lo sfruttamento del pianeta. La destabilizzazione del clima è il prezzo del capitalismo globale deregolamentato, la sua conseguenza non intenzionale ma inevitabile.

Il nesso tra inquinamento e sfruttamento del lavoro è sempre esistito, fin dai primi giorni della Rivoluzione industriale. In passato, però, quando i lavoratori si organizzavano per ottenere paghe più alte e quando i cittadini si univano per chiedere un'aria più pulita, le imprese erano perlopiù costrette a migliorare sia gli standard lavorativi sia quelli ambientali. Con l'avvento del libero scambio tutto si è modificato: grazie alla rimozione di tutte le barriere che ostacolavano i flussi di capitali, ogni volta che i costi del lavoro iniziavano a salire, le corporation potevano fare i bagagli e trasferirsi altrove. È per questo che molti grandi produttori hanno lasciato la Corea del Sud per la Cina verso la fine degli anni Novanta, ed è sempre per questo che oggi numerose imprese stanno abbandonando la Cina, dove le paghe sono in aumento, per trasferirsi nel Bangladesh, dove sono notevolmente più basse. Quindi, i vestiti che indossiamo, i nostri oggetti elettronici e gli arredi che teniamo in casa saranno anche stati fabbricati in Cina, ma questo modello economico è stato elaborato principalmente negli Stati Uniti.

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Questi risultati — e altri simili — sono stati citati come una prova del fatto che, in tempi di ristrettezze economiche, le persone mettono da parte le loro preoccupazioni per l'ambiente; in realtà, però, non è questo ciò che viene dimostrato dai sondaggi. È vero, c'è stato un calo nella disponibilità dei singoli individui a sobbarcarsi il peso finanziario di rispondere al cambiamento climatico, ma non semplicemente a causa delle ristrettezze economiche. I governi occidentali hanno reagito alla crisi economica — provocata dalla corruzione e dall'avidità sfrenata che dilagano fra i loro cittadini più ricchi — chiedendo alle persone meno responsabili dell'odierna situazione di farsi carico del suo peso. Dopo aver pagato per la crisi dei banchieri con tagli all'istruzione, all'assistenza sanitaria e alle reti di sicurezza sociale, c'è forse da stupirsi che una cittadinanza tartassata non abbia affatto voglia di salvare anche le compagnie dei combustibili fossili da quella crisi che non solo hanno creato, ma che continuano attivamente ad aggravare?

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Pianificare e vietare
Collaborare con la mano invisibile, creare un movimento



                        «Il postmodernismo ha isolato il presente da ogni futuro.
                        I mezzi d'informazione ci mettono del loro isolandolo dal
                        passato. Il che significa che l'opinione critica è spesso
                        abbandonata al presente come un'orfana.»
                                        JOHN BERGER, Presentarsi all'appuntamento

                        «Perché una compagnia sia davvero verde, deve esserlo per
                        legge.»
                                   GUS SPETH, ex rettore della facoltà di scienze
                              forestali e ambientali all'Università di Yale, 2008



Per comprendere in quale modo l'ideologia del libero mercato continui a soffocare il potenziale dell'azione per il clima (climate action), è utile prendere in esame l'ultima volta in cui una trasformazione della portata necessaria è parsa una possibilità concreta, persino negli Stati Uniti. Mi riferisco al 2009, l'anno in cui la crisi finanziaria mondiale ha raggiunto l'apice, ma anche il primo anno della presidenza Obama.

Naturalmente è facile ragionare con il senno di poi, ma concedetemelo: immaginare come sarebbero potute andare le cose può chiarire ciò che forse il futuro è ancora in grado di creare.

Si è trattato di un momento in cui la storia avanzava a grandi balzi e nulla sembrava precluso, nel bene e nel male. A rendere plausibili scenari migliori era perlopiù il determinante mandato democratico appena conquistato da Obama. Il presidente era stato nominato sulla base di una piattaforma elettorale che prometteva di ricostruire l'economia reale di Main Street e di affrontare il cambiamento climatico del pianeta come, per citare le sue parole, «un'opportunità, perché se creeremo una nuova economia dell'energia, possiamo creare cinque milioni di nuovi posti di lavoro... Può essere il motore che ci porterà nel futuro nello stesso modo in cui il computer è stato il motore della crescita economica negli ultimi vent'anni». Sia le aziende di combustibili fossili sia il movimento ambientalista davano per scontato che il neoeletto avrebbe presto introdotto una coraggiosa legislazione sul clima.

Nel frattempo, in tutto il mondo la crisi finanziaria aveva appena scosso la fiducia della gente nell'economia liberista, tanto che persino negli USA in molti volevano infranti quei tabù ideologici di vecchia data che ostacolavano un intervento diretto sul mercato per creare occupazione. Questo diede a Obama il potere di ideare un programma di impulso all'economia del valore di circa 800 miliardi di dollari (e probabilmente avrebbe potuto chiederne di più).

L'altro fattore straordinario di quel momento fu la condizione di debolezza in cui versavano le banche: nel 2009 erano ancora in ginocchio e dipendevano da migliaia di miliardi di fondi di salvataggio e prestiti garantiti. Si accese un intenso dibattito sulle modalità con cui le banche dovessero essere ristrutturate per ricambiare i contribuenti di cotanta generosità (venne persino presa seriamente in considerazione la possibilità di statalizzarle). Un ulteriore fattore va ricordato: a partire dal 2008, due delle tre principali case automobilistiche americane (Big Three) – aziende al centro dell'economia basata sui combustibili fossili – avevano condotto così male i propri affari da essere a loro volta finite nelle mani del governo, incaricato di garantirne la sopravvivenza.

Tutti insieme, quei tre strepitosi motori dell'economia (le banche, le case automobilistiche e lo stimulus bill) conferivano a Obama e al suo partito un potere economico superiore a quello di qualunque altro governo statunitense dai tempi della presidenza di Franklin Delano Roosevelt. Immaginate per un momento cosa sarebbe accaduto se l'amministrazione Obama avesse fatto appello al suo recente mandato democratico per costruire la nuova economia promessa in campagna elettorale e avesse usato lo stimulus bill, le banche sull'orlo del tracollo e le case automobilistiche in crisi come mattoni con cui costruire un futuro verde. Immaginate se fosse esistito un movimento sociale forte – una robusta coalizione di sindacati, immigrati, studenti, ambientalisti e chiunque avesse visto i propri sogni ridotti in frantumi da quel modello economico fallimentare – a pretendere che Obama lo facesse.

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In mancanza di questi fattori, quel momento storico più unico che raro così carico di potenziale svanì rapidamente. Obama lasciò che le banche fallite agissero a loro discrezione, anche se la loro pessima gestione aveva messo a repentaglio l'economia dell'intero Paese. Le basi dell'industria automobilistica restarono intatte, e solo una nuova ondata di tagli nelle aziende palesò la crisi in atto: tra il 2008 e il 2014 l'industria manifatturiera ha perso quasi 115.000 posti di lavoro.

A dire il vero non è mancato un forte sostegno a favore dell'energia eolica e solare e di alcune iniziative verdi, come la riqualificazione energetica degli edifici prevista dallo stimulus bill: senza dubbio, come afferma il giornalista Michael Grunwald nel suo libro The New New Deal, il programma di incentivi di Obama corrispondeva al «più grande e innovativo progetto di legge sull'energia nella storia degli Stati Uniti». Tuttavia nei trasporti pubblici inspiegabilmente fu investito meno del dovuto, mentre l'infrastruttura che ottenne i maggiori stanziamenti fu la rete autostradale nazionale, una scelta palesemente sbagliata nell'ottica della tutela del clima. Questo fallimento non è imputabile solo a Obama, ma è stato globale, come ha osservato l'economista ecologica Julia Steinberger dell'Università di Leeds. La crisi finanziaria iniziata nel 2008 «avrebbe dovuto essere un'opportunità per investire in infrastrutture a basse emissioni di carbonio per il XXI secolo. Invece abbiamo creato una situazione molto grave: le emissioni sono schizzate a livelli senza precedenti, insieme all'aumento della disoccupazione, del costo dell'energia e delle disuguaglianze di reddito».

Quello che ha impedito a Obama di cogliere l'opportunità storica di stabilizzare l'economia e il clima al tempo stesso non è stata certo la mancanza di risorse o di potere: disponeva di entrambi in abbondanza. Ma è rimasto imprigionato tra le mura invisibili di un'ideologia dominante che ha convinto lui, come tutte le sue controparti politiche, che vi sia qualcosa di sbagliato nel dire alle multinazionali come devono condurre i loro affari persino quando stanno finendo sul lastrico, e che vi sia qualcosa di sinistro, addirittura di vagamente comunista, nell'avere un piano per costruire il tipo di economia di cui abbiamo bisogno, anche di fronte a una crisi esistenziale.

Naturalmente questa è solo un'altra eredità lasciata dalla controrivoluzione del libero mercato. Non più tardi dei primi anni Settanta un presidente repubblicano, Richard Nixon, era pronto a imporre il controllo dei salari e dei prezzi per salvare l'economia statunitense dalla crisi, proclamando che «adesso siamo tutti keynesiani». Ma negli anni Ottanta la battaglia di idee intrapresa dallo stesso gruppo di esperti di Washington che ora nega il cambiamento climatico era riuscita a equiparare il concetto stesso di pianificazione dell'industria ai piani quinquennali di Stalin. Quei guerrieri ideologici dichiaravano con convinzione che i veri capitalisti non pianificano, bensì fanno operare liberamente il movente del profitto e lasciano che il mercato, nella sua infinita saggezza, crei la miglior società possibile per tutti.

Ovviamente Obama non condivide questa visione estrema: come si deduce dalla sua politica sanitaria e sociale, è convinto che il governo debba incanalare le imprese nella giusta direzione. Tuttavia, in parte è anch'egli il risultato di un'epoca avversa alla pianificazione: quando aveva in mano le banche, le case automobilistiche e lo stimulus plan, li ha trattati come fardelli di cui liberarsi il prima possibile, anziché come una rara occasione di costruire un nuovo, entusiasmante futuro.

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La rapida crescita delle energie rinnovabili in Germania è un esempio lampante dell'efficacia di questo modello. La transizione è avvenuta, in primo luogo, nell'ambito di un ampio programma nazionale di tariffa di acquisto (feed-in) che include una serie di incentivi destinati ad assicurare che chiunque voglia entrare a far parte della generazione dell'energia rinnovabile possa farlo in modo semplice, stabile e proficuo. Ai fornitori viene riconosciuto un accesso prioritario alla rete elettrica e offerto un prezzo garantito, riducendo così il rischio di perdere denaro.

In questo modo sono stati incoraggiati a diventare fornitori di energia rinnovabile anche soggetti di piccole dimensioni, non legati alla grande impresa: aziende agricole, municipalità e centinaia di cooperative appena costituite. Così non si è decentralizzata solo l'energia elettrica, ma anche il potere politico e la ricchezza. In Germania circa la metà degli impianti per l'energia rinnovabile è nelle mani di agricoltori, gruppi di cittadini e circa 900 cooperative, che non solo producono energia, ma, rivendendola in parte alla rete, hanno anche la possibilità di generare profitti per la loro comunità. Nel complesso, si contano 1,4 milioni di istallazioni fotovoltaiche e circa 25.000 turbine eoliche; inoltre sono stati creati quasi 400.000 posti di lavoro.

Ognuna di queste misure rappresenta un distacco dall'ortodossia neoliberista: il governo si sta impegnando in un piano nazionale a lungo termine e sta scegliendo con cura chi vincerà sul mercato (le energie rinnovabili a discapito del nucleare, che sta cessando le attività). Inoltre, sta fissando i prezzi (una chiara intrusione sul mercato) e creando un equo terreno di gioco che consenta a ogni potenziale produttore di energia rinnovabile, grande o piccolo, di entrare nel mercato. Così, nonostante queste eresie ideologiche (o piuttosto grazie a esse), la conversione ecologica della Germania è tra le più rapide del mondo. Hans Thie, consulente di politica economica per Die Linke (La Sinistra) presso il Parlamento federale tedesco, è attivamente coinvolto in questa transizione, e afferma che «praticamente tutte le previsioni di crescita sono state superate. Lo sviluppo sta avvenendo a una velocità nettamente più elevata del previsto».

Questo successo non può certo essere liquidato come un evento più unico che raro. Il programma della Germania infatti rispecchia quello attuato in Danimarca negli anni Settanta e Ottanta, che ha portato a coprire oltre il 40 per cento del consumo elettrico nazionale con le energie rinnovabili, soprattutto l'eolica. Fin quasi al 2000, circa l'85 per cento delle turbine eoliche danesi apparteneva a piccoli produttori privati di energia, come agricoltori e cooperative. Anche se negli ultimi anni sono entrati nel mercato grossi fornitori di eolica off-shore, c'è uno straordinario punto in comune tra Danimarca e Germania: a raggiungere i risultati migliori nello spronare la transizione verso le rinnovabili non sono né i grossi monopoli statali né le multinazionali che producono energia solare ed eolica, bensì comunità, cooperative e agricoltori che lavorano all'interno di un contesto nazionale ambizioso e ben progettato.

Sebbene sia spesso derisa come la fantasia irrealizzabile di chi sogna che piccolo-è-bello, la decentralizzazione mantiene le sue promesse, e non su piccola scala, ma su una scala più grande di qualunque modello adottato sinora, e in nazioni postindustriali altamente sviluppate.

Inoltre, non è un caso che un Paese profondamente socialdemocratico come la Danimarca abbia introdotto queste politiche ben prima della sua poco entusiastica adesione al neoliberismo, o che la Germania – mentre imponeva austerità a Paesi debitori come la Grecia e la Spagna – non abbia mai seguito del tutto le stesse indicazioni a casa propria. Questi esempi dimostrano che quando un governo è disposto a presentare programmi coraggiosi e a prefiggersi obiettivi diversi dal profitto come punti fondamentali della propria politica, il cambiamento può verificarsi a una velocità sorprendente.

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La buona notizia per il movimento per la tutela del clima è che ci sono moltissimi altri settori che a loro volta hanno tutto l'interesse di ridurre l'influenza del denaro sui politici, in particolare negli Stati Uniti, il Paese che ha rappresentato il maggior ostacolo per l'iniziativa climatica. L'azione per il clima al Congresso americano è fallita proprio per gli stessi motivi per cui non è passata una seria riforma del settore finanziario dopo il crac del 2008, o per cui la riforma sulle armi da fuoco è stata bocciata anche dopo la terribile sparatoria nella scuola elementare di Newtown, nel Connecticut, nel 2012. Che sono poi gli stessi motivi per cui la riforma della sanità di Obama non è sfuggita alla cattiva influenza delle società di assicurazione sanitaria e delle aziende farmaceutiche. Tutti i tentativi di aggiustare queste pecche clamorose ed evidenti del sistema sono falliti perché le grandi multinazionali esercitano ancora un eccessivo potere sulla politica grazie a contributi per la propaganda spesso tenuti segreti, un accesso quasi illimitato agli enti di vigilanza grazie ai propri lobbisti, la famigerata «porta girevole» tra mondo degli affari e governo, e la «libertà di parola» concessa loro dalla Corte Suprema degli Stati Uniti. E sebbene la politica americana si sia spinta troppo oltre, nessuna democrazia occidentale ha un campo da gioco equo quando si tratta di accesso alla politica e di potere.

Queste storture sono in atto da così tanto tempo e danneggiano così tanti gruppi diversi, che molte menti brillanti hanno riflettuto per individuare che cosa ripulirebbe il sistema. Per quanto riguarda il cambiamento climatico, il problema non è certo una mancanza di «soluzioni»: le soluzioni sono chiare. Occorre vietare ai politici di ricevere donazioni dalle industrie che loro stessi devono regolamentare e di accettare assunzioni al posto delle tangenti; le donazioni politiche vanno rese pubbliche e devono avere un tetto massimo insormontabile; bisogna garantire diritto d'accesso all'etere a chi fa campagne. Inoltre le elezioni dovrebbero preferibilmente utilizzare fondi pubblici come costo base dell'avere una democrazia.

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[...] Da duecento anni ci diciamo che possiamo estrarre i neri resti di altre forme di vita dalle viscere della Terra e bruciarli in quantità massicce, e che le particelle portate dall'aria e i gas rilasciati nell'atmosfera – dal momento che non possiamo vederli – non produrranno alcun effetto di sorta. O se lo faranno, noi umani, brillanti come siamo, troveremo il modo per sfuggire al caos che abbiamo creato.

E non facciamo altro che autoassolverci con simili storie poco plausibili, su come possiamo saccheggiare il mondo senza alcun effetto avverso. E poi ci meravigliamo quando le cose non vanno così. Estraiamo e non riempiamo di nuovo e ci domandiamo perché i pesci siano scomparsi e perché il terreno richieda sempre più contributi (come il fosfato) per restare fertile. Occupiamo Paesi e armiamo le loro milizie e poi ci domandiamo come mai ci odino. Abbassiamo i salari, trasferiamo il lavoro oltremare, smettiamo di tutelare i lavoratori, svuotiamo le economie locali e poi ci domandiamo per quale ragione la gente non possa più spendere come un tempo. Offriamo a quegli acquirenti falliti mutui subprime invece di posti di lavoro stabili e poi ci chiediamo come mai nessuno avesse previsto che un sistema costruito sui debiti cattivi sarebbe collassato.

A ogni stadio le nostre azioni sono caratterizzate da una mancanza di rispetto per i poteri che stiamo scatenando – una certezza, o almeno una speranza, che la natura che abbiamo trasformato in immondizia e le persone che abbiamo trattato come immondizia non torneranno a cercarci.

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La lezione che Nauru ha da insegnare non riguarda però solo i pericoli delle emissioni derivanti dai combustibili fossili. Riguarda la mentalità che consentì a molti di noi, e ai nostri antenati, di credere di poterci relazionare con la Terra con una tale violenza — di scavare e trivellare per ottenere le sostanze che desideravamo, senza fermarci a pensare ai rifiuti che ci lasciavamo dietro, nel terreno o nell'acqua dove l'estrazione ha luogo, o nell'atmosfera, una volta che il materiale estratto è bruciato. Questa negligenza è al cuore di un modello economico che alcuni scienziati politici definiscono «estrattivismo», un termine originariamente utilizzato per descrivere economie basate sulla continua rimozione di materie prime, solitamente per esportarle verso le tradizionali potenze coloniali, dove veniva aggiunto «valore». Ed è un assetto mentale che aiuta molto a spiegare perché un modello economico basato su una crescita illimitata poté sembrare fattibile. Benché si sia sviluppato sotto il capitalismo, governi appartenenti a tutto lo spettro ideologico ora abbracciano questo modello di esaurimento delle risorse come una strada per lo sviluppo, ed è proprio questa logica che il cambiamento climatico mette profondamente in discussione.

L'estrattivismo è una relazione con la Terra non reciproca, imperniata sul dominio: una relazione in cui si prende soltanto. È l'opposto della gestione, che comporta prendere ma anche preoccuparsi che la rigenerazione e la vita futura continuino. L'estrattivismo è la mentalità di chi decapita le montagne e taglia le foreste vergini. È la riduzione della vita a oggetti per l'uso di altri, senza attribuire loro alcuna integrità o valore in sé — trasformando complessi ecosistemi viventi in «risorse naturali», montagne in «sovraccarico» (come l'industria mineraria definisce le foreste, le rocce e i corsi d'acqua che intralciano la strada ai suoi bulldozer). È anche la riduzione di esseri umani a manodopera da sfruttare brutalmente oltre ogni limite o, in alternativa, a peso sociale, problemi da bloccare alle frontiere e rinchiudere in carceri o riserve. In un'economia estrattivista, le interconnessioni fra queste componenti oggettivate della vita vengono ignorate e non ci si preoccupa delle conseguenze quando vengono spezzate.

L'estrattivismo è direttamente legato anche al concetto di zone di sacrificio — luoghi che, per i loro sfruttatori, in qualche modo non contano e dunque possono essere avvelenati, prosciugati, o altrimenti distrutti, per la presunta più nobile causa del progresso economico. Questa idea deleteria è sempre stata intimamente collegata all'imperialismo, con periferie usa e getta sfruttate per alimentare un centro sfavillante, e anche a nozioni di superiorità razziale, poiché, per avere zone di sacrificio, ci vogliono persone e culture che contano così poco da poter essere sacrificate. L'estrattivismo dilagò sotto il colonialismo, perché relazionarsi con il mondo come se fosse una frontiera di conquista – piuttosto che una casa – incoraggia questo particolare genere di irresponsabilità. La mente coloniale nutre la convinzione che ci sarà sempre un qualche altro posto da sfruttare una volta depauperato l'attuale sito di estrazione.

Queste idee sono antecedenti all'estrazione di combustibili fossili su scala industriale. Tuttavia, la capacità di utilizzare l'energia del carbone per alimentare fabbriche e navi è ciò che, più di qualunque altro singolo fattore, consentì a queste pericolose idee di conquistare il mondo. È una storia che merita di essere esplorata più in profondità, perché aiuta a spiegare bene come la crisi climatica metta in discussione non solo il capitalismo, ma anche le soggiacenti narrazioni proprie della civilizzazione su una crescita e un progresso illimitati all'interno delle quali tutti, in qualche misura, siamo ancora intrappolati.




La relazione estrattivista estrema

Se l'economia estrattiva dei tempi moderni ha un santo patrono, l'onore dovrebbe andare probabilmente a Francesco Bacone. Si ritiene che il filosofo, scienziato e statista inglese sia colui che convinse le élite britanniche ad abbandonare, una volta per tutte, le concezioni pagane della Terra come una figura materna che dà la vita e per la quale dobbiamo nutrire rispetto e reverenza (e non poco timore) e ad accettare il ruolo di suo dungeon master. «Poiché solo seguendo» scrisse Bacone nel De Augmentis Scientiarum nel 1623 «o per così dire incalzando, la natura nelle sue peregrinazioni, si impara a ricondurla poi sulla via consueta. [...] Né l'uomo deve farsi scrupolo di addentrarsi in tali questioni nella ricerca del vero [...].»

Queste idee di una Terra completamente conoscibile e controllabile animarono non solo la Rivoluzione scientifica ma, in modo cruciale, anche il progetto coloniale, che spediva navi avanti e indietro per il globo a frugare in cerca di segreti e ricchezze da portare alle rispettive Corone. La convinzione di invincibilità umana che dominò quest'epoca è illustrata perfettamente dalle parole del sacerdote e filosofo William Derham nel suo libro del 1713 Physico-Theology: «Possiamo, se necessario, saccheggiare l'intero globo, penetrare nelle viscere della Terra, scendere fino al più profondo dei meandri, spingerci fino alle più remote regioni di questo mondo, per acquisire ricchezza».

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Qui è dove i negatori del cambiamento climatico della destra hanno gonfiato le loro teorie della cospirazione sul regalo cosmico che il riscaldamento climatico rappresenterebbe per la sinistra. È vero, come ho spiegato, che molte misure di risposta ai cambiamenti climatici rafforzano il supporto progressista per l'intervento del governo nel mercato, per una maggiore eguaglianza, e per una più solida sfera pubblica. Ma il messaggio profondo trasmesso dalla crisi ecologica – che l'umanità deve andarci molto più piano con i sistemi viventi che la sostengono, e agire in maniera rigenerativa anziché estrattivista – è una grande sfida per ampie fette della sinistra oltre che della destra. È una sfida per alcuni sindacati, quelli che cercano di congelare i lavori più sporchi, invece di battersi per i lavori puliti che i loro membri meriterebbero. Ed è una sfida per la stragrande maggioranza dei keynesiani di centrosinistra, che definiscono ancora il successo economico in termini di tradizionali misure di crescita del PIL, indipendentemente dal fatto che tale crescita derivi da una sfrenata estrazione delle risorse. (Tutto questo è ancora più sconcertante perché lo stesso Keynes , come John Stuart Mill , promuoveva una transizione a una economia postsviluppo.)

È una sfida, anche, per quelle parti della sinistra che identificavano il socialismo con il dominio autoritario dell'Unione Sovietica e dei suoi satelliti (benché ci sia sempre stata una ricca tradizione, in particolare tra gli anarchici, che considerava il progetto di Stalin uno scempio nei confronti dei principi basilari di giustizia sociale), poiché quegli Stati – che si definivano socialisti – divoravano risorse con lo stesso entusiasmo delle loro controparti capitaliste, e vomitavano scorie con la stessa sconsideratezza. Prima della caduta del Muro di Berlino, per esempio, cechi e russi avevano impronte di carbonio pro capite maggiori di canadesi e australiani. Che è il motivo per cui una delle rare volte in cui il mondo sviluppato ha visto una drastica diminuzione delle emissioni fu dopo il tracollo economico dell'ex Unione Sovietica, all'inizio degli anni Novanta. Mao Zedong, da parte sua, dichiarò apertamente che «l'uomo deve conquistare la natura», dando libero sfogo a un devastante attacco al mondo naturale che transitò, senza interruzione, dalla deforestazione sotto il comunismo alle mega-dighe sotto il capitalismo. Le compagnie petrolifere e di gas della Russia, nel frattempo, erano spericolate e soggette a incidenti sotto il controllo socialista di Stato come lo sono oggi nelle mani degli oligarchi e dello Stato corporativista della Russia.

E perché non dovrebbero esserlo? Il socialismo autoritario e il capitalismo condividono forti tendenze verso la centralizzazione (uno nelle mani dello Stato, l'altro delle corporation). Mirano anche entrambi alla spietata espansione dei rispettivi sistemi – attraverso la produzione fine a se stessa, nel caso del socialismo dell'era sovietica, o attraverso il consumo fine a se stesso, nel caso del capitalismo di consumo.

Una possibile mosca bianca è la democrazia sociale di stile scandinavo, che ha senza dubbio dato vita ad alcune delle più significative svolte verdi nel mondo, dal visionario disegno urbano di Stoccolma, dove circa il 74 per cento dei residenti va a lavorare a piedi, in bicicletta o con i mezzi pubblici, alla rivoluzione eolica controllata dalla comunità in Danimarca. E tuttavia, il tardivo emergere della Norvegia come uno dei principali produttori di petrolio – con la Statoil di maggioranza statale che asporta le sabbie bituminose dell'Alberta e si prepara ad attingere dalle massicce riserve dell'Artico – induce a domandarsi se questi Paesi stiano davvero tracciando una strada alternativa all'estrattivismo.

In America Latina e in Africa svincolarsi da una eccessiva dipendenza dall'estrazione ed esportazione di risorse grezze, per avvicinarsi a economie più diversificate, è sempre stata una componente centrale del progetto postcoloniale. E tuttavia, alcuni Paesi in cui, nell'ultimo decennio, sono saliti al potere governi di sinistra e centrosinistra si stanno muovendo nella direzione opposta. Il fatto che questa tendenza sia poco discussa al di fuori del continente non dovrebbe stupirci. Progressisti di tutto il mondo hanno acclamato, a ragione, la pink tide («marea rosa») elettorale dell'America Latina, con un susseguirsi di governi che promettevano di ridurre l'ineguaglianza, contrastare la povertà estrema, e riprendersi il controllo delle compagnie estrattive dei rispettivi Paesi. E dalla mera prospettiva della riduzione della povertà, i risultati sono stati spesso sorprendenti.

Dall'elezione di Luiz Inácio Lula da Silva, e oggi sotto la leadership del suo ex capo dello staff Dilma Rousseff, il tasso di povertà estrema del Brasile è diminuito del 65 per cento in un solo decennio, secondo il governo. Più di 30 milioni di persone sono state sollevate dalla povertà. Dopo l'elezione di Hugo Chávez, il Venezuela tagliò la percentuale di popolazione che viveva in uno stato di indigenza estrema di più della metà – dal 16,6 per cento nel 1999 al 7 per cento nel 2011, secondo statistiche del governo. Dal 2004 le iscrizioni al college sono raddoppiate. In Ecuador sotto Rafael Correa il tasso di povertà è calato del 32 per cento, secondo la Banca mondiale. In Argentina, la povertà urbana precipitò dal 54,7 per cento nel 2003 al 6,5 per cento nel 2011, secondo dati del governo raccolti dalle Nazioni Unite.

Anche il record della Bolivia, sotto la presidenza di Evo Morales, è sorprendente. Il Paese ha ridotto la fetta di popolazione che viveva in condizioni di grave povertà dal 38 per cento nel 2005 al 21,6 per cento nel 2012, secondo le cifre ufficiali. E il tasso di disoccupazione è dimezzato. Mentre altri Paesi in via di sviluppo hanno usato il progresso per creare società di grandi vincitori e grandi perdenti, la Bolivia – aspetto ancora più rilevante – sta di fatto riuscendo a costruire una società più equa. Alicia Bárcena Ibarra, segretario esecutivo della Commissione economica per l'America Latina e i Caraibi delle Nazioni Unite, osserva che in Bolivia «il divario tra ricchi e poveri si è assottigliato enormemente».

Tutto questo è un netto miglioramento rispetto a quanto accadeva prima, quando la ricchezza estratta da ciascuno di questi Paesi era concentrata in maniera spropositata tra una piccola élite, per non parlare di quella che usciva dal Paese. E tuttavia, questi governi di sinistra e centrosinistra sono stati sinora incapaci di escogitare modelli economici che non richiedano livelli di estrazione di risorse limitate estremamente elevati, spesso con terribili costi ecologici e umani. Questo è vero per l'Ecuador, con la sua crescente dipendenza dal petrolio, incluso il petrolio dall'Amazzonia; per la Bolivia, con la sua immensa dipendenza dal gas naturale; per l'Argentina, con il suo continuo supporto ad attività minerarie a cielo aperto e i suoi «deserti verdi» di soia e altre colture geneticamente modificate; è vero per il Brasile, con le sue mega-dighe altamente contestate e le sue incursioni nella trivellazione petrolifera off-shore ad alto rischio; e ovviamente lo è per il Venezuela, da sempre dipendente dal petrolio. Inoltre, la maggior parte di questi governi ha fatto ben pochi progressi verso la realizzazione del vecchio sogno di diversificare le proprie economie svincolandosi dall'esportazione di risorse grezze – in realtà, tra il 2004 e il 2011, la percentuale di risorse grezze sulle esportazioni totali crebbe in tutti questi Paesi a eccezione dell'Argentina, benché senza dubbio questo aumento si dovesse in parte all'aumento dei prezzi delle merci. Non ha aiutato il fatto che la Cina abbia preso a erogare crediti facili nel continente, richiedendo in alcuni casi di essere ripagata in petrolio.

Affidarsi a forme di estrazione ad alto rischio ed ecologicamente dannose è particolarmente deludente nei governi di Evo Morales in Bolivia e Rafael Correa in Ecuador. Nei loro primi mandati, entrambi avevano dichiarato che, per i rispettivi Paesi, stava per iniziare un nuovo capitolo non estrattivo. Parte di ciò implicava rispettare sul serio le culture indigene, sopravvissute a secoli di emarginazione e oppressione, che costituiscono potenti elettorati politici in entrambi i Paesi. Sotto Morales e Correa, i concetti indigeni di sumak kawsay e buen vivir, che si impegnano per costruire società in armonia con la natura (in cui ciascuno ha abbastanza, anziché sempre di più) divennero argomento di discussione del governo, e furono persino riconosciuti dalla legge. In entrambi i casi, tuttavia, progresso ed estrazione su scala industriale in continuo aumento hanno avuto la meglio su questa promettente retorica. Secondo Esperanza Martínez, «dal 2007, quello di Correa è stato il governo più estrattivista nella storia del Paese, in termini di petrolio e ora anche di attività mineraria». Tant'è che gli intellettuali latinoamericani hanno inventato un nuovo termine per descrivere quello che stanno vivendo: «estrattivismo progressista».

I governi sostengono di non avere scelta – di dover perseguire politiche estrattive per sovvenzionare programmi volti ad alleviare la povertà. E in molti modi questa spiegazione torna alla domanda sul debito climatico: Bolivia ed Ecuador sono stati in prima linea nella coalizione di governi che ha chiesto ai Paesi responsabili delle grandi quantità di storiche emissioni di gas serra di aiutare a pagare per la transizione del Sud Globale dall'energia sporca a uno sviluppo a basso contenuto di carbonio. Questi appelli sono stati ignorati o liquidati. Costretti a scegliere tra povertà e inquinamento, i governi optano per l'inquinamento, ma queste non dovrebbero essere le uniche due alternative.

L'eccessivo affidamento all'estrazione sporca non è solo un problema per i progressisti nel mondo in via di sviluppo. In Grecia nel maggio 2013, per esempio, mi stupii scoprendo che il partito di sinistra Syriza – al tempo l'opposizione ufficiale del Paese, declamato da molti progressisti europei come la grande speranza per una reale alternativa politica sul continente – non si opponeva al fatto che la coalizione di governo accettasse nuove esplorazioni in cerca di petrolio e gas. Sosteneva invece che qualunque fondo ricavato dovesse essere speso per le pensioni, e non usato per ripagare i creditori. In altre parole, il partito Syriza non forniva un'alternativa all'estrattivismo, ma semplicemente aveva piani migliori per distribuirne i ricavi.

Lungi dal vedere il cambiamento climatico come un'opportunità per sostenere la propria utopia socialista, come temono i negazionisti del cambiamento climatico conservatori, Syriza aveva semplicemente lasciato cadere l'argomento.

Si tratta di qualcosa che il leader del partito, Alexis Tsipras, mi confessò piuttosto apertamente in un'intervista: «Eravamo un partito che aveva l'ambiente e il cambiamento climatico al centro del proprio interesse» disse. «Ma dopo questi anni di depressione in Grecia, abbiamo dimenticato il cambiamento climatico.» Almeno è stato onesto.

La buona notizia – ed è significativo – è che numerosi movimenti sociali in ascesa in tutti questi Paesi stanno respingendo l'idea che quella dell'estrazione-e-ridistribuzione sia la sola via per uscire dalla povertà e dalla crisi economica. Ci sono massicci movimenti contro l'estrazione dell'oro in Grecia, così ampi che Syriza è diventato un significativo oppositore delle miniere. In America Latina, nel frattempo, i governi progressisti si stanno trovando sempre più in conflitto diretto con molti elettori, per i quali il nuovo modello che Hugo Chávez aveva definito «Socialismo del XXI secolo» semplicemente non è nuovo abbastanza. Immense dighe in Brasile, strade statali che attraversano aree sensibili in Bolivia, e trivellazione per il petrolio nell'Amazzonia ecuadoriana sono diventati tutti temi caldi. Sì, la ricchezza è meglio distribuita, in particolare tra i poveri urbani, ma fuori dalle città lo stile di vita di popolazioni indigene e contadini continua a essere messo a rischio senza il loro consenso, mentre la distruzione dell'ecosistema continua a privarli delle loro terre. Quello di cui c'è bisogno, scrive l'ambientalista boliviana Patricia Molina, è una nuova definizione di sviluppo «che faccia sì che l'obiettivo sia l'eliminazione della povertà, e non dei poveri».

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A metà dell'Ottocento, Henry David Thoreau scrisse: «La terra su cui cammino non è una massa morta, inerte. È un corpo, ha uno spirito, è organica, e fluida all'influenza del suo spirito, e a qualunque frammento di quello spirito che è in me». Era un ripudio diretto della visione propugnata da Francesco Bacone, che considerava la Terra come una macchina inerte i cui misteri potevano essere padroneggiati dalla mente umana. E quasi un secolo dopo Thoreau, Aldo Leopold, il cui libro Almanacco di un mondo semplice fu il punto di riferimento per una seconda ondata di ambientalisti, faceva appello in modo simile a un'etica che «allarga semplicemente i confini della comunità per includervi suolo, acque, piante e animali [...]» e che riconosce che «l'individuo è membro di una comunità di parti interdipendenti». Un'«etica terrestre», come egli la chiamava, «modifica il ruolo dell'Homo sapiens da conquistatore della Terra a semplice membro e cittadino della sua comunità. Implica rispetto per gli altri membri e per la stessa comunità, in quanto tale».

Queste idee ebbero un'influenza enorme sull'evoluzione del pensiero ecologico, ma, svincolate dai movimenti populisti, rappresentavano una minaccia irrisoria per l'industrializzazione galoppante. La visione del mondo dominante continuava a considerare gli uomini come un esercito conquistatore, in grado di sottomettere e meccanizzare il mondo naturale. Anche così, negli anni Trenta del secolo scorso, con il socialismo in ascesa in tutto il mondo, gli elementi più conservatori del crescente movimento ambientalista miravano a prendere le distanze dal suggerimento «radicale» di Leopold, che la natura avesse un valore in sé al di là della sua utilità per l'uomo. Se spartiacque e boschi vetusti hanno il «diritto che [...] continuino a esistere», come sosteneva Leopold (un'anteprima dei dibattiti sui «diritti della natura» che sarebbero emersi parecchi decenni più tardi), allora il diritto di un proprietario di fare ciò che desiderava con la sua terra poteva essere messo in discussione. Nel 1935 Jay Norwood «Ding» Darling, che avrebbe in seguito contribuito a fondare la National Wildlife Federation, scrisse a Leopold mettendolo in guardia: «Non riesco a togliermi dalla testa che tu ci stia portando in acque pericolose con la tua nuova filosofia ambientalista. E la strada che porta alla socializzazione della proprietà».

Quando Rachel Carson pubblicò Primavera silenziosa nel 1962, i tentativi di trasformare la natura in un mero ingranaggio della macchina industriale americana erano diventati così aggressivi, così apertamente militaristi, che non era più possibile pretendere che combinare il capitalismo con la salvaguardia della natura fosse una semplice questione di proteggere alcuni angoli di verde. Il libro della Carson traboccava di virtuose condanne nei confronti di un'industria chimica che usava il bombardamento aereo per eliminare gli insetti, mettendo così sconsideratamente a repentaglio la vita umana e animale. La biologa marina diventata critica sociale dipingeva una vivida immagine di chi «dirige le disinfestazioni», il quale, affascinato da un «nuovo meraviglioso giocattolo», getta veleni «contro gli esseri viventi».

La Carson era concentrata soprattutto sul DDT, ma per lei il problema non era un prodotto chimico specifico: era una logica. «Il "controllo della natura"» scrisse «è una frase piena di presunzione, nata in un periodo della biologia e della filosofia che potremmo definire "l'Età di Neanderthal", quando ancora si riteneva che la natura esistesse per l'esclusivo vantaggio dell'uomo. [...] Ed è davvero estremamente triste che una scienza ancora così immatura abbia avuto a propria disposizione le armi più moderne e terribili che, nella lotta contro gli insetti, finisce per rivolgere contro la stessa Terra su cui viviamo.»

L'opera della Carson ispirò una nuova generazione molto più radicale di ambientalisti, che si consideravano come parti di un fragile ecosistema planetario anziché come i suoi ingegneri o meccanici, dando vita al campo dell'Economia Ecologica. Fu in questo ambito che la logica soggiacente dell'estrattivismo – che ci sarebbe sempre stata altra terra per il nostro uso e consumo – iniziò a essere messa fortemente in discussione come opinione dominante. Il culmine di questo dibattito si ebbe nel 1972, quando il Club di Roma pubblicò I limiti dello sviluppo , un bestseller sfuggito al controllo che usava i primi modelli informatici per prevedere che, se i sistemi naturali avessero continuato a essere svuotati al ritmo attuale, l'umanità avrebbe oltrepassato la capacità di carico del pianeta entro la metà del XXI secolo. Salvare alcune belle catene montuose non sarebbe stato abbastanza per uscire da questo guaio; la logica dello sviluppo in quanto tale andava ripensata.

Come osservò di recente l'autore Christian Parenti a proposito della durevole influenza del libro: « I limiti combinava il fascino della Big Science – potenti computer del MIT e supporto dalla Smithsonian Institution – con un interesse per l'interconnessione di tutte le cose, che si adattava perfettamente al nuovo spirito controculturale dei tempi». E benché alcune previsioni del libro non abbiano retto nel tempo – gli autori sottovalutarono, per esempio, la capacità degli incentivi di profitto e delle tecnologie innovative di aprire nuove riserve di risorse finite – I limiti aveva ragione sul più importante di tutti i limiti. Sui «limiti dei "lavandini" naturali, ovvero la capacità della Terra di assorbire inquinamento» scrive Parenti, «la visione catastroficamente cupa del libro si sta dimostrando totalmente corretta. Potremmo trovare nuovi input – più petrolio o cromo – o inventare sostituti, ma non abbiamo prodotto o scoperto nuovi lavandini naturali. La capacità della Terra di assorbire i sudici prodotti secondari del vorace metabolismo del capitalismo globale sta per essere oltrepassata. Questo avvertimento è sempre stato la parte più potente dei Limiti dello sviluppo».

E, tuttavia, tra le fila più convinte del movimento ambientalista, nei decenni chiave durante i quali abbiamo affrontato la minaccia climatica, queste voci di avvertimento sono rimaste inascoltate. Il movimento non tenne conto dei limiti dello sviluppo in un sistema economico costruito per massimizzare i profitti; invece, cercò di dimostrare che salvare il pianeta poteva essere una nuova grande opportunità di business.

Le ragioni di questa timidezza politica hanno molto a che fare con i temi già discussi: il potere e l'attrazione della logica del libero mercato che usurpò così tanta vita intellettuale alla fine degli anni Ottanta e negli anni Novanta, incluse ampie fette del movimento conservazionista. Tuttavia, questa accanita riluttanza a seguire la scienza nelle sue conclusioni parla anche al potere della narrazione culturale che ci dice che gli uomini hanno, in ultima istanza, il controllo della Terra, e non viceversa. E la stessa narrazione ad assicurarci che, per quanto le cose possano andare male, all'ultimo minuto saremo salvati – dal mercato, da miliardari filantropici, o da maghi della tecnologia – o meglio ancora da tutti e tre insieme. E mentre aspettiamo, continuiamo a scavare sempre più in profondità.

Solo quando metteremo da parte queste diverse forme di pensiero magico saremo pronti a lasciarci alle spalle l'estrattivismo e a costruire le società di cui abbiamo bisogno all'interno dei confini che abbiamo – un mondo senza zone di sacrificio, senza nuove Nauru.

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L'idea che il capitalismo, e solo il capitalismo, possa salvare il mondo da una crisi creata dal capitalismo non è più una teoria astratta; è un'ipotesi messa alla prova più volte nel mondo reale. Ora siamo in grado di fermarci e dare un'occhiata attenta ai risultati: ecco quindi le celebrità e i grandi conglomerati mediatici, che dovevano plasmare stili di vita verdi e chic e che da tempo sono passati a un'altra delle tante mode del momento; i prodotti verdi che sono finiti sul retro degli scaffali dei supermercati ai primi segni di recessione; i capitalisti arditi che, in teoria, dovevano presentarci una sfilata di innovazioni ma che non ce l'hanno mai fatta; il mercato del carbonio dove la frode la fa da padrona, che ha fallito miseramente nel tentativo di ridurre le emissioni; il settore del gas naturale, che in teoria doveva essere il nostro ponte verso le rinnovabili ma ha finito per divorare gran parte del loro mercato. E, soprattutto, la schiera di miliardari che dovevano inventare una nuova forma di capitalismo illuminato ma hanno deciso che, a pensarci bene, quello vecchio era troppo redditizio per essere abbandonato.

Abbiamo provato a fare come voleva Branson (e come volevano Buffett, Bloomberg, Gates e Pickens): le emissioni sempre più elevate parlano da sole. Ci saranno indubbiamente tanti altri miliardari salvatori che, con un'entrata a effetto, proporranno piani per riformare il capitalismo. Il problema è che non abbiamo più dieci anni da perdere in false speranze. Ci sono tantissimi modi per fare profitto in un'economia a zero carbonio; ma la spinta del profitto non sarà la levatrice della grande trasformazione di cui abbiamo bisogno.

E questo è importante, perché Branson aveva intuito qualcosa con il suo impegno. Ha perfettamente senso che siano proprio i profitti generati dalle attività maggiormente responsabili della crisi climatica a pagare per la transizione a un futuro più verde e sicuro. L'idea originale di Branson, ossia spendere il 100 per cento dei ricavi dei suoi treni e dei suoi aerei per trovare un modo di liberarci dei carburanti fossili, almeno in teoria era esattamente il tipo di iniziativa che dovrebbe prendere piede su larga scala. Il problema è che con gli attuali modelli di business, dopo che gli azionisti avranno preso la loro fetta, dopo che i dirigenti si saranno dati un altro aumento, dopo che Richard Branson avrà lanciato un altro progetto di dominazione del mondo e acquistato un'altra isola, non rimarrà molto altro con cui mantenere la promessa.

Come lui, anche Alan Knight aveva intuito qualcosa quando dichiarò ai suoi clienti nel campo delle sabbie bituminose che avrebbero dovuto usare la loro capacità tecnologica per inventare le fonti a basse emissioni e rinnovabili del futuro. «Il potenziale narrativo è perfetto.» L'imprevisto, ovviamente, è che fintanto che questa visione è riservata agli interessi dei dirigenti nel campo del petrolio e degli aerei, rimarrà soltanto questo: un racconto. Anzi, una fiaba. Nel frattempo, l'industria utilizzerà la propria tecnologia e le proprie risorse per sviluppare modi ancora più ingegnosi e fruttiferi per estrarre i combustibili fossili dai recessi più profondi della Terra, continuando a difendere i propri sussidi pubblici e a opporsi a trascurabili aumenti di tassazione che permetterebbero ai governi di arrivare alla transazione verde senza il suo aiuto.

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La Royal Society fu fondata nel 1660 in onore di Francesco Bacone. Non solo il motto dell'organizzazione, Nullius in verba («Non dare mai per certa la parola di nessuno»), fu ispirato da Bacone stesso ma, stranamente, se vogliamo, gran parte della struttura di base della Società venne modellata sul modello della società scientifica di fantasia ritratta nel romanzo protofantascientifico/utopico di Bacone, La nuova Atlantide , pubblicato nel 1627. La Royal Society fu in prima linea nel sostenere il programma di espansione coloniale dell'Inghilterra, sponsorizzando i viaggi del capitano James Cook (compreso quello in cui egli rivendicò la Nuova Zelanda), e per oltre quarant'anni fu guidata da uno dei compagni esploratori del capitano, il ricco botanico Joseph Banks, descritto da un agente coloniale inglese come «il più leale imperialista dell'epoca». Durante il suo mandato, la società vantò tra i propri membri James Watt, il pioniere del motore a vapore, e il suo socio in affari Matthew Boulton, i due uomini maggiormente responsabili dell'avvento dell'Età del carbone.

Come sottintendevano le domande appese alla parete, erano questi gli strumenti e la logica che avevano creato la crisi che, adesso, la geoingegneria cercava di risolvere – non solo le fabbriche brucia-carbone e le navi a vapore coloniali, ma la visione distorta di Bacone che considerava la Terra una donna prona, e il trionfalismo di Watt che riuscì a trovarne il «punto debole». Detto ciò, ha davvero senso comportarsi come se, grazie a cervelli abbastanza grossi e computer abbastanza potenti, gli uomini fossero in grado di padroneggiare e controllare la crisi climatica (un po' come hanno immaginato di poter padroneggiare il mondo naturale sin dall'alba dell'industrializzazione), scavando, deviando, trivellando, arginando? E davvero così semplice? Basta solo aggiungere una nuova arma al nostro arsenale da domatori della natura? Basta imparare a «offuscare»?

È questo il bizzarro paradosso della geoingegneria. Sì, il suo è esponenzialmente più ambizioso e pericoloso di qualsiasi altro progetto ingegneristico mai tentato dalla razza umana. Ma è anche molto familiare, quasi un cliché se vogliamo, come se gli ultimi cinquecento anni di storia ci avessero condotti, con ineluttabilità, fino a questo esatto momento. Riportare le emissioni su livelli accettabili è una cosa, cedere alla logica della geoingegneria è un'altra: il secondo scenario, infatti, non richiede alcun cambiamento. Dovremo solo fare quello che facciamo da secoli, ma con molta più intensità.

Passeggiando per i giardini perfettamente curati di Chicheley Hall, tra gli alberi scolpiti a forma di lecca-lecca, i cespugli cesellati a forma di pugnale, ho capito che ciò che mi spaventa di più non è la prospettiva di vivere in un «pianeta di design», per usare un'espressione che avevo sentito durante una precedente conferenza geoingegneristica. No, la mia paura è che i risultati tangibili che otterremo non avranno nulla a che vedere con quel bel giardino né con quanto avevo visto durante il briefing, ma saranno molto, molto peggiori. Se alla crisi globale causata dal nostro inquinamento rispondiamo con altro inquinamento, se cerchiamo di porre rimedio alle schifezze che abbiamo scaricato nell'atmosfera pompando una schifezza diversa nella stratosfera, allora la geoingegneria è molto più pericolosa di quanto crediamo. Farà qualcosa di molto peggio che semplicemente domare le ultime vestigia di natura «selvaggia». Potrebbe far sì che la Terra impazzisca in modi che neanche riusciamo a immaginare, rendendo la geoingegneria non l'ultima frontiera del sapere, un altro trionfo da commemorare sulle pareti della Royal Society, ma l'ultimo, tragico atto di una favola secolare incentrata sul controllo del pianeta.

Tanti dei nostri più brillanti scienziati hanno preso fin troppo sul serio i passati fallimenti dell'ingegneria, tra cui il nostro grossolano errore di lungimiranza nel valutare il cambiamento climatico di per sé. Ecco perché c'è ancora così tanta resistenza alla geoingegneria tra i biologi e i climatologi. Per citare Sallie Chisholm, del MIT, esperta di fama mondiale di microbi marini, «Chi propone di fare ricerche nel campo della geoingegneria ignora semplicemente il fatto che la biosfera è parte attiva (non un bersaglio passivo) di tutto ciò che facciamo, e i suoi comportamenti non possono essere previsti. È una collezione vivente di organismi che respirano (perlopiù microrganismi), che si evolvono ogni secondo che passa — è un «sistema che si organizza da sé, complesso e adattivo», per usare il termine tecnico. Sistemi di questo tipo hanno proprietà emergenti che, semplicemente, non possono essere previste. Lo sappiamo tutti! Eppure, chi sostiene la geoingegneria, questa cosa non la prende nemmeno in considerazione».

È vero. Durante il tempo trascorso tra gli aspiranti geoingegneri, sono rimasta più volte colpita nel constatare che tutte le lezioni apprese a così caro prezzo, che ci hanno insegnato a essere umili di fronte alla natura e hanno dato forma alla scienza moderna — specialmente nella teoria del caos e della complessità — non sembravano essere penetrate in questa particolare branca del sapere umano. Al contrario, la Geocricca è composta da presuntuosi inclini a complimentarsi l'uno con l'altro per il proprio, impressionante cervello. Da una parte troviamo Bill Gates, il vecchio amante danaroso di tutto il movimento, il quale ha dichiarato di non saper discernere che cosa fosse più importante tra il suo lavoro sui software e quello sui vaccini, perché entrambi si trovavano «lassù nell'Olimpo del progresso, tra la stampa a caratteri mobili e il fuoco». Dall'altra c'è Russ George, imprenditore statunitense etichettato «geoingegnere canaglia» per aver scaricato qualcosa come 100 tonnellate di solfato di ferro al largo delle coste della Columbia Britannica nel 2012. «Sono il campione del mondo di questa roba» dichiarò dopo che il suo esperimento venne alla luce. «Sono l'unico che ha abbastanza fegato da farsi avanti per salvare gli oceani.» Nel mezzo ci sono gli scienziati come David Keith, che spesso si mostra profondamente combattuto sul rischio di «aprire il vaso di Pandora» (anche se una volta dichiarò, a proposito del pericolo di indebolire i monsoni con il Solar Radiation Management, che «le agitazioni idrologiche» potevano essere gestite «un po' con l'irrigazione»).

Gli antichi la chiamavano hybris; il grande filosofo, contadino e poeta americano Wendell Berry la chiama «arrogante ignoranza,» aggiungendo: «Identifichiamo l'arrogante ignoranza dalla sua necessità di lavorare su scala troppo grande, e quindi di mettere a rischio troppe cose».

Non era per nulla rassicurante il fatto che, appena due settimane prima che ci radunassimo a Chicheley Hall, tre reattori nucleari di Fukushima si fossero fusi subito dopo un violento tsunami. L'incidente occupava ancora le prime pagine dei giornali quando ci ritrovammo nel Buckinghamshire. I sedicenti geoingegneri accolsero la notizia del disastro con preoccupazione, ma solo perché temevano che gli oppositori dell'energia nucleare ne avrebbero approfittato per bloccare la costruzione di nuovi reattori. Non gli passò mai per la testa l'idea che l'incidente di Fukushima potesse rappresentare un invito alla cautela verso le loro ambizioni ingegneristiche ad alto rischio.

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La prospettiva dell'astronauta

Durante la conferenza sulla geoingegneria continuava a tornarmi in mente una fotografia scattata il giorno in cui Richard Branson varò il suo Virgin Earth Challenge da 25 milioni di dollari. Ritraeva il miliardario, vestito di nero e con un sorriso smagliante, mentre lanciava in aria un modellino di plastica del pianeta Terra come se fosse un pallone da spiaggia. Al suo fianco Al Gore, con l'aria di chi non crede che sia una buona idea.

Quel momento, catturato dalla fotocamera, mi colpisce sempre come l'immagine perfetta della prima incarnazione del movimento sul clima: un uomo ricco e potente con il mondo intero letteralmente tra le mani, che ha promesso di salvarlo in nostra vece. Tale impresa eroica verrà portata a termine, egli ha appena annunciato, sfruttando la genialità umana e il desiderio di diventare molto, molto ricchi.

In quella foto è tutto sbagliato: la metamorfosi di un grande inquinatore in un paladino del clima grazie a un ottimo apparato di pubbliche relazioni; l'assunto che il denaro possa risolvere qualsiasi caos creiamo; e la certezza che le soluzioni al cambiamento climatico debbano arrivare dall'alto, non dal basso.

Ma ho cominciato a credere che ci sia anche un altro problema, connesso a quella sfera azzurra che Branson lancia verso il cielo. Per oltre quarant'anni, l'immagine della Terra vista dallo spazio è stata il logo ufficioso del movimento ambientalista, ritratto su innumerevoli T-shirt, spille e adesivi. È sempre stata ciò che dovevamo proteggere durante le conferenze ONU sul clima, e che ci viene chiesto di «salvare» a ogni Earth Day, come se fosse una specie a rischio o un bambino affamato di un Paese lontano. Oppure un animaletto domestico bisognoso delle nostre attenzioni. Un'idea simile potrebbe essere pericolosa tanto quanto la fantasia baconiana della Terra come macchina da dominare, perché anch'essa ci pone (letteralmente) su un piano superiore.

Quando ci meravigliamo di questa sfera blu, in tutta la sua delicatezza e fragilità, e ci impegniamo a salvarla, ci imponiamo un ruolo molto specifico. Il ruolo di un genitore, il cui figlio è la Terra. Ma in realtà è l'opposto. Siamo noi umani a essere fragili e vulnerabili e la Terra a essere forte e potente. E lei a tenerci in pugno. In termini concreti, la nostra sfida non è salvare la Terra da noi, ma noi da una Terra che, se spinta troppo oltre, può benissimo scuotersi, bruciare e scrollarsi di dosso la razza umana. Dovremmo sempre partire da questa consapevolezza, soprattutto quando decidiamo se scommettere sulla geoingegneria.


È chiaro che non doveva andare così. Alla fine degli anni Sessanta, quando la NASA diffuse le prime fotografie della Terra vista dallo spazio, tutti si entusiasmarono moltissimo, asserendo che quell'immagine avrebbe scosso e risvegliato le coscienze. Quando diventammo finalmente capaci di vedere il nostro mondo come un'entità interconnessa e olistica, finalmente ci rendemmo conto che questo pianeta è la nostra sola e unica casa, e che tocca a noi occuparcene con quanta più cura possibile. Era la «Terra spaziale». Si sperava che, guardandola, tutti comprendessero quanto dichiarato dall'economista e scrittrice inglese Barbara Ward nel 1966: «Questo viaggio nello spazio è del tutto precario. Dipendiamo da un piccolo involucro di terra e da un grosso involucro di atmosfera per sopravvivere. Ed entrambi possono essere contaminati e distrutti».

Allora come spiegare il passaggio da questo bagno di umiltà dinanzi alla precarietà della vita al gioco a palla di Branson con il pianeta Terra? L'irascibile romanziere americano Kurt Vonnegut era senz'altro dotato di spirito profetico: «Nelle foto che mi ha mandato la NASA, la Terra è una perlina blu e rosa e bianca, molto carina,» scrisse sul «New York Time Magazine» nel 1969. «Ha l'aria così pulita. Non si vedono tutti gli affamati, rabbiosi terrestri che stanno laggiù, né il fumo e il disboscamento e la spazzatura e le armi sofisticate.»

Di fronte a queste fotografie, l'ambientalismo è stato perlopiù una manifestazione locale: una cosa terrena, non della Terra. È stato Henry David Thoreau che rifletteva accanto alle sue file di fagiolini nel terreno del Walden Pond. È stato Edward Abbey che vagava tra le rocce rosse dello Utah meridionale. È stato Rachel Carson, distesa nel fango insieme ai vermi contaminati dal DDT. È stato prosa vividamente descrittiva, schizzi naturalistici e, alla fine, documentari, fotografie e film che tentavano di riscuotere gli animi e ispirare l'amore nei confronti di specifiche creature o luoghi – e, di conseguenza, per creature e luoghi simili in tutto il mondo.

Tuttavia, quando l'ambientalismo si estese allo spazio e l'uomo adottò la prospettiva dell'osservatore onnisciente, le cose cominciarono a diventare orrendamente confuse, come diceva Vonnegut. Guardando sempre la Terra dall'alto, invece che al livello delle radici e del terreno puntando gli occhi al cielo, il ritrovarsi a camminare tra le fonti di inquinamento dà un certo tipo di sensazione. Ogni cosa inizia a assomigliare a un pezzo di una scacchiera planetaria: una foresta tropicale serve a consumare le emissioni di una fabbrica europea; il gas estratto col fracking va usato per sostituire il carbone; i grandi campi di mais servono al posto del petrolio; e forse, in un futuro non troppo distante, il ferro negli oceani e il diossido di zolfo nella stratosfera potranno contrastare la presenza dell'anidride carbonica nella bassa atmosfera.

E nel frattempo, proprio come aveva avvertito Vonnegut, qualsiasi riconoscimento della presenza della gente, quaggiù, sotto un velo di nuvole, scompare – persone attaccate a particolari pezzi di terra e con idee molto diverse su cosa costituisca una «soluzione» al problema climatico. Questa omissione cronica è il filo conduttore che, negli ultimi anni, ci ha fatto commettere così tanti errori nelle politiche ambientali – dalla decisione di aprire al gas naturale estratto col fracking (tralasciando la presenza su quelle terre di persone ansiose di combattere la devastazione del loro territorio e l'avvelenamento delle loro acque) al mercato delle emissioni e dei crediti di carbonio (dimenticandosi di nuovo delle persone costrette a respirare l'aria tossica presso le raffinerie – operative grazie a questi accordi politici – e quelle scacciate dalle loro foreste tradizionali convertite in sink biosferici).

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Torniamo a essere cauti

Per decenni il movimento ambientalista ha preso in prestito il linguaggio della valutazione del rischio, lavorando diligentemente con soci in affari e governo per trovare un equilibrio tra livelli d'inquinamento pericolosi e necessità di profitti e crescita economica. Presupporre che esistano livelli accettabili di rischio è un concetto dato così tanto per scontato da costituire la base della discussione ufficiale sul cambiamento climatico. L'intervento necessario per salvare l'umanità dal rischio molto reale di un caos climatico è stato confrontato con freddezza con il rischio che una simile azione comporterebbe per i PIL nazionali, come se la crescita economica potesse avere ancora un significato in un pianeta sconvolto da una sequenza di disastri.

Ma a Blockadia la valutazione del rischio è stata abbandonata sul ciglio delle strade sbarrate, sostituita dalla ripresa del principio di precauzione: quando la salute umana e l'ambiente sono significativamente a rischio, non occorre una piena certezza scientifica per intraprendere un'azione. Inoltre l'onere di dimostrare che una pratica è sicura non dovrebbe certo spettare al pubblico a cui potrebbe nuocere.

Blockadia sta capovolgendo la situazione, insistendo sul fatto che compete all'industria dimostrare che i suoi metodi sono sicuri: e nell'era dell'energia estrema questa è una cosa semplicemente impossibile. Per citare la biologa Sandra Steingraber: «Chi può fare l'esempio di un ecosistema bombardato di veleni, che non abbia prodotto conseguenze terribili e inattese per gli esseri umani?».

Le multinazionali dei combustibili fossili, insomma, non hanno più a che fare con grandi organizzazioni ambientaliste che possono essere messe a tacere con una generosa donazione o con un programma di compensazione delle emissioni di carbonio che lavi le coscienze. Le comunità che devono affrontare non stanno cercando, nella maggior parte dei casi, di negoziare un accordo migliore – che si tratti di posti di lavoro, royalties più elevate o standard di sicurezza migliori. Sempre più spesso queste comunità stanno semplicemente dicendo «No». No all'oleodotto. No alla trivellazione dell'Artico. No ai convogli di carbone e di petrolio. No ai mezzi pesanti. No al terminal per le esportazioni. No alla fratturazione idraulica. E non solo «non nel mio giardino» ma, come dicono gli attivisti anti-fracking francesi: Ni ici, ni ailleurs, né qui né altrove. In altre parole: no alle nuove frontiere del carbonio.

In realtà la filosofia NIMBY non ha più una connotazione negativa. Come dice Wendell Berry, prendendo a prestito le parole di E.M. Forster, la conservazione «è una questione d'affetto» – se ognuno di noi amasse il luogo in cui vive abbastanza da difenderlo, non ci sarebbe nessuna crisi ecologica e nessun luogo potrebbe mai essere condannato come area da sacrificare. Per soddisfare i nostri bisogni non avremmo semplicemente altra scelta eccetto quella di adottare metodi che non avvelenino l'ambiente.

Questo senso di chiarezza morale, dopo aver fatto per decenni gli amiconi con i gruppi verdi, è un vero shock per le industrie estrattive. Il movimento per la tutela del clima ha individuato i punti su cui non intende negoziare. E questa determinazione non solo sta costruendo una vasta opposizione militante contro le multinazionali maggiormente responsabili della crisi climatica, ma, come vedremo nel prossimo capitolo, è anche artefice di alcune delle vittorie più significative che il movimento ambientalista abbia visto da decenni.

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Oltre le democrazie fossilizzate

Il processo per arrivare ad affrontare il fulcro di potere aziendale-statale che sostiene l'economia estrattiva spinge moltissime persone a guardare in faccia la crisi democratica sottostante che ha consentito alle multinazionali di essere autrici delle leggi sotto cui operano – a livello municipale, statale/provinciale, nazionale o internazionale. È questa corrosione dei nostri sistemi politici, fossilizzati quanto i combustibili oggetto di queste battaglie, che sta rapidamente trasformando Blockadia in un movimento popolare a favore della democrazia.

Avere la capacità di difendere la fonte di acqua della propria comunità dal pericolo appare a molti come l'essenza stessa dell'autodeterminazione. Che cos'è la democrazia se esclude la capacità di decidere, collettivamente, di proteggere qualcosa senza cui nessuno può vivere?

Questa insistenza sul diritto di esprimersi su decisioni critiche riguardanti l'acqua, la terra e l'aria è il filo conduttore delle campagne di Blockadia. È un'opinione riassunta molto bene da Helen Slottje, un ex avvocato aziendale che ha aiutato circa 170 città dello Stato di New York a introdurre decreti contro il fracking: «Mi state prendendo in giro? Pensate di poter semplicemente venire nella mia città e dirmi che avete intenzione di fare quello che volete, dove volete, e quando volete, e io non posso dire la mia? Chi credete di essere?». Udii qualcosa di molto simile da Marily Papanikolaou, una guida di mountain-bike greca ben felice di crescere i suoi bambini e accompagnare i turisti per i sentieri nei boschi, che ora passa il suo tempo libero a manifestazioni e incontri contro le miniere. «Non posso lasciare che chiunque venga nel mio paese e cerchi di fare una cosa del genere e non chieda il mio permesso. Io vivo qui!» E qualcosa di terribilmente simile dicono i proprietari terrieri texani, infuriati perché una compagnia canadese che costruisce oleodotti cercò di sfruttare la legge sull'espropriazione per pubblica utilità per ottenere l'accesso ai loro possedimenti di famiglia. «Io semplicemente non credo che un'organizzazione canadese che a quanto pare vuole costruire un oleodotto per il proprio guadagno abbia più diritti sulla mia terra di quanti ne abbia io» disse Julia Trigg Crawford, che portò in tribunale la TransCanada dopo che questa aveva tentato di usare il suo ranch di 260 ettari vicino a Paris, in Texas, acquistato da suo nonno nel 1948.

E tuttavia, la parte più sconvolgente della rivolta popolare contro l'estrazione è stata la dura realizzazione del fatto che la maggior parte delle comunità sembra essere priva di questo potere; che forze esterne – un governo centrale lontano, che lavora in totale sintonia con compagnie transnazionali – stanno semplicemente imponendo ai residenti rischi enormi in termini di salute e sicurezza, persino quando questo significa stravolgere le leggi locali. Fracking, oleodotti per il petrolio da sabbie bituminose, treni di carbone e terminal per l'esportazione vengono proposti in molte parti del mondo, dove una chiara maggioranza della popolazione ha espresso in maniera inequivocabile la propria opposizione, alle urne, attraverso processi di consultazione ufficiali e per le strade.

Ciononostante, il consenso sembra non avere alcuna importanza. Dopo aver fallito nel tentativo di persuadere le comunità che questi progetti sono nel loro genuino interesse, i governi continuano a coalizzarsi con gli attori aziendali per calpestare l'opposizione, servendosi di una combinazione di violenza fisica e strumenti legali draconiani che riclassificano pacifici attivisti come terroristi.

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Il mondo ricco, perlopiù, si limita a ignorare tali richieste, liquidandole come storia antica — un po' come fa il governo degli Stati Uniti quando respinge le richieste di risarcimento per la schiavitù avanzate dagli afroamericani (anche se, nella primavera del 2014, esse si sono fatte molto più forti, grazie a un reportage rivoluzionario di Ta-Nehisi Coates, reporter dell'«Atlantic», che ha dato nuova linfa al dibattito). Ma il caso del debito climatico è un po' diverso. Possiamo discutere sulla legittimità o meno del colonialismo, e su quanto la schiavitù abbia plasmato il moderno sottosviluppo di certi Paesi. Ma la scienza del cambiamento climatico non lascia spazio al dibattito. Il carbonio lascia una traccia inconfondibile, una prova tangibile incisa nel corallo e nel ghiaccio più profondo. Siamo in grado di misurare con precisione quanto carbonio possiamo emettere nell'atmosfera e capire chi ha emesso quale percentuale di tale quantità nell'ultimo secolo.

D'altro canto, tutti questi debiti tanto trascurati non devono essere separati l'uno dall'altro, perché si comprendono meglio se analizzati come diversi capitoli della stessa storia. È stato il carbone riscalda-pianeta a dare l'energia alle fabbriche tessili e alle raffinerie di zucchero di Manchester e Londra, che quindi dovevano essere alimentate con sempre più cotone e canna da zucchero provenienti dalle colonie, perlopiù raccolti dagli schiavi. Eric Williams, studioso nonché primo primo ministro di Trinidad ora scomparso, ha affermato che i profitti della schiavitù hanno sostenuto in maniera diretta la crescita dell'industrializzazione in Inghilterra, un processo che adesso sappiamo essere inestricabilmente collegato al cambiamento climatico. I dettagli delle affermazioni di Williams vengono dibattuti con energia da parecchio tempo, ma il suo lavoro ha ottenuto un'ulteriore convalida nel 2013, quando i ricercatori dello University College London hanno pubblicato un database in cui erano contenute informazioni sulle identità e sulle finanze degli schiavisti inglesi della metà del XIX secolo.

Questo progetto di ricerca si è basato sul fatto che, quando il Parlamento inglese decise di abolire la schiavitù nelle colonie, nel 1833, si impegnò a ricompensare gli inglesi possessori di schiavi per la perdita delle loro proprietà umane — una forma inversa di riparazione, che premiava i perpetratori della schiavitù, non le loro vittime. Questo portò il governo a elargire una serie di pagamenti per una cifra totale di circa 20 milioni di sterline, che secondo «The Independent» «rappresentavano uno sbalorditivo 40 per cento del budget annuale del Tesoro e, in termini odierni, trasformati in valori salariali, ammonterebbero a 16,5 miliardi di sterline». Gran parte di quel denaro è finito direttamente nella costruzione delle infrastrutture a carbone della allora ruggente Rivoluzione industriale, dalle fabbriche alle ferrovie alle imbarcazioni a vapore. Questi, a loro volta, sono stati gli strumenti che hanno condotto il colonialismo a una fase marcatamente più avida, le cui cicatrici fanno male ancora oggi.

Non è stato il carbone a creare disuguaglianze strutturali: le navi che hanno permesso la tratta degli schiavi oltre l'Atlantico e le prime appropriazioni indebite di terre da parte dei coloni erano tutte a vela, e le prime fabbriche funzionavano con ruote ad acqua. Ma l'implacabile e prevedibile potere del carbone ha di certo accelerato il processo, permettendo di espropriare dalle colonie sia forza lavoro sia risorse naturali a un ritmo precedentemente inimmaginabile, gettando le basi per la moderna economia globale.

E oggi si scopre che quei furti non si sono conclusi con l'abolizione della schiavitù, o con il fallimento del progetto coloniale. No, si stanno ancora perpetrando, perché le emissioni di quelle prime navi a vapore e quelle prime, ruggenti fabbriche sono state solo l'inizio. Perciò, un altro modo di leggere questa storia è che, a partire da due secoli fa, il carbone ha permesso alle nazioni occidentali di appropriarsi deliberatamente delle vite e delle terre di altri popoli; e man mano che le emissioni di quel carbone (e in seguito del petrolio e del gas) si sono accumulate nell'atmosfera, queste nazioni hanno avuto i mezzi per appropriarsi inavvertitamente anche del cielo, che apparteneva ai discendenti di quei popoli, esaurendo gran parte della capacità dell'atmosfera di assorbire il carbonio in sicurezza.

Come risultato di questi secoli di furti seriali (di terra, di forza lavoro e di spazio atmosferico), i Paesi in via di sviluppo oggi sono costretti a scegliere tra gli impatti del riscaldamento globale, aggravato dalla persistente povertà, e il loro bisogno di alleviare tale povertà – che nell'attuale sistema economico può essere soddisfatto facilmente e per pochi soldi bruciando molto più carbonio di quanto non se ne bruci già, aggravando drammaticamente la crisi climatica. Non potranno mai farcela a superare quest'impasse senza aiuto, e questo aiuto può arrivare solo da quei Paesi e quelle industrie che si sono arricchiti, perlopiù, grazie a quelle appropriazioni indebite.

La differenza tra queste richieste di risarcimento e quelle del passato non risiede nel fatto che le motivazioni sono più o meno valide. È solo che qui non si tratta solo di moralità o etica: le nazioni ricche non devono aiutare il Sud del pianeta a sviluppare un sistema economico a basse emissioni solo perché è la cosa giusta da fare. Dobbiamo farlo perché da ciò dipende la nostra sopravvivenza.

Allo stesso tempo dobbiamo essere tutti d'accordo sul fatto che aver subito un torto non dà a un Paese il diritto di commettere lo stesso errore su scala ancora più grande. Essere stati violentati non assicura il diritto di violentare a propria volta, né aver subito un furto consente di derubare. Così, non aver ricevuto l'opportunità di soffocare l'atmosfera in passato non garantisce a nessuno la possibilità di farlo oggi. Soprattutto perché gli inquinatori moderni conoscono bene le implicazioni catastrofiche di questo inquinamento, a differenza dei primi industriali.

Perciò, occorre trovare un terreno comune. Fortunatamente, un gruppo di ricercatori, in collaborazione con EcoEquity e l'Environment Institute di Stoccolma, ha tentato di fare esattamente questo: ha sviluppato un modello dettagliato e innovativo di come dovrebbe funzionare un approccio rigoroso di riduzione delle emissioni a livello globale. Chiamato Greenhouse Development Rights, è un tentativo di adeguarsi meglio alla nuova realtà (la ricchezza e l'ingente inquinamento da carbonio dei Paesi in via di sviluppo), proteggendo con fermezza il diritto allo sviluppo sostenibile e riconoscendo la maggiore responsabilità dell'Occidente per le emissioni cumulative. Un simile approccio, secondo gli scienziati, è proprio quello che serve per uscire da quest'impasse climatica, dato che mira a risolvere «le ampie disparità presenti non solo tra i vari Paesi, ma all'interno dei Paesi stessi». Le nazioni del Nord possono stare certe che la nuova ricchezza del Sud del mondo farà la sua parte, adesso e in futuro, mentre l'accesso a ciò che resta della nostra atmosfera verrà salvaguardato adeguatamente, anche per i poveri del pianeta.

Pensando a tutto ciò, la giusta quantità di responsabilità nella riduzione delle emissioni per ogni Paese viene determinata secondo due fattori chiave: la responsabilità per le emissioni storiche e la capacità di contribuire al cambiamento, sulla base del livello di sviluppo del Paese. Per fare un esempio, in questo scenario di tagli globali alle emissioni, necessarie entro la fine del decennio, la quota di cui dovrebbero occuparsi gli Stati Uniti si aggirerebbe intorno al 30 per cento (la più rilevante). Ma non tutte queste riduzioni andrebbero eseguite all'interno dei confini: molte potranno essere eseguite finanziando o supportando la transizione verso meccanismi a basse emissioni nel Sud. E, secondo i ricercatori, definendo e quantificando nel dettaglio la percentuale di responsabilità di ogni nazione, non ci sarebbe più bisogno di affidarsi a meccanismi come il mercato del carbonio, inefficaci e facilmente aggirabili.

In un'epoca in cui i Paesi ricchi piangono povertà e riducono i servizi sociali per i propri cittadini, chiedere ai governi di impegnarsi in questo modo a livello internazionale sembra impossibile. Ormai a malapena reggiamo il vecchio tipo di aiuti, è difficile imbarcarsi in un nuovo approccio basato sulla giustizia. Ma, sul breve termine, ci sono svariati modi per far sì che i Paesi del Nord inizino a onorare i loro debiti climatici senza andare in rovina – cancellando, per esempio, il debito estero dei Paesi in via di sviluppo in cambio di azioni a favore del clima, oppure distribuendo licenze per l'energia verde e trasferendo in altri Paesi il necessario know-how.

Inoltre, gran parte dei costi non deve per forza ricadere sulle spalle dei contribuenti; può e dovrebbe competere alle industrie maggiormente responsabili di questa crisi. Magari sotto forma di uno qualsiasi tra i provvedimenti a carico di chi inquina discussi nei capitoli precedenti, oppure da una tassa sulle transazioni finanziarie, o magari eliminando i sussidi per le compagnie di carburanti fossili.

Ciò che non possiamo davvero aspettarci è che le persone meno responsabili per questa crisi si facciano carico di tutte, o anche di gran parte, delle spese. Perché presumere questo garantirebbe una catastrofica quantità di carbonio in più spedito nella nostra atmosfera. Come nel caso della chiamata a rispettare i trattati e gli altri accordi di condivisione della terra, il cambiamento climatico ci sta di nuovo costringendo a considerare il modo in cui le ingiustizie, che molti ritenevano ormai sepolte nelle pieghe del tempo, stanno plasmando la nostra vulnerabilità dinanzi al collasso globale del clima.

Molti dei più grandi giacimenti inutilizzati di carbonio si trovano sotto terre controllate da alcuni dei popoli più poveri del pianeta, e le emissioni stanno aumentando più rapidamente in quelle che, fino a poco tempo fa, erano le zone più disagiate del mondo. Perciò non possiamo pensare in modo credibile al futuro, senza prima risolvere alla radice il problema della povertà.

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Un Paese per vecchi

Per quanto ai nostri giorni si faccia un gran parlare del diritto alla vita e dei diritti dei non-nati, in concreto la nostra cultura presta ben poca attenzione alle particolari vulnerabilità dei bambini (e men che meno a quelle della vita nel suo sviluppo prenatale). Quando i farmaci vengono approvati e vengono stabiliti i limiti di sicurezza per l'esposizione ai prodotti chimici, le valutazioni dei rischi di queste sostanze si concentrano quasi sempre sui loro effetti sugli adulti. Come ha osservato la biologa Sandra Steingraber, «interi sistemi di normative si basano sull'assunzione che tutti i membri della popolazione si comportino sostanzialmente, sul piano biologico, come uomini maschi di mezza età [... ] Fino al 1990, per esempio, la dose di riferimento per l'esposizione alle radiazioni si basava su un ipotetico uomo bianco di 170 centimetri di altezza e 71 chili di peso». Più dei tre quarti delle sostanze chimiche industriali prodotte negli Stati Uniti non sono mai state testate per verificare i loro impatti sui bambini o sui feti; ciò significa che vengono rilasciate nell'ambiente senza neppure prendere in considerazione gli effetti che potranno avere sui soggetti che pesano, mettiamo, 9 chili (come una bambina di un anno), per non parlare di quelli di 230 grammi (come un feto di diciannove settimane)!

Tuttavia, l'emergere di gruppi di casi di infertilità e di malattie infantili è spesso il primo indice di una crisi sanitaria più ampia. Per esempio, per anni era sembrato che, nonostante gli indubbi problemi di sicurezza che la pratica della fratturazione idraulica comportava per l'aria e per l'acqua, non ci fossero chiare prove che questa attività avesse anche un grave impatto sulla salute umana. Nell'aprile 2014, però, i ricercatori della Brown University e della Scuola di salute pubblica del Colorado hanno pubblicato uno studio (controllato dagli esperti tramite il meccanismo della peer review) che ha preso in esame le nascite nelle zone rurali del Colorado, dove sono in corso numerose attività di fracking: ne è emerso che le madri che vivevano nelle aree dove veniva estratto più gas naturale tramite questo metodo avevano il 30 per cento di probabilità in più di avere bambini con difetti cardiaci congeniti rispetto a quelle che non avevano pozzi di trivellazione di questo tipo vicino a casa. I ricercatori hanno inoltre trovato alcune evidenze che suggeriscono che gli alti livelli di esposizione materna all'estrazione del gas portano a un incremento dei rischi di problemi neurologici.

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Ma forse questo non ci dovrebbe sorprendere: come cultura, facciamo molto poco per proteggere, valorizzare o anche solo prendere in considerazione la fertilità (e non solo fra gli esseri umani, ma attraverso tutto lo spettro della vita). Anzi, enormi quantità di denaro e tecnologie all'avanguardia vengono di fatto impiegate in pratiche che interferiscono attivamente con il ciclo della vita: abbiamo un modello agricolo globale che è riuscito a rendere illegale per i contadini la millenaria tradizione di mettere da parte i semi – gli elementi fondamentali della vita – in modo da non doverli ricomprare ogni anno. E abbiamo inoltre un modello energetico globale che preferisce i combustibili fossili all'acqua, dove l'intera vita ha avuto inizio e senza la quale nessuna forma di vita potrebbe sopravvivere.

Il nostro sistema economico, nel frattempo, non attribuisce alcun valore al lavoro riproduttivo delle donne e offre una paga da fame a chi si prende cura degli altri (e agli insegnanti non va molto meglio); e noi, in generale, sentiamo parlare della riproduzione femminile solo quando gli uomini stanno tentando di regolarla.




L'eredita della BP e un «pugno di niente»

Se tendiamo a trascurare anche l'impatto delle nostre attività industriali sulla stessa riproduzione umana, per gli altri esseri viventi è decisamente peggio. Un caso che rende bene l'idea è costituito dal rapporto di valutazione dei rischi prodotto dalla BP prima del disastro della costa del Golfo. Prima che venisse concessa l'autorizzazione di sicurezza per poter trivellare in acque così profonde, la compagnia aveva l'obbligo di presentare un piano credibile con l'indicazione dei possibili effetti di una fuoriuscita sull'ecosistema e delle misure che sarebbero state prese in risposta all'incidente. La minimizzazione dei rischi è uno dei tratti distintivi dell'industria dei combustibili fossili, e la compagnia predisse con sicurezza che molti molluschi e pesci adulti sarebbero stati in grado di sopravvivere a una fuoriuscita di greggio, o nuotandosene via o «metabolizzando gli idrocarburi», mentre i mammiferi marini – come i delfini – avrebbero potuto sperimentare un certo livello di «stress». Nel rapporto si notava la vistosa assenza di termini come «uova», «larve», «feti» e «avannotti»; in altre parole, anche qui si procedeva sulla base del presupposto standard secondo cui viviamo in un mondo dove tutte le creature sono già adulte.

[...]

Dopo aver esaminato i delfini, gli scienziati della NOAA hanno scoperto che alcuni dei piccoli erano nati morti mentre altri erano deceduti qualche giorno dopo la nascita. «È successo qualcosa che fa sì che questi animali abortiscano o i loro piccoli non siano abbastanza forti per sopravvivere» ha dichiarato il direttore esecutivo dell'Istituto per gli studi sui mammiferi marini (IMMS) di Gulfport (Mississippi), Moby Solangi, uno degli scienziati che investigavano sugli incidenti.

I decessi sono avvenuti durante quella che per i delfini dal naso a bottiglia era la prima stagione delle nascite dopo il disastro della BP: ciò significa che, per gran parte del loro periodo di gestazione (di dodici mesi), questi piccoli si erano sviluppati nel corpo di madri che, con ogni probabilità, nuotavano in acque contaminate dal petrolio e dai disperdenti chimici e inalavano fumi tossici durante le emersioni per respirare. Metabolizzare gli idrocarburi è difficile e potrebbe aver reso i delfini molto più vulnerabili a batteri e malattie; e questo potrebbe spiegare il motivo per cui, quando gli scienziati guidati dalla NOAA hanno esaminato 29 delfini al largo della costa della Louisiana, hanno riscontrato un'alta percentuale di malattie polmonari oltre a livelli estremamente bassi di cortisolo, indici di insufficienza surrenale e una grave compromissione della capacità di rispondere allo stress. Hanno inoltre trovato una femmina di delfino incinta di cinque mesi con un feto «non in grado di sopravvivere» (un caso estremamente raro nei delfini, di fatto mai documentato in precedenza in letteratura). «Non ho mai visto una prevalenza così alta di animali molto malati e con patologie insolite, come le anomalie a livello di ormoni surrenali» ha affermato Lori Schwacke, principale autrice di un articolo su queste scoperte pubblicato verso la fine del 2013. Commentando lo studio, la NOAA ha avvertito che i delfini andranno «probabilmente» incontro a una «riduzione della loro capacità di sopravvivere e di riprodursi».

La fuoriuscita di petrolio non è stato l'unico fattore aggiuntivo di stress a cui questi animali sono stati esposti in quello sfortunato periodo. Nell'inverno 2010-2011, infatti, la regione era stata colpita da pesanti nevicate anomale, un fenomeno che gli scienziati avevano messo in correlazione con il cambiamento climatico. Allo sciogliersi degli enormi cumuli di neve, nel Golfo del Messico si sono quindi riversati torrenti di acqua dolce, provocando un abbassamento dei livelli di salinità e di temperatura che è già di per sé rischioso per i mammiferi abituati a vivere in acque calde e salate e che, combinato con la presenza di petrolio e sostanze disperdenti, ha creato una situazione ancora più pericolosa per i delfini e gli altri cetacei. Come spiega Ruth Carmichael, scienziata di punta del Laboratorio marino di Dauphin Island, «queste grandi quantità di acqua dolce fredda potrebbero aver assestato un altro colpo [ai delfini] proprio quando erano già al tappeto».

È l'uno-due di un'economia costruita sui combustibili fossili: letale quando l'estrazione va male e il carbonio sepolto sottoterra si libera alla fonte; letale quando l'estrazione va bene e il carbonio viene rilasciato nell'atmosfera sotto forma di gas serra. E catastrofica quando queste due forze vengono a combinarsi in un unico ecosistema, come quell'inverno sulla costa del Golfo.

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Ritornare alla vita

All'inizio del 2013 mi sono imbattuta in un discorso della scrittrice e educatrice di Mississauga Leanne Simpson, che descrive nei seguenti termini gli insegnamenti e le strutture di governo del suo popolo (i nativi canadesi Anishinaabe): «I nostri sistemi sono studiati per promuovere più vita». Quando ho sentito questa affermazione, mi sono fermata di colpo. La cosa che mi ha colpito è che questo principio guida è l'esatta antitesi dell'estrattivismo, che si basa sulla premessa secondo cui la vita può essere prosciugata all'infinito e che, anziché promuovere la vita futura, si è specializzato nel trasformare in spazzatura quei sistemi viventi che un tempo erano parti sane degli ecosistemi, che si tratti dei cumuli di «materiali di copertura» sul ciglio delle strade fra le sabbie bituminose dell'Alberta, o delle schiere di reietti che vagano per il mondo alla ricerca di un lavoro temporaneo, o dell'aria che viene intasata dai particolati e dai gas. O, di fatto, le città grandi e piccole ridotte in macerie dalle tempeste rese più forti dal calore che quei gas intrappolano nell'atmosfera.

Dopo aver ascoltato il discorso, ho scritto alla Simpson chiedendole se fosse disposta a dirmi qualcosa in più su ciò che stava dietro a quell'affermazione. Quando ci siamo incontrate in un caffè di Toronto (per l'occasione, lei indossava una T-shirt nera da rockettara e un paio di stivali da motociclista), ho avuto l'impressione che Leanne, che ha dedicato gran parte della sua vita a raccogliere, tradurre e interpretare artisticamente i racconti e la storia orale del suo popolo, fosse diffidente dinnanzi alla prospettiva che l'ennesima ricercatrice bianca venisse a scavare nella sua mente.

Alla fine, comunque, abbiamo avuto una lunga discussione di ampio respiro sulla differenza tra una mentalità estrattivista (che la Simpson descrive, senza giri di parole, come «rubare» e togliere le cose «da ciò con cui sono in rapporto») e una mentalità rigenerativa. Mi ha descritto i sistemi Anishinaabe come «un modo di vivere finalizzato alla generazione della vita, e non solo di quella umana ma di quella di tutti gli esseri viventi». Si tratta di un'idea di equilibrio, o armonia, che accomuna molte culture indigene e che spesso viene tradotta con il concetto di «vita buona»; la Simpson, però, mi ha detto che preferisce la traduzione «continua rinascita», che ha sentito per la prima volta da un'altra scrittrice e attivista Anishinaabe, Winona LaDuke.

È comprensibile che noi, oggi, associamo queste idee a una visione del mondo propria dei nativi: sono infatti soprattutto le culture indigene ad aver tenuto viva, di fronte ai bulldozer del colonialismo e della globalizzazione economica, questa visione alternativa del mondo. Come quando i semi delle piante vengono conservati per salvaguardare la biodiversità vegetale globale, allo stesso modo molte culture indigene hanno salvaguardato questi ulteriori modi in cui gli uomini possono relazionarsi fra di loro e con il mondo naturale, in parte per la convinzione che verrà un tempo in cui questi semi intellettuali saranno necessari e il terreno in cui piantarli diventerà di nuovo fertile.

Uno degli sviluppi più importanti nell'emergere di ciò che ho indicato come Blockadia è che, da quando questo movimento ha preso forma e diversi indigeni hanno assunto al suo interno ruoli di leadership, queste visioni del mondo a lungo custodite hanno iniziato a diffondersi in un modo che non si vedeva da secoli. Ciò che sta emergendo, di fatto, è un nuovo tipo di movimento per i diritti riproduttivi, un movimento che non combatte solo per i diritti riproduttivi delle donne ma per quelli dell'intero pianeta: per le montagne decapitate, le valli sommerse, le foreste spianate, le falde freatiche sottoposte alla fratturazione idraulica, i fianchi delle colline devastati dalle miniere a cielo aperto, i fiumi avvelenati, i «villaggi del cancro». E tutta la vita ha il diritto di rinnovarsi, di rigenerarsi e di risanarsi.

Sulla base di questo principio, alcuni Paesi con popolazioni indigene numerose – come la Bolivia e l'Ecuador – hanno introdotto nella legge i «diritti di Madre Terra», creando nuovi potenti strumenti legali che asseriscono il diritto degli ecosistemi non solo a esistere, ma a «rigenerarsi». L'essenzialismo di genere del termine «madre» mette ancora a disagio alcune persone, ma mi sembra che la natura specificamente femminile non sia di centrale importanza: che scegliamo di vedere la Terra come una madre, un padre, un genitore o una forza creativa priva di genere, ciò che conta è che stiamo riconoscendo che noi non siamo al comando, bensì parte di un vasto sistema vivente da cui dipendiamo. La Terra, ha scritto il grande ecologista Stan Rowe, non è semplicemente una «resource» (una risorsa) ma una «source» (una fonte).

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E al contrario del capitalismo, che quasi in ogni arena viene a sfociare in monopoli o duopoli, questi sistemi imitano la genialità della natura sul fronte delle ridondanze intrinseche, amplificando la diversità ovunque sia possibile (da una maggiore varietà di semi a un maggior numero di fonti di energia e di acqua). L'obiettivo non è più quello di costruire qualche singola soluzione verde dalle proporzioni ciclopiche, ma di moltiplicare all'infinito le soluzioni più piccole e di adottare delle politiche (come il conto energia introdotto in Germania per sostenere le rinnovabili, per esempio) che incentivino la moltiplicazione delle fonti anziché la loro concentrazione. Il bello di questi modelli è che, se hanno problemi, sono su piccola scala e facilmente gestibile, con sistemi di backup già pronti a entrare in azione; e questa è un'ottima notizia, perché, se c'è una cosa di cui possiamo essere certi, è che il futuro è foriero di parecchi shock che dobbiamo essere preparati ad affrontare.

Una vita non incentrata sull'estrazione non è una vita dove l'estrazione non c'è più: tutti gli esseri viventi, infatti, devono pur sempre attingere dalla natura per sopravvivere. Significa, invece, la fine della mentalità estrattivista che ci spinge a prendere soltanto senza prenderci cura, a trattare la terra e le persone come risorse da sfruttare anziché come entità complesse con il diritto di condurre un'esistenza dignitosa basata sul rinnovamento e la rigenerazione. Anche le pratiche tradizionalmente distruttive, come il taglio del legname, possono avvenire in modo responsabile, e lo stesso vale anche per le attività minerarie su piccola scala (in particolare se controllate dalle persone che vivono nelle aree dove l'estrazione ha luogo e che, quindi, hanno ogni interesse a conservare la salute e la produttività di quelle terre). Ma, soprattutto, condurre una vita non incentrata sull'estrazione significa basarsi in modo preponderante su quelle risorse che possono essere rigenerate di continuo: ricavare il nostro cibo da metodi di coltivazione che proteggono la fertilità del suolo, la nostra energia da metodi che imbrigliano la forza – che si rinnova continuamente – del Sole, del vento e delle onde, i nostri metalli da fonti riciclate e riutilizzate.

A volte questi processi vengono chiamati «resilienti», ma è più appropriato definirli «rigenerativi»: la resilienza, infatti, pur essendo uno dei più grandi doni della natura, è un processo passivo, ovvero la capacità di assorbire i colpi e rimettersi in piedi; la rigenerazione, d'altro canto, è qualcosa di attivo, in quanto significa che diventiamo pienamente partecipi del processo di massimizzazione della creatività della vita.

Si tratta di una visione molto più ampia della vecchia ecocritica, che poneva l'accento sulla piccolezza e sulla riduzione dell'impatto (o «impronta») dell'umanità. Oggi quest'opzione semplicemente non è più disponibile, perlomeno non senza implicazioni da genocidio: siamo qui, siamo tanti e dobbiamo agire mettendo a frutto le nostre abilità. Possiamo, tuttavia, cambiare la natura delle nostre azioni affinché vengano sempre a far crescere la vita anziché a indebolirla con l'estrazione.

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