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| << | < | > | >> |IndicePremessa 7 I. Che cosa è l'attenzione? 17 - Perché non possiamo stare attenti a tutto. - L'attenzione è più del semplice stare attenti. II. Come, dove e quando stare attenti 23 - Astronomi e giocatori di basket. - Alla ricerca di qualcosa. - C'è spazio e spazio. III. Focalizzare 33 - Una questione di scelte. - Parole e colori. - Quando entriamo in conflitto. - Cosa ci dice il cervello? - Un vigile urbano del pensiero. Quando l'attenzione ci aiuta a indirizzare l'informazione. - Che fine fanno le informazioni alle quali non stiamo attenti? - Le parole non sono tutte uguali. IV. Il multitasking è veramente dei giorni nostri? 47 - L'attenzione come energia. - Non parlare al conducente! - Inserire o meno il pilota automatico. - Il multitasking è vecchio di migliaia di anni. - Chi controlla l'attenzione. - Spiegare le decisioni arbitrarie. V. Processi automatici e processi controllati 69 - Principianti e virtuosi. - Quando la mente va veloce. - Quanto ci costa cambiare. VI. Quando l'attenzione fa cilecca 79 - Anche l'attenzione ammicca. - La distrazione può accecarci. - Leggere è obbligatorio. - Che un orecchio non sappia che cosa ascolta l'altro. - È poi così difficile cercare un ago in un pagliaio? - Lo spazio non è vuoto: è occupato da oggetti. VII. Attenzione e superstimoli 99 - Il laboratorio dell'attenzione e il laboratorio delle immagini. - Immagini che ti fanno prigioniero. - Casi puri «dall'alto» e «dal basso». VIII. Nati per cercare 113 - Esplorazione. - Sottostimoli. - Effetto Stroop nell'arte. - Superstimoli da impoverimento e da accentuazione. - Superstimoli per riduzione. - Ancora sul compito Stroop. IX. Quando non si può non stare attenti 137 - L'intenzionalità incorporata in un superstimolo. - Direzionalità. - L'aspirazione a un Sé diverso. X. Le 10 regole dell'attenzione 153 Conclusione 155 Riferimenti bibliografici 167 |
| << | < | > | >> |Pagina 10In questo libro indagheremo i principi fondamentali dell'attenzione scoperti in laboratorio, principi spesso controintuitivi, e li applicheremo all'analisi di questi superstimoli, con un processo che si è soliti chiamare «progettazione alla rovescia». Esso funziona così: noi ci troviamo di fronte, bell'e fatti, un quadro o un'immagine pubblicitaria. Cerchiamo allora di spiegare perché sono stati costruiti in quel modo, perché uno specifico aspetto dell'attenzione vi è coinvolto.Un altro punto accomuna superstimoli e affordance, pur nella loro diversità: è il fatto che entrambi richiedano l'impiego di poche risorse cognitive e siano quindi facilmente fruibili. Attivano cioè risorse cognitive minime nella decodificazione proprio perché sono stati costruiti per imporsi con immediatezza sfruttando informazioni depositate in memoria. Si tratta di conoscenze di base, condivise da tutti. Se noi affrontiamo questi stimoli come se fossero stimoli naturali, ci sfuggirà l'artificio che sta dietro la loro costruzione. Ma tutto ciò verrà visto in dettaglio più avanti. [...] In questo paradosso sta la differenza più profonda tra i modi di funzionare della nostra architettura cognitiva e quelli di un computer. Qualsiasi computer, anche quelli più perfezionati del futuro, rileverà nel mondo esterno solo le informazioni per cui è stato programmato, quelle cioè che il programma gli dice di raccogliere ed elaborare. In altre parole, non sprecherà mai la sua attenzione. Un uomo invece è stato programmato dall'evoluzione darwiniana, cioè dagli ambienti del passato che l'hanno forgiato per l'azione, e non può oggi fare a meno di stare attento ad alcuni aspetti del mondo contemporaneo. Un computer non sarà mai vittima di quello che vedremo essere l'effetto Stroop, e cioè la rilevazione «forzata» di informazioni anche quando queste ci intralciano (ne parleremo approfonditamente nei prossimi capitoli). Di qui una differenza che sarà sempre incolmabile: se volete che un computer sia costretto a rilevare informazioni inutili dovete programmarlo in modo che abbia questo «difetto» che lo rallenterà. È un difetto che l'uomo non può eliminare anche se lo conosce bene, a differenza di altri limiti della sua attenzione. Dobbiamo cioè distinguere i limiti dell'attenzione che, per quanto spontanei, sono correggibili da quelli che non lo sono (sono cioè inemendabili, nel senso che il conoscerli non può comunque correggerli, secondo il concetto di emendabilità sviluppato da Maurizio Ferraris [2016, 27]). [...] Malgrado il funzionamento dell'attenzione visiva sia largamente immodificabile, conoscere le «regole dell'attenzione» è utile a chi (designer, grafico o pubblicitario) le voglia utilizzare consapevolmente sui nuovi mezzi di comunicazione. In questo continuo confronto tra chi cerca di progettare immagini artificiali per catturare la nostra attenzione e noi, che vogliamo «restare liberi» ed evitare che qualcosa si «appiccichi» alla nostra vita, la consapevolezza delle regole con cui funziona l'attenzione diventa essenziale per chi desidera padroneggiare la sua esistenza, senza per questo isolarsi da tutto. I tentativi di catturare la nostra attenzione con immagini artificiali vengono visti dai più, come nel caso di Ezio Mauro, in termini critici, secondo l'impostazione di Byung-Chul Han. E tuttavia ci sono studiosi come Emanuele Coccia che alludono a una prospettiva diversa: Il realismo estremo ha fatto della pubblicità l'agenzia morale più diffusa e più ascoltata nel mondo. In essa la «morale» cessa di essere una dottrina dell'uomo e dei suoi stati d'animo, per farsi una dottrina universale della relazione dell'uomo con le cose e il mondo, una sorta di cosmologia pratica che viene fatta e disfatta quotidianamente, ogni volta che desideriamo, immaginiamo, produciamo, compriamo o vendiamo merci [Coccia 2014, 46]. Noi non prendiamo posizione su questo punto. Ma è certo che solo conoscendo le regole dell'attenzione potremo iniziare un percorso di libertà, di scelte autentiche, d'indipendenza da ciò che le nuove tecnologie presentano come impellente e ineludibile. Non è detto che qualcosa che sollecita la nostra attenzione richieda necessariamente una risposta e, soprattutto, non è detto che la risposta spontanea sia quella migliore. Come dice il profeta Quelo, mitico personaggio di Corrado Guzzanti: «La risposta è dentro di te. E però è sbagliata». [...] In conclusione lo studio della psicologia dell'attenzione richiede di sperimentare se, come in un giallo, si intenda svelare l'effetto della «costrizione apparentemente volontaria», di cui si è parlato sopra citando Ezio Mauro e la Psicopolitica. La diffidenza per l'esperimento come metodo di controllo delle ipotesi dipende da una lunga tradizione culturale alimentata oggi dalla psicologia ingenua. Eppure si può mostrare come funziona un esperimento anche all'interno della trama di un giallo avvincente. Per esempio, in un racconto di Marco Malvaldi , si confrontano varie condizioni sperimentali controllando il rapporto tra temperatura ambientale e progressivo indurimento di uno scarpone di plastica usato per sciare [Malvaldi 2015, 319-354]. Il protagonista del racconto scopre così che uno scarpone di plastica lasciato molto a lungo al freddo non avrebbe potuto essere indossato dalla presunta sciatrice, in realtà la colpevole dell'assassinio. Questo bel racconto mostra che la logica dell'esperimento non è estranea a molte situazioni della vita quotidiana, come il controllo delle ipotesi in una trama poliziesca. Il laboratorio non è qualcosa d'isolato, situato solo nei centri di ricerca. Tutto il mondo è un laboratorio e, in questo libro, passeremo dal laboratorio classico, in cui si studiano i meccanismi dell'attenzione, al laboratorio delle immagini artificiali, costruite sfruttando tali meccanismi. | << | < | > | >> |Pagina 17«Tutti sanno che cosa è l'attenzione. È la presa di possesso da parte della mente, in forma chiara e vivida, di uno solo fra molteplici oggetti o pensieri [...] Ciò implica trascurare alcune cose per concentrarsi efficacemente su altre» [James 1890, 403; traduzione nostra]. Questa è la notissima definizione di attenzione proposta da William James in Principles of Psychology nel 1890. Come vedremo, è una definizione assai incompleta e che presenta molti problemi. Del resto, ha ormai quasi centotrent'anni! Tuttavia, a prima vista suona convincente. Chi può negare, infatti, che l'attenzione consista nell'abilità di selezionare una particolare rappresentazione, originata nel mondo esterno (percezione) o nella nostra mente (pensiero), allo scopo di sottoporla a un'elaborazione più approfondita, a spese dell'elaborazione di altre rappresentazioni.
1. Perché non possiamo stare attenti a tutto
La selezione è necessaria perché le nostre funzioni mentali hanno una capacità limitata: non ci possono essere dubbi sul fatto che possiamo pensare a poche cose alla volta, spesso ad una sola. Un modo per far fronte a questo problema di capacità limitata è, appunto, l'attenzione, la possibilità, cioè, di selezionare solo la rappresentazione (o magari le poche rappresentazioni) che è (sono) in quel momento più importante per noi. | << | < | > | >> |Pagina 342. Parole e coloriTutto diventa più chiaro se si affronta il problema in una situazione semplificata e controllata: in una situazione di laboratorio, cioè. La situazione più adatta a illustrare come funziona l'attenzione selettiva è il compito Stroop, proposto da John Ridley Stroop nel 1935 (...). Nella figura 2 si vedono delle parole che indicano un colore e le parole stesse sono scritte con inchiostro colorato. Sulla base delle istruzioni che il soggetto riceve, il compito assegnato può essere di leggere a voce alta la parola oppure di denominare il colore dell'inchiostro. Certamente, non si possono svolgere entrambi i compiti contemporaneamente. Se il compito è di denominare il colore, è molto più difficile svolgerlo quando la parola che «porta» il colore è diversa dal colore da denominare. Pronunciare la parola «rosso» quando la parola scritta in rosso è «verde» risulta più difficile di quando la parola scritta in rosso è una parola neutra, come, per esempio, «barca», oppure una parola priva di senso, una non-parola. La maggiore difficoltà è segnalata da tempi di risposta più lenti e da una maggiore probabilità di commettere errori. La situazione più facile si ha quando colore e parola coincidono: la parola «rosso» scritta in rosso. Il compito Stroop, appena descritto nelle sue linee generali, illustra bene come opera l'attenzione selettiva. Il compito è di denominare il colore e il colore è, perciò, l'informazione rilevante, che deve essere selezionata dall'attenzione (attenzione selettiva, appunto). Il significato della parola non è rilevante e, perciò, la parola deve essere filtrata via. Quando l'attenzione selettiva funziona in modo efficiente, la risposta è guidata dalla sola informazione rilevante. Ciò avviene se la parola è neutra rispetto al colore oppure non ha senso. Invece, se la parola denota un colore, l'attenzione selettiva opera con difficoltà, probabilmente perché la lettura è un processo altamente automatizzato. | << | < | > | >> |Pagina 48Ora sappiamo che il livello di attività di una porzione di tessuto nervoso dipende dalla quantità di sangue (e quindi di ossigeno) che la irrora. Tutte le tecniche di neuroimmagine si basano appunto sulla determinazione del flusso sanguigno regionale (regional Cerebral Blood Flow, rCBF; ...), cioè sulla determinazione di come il sangue si distribuisca in quantità diverse nelle aree del cervello, mentre il soggetto sta svolgendo un compito. Ci sembra, perciò, che il concetto di «energia» sia meno vago e «immateriale» di quanto un tempo si pensasse: l'energia è il sangue che porta ossigeno al tessuto nervoso.Sono stati usati molti termini per riferirsi a questo tipo di energia. Come già accennato, fra questi, i principali sono «risorse attentive», «risorse cognitive» e «risorse di processamento». Non crediamo di peccare di eccessiva imprecisione se li consideriamo sinonimi. Se sono, come noi riteniamo siano, sinonimi, cioè descrivono, pur in modo grossolano, un aspetto fondamentale dell'attenzione, è logico preferire un termine, «risorse attentive», che all'attenzione fa direttamente riferimento. È legittimo, però, chiedersi, con Navon [1984], che cosa siano queste «risorse». Una risposta l'abbiamo già data: è la quantità di sangue (e, perciò, di ossigeno) che irrora in un momento dato una certa parte del cervello e permette alla funzione mentale che da quella parte del cervello dipende di svolgersi in modo più o meno efficiente. La porzione del cervello dove il sangue si concentra in un momento dato determina il tipo di funzione mentale in atto in quel momento. L'efficienza con la quale tale funzione si svolge è tanto maggiore quanto maggiore è la quantità di sangue disponibile in quella parte del cervello in quel momento. Vale la pena ricordare, di passaggio, che questo è il principio sul quale si basano le neuroimmagini, che non fanno altro che visualizzare come il sangue si distribuisca nel cervello e come questa distribuzione vari nel tempo in dipendenza del compito che il soggetto sta svolgendo (...). | << | < | > | >> |Pagina 52Questo fatto dell'esecuzione di molti compiti, simultaneamente o in sequenza, è un vecchio problema della psicologia (è stato affrontato per la prima volta nei primi anni del secolo scorso), ma solo recentemente è diventato popolare, con il termine di «multitasking», al di fuori della ricerca psicologica. È di solito anche accompagnato dalla bizzarra, ma diffusissima, idea, estesa praticamente a tutte le attività umane, che ciò che avviene nel presente sia senza precedenti in quanto a complessità e, naturalmente, rapidità. Forse vale la pena di ricordare che, negli Stati Uniti, si usa dire, di una persona non particolarmente dotata intellettualmente — e lo si disse del presidente Gerald R. Ford (1974-1976) —, che non riesce a masticare il chewing gum e a camminare contemporaneamente. A ben guardare, si tratta di eseguire due compiti contemporaneamente (masticare e camminare) che richiedono entrambi l'uso di (poche) risorse attentive. Svolgere queste attività simultaneamente può creare, se le risorse attentive sono (molto) scarse, una situazione di competizione. La soluzione è ricorrere alla strategia di assegnare le poche risorse a disposizione alternativamente ai due compiti. Qui di seguito cercheremo di articolare meglio tali semplici concetti, ma il nocciolo di quanto diremo è già tutto nell'aneddoto sul presidente Ford, il quale, sia detto per inciso, inciampava e cadeva frequentemente.Tutte le attività umane che non siano completamente automatizzate (cfr. più avanti) richiedono risorse attentive. La quantità di attività che si possono svolgere contemporaneamente (se proprio lo si desidera, nulla vieta di usare il termine «multitasking», che, sia ben chiaro, nulla aggiunge o toglie al problema) dipende da molti fattori. Come già abbiamo rilevato, il multitasking non era ignoto ai nostri predecessori di cinquemila e più anni fa, che, certamente, erano in grado di camminare e masticare contemporaneamente. È interessante indagare quali attività si possano svolgere nel medesimo tempo; comunque il fatto in sé che si possano svolgere attività contemporaneamente è piuttosto banale. Per amore di semplicità prenderemo qui in considerazione solo il caso di due compiti da svolgersi contemporaneamente. Ciò che diremo, però, è facilmente estensibile a quando i compiti sono tre o più. Il punto cruciale è spiegare come mai il fatto di svolgere due (o più) compiti contemporaneamente possa far sì che la prestazione in almeno uno dei compiti sia inferiore rispetto a quando quello stesso compito è svolto da solo. Quella stessa spiegazione, poi, è estensibile alle situazioni più complesse di multitasking. È necessario sgomberare subito il campo da un tipo di interferenza fra compiti che poco ha a che fare con l'attenzione: l'interferenza strutturale. Se due compiti che devono essere eseguiti contemporaneamente condividono un meccanismo, strutturale o funzionale, si verifica una competizione per l'accesso a questo meccanismo comune: il compito che perde la competizione mostra un livello di prestazione inferiore rispetto a quando è svolto da solo. Molto banalmente, è praticamente impossibile masticare e parlare contemporaneamente, perché lo svolgimento di entrambe queste attività richiede l'intervento dello stesso meccanismo muscolare. È molto difficile ascoltare musica mentre si segue una conversazione, perché entrambe le attività richiedono l'uso dei meccanismi della percezione acustica. Questi sono esempi di interferenza strutturale piuttosto ovvi. Esistono, però, casi di interferenza strutturale più sottile, nei quali la competizione riguarda l'accesso a meccanismi funzionali (...). In particolare, interferenza per competizione nell'accedere a un meccanismo comune funzionale si manifesta nel caso delle varie componenti della memoria di lavoro: cioè il magazzino visuospaziale, il magazzino fonologico e, soprattutto, l'esecutivo centrale (...). Sono stati descritti anche molti casi di interferenza causata dall'esecuzione simultanea di due compiti, quando la competizione riguarda l'accesso al meccanismo di selezione della risposta. | << | < | > | >> |Pagina 991. Il laboratorio dell'attenzione e il laboratorio delle immagini Abbiamo visto nei capitoli precedenti come la ricerca scientifica sia riuscita a frantumare quella che potremmo chiamare l'attenzione ingenua, scomponendo in laboratorio un fenomeno che si presenta come unitario e semplice, ma solo nella psicologia del senso comune. Il celebre passo di William James [1890], che abbiamo analizzato in apertura, riflette bene la distanza tra il senso comune, quello che caratterizza tutt'oggi la psicologia ingenua, e i modi effettivi di funzionare dell'attenzione. In questa seconda parte del libro cercheremo di mostrare, con esempi tratti dalla pubblicità e dall'arte contemporanea, una seconda prospettiva sul funzionamento dell'attenzione. La nostra tesi è che queste opere siano state costruite con lo scopo, spesso implicito ma talvolta no, di sfruttare i meccanismi dell'attenzione. [...] Il laboratorio ha permesso di isolare i singoli meccanismi che, nel corso della vita quotidiana, agiscono congiuntamente e, spesso, a nostra insaputa. Il successo della definizione di James (cfr. cap. 1), che risale a circa centotrent'anni fa, ma ancor oggi corrisponde alla nostra «psicologia ingenua», è attribuibile proprio alla sovrapposizione con quanto emerge dalle nostre esperienze personali. Viceversa, procedendo tramite controlli sperimentali in laboratorio, costruendo cioè scenari artificiali e studiando le reazioni delle persone, si è, per così dire, dimostrato che l'attenzione, almeno nel senso quotidiano e corrente del termine, non esiste. O, più precisamente, non esiste come meccanismo unitario. In quest'ultimo secolo si è riusciti a dissezionare «in vivo» la definizione di James. C'è un punto particolarmente fuorviante nelle osservazioni di James, e cioè che «Ognuno di noi letteralmente sceglie, con il suo modo di stare attento alle cose, il tipo di mondo che gli apparirà e in cui ha deciso di vivere» [1890, 403]. Questo è vero solo nei casi di esplorazione e di scelta volontaria di uso delle risorse attentive.
[...]
2. Immagini che ti fanno prigioniero
Il laboratorio dell'attenzione si è così saldato con il laboratorio delle immagini, chiudendo una storia che era iniziata a metà del 1500 quando Leonardo da Vinci scriveva: «non iscoprire se libertà t'è cara ché 'l volto mio è charciere d'amore». Con queste parole Leonardo mette in guardia sulla forza autonoma delle immagini che possono «incarcerarti», e quindi toglierti la libertà. Leonardo, e lo stesso storico dell'arte Horst Bredekamp , che ha commentato queste poche parole di Leonardo in un saggio intitolato, per l'appunto, Immagini che ci guardano [2015], non conoscevano a fondo i meccanismi dell'attenzione. Eppure hanno intuito che la forza delle immagini ha una sua autonomia garantita dal funzionamento dei meccanismi dell'attenzione. È dall'incontro di queste due forze, una esterna a noi e presente nell'immagine e una interna a noi nella mente, che si origina la «perdita della libertà». Ed è questa perdita della libertà che noi superiamo, riguadagnando la nostra autonomia, se sappiamo come l'attenzione trasforma le immagini in superstimoli, abbassando i costi attentivi, e quindi facendo emergere un'immagine dal flusso delle informazioni (quello che altrove abbiamo chiamato pop out, cioè balzare fuori senza costi attentivi). | << | < | > | >> |Pagina 121Quando si passa dai superstimoli ai sottostimoli viene a mancare quella figura letteraria tradizionalmente chiamata ipotiposi. Secondo il dizionario Devoto Oli, l'ipotiposi è la «figura retorica consistente nella rappresentazione vigorosa, immediata, essenziale, di un oggetto o di una situazione» (dal greco hypotyposis, «abbozzo», o meglio «sottoabbozzo», perché typos significa abbozzo e hypo sotto).Italo Calvino , parlando di Visibilità, più semplicemente dice che «a seconda della maggiore o minore efficacia del testo siamo portati a vedere la scena come se si svolgesse davanti ai nostri occhi» [Calvino 1989, 83]. Potremmo dire che la costruzione di immagini artificiali come superstimoli permette una rappresentazione vigorosa, immediata ed essenziale e che, quindi, nell'ultimo mezzo secolo, all'ipotiposi dal campo delle lettere si è aggiunta la molto più pervasiva ipotiposi nel campo della visione. Rifacendoci alla brillante ed esaustiva analisi di Patrizia Magli dell'ipotiposi in letteratura, dobbiamo però precisare che nei romanzi non si tratta di bloccare l'attenzione tra mille immagini, dato che l'autore della storia si avvantaggia di una precedente decisione esplicita del lettore di seguire una storia. Nel caso della visione, soprattutto di sequenze su piccoli schermi, è invece necessario il preliminare blocco dell'attenzione che deve concentrarsi su quella specifica immagine, e non su altre. Per questo motivo entrano in gioco le regole dell'attenzione [Magli 2016, 234-248].
3. Effetto Stroop nell'arte
Nel corso dell'ultimo secolo abbiamo sviluppato due grandi laboratori. Uno è il laboratorio vero e proprio, quello in cui i ricercatori costruiscono situazioni semplificate e controllate per studiare come funziona l'attenzione. L'altro è il laboratorio delle immagini artificiali, prodotte per un certo scopo in modo tale da sfruttare i meccanismi dell'attenzione. Per questo abbiamo parlato di superstimoli, modificando l'origine biologica del termine e riferendoci a stimoli potenziati in modo tale da richiamare l'attenzione. Alcuni di questi superstimoli possono attirarci e persino confonderci, come quando gli uccelli trascurano le uova vere, quelle della loro prole, per dedicarsi a delle uova finte, più grandi e colorate in modo vivido. In questa prospettiva potete considerare anche gli scenari costruiti in laboratorio: quando dobbiamo denominare i colori delle parole di una figura, tutto va bene se il significato della parola (rosso) è identico al colore, in quanto sono uguali come nella versione del compito Stroop dove non ci sono difficoltà e di cui abbiamo parlato in precedenza (cfr. cap. 3, par. 2). Scrivere in rosso la parola «rosso» ci ricorda uno dei Calligrammi di Guillaume Apollinaire (1918) che disegna una cravatta con le parole che descrivono una cravatta (cfr. fig. 8.12). Più sofisticata è un'immagine a tre livelli: la forma di un albero, fatta scegliendo parole che, a loro volta, alludono alla persona a cui è dedicato il disegno (cfr. fig. 8.13). Il disegno dell'albero è composto con parole che descrivono un albero e che, a loro volta, alludono alla fecondità di una persona. Forma, significati e valori simbolici coincidono. Avviciniamoci ancor più a una variante «super» del compito Stroop con quest'ultimo calligramma di Apollinaire (cfr. fig. 5 dell'inserto). Qui il messaggio è di nuovo a tre livelli: un cuore rosso formato da parole che sono anche il titolo di un libro.
Nella storia delle immagini, con Apollinaire, al principio del Novecento,
arriviamo a una tappa avanzata e raffinata del potenziamento di un messaggio. La
forma più primitiva, analizzata a lungo da
Vilayanur Ramachandran
nelle sue conferenze alla BBC e nel suo noto articolo con
William Hirstein [1999], consiste nell'esagerare le forme di
una figura per mostrare la quintessenza di quell'oggetto.
4. Superstimoli da impoverimento e da accentuazione
La prima scultura ritrovata, con forme esagerate, che esprime la quintessenza della femminilità risale a quarantamila anni fa: si tratta di un artefatto d'avorio trovato insieme a molti altri nel Giura di Svevia. È una figura femminile lunga sei centimetri (cfr. fig. 8.14), proveniente dalla caverna di Hohler Fels, che reca due seni prominenti ed esagerati (figura di profilo) e una vulva nettamente scavata nel triangolo del pube (figura di fronte). Secondo lo storico dell'arte Horst Bredekamp , la testa molto piccola (recante un'asola che fa pensare che si portasse come un ornamento) presuppone che «la testa di chi la indossa sostituisca quella mancante: la funzione sostitutiva diventa in questo modo più forte di quella mimetica» [Bredekamp 2015, 20]. Bredekamp sostiene che la produzione di immagini costituisce una caratteristica fondante della specie umana e che il richiamo da parte dell'attenzione grazie a una strategia di accentuazioni ci accompagna fin dalle civiltà più primitive, come quella dell'avorio.La stessa tecnica per accentuazione è stata, molte migliaia di anni dopo, utilizzata in forme più allusive e raffinate. L'opera di François Boucher Ragazza sdraiata (1752) (cfr. fig. 6 dell'inserto), come ricorda lo stesso Ramachandran, accentua il colore rosato della pelle e il viso adolescenziale, in contrasto con il corpo maturo, per ottenere un richiamo erotico cui contribuisce anche l'attenzione della fanciulla, concentrata su qualcosa che noi non possiamo vedere (di questo quadro esiste una versione precedente, del 1751, in cui sul cuscino viene abbandonato un libro aperto, forse per segnalare che si trattava di una donna colta che stava leggendo, non di una prostituta). Ovviamente, questa tradizione si concentra soprattutto su corpi di donna perché essi alludono all'attrazione sessuale in una società di impianto maschilista. Qui abbiamo l'azione congiunta di due asimmetrie: quella tra il cibo e il sesso, dove il primo è pubblico e il secondo è privato, e quella tra maschio e femmina, in società tradizionali. Se in passato avessero prevalso le donne, e il sesso fosse stato condiviso in pubblico, a differenza del cibo, sarebbe stata tutta un'altra storia. E tuttavia questo è un effetto della cultura prevalente che qui non approfondiamo perché ci dedichiamo alla storia naturale dell'attenzione e alle sue conseguenze nella creazione d'immagini artificiali. Mentre, per ragioni di riproduzione biologica della specie, le immagini collegate al sesso femminile sono da sempre la base per costruire superstimoli, la fase terminale dell'alimentazione, cioè la defecazione, è da sempre un tabù negativo, e non positivo come il sesso. Solo recentemente questo tabù è stato rotto esponendo, nell'aprile del 2016, un water che riprende quelli di marca Kohler in uso al Guggenheim Museum di New York (cfr. fig. 7 dell'inserto). La differenza è che Maurizio Cattelan, l'artista di origine padovana che vive a New York, lo ha ricoperto di una lamina d'oro (Randy Kennedy riporta il commento di Cattelan: «C'è il rischio che la gente pensi che sia uno scherzo, forse, ma io non lo considero uno scherzo» [Kennedy 2016, 10]).Ma Cattelan era stato anticipato a suo tempo, il 21 maggio 1961, dal milanese Piero Manzoni che aveva usato dei contenitori di metallo, simili a quelli in cui viene inscatolata la carne, per realizzare 90 confezioni metalliche contenenti «merda d'artista», che si presume fosse la sua. Sempre con questa materia prima, ma prodotta da un panda, l'artista cinese Zhu Cheng, uno dei più noti della Cina, ha fatto una nuova versione della Venere di Milo. In tutti questi casi è interessante il gioco tra quello che vediamo e quello che sappiamo. Solo sapendo o presupponendo che le feci siano la materia prima, l'immagine diventa un superstimolo e l'opera viene valutata preziosa (e costosa) dal mercato dell'arte contemporanea. Abbiamo visto l'uso dell'accentuazione per portare in evidenza gli attributi di fecondità rilevanti in una donna. Tutta questa lunga storia, iniziata più di quarantamila anni fa, è stata conseguenza dell'imposizione del primato maschile, e potremmo forse dire che si chiude quando un'artista giapponese, Shigeko Kubota, imita la tecnica di pittura di Jackson Pollock , il primo artista che è passato dalla verticalità dei quadri alla loro orizzontalità. Pollock, infatti, teneva una tela stesa sul pavimento e vi stava sopra sgocciolandovi colori con un ampio movimento del braccio e della mano che reggeva il pennello. Le opere realizzate con questa tecnica segnano un punto di svolta importante nell'arte contemporanea. Kubota riprende, a un quindicennio di distanza, la fama mondiale di Pollock e si accovaccia sulla tela tenendo il pennello con la vagina e spargendo sulla stessa tela una pittura rossa, come il sangue femminile delle mestruazioni. Possiamo considerare questo evento come la definitiva conclusione della lunga storia del primato maschilista sulla terra. Kubota fa qualcosa che nessun uomo potrebbe fare, provocando un misto di repulsione e attrazione, almeno presso un certo pubblico (si pensi, per esempio, che un'operazione analoga è stata sfruttata in termini pornografici in Eve ou les pinceaux di Poinger [2005, 55-68]). Nello stesso tempo quest'opera chiude la storia del «femminismo» come una categoria a sé stante, adatta a incasellare una sorta di ribellione. Kubota, in effetti, rifiuta l'etichetta di «artista femminista». Classificare è sempre identificare e relegare, cioè indirizzare l'attenzione su un aspetto considerato diverso dagli altri. Una volta creata una categoria, e depositatala in memorie condivise, è difficile farne a meno, qualunque sia l'atteggiamento che abbiamo nei confronti di questa categoria. | << | < | > | >> |Pagina 130L'assenza totale di informazioni non corrisponde al nero o al buio, che in certi contesti possono attrarre l'attenzione. Se l'identica energia luminosa ci giunge agli occhi da ogni direzione quello che vediamo è una foschia che ci circonda e ci troviamo a vagare in questa nebbia. Il conseguente effetto di spaesamento è stato sfruttato dall'artista danese Olafur Eliasson nella mostra The Weather Project del 2003, alla Tate Modern di Londra, dove un enorme sole artificiale crea questa nebbia omogenea in cui i visitatori si trovano spaesati (cfr. fig. 8 dell'inserto).Come nel caso della foto di Gursky, erano stati gli psicologi della percezione a interessarsi di questi effetti limite in situazione di laboratorio. Eliasson si è rifatto al lavoro di Wolfgang Metzger (1899-1979), che aveva chiamato Ganzfeld (campo totale) questa condizione di assenza di informazione ottica in cui l'attenzione perde ogni sistema di riferimento. L'assenza di informazioni nel campo visivo non è il buio pesto ma una nebbia impenetrabile che ci circonda. Chi ha guidato da giovane nella bassa lombarda, in mezzo a nebbie che ormai non ci sono più, solo costui ha conosciuto l'impressione angosciante derivante dal non sapere dove dirigere l'attenzione per trovare la strada (situazione ben diversa dalla nebbia protettrice cantata da Pascoli e molto simile a quella descritta da Fellini nel film Amarcord). | << | < | > | >> |Pagina 134La maggior parte degli spettatori non riconosce un altro esemplare di questo paradigma, articolatosi in una sequenza secolare, ma lo considera come un prototipo radicalmente nuovo, anche se non lo è affatto. Questo ci insegna che il catturare l'attenzione è anche in funzione del riconoscimento di quanto conosciamo già di quell'oggetto che vuole presentarsi come «stupefacente». In Cattelan questa è una strategia esplicita, da lui stesso dichiarata:
Secondo me, quel che può essere ridotto a un concetto
chiaro è già artisticamente morto. Di sicuro quello del Guggenheim è un lavoro
in dialogo con tante suggestioni. Ma ho guardato più al design dei sanitari che
alla storia dell'arte! A me interessa il problema della fruizione: entri in un
museo, fai la coda e ti ritrovi di fronte all'opera. Un momento di spiritualità.
Raramente veniamo lasciati da soli con le opere; ovunque c'è qualcuno che ti
controlla e ti disturba (intervista rilasciata a Trione [2016, 31]).
L'interpretazione data da Cattelan alla sua opera, stupefacente perché verrà «fruita» in modo isolato (ma ci sarà una coda a quella toilette!), mostra che lo sviluppo dell'arte contemporanea non è diverso da quello della scienza e della tecnologia, come ha ben mostrato Dosi [1982, 147-162] riprendendo la nozione di paradigma di Kuhn. Abbiamo un paradigma, cioè un modo consueto e affermato di fare ricerca, produrre tecnologie o creare arte. Su questo paradigma le ricerche, le tecnologie e le opere possono essere considerate delle varianti, nel senso darwiniano del termine. Alcune colpiscono l'attenzione e vengono «selezionate» essendo premiate da un consenso sempre più ampio. Talvolta abbiamo delle rotture epistemologiche, come il passaggio dalla verticalità all'orizzontalità nella produzione delle opere, o l'uso sempre più spinto dell'incoerenza accompagnato dall'obbligo di processare un'opera straniante che «risucchi» la nostra attenzione. A seconda della cultura del fruitore, un'opera come quella di Cattelan, ora esposta al Guggenheim di New York, può venire considerata come una variante di un paradigma inaugurato da Duchamp un secolo fa oppure come una rottura di paradigma. L'affermarsi delle tecnologie funziona nello stesso identico modo, e la stessa arte contemporanea spesso cattura l'attenzione perché coinvolge una nuova tecnologia di produzione (il Ganzfeld di Eliasson, l'orizzontalità di Pollock, l'attenzione sugli oggetti di uso quotidiano di Cattelan e così via ). Il presupposto è l'uso di superstimoli che catturino l'attenzione con costi di attivazione bassi. | << | < | > | >> |Pagina 1531. Attribuire un fenomeno all'attenzione sembra spiegarlo. Ma l'attenzione come costrutto unitario è un inganno. Riflettiamo sulle tre operazioni cruciali: orientamento, selezione e impegno mentale. 2. Le risorse attentive disponibili non sono infinite ma in quantità limitata: usiamole bene. 3. Le immagini artificiali sono state spesso costruite in modo da richiedere poche risorse mentali: diffidiamo di tali costruzioni, domandiamoci perché sono state costruite così. 4. Prudenza nei casi in cui la nostra attenzione viene catturata; cerchiamo di portare il più possibile l'attenzione sotto il nostro controllo volontario analizzando la natura di ciò che ci seduce. 5. Ricordiamoci che l'evoluzione ci ha costruito per uno scopo alla volta. Possiamo così essere indotti a concentrarci su una sola cosa trascurandone altre. Riflettiamo su quello che abbiamo trascurato. Potrebbe essere cruciale. 6. Quando vogliamo concentrarci su qualcosa, evitiamo le circostanze che innescano una competizione di risorse. Ma eliminiamo le opzioni alternative solo dopo averle esaminate. 7. L'attenzione è essenzialmente una selezione per l'azione. Esaminiamo quello che selezioniamo, altrimenti possiamo essere indotti ad azioni innescate da qualcosa che non è stato selezionato criticamente. 8. L'attenzione è necessaria per raggiungere lo stadio finale delle elaborazioni mentali che, in precedenza, possono avvenire senza che ce ne rendiamo conto. 9. Attenzione ai doppi compiti: uno può danneggiare l'altro, anche se non ce ne rendiamo conto. Introspettivamente siamo noi a decidere a che cosa stare attenti, ma la selezione competitiva può svolgersi in modo automatico.
10. Cautela nell'iniziare un compito se è probabile che
si debba interromperlo. Questo richiede due operazioni
complesse: l'interruzione di un compito e l'inizio di un altro.
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