Copertina
Autore Julia Kristeva
Titolo Colette. Un genio femminile
EdizioneO barra O, Milano, 2012, gli Antecedenti , pag. 64, cop.fle., dim. 10,3x17x0,5 cm , Isbn 978-88-87510-79-9
OriginaleColette. Un génie féminin [2004]
TraduttoreSuzanne Delormes, Mario Flain
LettoreAngela Razzini, 2012
Classe biografie , critica letteraria , femminismo
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


L'alfabeto di Colette                    7

Les vrilles de la vigne                 19

Da Claudine a Sido,
Colette o la carne del mondo            31

L'enfant et les sortilèges              42

Un'inespugnabile innocenza              52


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

L'alfabeto di Colette


"Se la calligrafia è un ritratto, nulla autorizza che ogni pagina manoscritta imponga un ritratto sgraziato e delatore, pur se assomigliante. Tra i sei e i dodici anni scrivevo velocemente e male, con la spalla destra di traverso e l'indice incurvato e contratto sul pennino, come tutti i bambini ai quali un tempo si insegnava la scrittura corsiva. Verso i tredici anni, fortuna volle che nel mio villaggio il posto di insegnante fosse assegnato a una giovane donna, vivace, esigente, la quale chinandosi sui miei quaderni mi disse: 'Oh, che brutta calligrafia... Ma perché?'. Io non mi aspettavo questo 'perché' e non seppi cosa rispondere... 'Questa calligrafia è inaccettabile! Ti concedo una settimana di tempo per correggerla, è più che sufficiente. Usa dei pennini larghi Flamand n° 2, ti aiuteranno a scrivere più lentamente e a rendere più chiara la tua grafia! Non hai mai pensato che essere illeggibile sia una grave mancanza di educazione?' Dopo un simile ammonimento i risultati furono immediati. Mezzo secolo più tardi lo sperimentai su Claude Chauvière, una deliziosa letterata di talento morta in giovane età... che storia triste fu la sua. La calligrafia di Claude Chauvière scoraggiava l'attenzione del lettore, era inafferrabile, appena abbozzata, purtroppo significativa; trascurava gli occhielli e i trattini, cancellava le basi, era una scrittura che, ahimè, aspirava all'evasione. Il decifrarla mi procurava irritazione e disagio, perciò davo a Claude della maleducata. Lei, essendo molto orgogliosa, impallidiva, ma poi, rossa in viso, rispondeva: 'Signora, non mi resta altro che liberarla da una lettura fastidiosa e dalla presenza di una persona maleducata'. Dal momento che le ero molto affezionata la chiamavo 'sciocchina', epiteto che lei accoglieva come la più dolce delle lodi, con il viso che di colpo si bagnava di lacrime."

È la voce di Colette, scrittrice nata nel 1873 e morta nel 1954, che io considero uno dei geni femminili del XX secolo. Questa registrazione è stata realizzata nel 1948 ai microfoni di René-Maurice Picard per Radio France. Volevo assolutamente farvi ascoltare questa voce affinché poteste apprezzarne l'accento, il colore e l'epoca, prima di condurvi ancor più vicino a lei. Vi proporrò, infatti, la mia lettura di Colette, che a molti di voi sembrerà – ne sono certa, lo temo, non so se sperarlo – ben lontana dall'immagine che vi eravate fatti di colei che in vita veniva chiamata La nostra Colette, una sorta di mito nazionale. La forza, la magia e la polifonia della scrittura non sono forse un invito all'immedesimazione e alla passione, un modo attraverso il quale il lettore ritrovando Colette ritrova se stesso, si lascia sedurre da lei per farla sua nel proprio tempo e nella propria vita? Vi parlerò dunque di una Colette che io amo e nella quale mi rispecchio, che leggo e invento, di una Colette trovata, creata. Quella Colette che io adoro insieme ai suoi gatti, ai suoi gerani, agli usignoli e alle sue "r" rotonde di nativa della Borgogna, quella Colette portata con me e coltivata nei peripli e nei viaggi della mia vita da nomade, dai Balcani a Santa Barbara, da New York a Mosca, Londra o Toronto. Per molto tempo ho pensato che Colette non potesse essere apprezzata al di fuori dalla Francia, una donna troppo francese, probabilmente incomprensibile tra il suo Saint Sauveur e la cucina di Sido. Salvo poi scoprire che è davvero amata anche altrove. Sapete che oggi è considerata come una scrittrice contraria alla globalizzazione, il cui gusto è in grado di risvegliare quello di chi non osa averne, che ne è sempre stato sprovvisto o che magari lo ha perduto? Sapete che viene anche ammirata la sua discrezione, sentimento quanto meno strano nei confronti di colei che per molti fu una scandalosa innamorata? Colette innamorata? Ecco una bella domanda! Ne La vagabonde, opera pubblicata nel 1910, lei scrive: "Femmina ero e femmina mi ritrovo, per soffrirne e per gioire". "Che fare?... Per oggi scrivere, brevemente perché il tempo stringe, e mentire..." È dunque questo l'amore? Ritorneremo su questo punto. In ogni caso, più della voce e al di là della donna, con i suoi piaceri che superficialmente definiamo "fisici", è di scrittura che si tratterà principalmente. Le femministe si sono riconosciute nelle sue sfrontatezze, ma Colette, che nulla aveva della militante, si compiaceva nel dire che queste donne meritavano soltanto "l'harem e la frusta". In queste parole non avverto tanto un rifiuto o uno sgarbo, quanto l'insaziabile ironia di questa golosa della lingua madre ancora poco apprezzata, nascosta com'è sotto la maschera contadina e sotto le sue crudeltà di donna ferita, una donna che ha saputo difendersi e imporsi. Il suo pudore rompe con il moderno mercato dell' hard-sex e dell'amore con la "A" maiuscola, in cui si perdono oggi molte sue colleghe. In Mes apprentissages (1936) Colette si concede il "piacere, non dico vivo, ma onorevole, di non parlare dell'amore". Ciò che la rende unica, tipicamente francese e universalmente invidiata, è proprio la sua "impudenza nell'enunciare" – prendo a prestito l'espressione con la quale Hegel definiva Le Neveu de Rameau – e la sua vicinanza a noi tramite uno stile sempre gustoso e perentorio. A mio avviso, Colette vive in modo più complesso e inafferrabile nei suoi testi che di persona. È a partire dalla sua scrittura che oggi rivive nell'esistenza di una studentessa incontrata a Jussieu, di un fotografo incrociato a Chicago o di una femminista in Nuova Zelanda. Rinasce nella nostra rilettura della sua opera che celebrava un solo tempo, quello dello sbocciare. "Sta lì, secondo me, il dramma fondamentale, più che nella morte, che non è altro che una banale disfatta" scrive Colette. In questo pensiero è contenuta tutta Colette, con la gioia di vivere al di là della tristezza, l'appetito di percepire, l'incessante consumazione delle parole e degli esseri, il genio francese che si è appropriato della lingua di Sido, sua madre, e della musica di Couperin, Rameau e altri. Alla pubblicazione dell'ultimo volume della trilogia su Le génie féminin, precisamente quello che tratta della scrittrice, non sono mancate le reazioni. "Finalmente una francese, dopo Hannah Arendt e Melanie Klein!" hanno esclamato alcuni lettori con un certo sollievo. Altri, meno entusiasti, hanno rilanciato: "Colette, un genio? Può darsi, ma il genio di una Francia che non c'è più, antiquata, che è preferibile dimenticare". Un giudizio che non condivido. Colette è un essere assolutamente attuale. La sua modernità deriva dal fatto che ha saputo trovare un linguaggio per esprimere l'osmosi tra le sue sensazioni, i suoi desideri, le angosce e l'infinito del mondo. Questo linguaggio che intesse la lingua materna con tutte le percezioni del corpo e la complessità del mondo era in qualche modo la sua religione, una di quelle religioni che ci mancano e che certi pensano di ritrovare nell'integralismo. Colette era dunque un'anti-integralista? Certamente! Con il suo amore "per lo sbocciare dei fiori, il palpito delle bestie, le apparizioni sublimi e i mostri contagiosi" era un antidoto all'integralismo. Tale linguaggio non può che trascendere la sua contingenza. Colette è vagabonda, vincolata e libera, crudele o compassionevole, ma non è soltanto una donna del suo tempo. Certo il suo stile rivela le sue radici contadine e l'accento borgognone, ma alleggerisce anche la sua epoca e la sua esperienza in una sorta di alchimia che per noi rimane ancora e sempre misteriosa.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 16

Colette la radicata, Colette l'innamorata, Colette l'edonista che esige il proprio diritto alla felicità a qualunque prezzo! Tali immagini non sono solo contraffazioni create dall'opinione comune, ma anche quelle che lei stessa ha coltivato compiaciuta. Certi hanno tentato di ridicolizzarla per la sua gioia di vivere, il suo desiderio di trasgressione e di sempre maggiore piacere. Jeannine Malige ne parla come di colei che avrebbe pervertito l'istinto materno; Marguerite Yourcenar, in altri termini non meno sprezzanti, dice che Colette rappresenta "una certa Francia complicata come un'antica Cina"; Liane de Pougy sottolinea la sua "infernale cattiveria", mentre François Mauriac ritiene che la sua opera trasudi un sentore di "sottoascella"... Considerazioni maligne e non sempre veritiere, ma perché negarle? Resta il fatto che, al di là di tutto, la vita e l'opera di Colette propongono a noi contemporanei piaceri forti e riflessioni attuali i cui particolari si paleseranno nel corso del nostro viaggio attraverso i suoi libri. A rischio di intaccare l'immagine "vecchia Francia" appiccicata a questa "contadina" che "fece scandalo" prima di diventare sacerdotessa del Palais-Royal e della giuria del premio Goncourt, espongo qui di seguito la mia sintesi interpretativa del percorso di Colette e concludo con le parole di sua madre – mi concederete, chi conosce una donna, e per giunta una scrittrice, meglio di sua madre?

Contro le frustrazioni della sua vita amorosa e le prove imposte dalla realtà sociale, soprattutto la guerra, Colette si aggrappa al piacere di vivere che per lei è indistintamente un piacere dei sensi e delle parole. La sua golosità e il suo appetito privilegiano, com'è naturale, il gusto, ma contaminano incessantemente gli altri sensi: la vista, l'udito, l'olfatto, il tatto e tutte le varianti della sensualità – Eros e Thanatos, la vita e la morte che si mescolano in un'impudicizia purificata dallo stile. Quest'inno al piacere di cui abbiamo lodato gli accenti pagani, che profuma delle abbuffate di Rabelais e si riallaccia all'insolenza di Villon, viene enunciato per la prima volta al mondo attraverso la voce e la penna di una donna, di una francese. Ecco infine quanto dice sua madre, un po' punzecchiandola, ma soprattutto lusingandola: "Tu sei una donna come si deve, ma di un genere particolare. [...] Hai talento nello scrivere e nell'interessare il lettore con cose... non posso dire di poco conto, poiché in fondo non lo sono, anzi, e devo pure riconoscere che sei in anticipo di due secoli sotto diversi punti di vista". In un certo modo, già agli occhi di Sido, Colette ci ha raggiunto. Quali guide migliori di queste parole, di una tenerezza senza compiacenza e persino profetiche?

| << |  <  |