Autore Siegfried Lenz
Titolo Il disertore
EdizioneNeri Pozza, Vicenza, 2017, Bloom 120 , pag. 270, cop.fle., dim. 13x21,5x2 cm , Isbn 978-88-545-1385-3
OriginaleDer Überläufer
EdizioneHoffman und Campe, Hamburg, 2016
TraduttoreRiccardo Cravero
LettoreCristina Lupo, 2017
Classe narrativa tedesca












 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 5

1.


Nessuno venne ad aprire la porta.

Proska bussò di nuovo, piú forte, piú deciso, con il fiato sospeso. Attese, chinò il capo e guardò la lettera che teneva in mano. Nella toppa c'era una chiave; in casa doveva esserci qualcuno. Eppure non apriva.

Si staccò lento dalla porta e azzardò uno sguardo dentro una finestra mezzo oscurata. Il sole gli picchiava mica male sulla nuca, ma non gli importava. A un tratto le ginocchia di Proska, le ginocchia di un vigoroso assistente militare di trentacinque anni, presero a tremare. Spalancò la bocca, un sottile filo di saliva restò attaccato fra le labbra.

Davanti a lui, due metri al di là del vetro, un uomo anziano sedeva su una sedia con il braccio sinistro scoperto, un ramo secco del corpo, ingiallito, già quasi vizzo, e aspirava con insopportabile pedanteria un liquido in una siringa. Il vecchio lasciò cadere con indifferenza sul pavimento l'inutile fiala vuota. A Proska parve di sentire il rumore insignificante della fiala che andava in frantumi, ma si sbagliava; il vetro alla finestra non avrebbe lasciato trapelare all'esterno un suono cosí fievole.

Il vecchio appoggiò piano la siringa su un tavolino, prese con le dita scarnite un po' di ovatta, la rigirò tremolante per farne un batuffolo e la premette sulla bocca di una bottiglia che sollevò con lentezza e poi capovolse. Il batuffolo sembrò assorbire il liquido con avidità e mutò di colore.

Proska non si perse un movimento, nemmeno il piú piccolo passaggio della procedura. Aveva visto quell'uomo, l'aveva salutato appena, quattro o cinque volte in tutta la sua vita. Di lui Proska sapeva solo che era farmacista. Sulla targhetta alla porta c'era scritto il nome, Adomeit, e niente piú.

Il vecchio fregò con il batuffolo un punto sull'avambraccio e attese un momento. Mentre aspettava guardò al di sopra del bordo metallico degli occhiali l'ago della siringa che brillava innocuo nel sole.

"E adesso? Si infilerà l'ago nel braccio? In una vena? Ma perché?".

Proska ebbe un fremito agli angoli della bocca.

Adomeit raccolse la siringa e la portò davanti alle lenti degli occhiali. Premette appena lo stantuffo: dall'ago sprizzò il getto sottile di un liquido bruno. Lo strumento era a posto, funzionava a dovere. A quel punto il vecchio se lo conficcò nel braccio cosí d'improvviso che Proska restò come paralizzato davanti alla finestra. Non riuscí nemmeno a lanciare un grido né a sollevare una mano né ad andar via. Mentre guardava l'uomo violare il suo corpo, gli parve di provare lui stesso un dolore acuto e profondo, un dolore acuto come la radice di un capello e profondo come il pozzo di un occhio umano. L'indice del vecchio iniettava il liquido nel sangue con un movimento continuo, deciso.

Quando il vecchio sfilò di colpo l'ago dal braccio, Proska si senti nuovamente padrone di muoversi. Tornò alla porta, picchiò sul legno e attese. Ma non gli apri nessuno. Abbassò cauto la maniglia; la porta si mosse cigolando con riluttanza e lo lasciò passare.

«Buongiorno» disse Proska. Aveva la voce roca.

Il vecchio non rispose. Non si era accorto che qualcuno era entrato nella stanza.

«Ero venuto a chiederle...» disse Proska a voce alta. Lasciò la frase a metà quando scopri che Adomeit stava sfregando il batuffolo sul punto del braccio da cui aveva appena estratto l'ago. Poi il vecchio si alzò dalla sedia e andò alla finestra. Immerse il braccio giallo nella luce del sole e mormorò: «Su, lappa bene, svelto, asciuga». Proska notò un puntino rosso su una vena, il morso dell'ago.

«Signor Adomeit».

Il vecchio non si voltò.

«Buongiorno, signor Adomeit».

Il vecchio guardò fuori dalla finestra e abbassò la manica. A quel punto Proska gridò: «Le ho detto buongiorno, signor Adomeit!».

Il farmacista si voltò lentamente, scorse il visitatore e lo guardò con occhietti grigi, amichevoli e sorpresi. «Buongiorno, lei è il signor Proska, non è cosí?».

«Sí. Ero venuto a chiedere se mi potesse prestare un francobollo». Proska sollevò la busta.

«Una lettera per me?» chiese Adomeit, «e chi mi scrive mai?».

«No» disse Proska, «ero venuto a chiederle...».

«Deve parlare forte» lo interruppe il farmacista, «ci sento male». Andò a sedersi ma lasciò il visitatore in piedi.

«Le avanza per caso un francobollo, signor Adomeit?».

«Dia qua la lettera, non riesco a immaginare chi mai potrebbe scrivermi».

«La lettera non è per lei» gridò Proska. «Sono venuto solo a chiederle se può prestarmi un francobollo. Fino a domani, magari».

«Vuole un francobollo?».

«Sí. Glielo restituisco domani».

«Ne ho tanti, di francobolli» disse affabile l'anziano. «Gliene posso dare quanti ne vuole. Noialtri non ne abbiamo piú bisogno. A chi vuole che scriva, io? Ho ancora un amico che vive vicino a Braunschweig. Lo conosco da sessant'anni. Una volta eravamo vicini di casa, proprio come noi adesso. Tutto quel che due uomini possono raccontarsi, ce lo siamo già detto in questi sessant'anni. Di quanti francobolli ha bisogno?».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 71

5.


All'improvviso sentirono tutti una spossatezza densa e pastosa nelle ossa, nessuno aveva piú tanta voglia di vedere il grassone mangiare il fuoco. E pazienza se aveva ricevuto tutto quel liquore per niente, senza contraccambiare con l'esibizione a cui prima tenevano tanto. Si fecero taciturni, quasi pensosi; dai loro gesti scomparve ogni traccia di spavalderia. Dalle facce si sarebbe detto che soffrissero tutti della stessa malattia, invisibile ma non per questo meno dolorosa, una malattia indefinibile che li portava a elevarsi e a maturare la convinzione che ogni lagna a voce alta, ogni parola inutile, ogni stramaledetta frase fatta sarebbe stata soltanto ridicola e che era bene — forse era la cosa migliore — restare zitti, abbandonarsi alla stanchezza e lasciarsi pervadere dall'infinita imperturbabilità del paesaggio circostante. Era una sorta di anelito verso il nulla quella malattia, uno struggente, macabro desiderio di sprofondare nelle paludi remote dell'oblio, di non esserci piú; ciò che i soldati provavano era un tedio plumbeo, l'assennato sprezzo della morte.

Willi si avvicinò al letto di Proska e disse con voce spenta: «Si prepari per la pattuglia. Ce l'ha una carabina?».

«Ho un fucile da combattimento» rispose Proska e saltò giú dalla branda.

«Molto bene» approvò il caporale. «Le armi automatiche qui tornano ancora piú utili. Andrà con il Pandilatte. Il ragazzo è fuori. Ricordi: chi si addormenta va dritto davanti alla corte marziale. Non devo stare a spiegarglielo. Si muova».

Proska si mosse. Avvolse le pezze da piedi intorno alle caviglie, indossò stivali e giaccone, afferrò il fucile e usci dal forte.

Pandilatte era seduto fuori sulla panca.

«Eccoti» disse l'assistente.

«Wolfgang Kürschner» si presentò il ragazzo.

«Proska. Walter. Tu conosci i sentieri, vero?».

«Sentieri è dir troppo. Però so come arrivare là e tornare indietro. Vedrai, non ci perderemo».

«Se lo dici tu mi fido. Per me possiamo anche andare».

Due soldati si infilarono nel bosco, in un paradiso di fertilità, groviglio e intrico brulicante di sfrenatezza. Gli ontani li schiaffeggiavano e li schiaffeggiavano le betulle e il sottobosco cercava di afferrargli le gambe con mani spettrali. Li circondava una tenebra satura, una tenebra satolla come un arabo dopo il banchetto che gli spetta alla fine del digiuno; una tenebra che da un momento all'altro avrebbe potuto emettere un rutto; tutt'altra tenebra da quella che si immagina sotto le grame gonne di una monaca: era viscosa e calda, l'oscurità nella boscaglia della palude era palpabile, uno avrebbe potuto sbatterci contro la testa o uno stinco.

Pandilatte camminava davanti, stanco e taciturno. Aveva alle spalle un turno di guardia ma riteneva ozioso meravigliarsi di essere già di nuovo in marcia.

A Proska venne in mente che non aveva mangiato nulla, e mentre rifletteva se non fosse il caso di tornare indietro a prendere almeno una fetta di pane andò a sbattere contro il ragazzo.

«C'è qualcosa?» sussurrò.

«Non lo so. Per andare alla ferrovia dobbiamo tenerci sulla destra. Qui brucia».

«Che vuol dire?».

«Tu non vedi niente ma loro vedono te».

«Allora andiamo a destra».

Due soldati si aprirono un varco fra le tenebre. Inciampavano, imprecavano, sbattevano contro gli alberi ma riuscirono ad andare avanti. Non c'era nessuno che li controllasse, niente avrebbe potuto impedirgli di sdraiarsi a dormire e nel sonno di dimenticare e superare la paura che entrambi avevano nel cuore, anche se non lo volevano ammettere. Invece andarono avanti, spinti dall'abitudine, trascinati dagli ordini di Willi.

Raggiunsero i margini del bosco fradici di sudore. Si trovavano su un'altura. Davanti a loro si stendeva un pantano, in fondo riconobbero la massicciata della ferrovia. I binari erano lucidi come vermi metallici morti. Proska si mise a sedere su un tronco caduto. Disse: «Tu non ti riposi?».

Pandilatte andò a sedergli accanto. Presero i fucili in grembo come bambini.

«Qui non è troppo buio» disse Proska, «chissà se ci si può azzardare ad accendere una sigaretta».

«Io non lo farei. Appena vedono una scintilla sparano».

«A quanto pare sono molto intraprendenti, qui».

«E imprevedibili. A volte credo che ci lascino vivi solo per tormentarci».

«Che cosa te lo fa pensare?» chiese Proska. Cercò di distinguere la faccia di Pandilatte.

«Noi siamo sette. Loro saranno piú di cento. Non dovrebbe riuscirgli difficile stanarci dal forte con il fumo. Prima o poi lo faranno. Vorrei solo sapere che cosa li trattenga».

Proska restò zitto per un po' e poi disse: «Mi sembri rassegnato al fatto che di qua non ne uscirai piú vivo. Allora perché resti in questo posto maledetto?».

Pandilatte rispose: «Mio padre è caduto a Varsavia. Mia madre ha paura per me, ma se sapesse che ho tagliato la corda ne morirebbe. Forse resto per lei. Tu eri sul fronte, quando si è là davanti le occasioni per pensare alla fuga sono poche, se non nessuna. Qui è diverso».

Proska disse: «Dobbiamo resistere. Quando vedo quel Willi però mi passa la voglia. Mi è già capitato di essere sul punto di non rientrare al campo. Ma poi qualcosa mi ha sempre spinto a tornare».

«Lo chiamano senso del dovere» disse con disprezzo Pandilatte. «Ce l'hanno iniettato nel sangue. E con quello ci hanno squinternato, levato l'indipendenza. Hanno cercato di sbronzarci con una raffinata iniezione di siero del dovere. Da noi appena uno soffia nel piffero dell'orgoglio nazionale, in cento si sentono all'istante la gola riarsa e reclamano l'acquavite del patriottismo! Ecco come stanno le cose. A quel punto si brinda alla patria, volano i giuramenti e sei fregato».

«Tu studiavi all'università?» chiese Proska.

«Sí. E poi quest'ubbidienza. Guarda solo lo Stehauf, quell'idiota cattivo. Può fare di te ciò che vuole. Io non resisto piú, Walter. Se continua a tormentarmi come nell'ultima settimana sparisco».

«Che ti ha fatto?».

«Aveva bevuto e quando sono tornato dalla pattuglia mi ha costretto a guadare la latrina, non una volta, ma quattro. Grazie a Dio c'era Gamba nei paraggi. Ha preso il mitra e si è messo a sparare come un matto in alto sopra le nostre teste. Willi si è preso paura ed è corso dentro il forte».

«È una carogna» disse Proska. «Se ci prova con me lo stendo. C'eri quando ha ammazzato il prete alle spalle?».

«Ero fuori, l'ho visto cadere nel fosso».

«Stehauf ha detto che aveva dei candelotti di dinamite nella tasca della giacca».

«Questo non lo so. Può anche darsi».

Proska si alzò lento, staccò il didietro fradicio dei calzoni che era rimasto attaccato alla pelle e disse: «Se resto qui, tra un mese non sono piú normale. Allora possiamo darci alla macchia insieme. Non so nemmeno piú perché sono qui. Per chi devo prendermi il colpo di grazia? Per mia sorella Maria? Lei sta benone. Magari in questo momento è coricata sotto il piumino d'oca con mio cognato e si lascia strizzare le cosce a piene mani. Per Rogalski, mio cognato? Quello starebbe benissimo anche se io non fossi qui. Per Hilde? È la donna con cui ogni tanto... mi hai capito. Chissà per chi si spoglia oggi. Per la Germania? Cos'è la Germania, chi è?».

«Esatto» si scaldò Pandilatte, «chi è questa Germania con cui ci gonfiano le orecchie? Danton strepitava che la sua patria non si portava attaccata alla suola delle scarpe. Io lo faccio! Mi capisci? La Germania non è un filo di fumo d'incenso, è qualcosa che si può addentare, palpare, tagliare. La mia patria io posso portarla sotto la camicia, e se mi sparano via la vita con un colpo in testa vuol dire che per me la Germania non c'è piú. Non fraintendermi: certo che esiste un paese in cui sono nato e che amo piú degli altri. Lo amo perché ne conosco ogni sasso, perché ho racchiuso questo paese nel mio cuore. Io però non mi farei accoppare per un sasso come ha fatto mio padre. Lui parlava di «dovere», di «ardimento», e tutto il resto di quel liquame retorico. Lo capisci, Walter: siamo Germania anche noi, non solo quegli altri, e sarebbe un'idiozia totale se noi che siamo la Germania ci immolassimo per la Germania, cioè per noi stessi. Sarebbe come se un orso si tagliasse una chiappa e si mettesse a mangiarla in preda al dolore cercando di convincersi che deve sacrificarsi».

«Hai ragione, Wolfgang. Dov'è che ti sono venute in mente queste cose?».

«Di certo non nel giardino di casa, e nemmeno in un'aula d'università. Solo qui possono venire in mente. Sono sempre stato un cane sciolto, contento di bastare a me stesso. Non ho mai avuto una ragazza curata e profumata ad aspettarmi. Avevo solo me stesso e basta. Ma chi prende il bisturi in mano una volta ed effettua qualche taglio ben assestato su di sé, capisce di non poterlo piú posare. Deve continuare a operare per il resto della vita. E lo sai chi sono i migliori chirurghi di se stessi? Quelli che fanno una diagnosi in silenzio e si rintanano nella propria solitudine interiore ad ascoltarsi il cuore con sincerità brutale».

«Non ti capisco fino in fondo, Wolfgang. Hai studiato medicina?».

«Guarda, Walter: noi nel mondo dobbiamo orientarci verso il bene. Suona banale, lo so. Ma siccome il male si mostra sotto varie spoglie, è necessario riconsiderare i propositi infetti, individuare i punti guasti e suturare i buchi nei risultati dei ragionamenti. E ciò richiede una capacità analitica mostruosamente grande e una sincerità radicale nei propri confronti. Bisogna avere la forza di dare un calcio a una cosa a cui si è corso dietro per vent'anni quando si arriva a riconoscere che questa non è solo sbagliata, ma anche cattiva, subdola, pericolosa e assassina. Hai capito cosa intendo. Dobbiamo guardarci dai pifferai nazionalisti. Distogliere le orecchie, metterle sott'acqua, chiuderle con dei tappi di cera! Io insieme alla libertà tengo in massimo conto lo scetticismo. Dobbiamo scarriolare nei cuori il letame della libertà e piantarci sopra lo scetticismo. Mi capisci? Ti sembro un po' sopra le righe, eh? Ci credo. Sei il primo di cui mi fido, Walter. Considera che devo buttar fuori parecchia roba. A mia madre scrivo lettere piene di consolazione. Lei ne ha bisogno, ma a ogni parola consolatoria a me viene ribrezzo; mi pare un tradimento. Non ci credi, eh?».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 119

Proska la segui un momento con lo sguardo, e mentre la vedeva allontanarsi cosí giovane e spensierata gli venne voglia di richiamarla indietro. Ma non lo fece, perché con la testa era già al forte, da Pandilatte, il suo giovane complice. Quando Wanda fu scomparsa dietro le canne, Proska accese una sigaretta e si avviò al suo alloggiamento, trascinando placido i piedi, un po' provato ma con un potente sentimento di soddisfazione nel petto. La sera era quieta e bella, aveva qualcosa di una signora di città, discreta, onesta, di cui nessuno si dà pensiero. La signora Sera non offriva niente di sospetto, cosí almeno parve a Proska. Nel cielo pascolavano nuvole ingenue; il gregge muto faceva scordare la guerra. Guerra, sí: il tempo in cui il sangue viene spremuto; guerra: la collera possente del ferro, quel tempo in cui i panzer uccidono la landa con morsi indifferenti; guerra: l'avventura tragicomica in cui si impegolano gli uomini punti dalla follia, i giorni in cui comprensione e pazienza diventano rare perché hanno tutti un cronometro che corre – e nessuno conosce i sinistri cronometristi – guerra, guerra, guerra: vetro fracassato del cuore, marea sizigiale del succo rosso, cortocircuito della nostalgia. Guerra! Chi sei, tu? Tu carta assorbente per il sonno! Tu che ci investi con l'alito acre della miseria.

Come un pezzo di legno, Proska si buttò a terra e restò immobile. Era su un dosso, dietro il tronco di un ontano, e restò a guardare un giovane che risaliva il pendio, pacifico e ignaro, con un mitragliatore a tracolla. Era un civile. Davanti a un rovo si fermò, piegò un ramo per avvicinarselo e osservò a lungo e su tutti i lati i frutti ancora acerbi. Non aveva davvero niente di bellicoso, e c'entrava talmente poco con le immagini di guerra di Proska che il soldato, mentre lo teneva bene sotto tiro, si fece impaziente, anzi furioso. Il giovanotto lasciò andare il ramo e guardò il cielo. La sera sembrò far colpo su di lui.

"Non è mica normale" pensò Proska. "Pare che per lui la guerra sia una passeggiata sentimentale! Bada a te, amico mio. Ma è mai possibile? In guerra un uomo deve stare attento; deve uccidere o farsi uccidere, e se non ne è capace deve andare a casa. Cosí stanno le cose. Non è colpa mia se io sono qui e ho la canna puntata sul tuo petto. Però ci sono; e c'è la guerra e noi due, io e te, dobbiamo regolarci di conseguenza. Siamo costretti a ubbidire alla guerra anche se la odiamo come la peste. In fin dei conti vogliamo vivere tutti e due, io e te, e chi vuole restare vivo in guerra non deve pensare ad altro che al suo sangue. Va' via, vai da un'altra parte, fai dietrofront o coricati a dormire. Ma non osare venirmi piú vicino. Altrimenti io... altrimenti dovrei spararti. Lo faresti anche tu, dovresti farlo, lo so benissimo. Va' via, amico, non ce la faccio piú. Cosa ti metti a fissare nell'erba! Siamo in guerra, sai? Ancora, almeno. Non posso farci niente se adesso devo premere il grilletto. Lo vedi anche tu; adesso siamo una cosa sola; tu, quello su cui è puntato il mio fucile, devi essere il primo a perdonarmi, tu soltanto; perché sei l'unico che mi può capire. Perché non pensi a me? Credi che mi riesca facile? Non avvicinarti oltre. Un segreto ci unisce. Perché non ti giri? Non ti voglio bene ma nemmeno ti odio, sai? Non posso gridarti nulla, altrimenti per me potrebbe essere la fine. Chissà che cosa hai combinato, tu".

Il partigiano si avvicinava lento, con gli occhi rivolti a terra. Aveva il volto disteso; al taschino sinistro sul petto Proska notò il capo giallo e stanco di un fiore di palude.

"E dai! Cosa ti ho appena detto? Perché mi torturi in questo modo? Prendi un'altra direzione, sei ancora in tempo. Ti do dieci passi; piú generoso di cosí non posso e non devo essere. Hai mandato a spasso la prudenza, ed è colpa tua. Lo capirai quando sarà troppo tardi. Fermati, ragazzo, o vattene. Non mi piace questa attesa. Per questi dieci passi sono il padrone della tua vita; dieci passi. Non ti accorgi di quanto soffro, della furia che mi sale? Se solo tu sapessi a cosa sto pensando. Vedo le donne in piedi davanti alle porte delle case. Guardano incredule gli uomini che tornano dalla guerra. Li fissano con gli occhi grandi, stranamente calmi e non dicono una parola. E gli uomini gesticolano e scherzano. Ma è tutto inutile, tutto per niente, non ce n'è una che rida. Ehi, ragazzo: vedo che ci sono anche tua madre e tua moglie – non so se hai già moglie, però io la vedo – e guardano tutte e due i soldati. Forse non mi crederai, amico mio, ma non c'è una sola donna che cerchi suo marito o suo figlio. Non chiamano: Walter o Jan o Günter o Stani; non strillano e non urlano e non piangono, i loro occhi non guardano uno in particolare ma tutti, tutti insieme quelli che ritornano. Gli uomini si stupiscono che le donne non siano contente ora che sono tornati a casa; si stupiscono e non riescono a capire perché. Tu però lo sai il perché, non è vero? Le donne non ci lasciano mai soli; sono sempre con noi, dappertutto; quando mangiamo il cavolo, quando ci laviamo, quando carichiamo i fucili e quando siamo in marcia. E se uno di noi cade e resta a terra per l'eternità, va a terra anche una donna. Eppure, lo vedi, ora alcuni degli uomini si stupiscono che le donne non ridano e non gioiscano al loro ritorno.

"Ancora tre passi. È troppo tardi, ormai. Miro al fiore stanco che hai nel taschino. Se c'è uno che potrà perdonarmi, quello sei tu. Mi devi difendere, perché tu sai che sei stato tu a costringermi".

Proska piegò il dito, tirò, tirò a occhi chiusi. Tutti i proiettili schizzarono fuori; il caricatore restò vuoto. Non vide il ragazzo portarsi la mano sulla sinistra del petto, con un'espressione di leggero stupore, di sconcerto, e poi piegare le ginocchia e ricadere indietro nell'erba, raggomitolato, rivoltarsi su se stesso e restare fermo, disteso. L'indice di Proska lasciò il grilletto solo quando il caricatore non poté rifornire altra morte. Allora si alzò, restò un momento in ascolto, e quando si convinse che il campo era sgombro andò chino dal partigiano morto. Gli tolse il mitra e lo girò sulla schiena.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 123

7.


Sapeva bene che i pesci nel primo pomeriggio abboccano meno che, per dire, la sera o sul fare del mattino, e sapeva benissimo che quando fa caldo e l'acqua è limpida è difficile convincerli ad abboccare anche con la migliore delle esche: sapeva tutto questo molto bene; e se era uscito lo stesso sul fiume pigro e lento, era soltanto perché non vedeva l'ora di provare i nuovi attrezzi da pesca che il padre gli aveva mandato dall'Alta Slesia.

Quando Zwiczosbirski aveva lasciato il forte gli era arrivato fra i piedi il grasso mangiafuoco che aveva chiesto con sprezzo gioviale: «Allora, Gamba, questa volta se il luccio abbocca e non riesci a tirarlo su vuol proprio dire che non sei buono a niente. Crederò per sempre che un pesce è piú sveglio di Zwiczosbirski». E lo spilungone gli aveva risposto sorridendo amichevole: «Puoi già tagliare lardo di tuo collo e sciogliere in padella, Pjerunje! Se luccio abocca è fregato, o io divento matto. Questa lenza lui non può strappare. Questa lenza da luccio resiste piú che fronte di Stalingrado».

Il grassone gli aveva dato una pacca sulla spalla ed era sparito verso la latrina chiamando forte: «Alma, Alma!».

Dieci metri prima del fiume, lontano dall'acqua giusto quel tanto da non gettarci sopra la sua ombra, Gamba si fermò, tirò fuori di tasca la scatola Osram e ne estrasse lenza e cucchiaino.

L'arnese era lungo dieci centimetri buoni, prima dell'ancoretta nascosta da filamenti rossi aveva incastonati due occhi di vetro, e una volta trascinato nell'acqua avrebbe di certo incuriosito e messo appetito a qualsiasi grosso pesce. Gamba non possedeva un mulinello, e perché il pesce, qualora la canna si fosse spezzata, non potesse scappare lontano con cucchiaino e lenza, assicurò l'attrezzo avvolgendo tutt'intorno alla canna la lenza in modo da tenerne in mano un capo insieme all'impugnatura. Preparato l'attrezzo osservò bene il fiume, prese con due dita un pezzetto di lenza con attaccato il cucchiaino, fece roteare piú volte l'esca metallica, luccicante, e diede filo. Il cucchiaino schizzò via ronzando nell'aria e cadde lontano nell'acqua. Subito Gamba si mise a tirare piano, controcorrente. Di tanto in tanto lo vedeva luccicare sott'acqua: il gioco dell'adescamento mortale era cominciato. La prima cosa che pescò lo spilungone fu un abramide, una bestia larga con gli occhi sporgenti, piuttosto ingenua, che doveva essere stata presa di striscio dal cucchiaino e agganciata al ventre dagli ami nascosti. Oppose scarsa resistenza, una volta fuori dall'acqua restò immobile appesa alla lenza e fu subito tramortita da Zwiczos con due secchi colpi di bastone in testa. Prima di lanciare di nuovo il cucchiaino, il soldato apri un coltello con la lama a scatto e praticò nell'animale un taglio cosí profondo che non si sarebbe mai piú svegliato dal tramortimento.

L'amo sibilò piú e piú volte nell'aria; il soldato continuò a cambiare posto, avvicinandosi man mano al ponte. Tirò su dei persici, un piccolo luccio, due tinche e persino un luccioperca, e lí infilò tutti in un sacco da farina dismesso che si era portato dietro. Ma quello che voleva pescare, quello che sembrava conoscerlo, e su cui lui aveva delle mire, il vecchio luccio furbo, non l'aveva ancora visto. Se la prese, ma si consolò pensando che forse in quel momento il luccio era nel laghetto o dentro il fossato e che c'era ancora tempo e, prima o poi, sarebbe arrivato il suo giorno.

Però voleva fare ancora un ultimo tentativo sotto il ponte, per quanto difficile; difficile perché lí doveva tenere la canna orizzontale e dunque non poteva strattonare con molta forza. Si era messo accanto a un contrafforte, e mentre lasciava scivolare lo sguardo su un blocco di cemento sommerso riflettendo incerto su dove gettarè il cucchiaino ebbe un soprassalto. Un'ombra oblunga fluttuava davanti al basamento, ferma, in attesa, in immobile allerta.

Zwiczosbirski cercò di mettersi con molta prudenza in una posizione adatta a lanciare ma tutto quello che riuscí a fare fu spostare il peso del corpo da una gamba all'altra, appoggiandosi con una mano al contrafforte. Il vecchio luccio però se ne accorse all'istante e sfrecciò come un razzo silenzioso nell'acqua fonda.

Gamba imprecò ma non si diede per vinto. Il cucchiaino vorticò e ronzò nell'aria verso il punto in cui era scappato il grosso pesce. Lo spilungone tirò tremante: nulla. Un altro lancio dell'esca, e poi un altro e un altro ancora; il signor Luccio finirà per prendersela e si arrabbierà e...

Ci fu uno strattone fortissimo, la lenza si tese e la canna si piegò. Per un secondo apparve in superficie una grande ombra, rimestò l'acqua e scomparve. L'uomo sulla riva lo riconobbe: possente, bagnato, il pesce che lui chiamava Satana. Gemette di soddisfazione e di gioia mentre il sudore gli correva lungo il corpo.

"Sarà sei chili e mezzo" pensò Gamba, "mantenere sangue freddo, adesso; dare corda... lasciare solo che fa il matto finché è stanco... lo vedremo chi è piú vecchio e furbo, qui... quattro lenze mi ha strappato, quel cestino distrutto... mordi bene, adesso".

Il luccio strattonava la lenza, ma appena sembrava sul punto di strapparla Gamba gli dava corda, e quando sentiva che la bestia si calmava un momento tornava a tirare con prudenza.

La battaglia durò una buona mezz'ora, dopodiché il muso del pesce affiorò in prossimità della riva. Con enorme senso di soddisfazione e di trionfo lo spilungone guardò nelle fauci aperte dell'avversario che aveva l'amo del cucchiaino conficcato nella mascella inferiore. Osservò l'occhio dell'oppositore, un occhio di pesce, calmo, per niente stravolto dalla paura, indifferente; un occhio che non trasmetteva dolore né morte né allarme, posato sull'uomo con una tranquillità sinistra, truce e cordiale insieme. Preoccupato che la lenza non avrebbe retto al peso del luccio, evitò di sollevarlo fuori dall'acqua. Invece tirò la bestia a riva in modo da tenergli il ventre ancora dritto sul fondo ma le pinne del dorso già visibili sopra l'acqua. Mentre apriva il coltello con una mano entrò anche lui nel fiume tenendo la lenza corta, in modo da non lasciare al luccio grande possibilità di movimento. Si piegò a osservare la coda e il muso dell'animale, fece un passo alzando il piede in alto come un trampoliere e una volta che ebbe il luccio in mezzo alle gambe abbassò lento il coltello fermandosi appena sopra la testa, con l'intenzione, se non di uccidere subito quel Satana di oltre dodici chili, striato di verde scuro, almeno di infilzarlo contro il fondo, di inchiodarlo a terra, per cosí dire. In quella accadde una cosa che lo spilungone non si aspettava: il grosso animale dagli occhi calmi balzò in aria, costringendo con uno sforzo disperato il corpo scivoloso fuori dal suo elemento. Si rovesciò e nel farlo strisciò il muso contro i calzoni di Gamba. Il luccio roteò furiosamente verso l'alto, e quando il soldato affondò il coltello mancò la carne. Si rese conto con orrore che il pesce era libero e il cucchiaino gli era rimasto impigliato ai calzoni. Sollevò il piede per dare un gran pestone alla coda che si dibatteva e al contempo cercò di infilzargli il coltello nel dorso, ma il pesce fece un altro balzo in alto, e con uno scatto energico e flessuoso di cui il soldato non lo avrebbe mai creduto capace ricadde in salvo nell'acqua fonda, si spinse ancora una volta in superficie, ma già in mezzo al fiume, e scomparve per sempre.

La lenza non si era sfilata; da un amo del cucchiaino pendeva un pezzetto di muso cartilaginoso.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 142

Proska si sedette con un sospiro e disse: «Nemmeno tu sei tenuto ad andarci, nessuno te lo chiede. Hai perso i nervi. Però non deve capitare mai piú. Se nei paraggi ce ne fossero stati venti dei loro, adesso ce ne staremmo sdraiati sul divano a casa della morte. Hai avuto fortuna. Quello che se ne sta là fra i binari era un orso».

«Ma come, ci sono orsi, qui?».

«Di solito no».

«E ce n'è uno morto sulla ferrovia?».

«No».

«E allora come fai a dire che ho colpito un orso?».

«C'era un odore come di sudore di orso».

Proska sorrise senza farsi vedere. Era sul punto di raccontare a Wolfgang la verità ma poi lasciò perdere perché condivideva i timori di Gamba. Pandilatte pensò: "Non l'ho colpito, grazie a Dio. Mio padre mi avrebbe picchiato. Somigliava un po' a Walter, papà. La giustizia non risiede nel pugno, ma dentro la testa. Il senso di giustizia non dipende dallo spirito del singolo. Lo spirito è immortale. Che significato ha dunque la morte per un uomo che ha vissuto la vita dello spirito? Nel migliore dei casi, nessuno. E in ogni modo è una liberazione dalle cure profane di questo mondo. Bisogna occuparsi maggiormente di ciò che è morale o di ciò che è utile? Ciò che è morale non è utile dappertutto. L'utile non è sempre morale. A dimostrazione di ciò: la teoria dello Stato. Cattiveria, falsità e spietatezza vengono impiegate senza ritegno. E certi Stati che si comportano cosí hanno pronta una risposta sbalorditiva, una spiegazione che è un trucco da prestigiatore. Rispondono: se tutti gli esseri umani fossero angeli, lo Stato potrebbe rinunciare a impiegare simili mezzi. Ironia diabolica. Dialettica dei despoti. È possibile dunque rinchiudere le passioni dentro le celle della ragione? Che cosa sono insomma le leggi? Brutalità ordinata, imbrigliata. Perché sono qua, io? Perché ci sono venuto senza oppormi? Perché? Forse perché altrimenti mi avrebbero fucilato? Il dovere nei confronti dello Stato è una sorta di entusiasmo condensato. Entusiasmo in lattina, conservabile, pronto per essere distribuito, immagazzinabile a piacimento. Due buchetti insignificanti e già cola fuori. Uno Stato dovrebbe essere morale come la natura. Dovrebbero esserci soltanto sudditi della morale o della coscienza. L'umiltà come Costituzione; articolo primo: misericordia. Il vento come deputato, e la terra. Chi giace là morto sulla ferrovia? L'ho visto bene che cadeva. Ma adesso so contro chi devo sparare".

Proska pensò: "Chi sa che parte sta recitando. Le conoscenze giuste le ha. E ha giusti anche i seni. Non ho preso precauzioni. E se adesso aspetta un bambino? Con lei potrei anche vivere. Rogalski farebbe tanto d'occhi! E Maria! Chissà cosa direbbe lei se un giorno arrivassi là con lo scoiattolino. Il mio buon cognato Rogalski. Quella testa di legno masuro. Lui sa quel che vuole, questo bisogna riconoscerglielo. Tutti gli altri contadini di Sybba hanno dovuto consegnare cinque o sei cavalli, lui naturalmente solo due. Se la Lene gli è sfuggita non è stata colpa sua. Cavalla magnifica; un po' matta, questo sí. Ce l'ha sulla coscienza il bracciante, Schlimkat o come si chiama. Lo sa Dio quante sferzate quel lavorante incattivito le ha dato sulla testa. Santo cielo, quanto ha torturato quella bestia. Soprattutto all'erpice. Quella volta sono stato felice che Rogalski sia un collerico. La volta che sul lago dei Tatari si è accorto del modo in cui Schlimkat picchiava la cavalla sulla testa con lo stivale. Mio cognato Rogalski è una persona abbastanza come si deve. È andato da lui, gli ha strappato la sferza di mano e lo ha mezzo ammazzato di frustate. Ma la Lene era già troppo andata. Ha morsicato Schlimkat due volte. Avrebbe dovuto staccargli le dita con cui la picchiava a quel modo. Di opportunità ne aveva piú che abbastanza. Peccato che le bestie non sappiano bene cosa farsene delle opportunità. Noi siamo molto piú bravi. (Se solo si presentasse l'opportunità di svignarsela da qui...) Chi pratica la guerra per mestiere è un criminale. È quel che fanno quelli su in alto. Mentre noi stiamo qua a mollo nella palude. Stroncarli bisognerebbe, cosí avremmo un po' di pace. Ce ne potremmo tornare tutti a casa. Ma alla cricca manco riesci ad avvicinarti. Stanno trincerati dietro le loro guardie. Le guardie sono solo camerati, vero. Se vuoi arrivare alla cricca devi passare prima attraverso le guardie, ma quelle cacciano via tutti. Bisogna eliminare la cricca! Anche se alcune guardie dovessero lasciarci le penne. Io sarei pronto ad assumermi i miei rischi. Con la coscienza a posto, tra l'altro. Chi va a letto con la libertà deve anche difenderla con ogni mezzo. Tutto gli è permesso. Stiamo a vedere come va a finire qui. Porca malora, possibile che mi pungano sempre dietro il ginocchio?".

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 149

«Sí, anche i sottufficiali. Solo dal maggiore in su non puzzano più».

«Loro che fanno?».

«I signori odorano. La sai la differenza tra puzzare e odorare?».

«Qui dobbiamo svoltare. Sono andato a destra, là traverso quelli cespuglietti e dopo ho... no, non conosco differenza».

«E allora non serve che la conosci. Troppa conoscenza fa solo girare la testa».

Il sole alzò la gamba e scavalcò l'orizzonte. Portò con sé una luce calda che ridestò una gran vita. I suoni diurni si levarono erranti sopra la palude, che prese a gorgogliare, frinire, pigolare, mormorare, frusciare, gracidare, scricchiolare, scrosciare; la laida buca d'acqua ruttò, il marasso usci a prendere il sole, un fagiano di monte esaminò con occhio selvaggio la sua pennuta prediletta, i pesci risalirono dal fondo per guardare il cielo a bocca aperta. Il loro cielo gli gettava davanti al muso mosche e maggiolini esausti, e di quando in quando una libellula frullante: guardavano in alto e basta, i pesci, in attesa di qualcosa che puntualmente ricevevano.

Gamba e Proska camminavano nell'erba appesantita dalla rugiada, con gli sguardi fissi a terra. Il cuoio degli stivali si bagnò e rammollí, sulle mascherine si raccolse un brillio bianco. Lo spilungone andò al fiume, sbottonò i calzoni e fece un po' d'acqua. La cosa gli mise allegria, gridò trionfante: «Walter! Guarda! Piscio in sua casa. Ah che sorpresa, quando a improviso sente caldo in pinne di schiena! Sorpresa a colazione, eccola!».

«Sei diventato scemo?» chiese Proska scontroso. «Di chi stai parlando?».

Lo spilungone riabbottonò i calzoni e disse: «Parlo di signor Luccio. Satana! Lui che scappa sempre. È piú furbo e piú forte di noi, quello».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 172

Proska rise. Diede una gomitata a Wolfgang e rise. Ma non era troppo convinto.

Wolfgang disse: «Sono scappato, a stare con voi non ce la facevo piú. Presi uno per uno vi avrei ancora sopportato, ma cosí tutti insieme, tedeschi organizzati e pervasi di senso del dovere, non vi reggevo piú. Lo so che nel forte ci stavate quasi tutti malvolentieri, e so che avevate nostalgia di casa e odiavate quelli che vi avevano spedito qui e anche quelli che erano già qui prima di voi. Odiare una parte sola è accettabile, ma se uno si ritrova a odiarne due, deve ammettere di trovarsi in un dilemma in cui si è cacciato da solo. I tedeschi spingono la propria abnegazione al punto da vedere un precipizio come un pericolo solo per gli altri».

«Dai, racconta com'è andata» lo interruppe Proska con impazienza.

«Com'è andata? Sono scappato, veloce, perché tu non potessi piú trovarmi, perché nessuno di voi potesse fermarmi. Gli sono corso dritto fra le braccia».

«A chi?».

«Lo sai benissimo di chi parlo, e allora perché lo chiedi?».

«Sei corso dai civili, dai partigiani».

«Sí. E i partigiani mi hanno portato da un ufficiale. Si capiva che comandava le loro operazioni da un pezzo. Indossava un'uniforme e parlava tedesco. Conosceva i nomi di tutti noi, e mi è sembrato che provasse per me un po' di commiserazione. Ma non ci giurerei. Gli ho chiesto subito se sapeva qualcosa di te, e lui ha detto che eri l'unico che gli risultava sconosciuto. E poi non me l'aspettavo, ma è stato gentilissimo».

«Tanto che ti ha fatto rinchiudere qua dentro».

«Forse domattina presto mi manderà a prendere. Ne ha accennato... Sono persone come noi, sai? Calzolai, contadini, falegnami. Tra loro ci sono poveri cristi proprio come tra noi. Li ho visti, a volte tremano come noi, e si portano dietro la stessa quantità di desideri. Perché non dici piú niente, Proska? Adesso ci godi a stare zitto, eh? Speri di ricattarmi con il tuo silenzio, vero? Io sono un disertore, un bastardo, un traditore, è questo che pensi? Il sadismo piú crudele è il sadismo del silenzio».

«Va' avanti a raccontare» disse Proska.

«Non c'è piú molto da dire. È probabile che mi...» Wolfgang si interruppe. Davanti alla finestra era spuntata la sagoma di una testa. La testa si mosse con una strana flemma, da sinistra a destra, come se qualcuno la stesse facendo avanzare con solennità in cima a un'asta.

«Il secondo guardiano» sussurrò Proska. «Ho il sospetto che ai partigiani di noi gli importi qualcosa. L'altro se ne sta davanti alla porta».

La testa comparve di nuovo, seguendo silenziosa e regolare il suo percorso.

«Faremo meglio ad abituarci a lui. Che cosa stavi dicendo, Wolfgang?».

«Ma lui mi può sentire».

«Hai paura di un cranio?».

«No».

«E allora va' avanti».

«Mi sono messo a disposizione. Magari mi prendono con loro». Wolfgang deglutí. «Il pacifismo passivo, inerte, è uno spettro impotente. Chi si limita a dire: sono contro la guerra e si contenta di quello e non fa niente per estirparla è solo una bella statuina nel museo pacifista. Dobbiamo trovare una forma di pacifismo attivo, a maggior ragione in questo caso, una disponibilità all'azione seria e brutale. Con i soli sforzi del pensiero non si va da nessuna parte. Per ottenere una vita lieta bisogna mettere in conto di darsi da fare attivamente. Dopotutto, chi controlla i valori del mondo? Tu e tu soltanto. Le cose ottengono e mantengono il loro valore solo sotto il riflettore della coscienza di ciascuno. Le motivazioni morali sono sempre pertinenza del singolo. Dovremmo finalmente impiegare le nostre forze per preparare un futuro in cui poter trovare un giorno rifugio».

Proska disse: «E cosí hai voltato gabbana. Hai cambiato fronte. Lo sai che significa?».

«Ho sempre seguito la strada piú tormentosa, io».

«E ti senti ancora tormentato?».

Wolfgang guardò verso la testa che continuava a scorrere davanti alla finestra come fosse su una rotaia, e rispose: «Il tormento non smetterà mai, rimarrà sempre con me. Ma non sarò costretto a restare in un angolo il giorno che ci chiederanno che cosa abbiamo fatto noi, io e te e tutti quanti, per la grande meta agognata».

«Che intèndi con meta agognata? Una vita senza disturbi di stomaco?».

«Il tuo è un sarcasmo da quattro soldi, Walter, ma non è infettivo. Contagioso invece è il risentimento nazionalista. Un risentimento che è la radice della presunta superiorità tedesca e la fonte di questo stramaledetto senso di predestinazione».

| << |  <  |