Copertina
Autore Mario La Ferla
Titolo Compagna Marilyn
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2007, Eretica speciale , pag. 312, ill., cop.fle., dim. 15x21x1,8 cm , Isbn 978-88-6222-017-0
LettoreElisabetta Cavalli, 2008
Classe biografie , cinema , paesi: USA
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Indice


La fama, il potere e la morte.
La storia scritta dagli spioni            3

Ultima notte a Brentwood                 15
Mattatoio Helena Drive                   32
Il fantasma di Bobby                     50
Casa Bianca a luci rosse                 64
Il diario scomparso                      77
Ufo, mafia e Fidel                       85
Hoover contro i Kennedy                  98
Obiettivo Hollywood                     115
Ossessione bionda                       129
Sesso, fango e veleno                   148
Joan Crawford, la Divina e le altre     166
Il mistero della "Dalia Nera"           176
Jack la passa a Bobby                   191
In missione oltreconfine                203
Beat in Mexico                          215
Il comunista di Fifth Avenue            233
Tanti auguri, presidente                248
Adiòs                                   261

Album fotografico                       275

Appendice — Paradiso perduto            291


 

 

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La fama, il potere e la morte. La storia scritta dagli spioni


Il 1962 è stato un anno straordinario. Gli avvenimenti parlano di un'epoca irripetibile. Il mondo fece in tempo, quasi per miracolo, a non precipitare in una nuova guerra mondiale. La crisi dei missili a Cuba stava per diventare la causa di uno scontro frontale fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Fu anche un anno di grandi speranze e di seducenti attese. Cinque giorni dopo l'inaugurazione della nuova cattedrale di Coventry, in Inghilterra, sotto il tetto e le quattro mura dell'edificio ricostruito da Sir Basil Spencer, aveva avuto luogo, il 30 maggio, la prima mondiale del più alto canto di pace del XX° secolo: il War Requiem di Benjamin Britten. L'Algeria aveva proclamato la sua indipendenza. A Roma, nella Basilica di San Pietro, il Concilio Vaticano II aveva annunciato il cambiamento del mondo cattolico. Sean Connery era apparso per la prima volta negli abiti impeccabili di James Bond in "007 licenza di uccidere"; mentre faceva scandalo la "Lolita" cinematografica di Stanley Kubrick. A Londra, il 12 luglio, avevano esordito i Rolling Stones, al Marquee, il tempio del rock. Il 5 ottobre usciva il primo disco dei Beatles. Aleksander Solzcenicyn, reduce dai gulag di Stalin e autorizzato da Nikita Krusciov, aveva pubblicato il racconto "Una giornata di Ivan Denisovic , destinato a diventare il manifesto letterario del nuovo corso dopo la destalinizzazione dell'Urss. Nella notte tra il 4 e il 5 agosto era morta Marilyn Monroe.

Nella memoria collettiva universale, è questo l'avvenimento più emozionante di quell'anno. Sola e disperata, l'attrice più famosa del mondo aveva lasciato il suo universo, i suoi ex mariti e i suoi amanti; i casinò di Las Vegas, le sue amicizie eccellenti che l'avevano portata fin dentro la Casa Bianca, le sue conoscenze pericolose con i boss di Cosa Nostra, i registi e gli attori celebri, Frank Sinatra e il suo clan, il suo psichiatra e i suoi dottori di fiducia. Il mito era nato subito, appena il suo corpo era stato trasferito in gran segreto alla morgue. Sono 46 anni che Marilyn gioca, sorniona, con la gonna svolazzante sopra la griglia di aerazione sul set di "Quando la moglie è in vacanza". Sono 46 anni che ci volta le spalle, i capelli soffici e biondi, il corpo fasciato come una seconda pelle da una ragnatela di seta trasparente color carne, e la sentiamo cantare al Madison Square Garden di New York pieno zeppo di invitati, quel capolavoro di ingenuità e di malizia da gattona libidinosa, ubriaca di champagne e stordita dalle droghe, "Happy Birthday, mister President", rivolta a John Kennedy, il suo amante, nel giorno del suo 45° compleanno. Era il 29 maggio 1962.

Sono 46 anni, libro dopo libro – almeno seicento (una media di 34 all'anno) – compreso quello con i risultati completi e dettagliati dell'autopsia, foto dopo foto, che tutti cercano disperatamente di strappare al silenzio quella donna incantevole, per farne un culto della diva più eterna, fantasma del desiderio e di una grande illusione. La sua docile femminilità d'epoca, che imprigionava luminosa le sue disperazioni, ha attraversato intatta i decenni, e ancora si scandagliano la sua vita e la sua morte, e ci si lascia incantare dai suoi film. Vivere a Hollywood, è duro. Morirci, è impossibile. Lo dicevano i cinici scrittori e i giornalisti di gossip. Per Marilyn questa è stata la regola; solo per lei quello slogan che sapeva di sentenza ha funzionato alla perfezione. A tutto questo, e anche ai suoi film, ai suoi uomini, alla sua infanzia disperata, ai suoi successi planetari, alle sue crisi e alle illusioni, ai suoi leggendari ritardi, il mondo l'ha inchiodata, con il pretesto ipocrita di sapere, di ricordare, di capire, con l'intenzione nascosta di punirla per averci trattato così male, facendoci il torto di andarsene. Non c'è pietà per chi nega al pubblico il lieto fine. A Hollywood avevano inventato un altro slogan: "Nel cielo di stagnola, le stelle non hanno il diritto di spegnersi". Una generazione che l'aveva desiderata se la trascina dietro nella propria marcia verso la vecchiaia, con l'egoismo del fan e con l'ostinazine del tempo che passa, nel tentativo di consegnarla a figli e nipoti.

Quando è morta, Marilyn aveva 36 anni. Oggi ne avrebbe 82. Ma nessuno permette di lasciarla morire, perché per tutti è come uno specchio nel quale si guarda e si vede tutto quello che vuole: il desiderio impossibile,il tradimento sognato e mai consumato, e magari l'ombra sinistra di quella potente mano assassina che l'avrebbe uccisa per salvare l'onore dell'America. È ancora, e mai smetterà di esserlo, la "candela al vento" come l'ha cantata Elton John; la bionda più strepitosa, dea polposa e succulenta in un'epoca nella quale restava ancora un po' di fame da guerra, nelle sue forme generose e prorompenti, nella sua dissolutezza ancora tanto perbenista e piccolo borghese, lanciata al perenne inseguimento della rispettabilità sociale e culturale. Soltanto poche settimane dopo la sua morte, appariva nei multipli famosi di Andy Warhol, come un'icona predisposta all'adorazione, che oggi, al mercato internazionale dei collezionisti, contendono il primato a quelli altrettanto celebri di Che Guevara.

E poi, le sue fotografie, con le lunghe gambe vestite di calze a rete come in "Fermata d'autobus", o inguainata di rosso in "Niagara"; o quella, forse la più famosa, del calendario "Miss Golden Dreams", di quando nel maggio 1949, giovanissima e povera, posò nuda: "Ero vestita di sola luce", dirà più tardi. Doveva pagare l'affitto dell'appartamentino e le bollette della luce, confessò quando Hugh Herfner aveva pubblicato lo scatto nel primo numero di "Playboy", e John Huston, attratto da quella posa, l'aveva scelta per una parte in "Giungla d'asfalto". Quella foto così semplice, senza pretese, scattata nel tinello del suo amico Tom Kelley mentre la moglie preparava la cena, aveva scandalizzato l'America e ha avuto il merito di racchiudere il senso di un periodo storico, come le foto di Lenin sulla tribuna, di Mussolini a cavallo, di Hitler sotto le luci delle adunate, e ha saputo sopravvivere al mito delle immagini del volto color gesso di Greta Garbo, o dello sguardo insolente e delle lunghe gambe di Marlene Dietrich. Capelli biondo platino forse non autentici, un neo probabilmente disegnato da un abile truccatore, labbra carnose, sorriso ammaliante e triste, un corpo generoso che non sarebbe piaciuto agli stilisti ammiratori di modelle anoressiche.

Questo è l'involucro che mantiene in vita il mito di Marilyn Monroe. Lo aveva capito bene quel genio di Truman Capote, che la conobbe sul set di "Giungla d'Asfalto": "Che cos'è Marilyn? Una specie di esplosione di sesso al platino che aveva raggiunto fama mondiale". Ma di lei, l'autore di "Colazione da Tiffany" aveva anche disegnato in "Musica per camaleonti" un ritratto tenero e malinconico: "È come un'adorabile bambina". La sua immagine ci rimbalza dai poster, dai puff metallici, dai distintivi made in China, dai bauletti, dai cuscini in bella mostra nelle case delle cittadine del Nebraska o del Sud Dakota. Ogni giorno, qualsiasi giornale stampato nel mondo, in un articolo di costume o in un ritratto d'attrice o in una intervista a un regista, scrive il nome di Marilyn Monroe come termine di paragone, punto di riferimento, o per ricordare un'epoca lontana. Una volta era il cliché della sorridente fiducia dell'America uscita dalla guerra, emblema del grande paese come la bottiglietta della Coca Cola, o anche sex symbol da consegnare ai milioni di uomini frustrati che non avevano il cent per pagarsi un biglietto del cinema e si accontentavano di guardarla sui tabelloni pubblicitari.

Poi è arrivato il web. Milioni di persone, da ogni parte del mondo, riempiono i blog sulla vita e sulla morte di Marilyn. "Che ne pensi della sua fine?", chiede Clarence da Santa Monica, California. "Non so come è morta, se suicida o ammazzata, però mi manca terribilmente", risponde Judith da Cape Town. E poi le frasi gentili e commosse, i pensierini, gli auguri che piovono da ogni parte per i suoi compleanni. Centinaia di milioni di persone, nel mondo, se la ricordano la data, 1° giugno 1926, quando Marilyn, che in realtà si chiamava Norma Jean Mortensen, era nata in un sobborgo di Los Angeles, da una madre pazza e da un padre contumace. "Tanti auguri, Marilyn, hai 80 anni e sei ancora così, nel tuo mito immortale e ineguagliato". E poi le poesie, tantissime, alcune brevi, altre lunghe come poemi. Resta esemplare quella scritta da Pier Paolo Pasolini, poche settimane dopo la sua morte: "Povera sorellina minore..." Sono state raccolte dai blog in antologie da furbi editori americani che ci campano di rendita. Questa è una perla, scritta da un giovane italiano: "Signore, accogli questa ragazza conosciuta da tutto il mondo con il nome di Marilyn Monroe, nonostante non fosse questo il suo nome, ma tu conosci il suo vero nome, quello dell'orfanella violentata a nove anni e la piccola commessa che a 16 aveva voluto uccidersi, e che ora si presenta dinanzi a Te senza il minimo maquillage, senza il suo addetto stampa".

Nato repentino, il mito resiste al tempo anche perché tenuto vivo da ammirazione e da pietà. La più famosa bellezza del mondo, la più grande regina del sesso di tutti i tempi, è amata e vezzeggiata, perché sembra bisognosa di protezione, sciagurata e maldestra com'era. In un ritratto breve e fulminante, Vittorio Zucconi ha pietà per lei, "povera bionda, che prova a morire definitivamente da più di 40 anni, dal pomeriggio soffocante di una Los Angeles che quel giorno si era ricordata di essere un deserto, dalla manciata di barbiturici che inghiottì, sperando che la morte le sarebbe stata più amica della vita, ma la donna che aveva sbagliato a vivere, non sapeva ancora che avrebbe sbagliato anche a morire". Il ritratto di Marilyn è sempre al negativo. Chi le vuole bene, la compatisce. Chi la detesta, la stritola. La sua infelicità è una colpa, perché è sciocca, ride come una donna sciocca, non riesce nemmeno a rispettare gli orari di lavoro tanto da farne una leggenda, è preda di ogni uomo che incontra, è debole, forse è viziosa tanto da non resistere alle lusinghe di attrici famose e di maestre di recitazione. I registi e i produttori, di cui aveva rallegrato spesso le serate senza mogli, sfruttano la sua avvenenza per affidarle ruoli di belloccia un po' stupida. Così è nato il personaggio dell' "oca bionda" più famosa di Hollywood, dell' "oca di lusso", un appellativo al quale aspiravano molte altre bellezze per varcare d'incanto le porte della celebrità di celluloide. Non potendo essere brave, volevano essere "oche famose", come Marilyn, che con quelle credenziali si avviava alla popolarità mondiale.

Lei ci metteva la sua personalità controversa, afflitta da depressioni improvvise e da felicità ingiustificate. Gli altri, facevano il resto. Il mito è nato così. Tutti ne parlavano, ne scrivevano. Giornalisti, cronisti di tabloid, columnist, reporter di riviste-spazzatura, scrittori apprezzati, produttori, registi, sceneggiatori, attori e attrici, uomini politici, poliziotti, psichiatri e psicanalisti, governanti, segretarie, cameriere, portieri d'albergo, ex mariti (escluso il fedelissimo e innamoratissimo Joe Di Maggio), ex fidanzati, amanti e compagni di merende. Il mondo di Marilyn attrice famosa assomiglia a una corte dei miracoli, dove accanto a qualche amico sincero, si agitavano sbirri corrotti, artisti del ricatto, ruffiani, medici disposti per un onorario ricco a prescrivere medicine da ammazzare un bue, ricattatori con qualche foto imbarazzante da smerciare in cambio di un pugno di dollari o di un quarto d'ora di sesso. Poi erano arrivati i boss di Cosa Nostra, gangster vestiti come nei film ma veri banditi spietati e sanguinari, assassini su commissione, e uomini politici destinati alla guida del paese implicati in sordide combine con mafiosi.

Era facile scrivere storie lacrimevoli e squallide su Marilyn: alla ricerca del padre perduto, l'infanzia desolata, l'adolescenza violata, la giovinezza compromessa, un corpo in vendita, una ragazza perduta dietro al sogno della celebrità. Bambola parlante, capricciosa e instabile, senza coraggio e senza iniziativa, non era riuscita nemmeno ad avere una casa tutta sua, ne aveva cambiate a decine, come una zingara. La sua morte era stata seguita da un'ondata di rivelazioni squallide e oscene di chi, sulla scia dell'emozione e del clamore – psicanalisti e chirurghi addetti alle autopsie, cameriere pagate dai servizi segreti, sciacalli della stampa – aveva messo in piazza turpi racconti e storie ignobili. Però la fine tragica e misteriosa aveva aperto uno spiraglio nella diga di menzogne. Per merito dei pochissimi veri amici, di qualche poliziotto con la coscienza a posto, non venduto a nessuno – né alla Cia né alle cricche mafiose della West Coast – qualche giudice resistente alle minacce delle famiglie potenti, non quelle di Cosa Nostra, ma quelle più rispettabili che guidavano allora l'America.

Da 46 anni si continua a parlare di Marilyn Monroe, ma il suo ritratto è ancora in chiaroscuro. C'è da raccontare un capitolo nuovo della sua vita e della vita dell'America di quegli anni. Ha scritto Vittorio Zucconi, nel suo ritratto dell'attrice: "Non so quali altre lenzuola sporche possano essere frugate, quali altri segreti possano essere immaginati, e quali altre immagini possano essere lette nello specchio di Marilyn, lo specchio di tutte le brame. Temo che dovrà avere pazienza, povera donna, ancora per qualche anno. Deve pur esistere, in qualche cantuccio del nostro tempo impietoso, anche un ripostiglio di pietà e dimenticanza per le stelle di carta, una tomba per Diana, per Marilyn, per tutti i cadaveri delle nostre illusioni che non abbiamo il coraggio di seppellire". Marilyn dovrà avere pazienza ancora per un po' di tempo, quello necessario per tentare di ristabilire alcune verità, per consegnarla alla memoria degli irriducibili fan con qualche menzogna in meno. E per ridare la dignità della verità a un capitolo intero della storia degli Stati Uniti, ancora appesantito da false interpretazioni e da snobistiche ideologie. È quello che riguarda la storia del clan Kennedy, del patriarca Joseph e dei suoi figli John e Robert, lanciati verso l'irresistibile conquista del potere. E delle loro spericolate acrobazie politiche, legate agli interessi di alcuni boss mafiosi di Chicago e di Los Angeles, ai quali i fratelli Kennedy dovranno essere riconoscenti per il sostegno ottenuto nelle vittoriose battaglie politiche.

Nella vita di Marilyn erano entrati i Kennedy, con la loro infantile irruenza, con passione, con calcolo cinico, con sfrontatezza, pronti a prendere e disposti a non concedere nulla. Insieme con John e Robert, Marilyn aveva fatto la conoscenza di Sam Giancana e Joseph Rosselli, due boss, due pezzi da novanta, esponenti di spicco di Cosa Nostra, amici di Frank Sinatra che era amico di Peter Lawford, l'attore inglese diventato cognato dei Kennedy, che a sua volta era amico di ex agenti federali passati al nemico, di ruffiani per miliardari, di ragazze disposte a passare da un letto all'altro in cambio di una promessa di raccomandazione agli studios mai mantenuta. Senza pudore e senza remore, Marilyn diventava, di volta in volta, l'amante di John, prima senatore poi presidente degli Stati Uniti; quindi di Robert, ministro della Giustizia; e poi, ma anche nello stesso tempo, dei gangster 'amici' dei Kennedy con i quali intrattenevano la piacevole consuetudine di scambiarsi le amanti, attrici o avventuriere, puttane di lusso o ballerine di night a Las Vegas. Marilyn era al centro di questo quadro, animato da personaggi dediti alla cura del paese, tra strategie politiche, affari, delazioni, compromessi, tradimenti, ricatti e omicidi.

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Incredibile a pensare, Marilyn sarebbe rimasta per sempre quell' "oca giuliva", l'attrice "dal seno granitico e dal cervello come gruviera", secondo il parere del regista Billy Wilder, se il maledetto intrigo in cui era caduta non fosse diventato l'ossessione preferita di Edgar Hoover, il celebre, famigerato direttore dell'Fbi. Repubblicano, cattolico, moralista, patriota, sincero nemico dei 'nemici' dell'America, ambizioso, sessuofobico, Hoover odiava i Kennedy, a cominciare dal vecchio Joseph, democratico, ricchissimo e libertino. Quando il patriarca aveva deciso che John sarebbe diventato l'inquilino numero uno della Casa Bianca, Hoover aveva deciso di controllare, giorno dopo giorno, ora dopo ora, i movimenti di John, Robert e di tutti i componenti del clan. Quando i suoi agenti gli regalarono la notizia straordinaria che il senatore John se la spassava con Marilyn, Hoover diventò l'ombra della bionda attrice.

Aveva deciso di seguirla, sempre, a casa, negli alberghi, negli studios, nelle cabine telefoniche, nelle dimore dei suoi amanti, durante i viaggi e in qualsiasi spostamento, nelle pieghe più intime della sua esistenza. Le telefonate erano registrate, i suoi movimenti segnalati in tempo reale, le sue esibizioni sessuali finivano negli archivi più segreti dell'Fbi. Hoover ci andava matto, perché era un pervertito, soprattutto perché con quel materiale scovato nel letto e tra la biancheria della Monroe, poteva ricattare i Kennedy, per conservare quello al quale teneva più d'ogni altra cosa: il suo posto di comando all'Fbi. Spiare era la sua aspirazione fondamentale, il suo scopo nella vita, e Marilyn era l'arma puntata contro i potenti per mantenere questo privilegio. Seguendo Marilyn, senza rendersene conto, Edgar Hoover stava scrivendo un capitolo inedito della storia di Marilyn, di Hollywood, e del suo amato Paese. I protagonisti erano tutti colpevoli, tutti cattivi, tutti deboli, tutti compromessi. Sguinzagliati in ogni angolo degli Stati Uniti, Hollywood, Las Vegas e New York le mète preferite, i suoi agenti federali inviavano rapporti, note e relazioni scritti con lucida, sapiente e crudele precisione, ricchi di dettagli e particolari talvolta intimi e per lo più osceni. Non c'è ombra di pietà o di riguardo per nessuno, però tutto è vero, genuino, rappresentato senza infingimenti o ipocrisie, senza giri di parole.

Hoover voleva distruggere la diva bella e celebre. Lui la detestava, perché disprezzava le donne attraenti e facili, e lei rappresentava quel mondo che il direttore dell'Fbi avrebbe voluto far sparire dalla faccia della terra, prima Hollywood con i suoi degenerati abitanti, quindi Las Vegas, terra di padrini e artisti loro amici. Il "dossier M.M.", come era stato classificato da Hoover, si gonfiava di informazioni sempre più scabrose, sorprendenti, sconvolgenti. Il ritratto che ne veniva fuori, giorno dopo giorno e notte dopo notte, regalava sensazioni forti. Marilyn ninfomane, drogata, ubriacona, lesbica, esibizionista. Ottimo materiale per mettere l'intera famiglia Kennedy con le spalle al muro, se ce ne fosse stato bisogno. Mentre scopriva sfrontati fili rossi tra organizzazioni criminali e istituzioni, tresche di sesso tra uomini ai quali erano state affidate le sorti del Paese e avventuriere dalla facile parlantina, Edgar Hoover metteva a nudo la personalità di Marilyn Monroe. Rendendole, finalmente, giustizia. Perché il ritratto che viene riscritto dai federali, è quello nuovo, inedito, sorprendente dell'attrice. Spariva l' "oca giuliva" raccontata dai giornali e dalle pettegole di Hollywood: al suo posto appariva un'altra Marilyn. Una donna in grado di fronteggiare le trappole insidiose del mondo di cui faceva parte e abitato da uomini senza scrupoli, che lei riusciva a tenere a bada. Era sparita l'attrice vittima del sistema spietato di Hollywood e compariva l'attrice che sapeva scegliere gli uomini giusti, ricchi, importanti, generosi e utili per i suoi scopi.

Era lei che aveva scelto il campione di baseball Joe Di Maggio, era stata ancora lei a sedurre il drammaturgo idolo della cultura newyorkese Arthur Miller, era lei che faceva le fusa con Frank Sinatra amico di padrini che tenevano buoni amici a Las Vegas e a Hollywood, era stata lei a imporre come protagonista al suo fianco nel film "Facciamo l'amore" lo chansonnier Yves Montand di cui era innamorata, era stata lei a far cadere nelle sue trame sessuali i fratelli Kennedy ed era ancora lei a tenere a bada con le armi della seduzione i boss amici dei suoi amici. La Marilyn secondo la versione dell'Fbi è intelligente, dunque, ma anche assidua frequentatrice di personaggi del mondo della cultura, poeti, scrittori, artisti e rappresentanti della "Beat Generation". Non una vittima predestinata, piuttosto una donna di potere che sapeva usare con cinica puntualità le sue armi migliori. Edgar Hoover scopriva anche una donna molto pericolosa. Perché aveva fatto una scoperta davvero sconvolgente. Lei che veniva presa in giro dai maligni, accusata di non conoscere nemmeno il nome della capitale degli Stati Uniti, aveva idee politiche tutte sue, magari annaffiate dalla passione di Arthur Miller, ma erano idee forti, radicate fin dalla sua adolescenza difficile.

La Marilyn inedita dell'Fbi era una liberal, anzi una radicale o piuttosto una 'comunista' vera e propria. Hoover l'aveva intuito ancora prima che lei sposasse Miller. Per le sue frequentazioni con registi come Elia Kazan e personaggi del cinema come gli Strasberg, quelli dell'Actor's Studio di cui l'attrice era allieva diligente; per i suoi discorsi, le sue prese di posizione a favore della gente di colore, dei poveri e dei bambini abbandonati negli orfanatrofi, prima nelle battaglie a Hollywood per la difesa dei diritti civili. Con i fratelli Kennedy, e questo Hoover lo sapeva, affrontava con decisione, senza timore reverenziale, argomenti scottanti della politica estera americana come i rapporti con l'Urss e Cuba, e la strategia in campo nucleare. Affrontava le sue battaglie politiche con quel candore che sfiorava l'incoscienza, senza rendersi conto di poter andare incontro a spiacevoli conseguenze e a correre dei rischi. Poi Hoover scoprirà quello che sognava di scoprire. Marilyn, la 'comunista, era diventata un 'pericolo pubblico', una minaccia per la sicurezza del Paese. Nel viaggio in Messico, nel febbraio 1962, si era incontrata con esponenti dell'American Communist Group – intellettuali e attivisti politici legati al Partito comunista americano – perseguitati dalla commissione per le attività antiamericane e quindi rifugiati in Messico. Questa colonia era un mondo a sé, incredibilmente bene abitato. I più bei nomi della "Beat Generation" transitavano per Mexico City, Guadalajara o Toluca, a far visita ai fuggiaschi, o fuggiaschi loro stessi. Dopo aver trascorso ore di sesso e chiacchiere con John o Robert Kennedy, dopo essersi fatta raccontare segreti e retroscena di Cuba, Fidel Castro e bombe atomiche, Marilyn raccontava tutto, per filo e per segno, ai suoi compañeros collegati, ogni giorno, con gli amici all'Avana e a Mosca.

Tra i 'rossi' in fuga in Messico, Marilyn aveva conosciuto e amato un americano molto particolare. Comunista fin dagli anni 30, ricco rampollo di una famiglia di industriali newyorkesi, Frederick Vanderbilt Field teneva le fila dei fuggiaschi con i capi del Cremlino e con lo stesso Fidel Castro. A lui Marilyn aveva raccontato quello che avrebbe dovuto tenere nel segreto più assoluto. L'Fbi aveva saputo tutto, registrato ogni parola e ogni sospiro, quindi Marilyn era stata considerata non solo comunista, ma anche una spia pericolosa, una cospiratrice ai danni del suo Paese. Hoover fecendo il suo dovere di spione aveva riferito ogni cosa ai Kennedy. Nel luglio 1962 l'Fbi inviò alla Casa Bianca una relazione piena di rivelazioni terrificanti sul conto di Marilyn. Il rapporto riservato si leggeva come una storia affascinante, che andava dal soggiorno di Fidel Castro e Che Guevara in Messico, fino agli inizi del 1962. Dieci giorni dopo, l'attrice sarà uccisa brutalmente nella sua casa, sulle colline di Hollywood. La verità davvero straordinaria sulla famosa attrice è venuta fuori dopo molto tempo. Esattamente, ci sono voluti 27 anni prima di poter esaminare alcuni importanti documenti custoditi nell'archivio dell'Fbi, a Washington. Era tutto lì, conservato e schedato con rigore, pronto per scrivere una storia dai risvolti fantastici. La Marilyn inedita dell'Fbi era capace di tenere testa a tutti, anche ai caporioni di Cosa Nostra, agli assassini di mestiere, agenti segreti, scrittori e poeti, intellettuali progressisti, all'alcool, alla droga, al sesso e alle avventure azzardate. Così Marilyn ha attraversato da protagonista gli anni di una generazione perduta, lotte clandestine, legami pericolosi, le mille luci di New York e le strade viscide che portano a Hollywood, le atmosfere esotiche del Messico, conservando quell'apparente candore che le serviva per sedurre e ottenere soldi e successo. L'Fbi l'ha 'vendicata', una rivincita magnifica, per l'orfanella abbandonata, la ragazzina violentata, la giovanetta sfruttata e poi calpestata. È la rivelazione sorprendente di un capitolo inedito della storia di un periodo irripetibile che appartiene a tutti noi.

Mario La Ferla

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