Copertina
Autore Richard Lewontin
Titolo Il sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2004 [2002], Economica 332 , pag. 292, cop.fle., dim. 135x205x18 mm , Isbn 978-88-420-7342-0
OriginaleIt Ain't Necessarily So: The Dream of the Human Genome and Other Illusions
EdizioneNYREV, New York, 2000
TraduttoreMichele Sampaolo
LettoreRenato di Stefano, 2005
Classe biologia , scienze naturali , scienze sociali
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Indice

Ringraziamenti                                  VII
Introduzione                                     IX

1.  Il complesso d'inferiorità                    3

    Scambio di opinioni, p. 18
    Epilogo, p. 28

2.  La rivoluzione di Darwin                     35

    Epilogo, p. 56

3.  Darwin, Mendel e la mente                    61

    Epilogo, p. 83

4.  La scienza della metamorfosi                 87

    Epilogo, p. 103

5.  Il sogno del genoma umano                   106

    Epilogo, p. 140
    Epilogo (2): Dopo il genoma. E ora?, p. 149

6.  Donne contro i biologi                      157

    Scambio di opinioni, p. 181

7.  Sesso. bugie e scienza sociale              190

    Scambio di opinioni, p. 212

8.  La confusione sulla clonazione              225

    Scambio di opinioni, p. 241
    Epilogo, p. 247

9.  Sopravvivenza del più generoso?             250


10. Geni nel cibo!                              272


 

 

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Pagina XII

A partire dagli anni Cinquanta, nel momento culminante del prestigio e del successo delle scienze fisiche, i fisici e i chimici cominciarono lentamente a trasmigrare nella biologia, diventando i fondatori della moderna biologia molecolare. Questo movimento apparentemente paradossale fu in parte il riflesso della hybris di fisici che, storditi dal successo ottenuto nel far scoppiare le cose, non avevano dubbi che il tipo di scienza usata per disintegrare l'atomo poteva risolvere il problema, assai più complesso, di sezionare il protoplasma. Ma fu il risultato anche della sensazione sempre più diffusa che proprio il successo delle scienze fisiche significava che tutti i problemi veramente significativi che potevano essere risolti erano già stati risolti, e che il solo campo interessante rimasto per uno scienziato fosse la biologia. A cominciare dallo stesso periodo, e con una forte accelerazione dopo lo Sputnik, le spese dello Stato per la scienza di base aumentarono in maniera esponenziale, mettendo a disposizione della ricerca biologica somme fin allora inimmaginabili. La biologia non soltanto era interessante e importante, ma in essa si poteva anche fare un'ottima carriera. Il crescente predominio della biologia in ambito scientifico negli ultimi quarant'anni ha anche prodotto un cambiamento negli interessi degli storici, dei filosofi e dei sociologi della scienza. Non soltanto le loro riviste tradizionali sono piene di articoli relativi alla biologia, ma abbiamo assistito anche alla nascita di pubblicazioni specialistiche come «Journal of the History of Biology» e «Biology and Philosophy», create proprio per far fronte alla nuova domanda di spazio.

Il cambiamento dalla scienza come fisica alla scienza come biologia non è semplicemente un ri-orientamento di vite accademiche, ma riflette la nostra visione generale di quello che vogliamo conoscere intorno al mondo. Noi possiamo essere interessati a sapere, in maniera distaccata, quanto tempo fa si verificò il Big Bang o quanti tipi di particelle inscindibili costituiscono l'intera materia, ma quello che davvero ci interessa di sapere è perché alcune persone sono ricche e altre povere, alcune malate e altre sane, perché la donna non può assomigliare di più all'uomo e perché non posso vivere fino a cent'anni continuando a essere sessualmente attivo. Nella coscienza pubblica, come nella scienza, l'animato è arrivato a dominare l'inanimato e, in particolare, si ritiene oggi largamente che la questione principale dell'indagine scientifica dovrebbe essere non tanto che cosa costituisca la materia ma che cosa significhi essere uomini. Niente illustra questo cambiamento delle priorità meglio della cancellazione da parte del Congresso americano del costosissimo progetto del «supercollider» destinato a scoprire gli ultimi mattoni costitutivi della materia, e la contemporanea approvazione del costosissimo Progetto Genoma Umano destinato a individuare la sequenza completa del DNA che si dice costituisca un essere umano.

I libri recensiti in questi saggi si trovano a coprire, senza averlo ricercato, lo sviluppo della biologia moderna da Darwin a Dolly [e agli organismi geneticamente modificati, N.d.T.]. Nel lungo arco della storia della scienza moderna, la biologia si è sviluppata lentamente. La biologia scientifica, cioè quella meccanicistica sperimentale, ebbe inizio nel diciassettesimo secolo con la descrizione della circolazione del sangue a opera di Harvey e con la béte machine di Descartes, ma non molto di più accadde per altri duecento anni. Anche la persona che noi ora consideriamo come il più eminente biologo del diciannovesimo secolo, Charles Darwin, dovette la sua fama fulminea a un saggio teorico speculativo di storia naturale, mentre al contrario gli esperimenti quantitativi scrupolosamente condotti da Mendel sulla eredità rimasero sconosciuti fino al 1900. Dobbiamo ricordare che la possibilità della generazione spontanea di forme viventi dalla materia inanimata rimase una questione aperta fino a quando non fu riconosciuto che Pasteur l'aveva risolta e chiusa nel 1860. Peraltro, nonostante i suoi grandi contributi alla sanità pubblica e alla fabbricazione del vino, lo stesso Pasteur si considerava un chimico (aveva cominciato la sua carriera come professore di fisica a Digione e poi divenne professore di chimica a Strasburgo), e il suo contributo più importante alla scienza di base fu la sua fondazione della stereochimica, lo studio delle forme tridimensionali alternative delle molecole. Nella metà del diciannovesimo secolo e nei decenni successivi molti progressi furono fatti, al servizio della medicina, nella conoscenza della fisiologia dei microrganismi e dei vertebrati, ma l'unico grande progetto di ricerca biologica consapevolmente mirato a conciliare il mondo vivente con i principi meccanicistici sviluppati per il mondo inanimato si ebbe nel campo dell'embriologia. Il programma intellettuale della scuola tedesca della Entwicklungsmechanik puntava a fornire una spiegazione completamente meccanica del misterioso e apparentemente teleologico processo dello sviluppo di un organismo adulto altamente differenziato partendo da una singola cellula.

Questo programma, a tutt'oggi incompiuto, continua a dare forma a una gran parte della biologia moderna. È la ragion d'essere del Progetto Genoma Umano. Per la biologia del diciannovesimo secolo il programma mirante a fornire una spiegazione meccanica dello sviluppo era qualcosa di più che la preoccupazione di offrire uno schema esplicativo coerente degli organismi viventi. Esso prometteva di riuscire a conseguire quello che è l'obiettivo ultimo della biologia, di produrre cioè artificialmente organismi viventi in laboratorio. In effetti, per Jacques Loeb la produzione della vita in laboratorio era, per definizione, quel che significa capire la vita stessa. Loeb non andò mai oltre l'induzione dello sviluppo di un uovo senza fecondazione, ma la clonazione rappresentava il passo successivo.

L'ambizioso programma ottocentesco di fare dei fenomeni biologici semplicemente un'estensione del mondo fisico, segnò un notevole successo nel ventesimo secolo. Oggi conosciamo bene, al livello della forma e del comportamento delle molecole, la fisiologia e il metabolismo degli organismi e delle cellule che li costituiscono. Non conosciamo soltanto le regolarità statistiche dell'eredità, ma anche le dinamiche cellulare e molecolare che sono alla loro base. Possediamo scenari molto verosimili circa l'origine delle forme viventi dal brodo primordiale, e i successivi processi dell'evoluzione organica possono essere interpretati come il risultato di processi semplici come la mutazione, la selezione naturale e le nascite e morti casuali.

Due importanti campi d'indagine restano da includere in maniera soddisfacente dentro il programma meccanicista. Uno, per ironia della sorte, è rappresentato proprio dal problema che la biologia ottocentesca vedeva come la sfida principale per una scienza meccanicistica della vita, e cioè il problema dello sviluppo della forma. Molto sappiamo sui geni che codificano vari segnali chimici per lo sviluppo e su come la rete dei segnali sia intrecciata, ma non abbiamo la più pallida idea di come tutto questo determini alla fine la forma del mio naso. Non sappiamo nemmeno in che modo porre la domanda in maniera utile, anche se sono stati elaborati alcuni interessanti modelli di come i segnali chimici influenzino la disposizione delle cellule. L'altro campo di immensa ignoranza e povertà concettuale è rappresentato dalla comprensione del sistema nervoso centrale. Che significato ha la mappatura che collega stati fisici, connessioni delle cellule cerebrali e stati mentali? Non è nemmeno chiaro se identici stati mentali siano da rapportare a identiche regioni del cervello nei diversi individui o anche nel medesimo individuo in momenti diversi. Ci sono alcune grossolane localizzazioni in grandi aree del cervello di categorie generali di percezioni e stati mentali, ma non possiamo dire assolutamente nulla circa i processi fisici che mi hanno portato a scrivere la frase precedente a preferenza delle infinite altre frasi che avrei potuto scrivere. In poche parole, non sappiamo perché una scimmia in possesso di una tastiera non avrebbe potuto fare la stessa cosa. Nessun biologo, tuttavia, ha il minimo dubbio che lo sviluppo e la funzione nervosa centrale sono conseguenze di forze meccaniche e chimiche fra assemblaggi strutturati di molecole e che, in linea di principio, possano essere descritte per questa via. Non sentiamo alcun bisogno di tirare in ballo nuove misteriose forze fondamentali tipiche dei soli organismi viventi, di un'entelechia che spinga l'embrione in fase di sviluppo verso la sua predestinata forma finale, o di un qualche spirito in azione nella macchina del cervello. Nessun biologo dubita oggi che gli organismi siano sistemi chimico-elettro-meccanici. Il nostro problema è che, diversamente da altri campi del mondo fisico in cui poche forze forti dominano i fenomeni, l'organismo è il punto di convergenza di un grandissimo numero di sentieri causali di debole forza determinante, che rendono estremamente difficile fornire spiegazioni complete.

Il successo del programma di fisicalizzazione della biologia ha incoraggiato il programma, anch'esso ereditato dal diciannovesimo secolo, di biologizzare la fisica e il sociale. Dopotutto, se pensieri, attitudini, temperamento e cultura sono manifestazioni dell'attività di un organo fisico – il cervello –, non ne deve seguire che le cause di pensieri, attitudini, temperamento e cultura sono identiche alle cause che determinano quell'organo fisico? Più specificamente, è facile pensare che se gli organismi sono in larga misura conseguenza dei geni che hanno ereditato, allora le somiglianze e le differenze degli organismi sono conseguenza di somiglianze e differenze nei loro geni. L'antropologia, la sociologia, la psicologia, la scienza politica, l'economia, la linguistica, la filosofia morale diventano branche della biologia applicata, in particolare della genetica e dell'evoluzione. Nel diciannovesimo secolo era diffusa la convinzione che il carattere umano fosse nel sangue, e allorché vaghe nozioni di «sangue» aprirono la strada a più articolate teorie sulla eredità biologica, le teorie dell'ereditarietà del carattere divennero apparentemente più scientifiche.

Nella sua prefazione ai romanzi del ciclo dei Rougon-Macquart, scritti nei trent'anni precedenti la riscoperta dell'originale lavoro di Mendel, Émile Zola assicurava i suoi lettori che «l'eredità ha le sue leggi, esattamente come la gravitazione». Queste leggi si sarebbero rivelate poi molto diverse da quelle immaginate dai contemporanei di Zola, ma ciononostante l'affermazione di Zola sull'ereditarietà del carattere ha continuato a essere applicata tranquillamente per spiegare gli avvenimenti umani. Ora che conosciamo le vere leggi dell'ereditarietà, possiamo ben dire di conoscere le leggi reali che regolano la formazione della psiche umana. Quel che è cambiato rispetto al diciannovesimo secolo è che al posto del sangue abbiamo ora i geni e che la genetica moderna si è fusa con la teoria darwiniana dell'evoluzione per selezione naturale. Se gli europei hanno dominato le razze più scure è perché l'evoluzione in climi più freddi ha portato a una superiorità genetica nelle caratteristiche mentali e morali. Se gli uomini dominano le donne e sono ad esse infedeli, è perché l'evoluzione della specie umana ha favorito i geni che rendono gli uomini più aggressivi e sessualmente più promiscui, e nello stesso tempo ha prodotto femmine gentili, accudenti, costanti. Se spedisco 100 dollari per beneficenza alla Greater Boston Food Bank rinunziando a una cena da Chez Robert, è perché l'azione di un gene che orienta verso il comportamento altruistico nei confronti dei parenti è un po' impreciso e mi porta a compiere sacrifici personali in maniera meno discriminante. Si tratta sempre di strategie genetiche appropriate per lasciare prole più abbondante. La tensione di uno scientismo semplicistico che ha caratterizzato la teoria sociale dall'inizio del diciannovesimo secolo continua dunque a inquinarla ancora oggi. Lo straordinario incremento nella conoscenza dei dettagli meccanicistici dell'eredità e dell'evoluzione ha cambiato soltanto il linguaggio in cui quello scientismo si esprime.

I successi registrati dalle scienze naturali nello spiegare il mondo fisico e biologico hanno toccato non solo il contenuto delle spiegazioni dei fenomeni sociali, ma anche l'immagine di come dobbiamo investigarli. Gli studi relativi alla società umana diventano «scienze sociali», con un apparato di indagine e di analisi statistica che pretende che il processo di indagine non sia esso stesso un processo sociale. Il problema negli studi sulla società è che spesso, anche se non sempre, le prove di cui abbiamo bisogno stanno solo nelle teste delle persone e l'unico modo per ottenere delle informazioni è di interrogarle. Ma che succede se non ci dicono la verità?

E non è solo nelle indagini sulla società umana che la verità non è, a volte, disponibile. Nel loro arrogante orgoglio, gli scienziati naturali sono arrivati a credere che ogni cosa sul mondo materiale sia conoscibile e che alla fine qualunque cosa vorremo conoscere sarà conosciuto. Ma non è vero. Per alcune cose semplicemente non c'è mondo e tempo a sufficienza. È probabile che, dati gli inevitabili limiti di tempo e di risorse disponibili per le scienze naturali, non avremo mai più che una comprensione elementare del sistema nervoso centrale. Per altre cose, soprattutto nel campo della biologia, nel quale gran parte delle tante forze operanti sono singolarmente molto deboli, non esiste tecnica concepibile di osservazione capace di misurarle. Nella biologia evoluzionistica, per esempio, non è possibile misurare le forze selettive operanti sulla maggior parte dei geni perché quelle forze sono estremamente deboli, e tuttavia da esse l'evoluzione finale degli organismi è governata. Peggio ancora, non c'è modo di confermare o respingere ricostruzioni sulle forze selettive che hanno operato nel passato per portare i tratti caratteristici al loro stato presente, indipendentemente da quanto quelle forze fossero potenti. Nei saggi qui riprodotti ho cercato in più occasioni di mettere in luce i limiti imposti alle nostre possibilità di conoscenza. La scienza è un'attività sociale realizzata da una specie cospicua, ma nient'affatto onnipotente. Anche gli abitatori dell'Olimpo erano limitati nei loro poteri.

Richard Lewontin

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Pagina 3

1
Il complesso d'inferiorità



Il primo incontro di Oliver Twist, in cammino verso Londra, con il piccolo Jack Dawkins, mette in scena due stereotipi della letteratura ottocentesca. Il Trappolone «aveva il naso schiacciato, la fronte piatta, la faccia abbastanza comune [...] con le gambe un po' arcuate e occhi piccoli e acuti». La grammatica e la pronuncia inglese non sono il suo forte. «I've got to be in London tonight», dice a Oliver, «and I know a 'spectable old genelman lives there, wot'll give you lodgings for nothink» [«Devo essere a Londra stasera e conosco un vecchio molto rispettabile che abita laggiù e che ti darà alloggio per nulla»]. È proprio la descrizione che ci saremmo aspettati per un ragazzo di dieci anni, orfano, che ha imparato tutto dalla strada, senza educazione e privo dell'affetto di una famiglia, cresciuto tra la feccia del Lumpenproletariat vittoriano.

[...]

La spiegazione che Dickens dà del contrasto fra Oliver e il Trappolone è una versione di quell'ideologia generale che ha dominato il pensiero sociale europeo e americano negli ultimi due secoli e che costituisce il tema centrale del libro di Stephen Jay Gould: l'ideologia del determinismo biologico. Secondo questa concezione, le differenze visibili fra individui, sessi, gruppi etnici e razze quanto a condizione di vita, salute e potere sono basate su differenze biologiche innate di temperamento e capacità, che vengono trasmesse dai genitori alla prole al momento del concepimento. Contro una simile concezione si sono manifestate, ovviamente anche correnti di «ambientalismo» che sottolineavano la plasticità dello sviluppo individuale e la contingenza storica delle differenze di gruppo, ma, a parte il comportamentismo skinneriano, tutte le teorie moderne dello sviluppo sociale danno per scontata l'esistenza di un'irriducibile e cospicua differenziazione per capacità innate fra gli individui e fra i gruppi. Qualche volta le conseguenze politiche del biologismo estremo hanno assunto aspetti tanto ripugnanti da lasciare spazio a un temporaneo predominio delle spiegazioni ambientaliste e sociali delle differenze tra i gruppi. Così, l'applicazione pratica della teoria della razza biologica da parte dello Stato nazionalsocialista screditò le teorie biologiche della superiorità razziale ed etnica per circa trent'anni; ma poi nel 1969, con la pubblicazione della monografia di Arthur Jensen, How Much Can We Boost IQ and Scholastic Achievement?, tornò a essere non soltanto rispettabile ma perfino popolare sostenere che i neri dovevano la loro posizione sociale di inferiorità all'inferiorità dei loro geni.

Poiché il determinismo biologico è un tipo di spiegazione sociale che impiega concetti basilari di anatomia, teoria evoluzionistica, genetica e neurobiologia, spesso in maniera sbagliata, per criticarlo si richiedono la preparazione di uno storico delle idee e la competenza di un biologo di professione. E poiché i metodi e i concetti scientifici in questione sono abbastanza astrusi, si richiede anche la penna di uno scrittore di prima classe. Fortunatamente, Gould è storico professionista, biologo evolutivo e anatomico di gran nome, ma è anche un maestro nello spiegare la scienza. Il libro The Mismeasure of Man propone la sua analisi e la sua demolizione della facciata scientifica della finzione di Oliver.

[...]

Buona parte di The Mismeasure of Man è dedicata a una lucida esposizione dell'astruso metodo statistico usato da quelli che conducono test mentali per isolare un unico valore, g, che si ritiene misuri l'intelligenza generale. Questo metodo, l'analisi fattoriale, raccoglie un insieme di varie misurazioni e ne estrae un'unica media ponderata, in cui i pesi sono tratti dalle correlazioni osservate fra le misurazioni. L'errore, come Gould spiega, non sta nell'aritmetica, ma nella presunzione che il fatto di essere passati attraverso il processo matematico abbia prodotto un oggetto reale, o almeno un numero che ne caratterizzi uno. Come giustamente osserva Gould, il prezzo della benzina era ben correlato con la distanza dalla terra della cometa di Halley in anni recenti, ma questo non significa che una qualche combinazione numerica dei due valori misuri qualcosa di reale che ne sia la causa comune. Anche grazie a Gould, il lettore può rimanere sconcertato. La stessa complessità della manipolazione statistica è parte della mistica dei test d'intelligenza, la quale li convalida rendendoli inaccessibili ai non esperti. In fin dei conti, pensiamo a quanto è complicata la meccanica quantistica, eppure possiamo usarla per far scoppiare il mondo.

A giudizio di Gould, i deterministi della biologia sono doppiamente accecati: in primo luogo, dai loro pregiudizi razziali ed etnici, e in secondo luogo, da quello che Gould chiama «il vero errore di Burt», il riduzionismo volgare che li induce a reificare un'entità statistica astratta. Ma l'analisi è in qualche modo incompleta. Insistendo sul razzismo di singoli scienziati, e sulla loro ingenuità epistemologica, The Mismeasure of Man rimane un libro curiosamente non politico e non filosofico. Morton, Broca, Lombroso, Goddard, Spearman, e Burt fanno la loro apparizione come se venissero tirati fuori da un armadio, con un po' d'odore di naftalina addosso. Sono «uomini del loro tempo», che manifestano vecchi pregiudizi sociali che di tanto in tanto tornano a ossessionarci nella forma di «cromosomi criminali» e una breve eruzione di giansenismo. Il loro determinismo biologico appare come un disarticolato manufatto culturale, sgradevole e curioso, come il cannibalismo, ma non integrato in alcuna struttura di relazioni sociali.

Ma il determinismo biologico è la congiunzione di una necessità politica con una visione della natura ideologicamente orientata, l'una e l'altra nate dalle rivoluzioni borghesi del diciassettesimo e diciottesimo secolo. Queste rivoluzioni furono realizzate all'insegna degli slogan «Libertà, uguaglianza, fraternità» e «Tutti gli uomini sono creati uguali». Essi significavano alla lettera «tutti gli uomini», dal momento che le donne erano escluse dal potere sociale, ma non significavano «tutti gli uomini», dal momento che le restrizioni della schiavitù e della proprietà continuarono a essere in vigore fino al diciannovesimo secolo inoltrato. D'altro canto, è difficile fare una rivoluzione al grido di «Libertà e uguaglianza per alcuni!». Il problema per la società borghese (e pure per la società socialista) è di conciliare l'ideologia dell'uguaglianza con la manifesta disuguaglianza di condizione, ricchezza e potere, un problema che non esisteva nei cattivi vecchi tempi del Dei gratia. La soluzione a un simile problema è stata di aggiungere una nuova glossa all'idea dell'uguaglianza, che fa una distinzione fra le disuguaglianze artificiali che caratterizzavano l' ancien régime e le disuguaglianze naturali che segnano la società meritocratica. Come afferma lo psicologo di Harvard Richard Herrnstein:

Le classi privilegiate del passato probabilmente non erano molto superiori dal punto di vista biologico agli oppressi, ed è per questo che la rivoluzione aveva una discreta possibilità di successo. Rimosse le barriere artificiali fra le classi, la società ha incoraggiato la creazione di barriere biologiche. Quando le persone raggiungono il loro livello naturale nella società, le classi superiori vogliono, per definizione, avere maggiore capacità delle inferiori.

L'uguaglianza diventa allora uguaglianza di opportunità, e quelli che falliscono nell'impresa devono il loro insuccesso alla mancanza di merito intrinseco. Ma se viviamo davvero in una società meritocratica, come spieghiamo l'evidente passaggio del potere sociale dai genitori alla prole? Dev'essere perché il merito intrinseco si è trasmesso tramite i geni. La dottrina della grazia è sostituita dalle leggi di Mendel.

L'enfasi che The Mismeasure of Man pone sul razzismo e l'etnocentrismo nello studio delle capacità è un'inclinazione tipicamente americana. I test IQ si diffusero in Francia molto prima che vi si stabilissero un numero significativo di algerini, e la più incisiva invenzione educativa di Sir Cyril Burt – l'esame britannico eleven-plus –, è di molto precedente all'affluenza di indiani e pakistani. L'antropologia criminale di Lombroso non aveva nulla a che fare con la razza e l'etnia, ma con le classes laborieuses, classes dangereuses che interessavano Eugène Sue. In America, la razza, l'etnia e la classe sono così confuse che è facile perdere di vista la situazione generale del conflitto di classe da cui si sviluppò il determinismo biologico. Il quale, tanto nelle sua forma letteraria quanto in quella scientifica, fa parte dell'ideologia di legittimazione della nostra società, è la soluzione offerta al nostro più profondo mistero sociale, l'analgesico per la nostra più ricorrente inquietudine sociale. Per dirla con le parole di Charles Darwin, stampate come epigrafe sul frontespizio di The Mismeasure of Man, «Se la miseria dei nostri poveri non è causata dalle leggi di natura, ma dalle nostre istituzioni, grande è la nostra colpa».

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Pagina 35

2
La rivoluzione di Darwin



Gli scienziati sono infatuati dell'idea di rivoluzione. Anche prima della pubblicazione del libro di Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, e con sempre crescente frequenza dopo di essa, sedicenti Lenin del laboratorio hanno sognato ad occhi aperti di capovolgere lo stato della loro scienza e di stabilire un nuovo ordine intellettuale. In fin dei conti, chi, in una comunità sociale che attribuisce un valore così grande all'originalità, può accontentarsi di essere considerato un semplice epigono, che pratica la «scienza normale» al seguito di un «paradigma» convenzionale? Gli stessi termini, introdotti da Kuhn, fanno allusione a fiacchezza e convenzionalità. Meglio, come amava dire J.B.S. Haldane, produrre qualcosa di «interessante, anche se non vero». Così, le nuove scoperte vengono qualificate come «rivoluzioni» anche quando non fanno altro che confermare semplicemente e allargare il potere di idee già affermate.

Così, per esempio, la scoperta della struttura del DNA – la materia dei geni – fatta da J.D. Watson e Francis Crick viene spesso presentata come una rivoluzione scientifica. Ma, come sottolineato dallo stesso Watson, tutti si aspettavano la scoperta di quella struttura; tutti sapevano che una volta che fosse stata elaborata, un'enorme varietà di fenomeni sarebbero stati immediatamente rapportati ad essa. Il modello dell'organismo come uno stabilimento di montaggio della Ford esisteva già, e scocche e paraurti erano già immagazzinati; quello che serviva ancora era la chiave per dare avvio alla catena di montaggio. La scoperta della struttura del DNA è stata enormemente fruttuosa, in quanto ha reso possibile tutta la biologia molecolare e la genetica attuale, ma non ci ha fatto vedere il mondo biologico in una maniera diversa. Non ha operato alcun rovesciamento, ma ha rappresentato un compimento.

Come in campo politico, anche nella scienza una vera rivoluzione non è un avvenimento ma un processo. Un manifesto può essere pubblicato, una testa regnante può cadere in una cesta, ma le contraddizioni accumulate nel passato non scompaiono in un istante. E nemmeno i sostenitori dell' ancien régime. La nuova visione della natura risolve certo molti dei vecchi problemi, ma ne crea di nuovi essa stessa, nuove contraddizioni diverse dalle vecchie, ma non necessariamente meno profonde. E gli intellettuali somozisti, in attesa dall'altra parte della frontiera, non riescono a fare a meno di rilevare «Te l'avevo detto. Che ti aspettavi?», cercando di convincerci che il vecchio modo di vedere la natura era, in fondo, corretto. Naturalmente, la vecchia visione non può più ritornare, ma nuove rivoluzioni sostituiscono le vecchie.

In biologia ci sono state solo due vere rivoluzioni dal Rinascimento a oggi. La prima fu l'introduzione della biologia meccanica ad opera di William Harvey e René Descartes. I loro manifesti, che dichiaravano che gli animali erano macchine, furono pubblicati all'inizio del diciassettesimo secolo, ma ci vollero ancora altri duecentocinquant'anni perché la rivoluzione meccanicistica in biologia trovasse piena realizzazione. Le difficoltà della visione meccanica riduzionista della biologia consentirono una lunga sopravvivenza al vitalismo e all'olismo oscurantista, reliquie di una visione organicistica della natura risalente al Medioevo, e, allo stesso tempo, spinsero alcuni biologi a cercare una rivoluzione concettuale ancora diversa per risolvere i misteri della mente e dello sviluppo.

La seconda rivoluzione biologica, cui noi leghiamo il nome di Darwin, è ancora in fase di consolidamento. Benché il suo manifesto, L'origine delle specie, sia apparso nel 1859, solo negli anni Quaranta del Novecento il darwinismo si è affermato con forza egemonica in alcune branche della biologia come la classificazione, la fisiologia, l'anatomia e la genetica. Si trova ancora sotto assedio dall'esterno da parte degli eserciti di restauratori del creazionismo, mentre allo stesso tempo si trova esposto a una dura lotta interna per definire la propria ortodossia e risolvere le proprie contraddizioni. Il centesimo anniversario della morte di Darwin nel 1982 è stato l'occasione per un'enorme produzione di libri, un trionfo della capacità del moderno capitalismo di trasformare le idee in merci, eguagliato solo da quello che si sta facendo per commemorare la morte di Marx. L'anno fra l'aprile 1882 e il marzo 1883 fu un brutto anno per i rivoluzionari, ma una grande occasione per gli editori.

[...]

Esistono due forme dinamiche fondamentali dei sistemi evolutivi. Una è quella trasformazionale, nella quale un insieme di oggetti si evolve perché ogni singolo elemento dell'insieme va soggetto a una trasformazione analoga. Ne è esempio l'evoluzione delle stelle. L'universo delle stelle si evolve in quanto ciascuna stella soggiace al medesimo fascio generale di trasformazioni di massa e temperatura nel corso del suo ciclo vitale dalla nascita fino allo spegnimento finale. La classe degli studenti di Harvard del 1950 sta diventando più grigia e fiacca, perché ognuno dei suoi membri sta diventando più grigio e fiacco. La maggior parte dei sistemi fisici e delle istituzioni sociali evolvono in maniera trasformazionale, e questo tratto era caratteristico delle teorie evoluzionistiche pre-darwiniane, le quali pure erano trasformazionali. Lamarck riteneva che una specie si evolve perché i suoi singoli membri si trasformano, con la propria volontà e lo sforzo interiore, per rispondere alle esigenze dell'ambiente.

La dinamica evolutiva alternativa, che, per quanto ne sappiamo, è propria del mondo organico e fu colta in maniera unica da Darwin, è l'evoluzione mutazionale. In uno schema mutazionale, si ha mutazione di proprietà fra gli individui che costituiscono l'insieme, una mutazione che è provocata da cause che non sono finalizzate agli effetti che essa può avere di fatto sull'individuo che la possiede. La mutazione, cioè, si realizza in maniera casuale rispetto ai suoi effetti. L'insieme degli individui si evolve per un processo di selezione in cui alcuni tipi mutanti resistono e si riproducono, mentre altri scompaiono. L'evoluzione mutazionale si compie con il cambiamento della frequenza dei diversi mutanti, anziché per un fascio di trasformazioni evolutive condivise da ciascun individuo. Le mosche, per esempio, sono diventate resistenti al DDT. A causa delle mutazioni casuali di geni che hanno a che fare con la sensibilità delle mosche all'insetticida, alcune mosche risultavano più resistenti e altre meno. Quando il DDT fu usato su larga scala, le mosche sensibili furono uccise e i loro geni furono persi, mentre le forme resistenti sopravvissero e si riprodussero, talché i loro geni furono trasmessi alle generazioni successive. Così, la specie nel suo insieme divenne resistente al DDT.

Il problema di Darwin, e quello di chiunque cerchi di produrre una teoria dell'evoluzione, era di spiegare due caratteristiche apparentemente distinte del mondo organico, e cioè la diversità e l' adattamento.

[...]

I panglossiani hanno confuso la scoperta di Darwin che ogni adattamento è conseguenza di un'evoluzione mutazionale con la pretesa che l'evoluzione di ogni mutazione porti il segno dell'adattamento. Anche se i biologi non sanno farlo, dai filosofi ci si aspetta che siano in grado di distinguere fra la proposizione «ogni x è y» e la proposizione «ogni y è x», e nella maggior parte l'hanno fatto. Non si tratta semplicemente di una questione logica, ma di una questione empirica. Quello che i genetisti evolutivi e i biologi evolutivi sono andati facendo negli ultimi sessant'anni è stato di accumulare conoscenze su una varietà di forze che provocano il cambiamento nella frequenza dei tipi mutanti, e che non ricadono sotto la rubrica dell'adattamento per selezione naturale. Fra queste ci sono, tanto per citarne qualcuna: la fissazione casuale di caratteristiche non-adattive o anche anti-adattive a seguito di limitazioni delle dimensioni della popolazione e della colonizzazione di nuove aree ad opera di piccoli numeri di fondatori; l'acquisizione di caratteristiche a seguito del fatto che i geni che le influenzano si trovano ad essere agganciati sullo stesso cromosoma con qualche gene del tutto privo di relazione con essi, che viene però selezionato; ed effetti evolutivi collaterali di geni che sono stati selezionati per ragioni completamente diverse.

Un esempio di quest'ultimo caso è dato dal colore rosso del nostro sangue. Probabilmente noi abbiamo l'emoglobina perché la selezione naturale favorì l'acquisizione di una molecola capace di portare l'ossigeno dai nostri polmoni al resto del corpo, e l'anidride carbonica in direzione inversa. Il fatto che il nostro sangue sia rosso, e non, poniamo, verde, è un epifenomeno accidentale della struttura molecolare dell'emoglobina, e ci sono animali, come le aragoste, che hanno sangue verde. Questo non ha trattenuto gli ideologi dell'adattamento dall'inventare storie sul perché il sangue debba essere rosso, ma non sono presi sul serio dalla maggior parte dei biologi.

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Nonostante il mito di canzoni e storie, noi non discendiamo dalle scimmie, neanche da quelle antropomorfe, almeno non da una qualunque delle forme oggi viventi. Ma abbiamo avuto antenati comuni con gli scimpanzé e i gorilla, e non moltissimo tempo fa. Esattamente quanto tempo fa, e quale fra le scimmie antropomorfe viventi sia il nostro parente più prossimo, non lo sappiamo con sicurezza.

The Monkey Puzzle di John Gribbin e Jeremy Cherfas fornisce un'esposizione convincente – e anche briosa e accessibile al lettore profano che non si faccia spaventare da qualche numero distribuito qua e là – del fatto che noi siamo strettamente imparentati con lo scontroso gorilla quanto con l'amabile scimpanzé, e che i nostri geni separarono il nostro cammino evolutivo dal loro solo quattro-cinque milioni di anni fa all'incirca. L'evidenza proviene da una forma di evoluzione non-adattiva che si è rivelata essere uno degli strumenti più potenti che i biologi hanno a disposizione per ricostruire la linea dei nostri antenati. Sembra che alcuni dei mattoni costruttivi, gli aminoacidi, di cui sono fatte in parte le nostre proteine, possono essere sostituiti con mattoni di forma molecolare leggermente diversa senza che questo incida sulla funzione delle proteine stesse. Nel corso del succedersi delle generazioni, questa sostituzione si verifica con una cadenza quasi da orologio, indipendentemente dalla selezione naturale per un adattamento specifico. Se quest'orologio può essere calibrato, calcolando il numero delle sostituzioni che separano due specie di cui il tempo di divergenza evolutiva ci è noto, anche approssimativamente, dalla documentazione fossile, allora diventa possibile stimare il tempo di divergenza anche per altre specie di cui non abbiamo una sufficiente documentazione fossile. È in base a questa tecnica che possiamo dire che solo cinque milioni di anni separano il nostro comune antenato da Mr. Jiggs.

Purtroppo, Gribbin e Cherfas sembrano pensare che questa informazione ci dica qualcosa di importante circa la condizione umana. Dopotutto, affermano, le nostre proteine sono solo dell'1 per cento differenti da quelle delle scimmie antropomorfe. Ma questo è un confronto mal posto. Nella loro ansia di dire qualcosa di profondo, gli autori dimenticano che lo stesso metodo che essi descrivono con tanta chiarezza dipende in misura critica da differenze delle proteine che inizialmente non hanno alcun significato funzionale. Se il calibramento dell'orologio molecolare utilizza come sua base il cambiamento evolutivo non-adattivo, come ci si può poi aspettare di trarre un significato adattivo dalla quantità di quel cambiamento? Più in generale, come facciamo a convertire la differenza percentuale in forma, dimensione o capacità di fare biochimica? Io rovescerei i termini del confronto e metterei in risalto quali piccole differenze nella struttura delle proteine possono corrispondere a così profonde differenze nell'organismo. È un segno della follia in cui un riduzionismo non riflessivo può portarci, il fatto che noi con tutta serietà facciamo un salto dalla somiglianza delle proteine alla somiglianza politica.

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Il sogno del genoma umano



        Feticcio... un oggetto inanimato adorato da selvaggi
        a motivo di suoi supposti poteri magici intrinseci,
        o perché lo si pensa animato da uno spirito.
        (Oxford English Dictionary)



1. Gli scienziati sono figure pubbliche, e come altre figure pubbliche con un forte senso della propria importanza, paragonano in piena coscienza se stessi e la loro opera con i monumenti passati della cultura e della storia. La biologia moderna, e in particolare la biologia molecolare, ha conosciuto due episodi di un simile pavoneggiamento davanti allo specchio della storia. Il primo, tipico di un campo di recente sviluppo che promette di risolvere importanti problemi che hanno a lungo resistito ai metodi di più antica tradizione, ha usato la metafora della rivoluzione. Tocqueville osservò che quando la monarchia borghese fu rovesciata il 24 febbraio 1848, i deputati si paragonarono consciamente ai «Girondini» e ai «Montagnardi» della Convenzione Nazionale del 1793.

Gli uomini della prima Rivoluzione rivivevano in ogni mente, le loro azioni e le loro parole erano presenti a ogni memoria. Tutto ciò che vidi quel giorno suscitò in me l'impressione visiva di quelle reminiscenze; mi sembrava davvero che si sentissero impegnati a fare la Rivoluzione francese, piuttosto che continuarla.

La sensazione fantastica di essere dei rivoluzionari aveva contagiato gli scienziati prima che Thomas Kuhn facesse della Rivoluzione Scientifica la parola d'ordine della conoscenza progressista. Molti dei fondatori della biologia molecolare avevano iniziato la loro carriera come fisici, erano impregnati della fiducia nella rivoluzione quantistica meccanicista degli anni Venti. Il Rousseau della biologia molecolare fu Erwin Schrödinger, inventore dell'equazione d'onda dei quanti, che con il suo Che cos'è la vita? propose il manifesto ideologico della nuova biologia. Il Robespierre della biologia molecolare fu Max Delbruck, uno studente di Schrödinger, il quale creò un apparato politico – il Phage Group –, che realizzò il programma sperimentale.

[...]

Come può accadere che una semplice molecola abbia il potere insieme di autoriproduzione e di autoazione, funzionando da causa di se stessa e da causa di tutte le altre cose? Il DNA è composto di unità di base, i nucleotidi, che sono di quattro tipi: adenina, citosina, guanina e timina (A, C, G e T), e questi sono legati uno dopo l'altro in una lunga sequenza lineare che costituisce la molecola del DNA. Così un segmento di DNA potrebbe avere la sequenza di unità ...CAATTGC... e un altro la sequenza ...TATCGCTA... e così di seguito. Un gene tipico può essere costituito da 10.000 unità di base, e dal momento che ci sono quattro diverse possibilità per ogni posizione nella stringa, il numero dei diversi possibili tipi di geni è di gran lunga più grande di quello che si chiama di solito un numero «astronomicamente grande» (sarebbe rappresentato da 1 seguito da 6020 zeri). La stringa del DNA è come un codice con quattro diverse lettere le cui combinazioni in messaggi lunghi migliaia di lettere sono di varietà infinita. Solo una piccola frazione dei possibili messaggi possono specificare la forma e il contenuto di un organismo funzionante, ma si tratta pur sempre di un numero astronomicamente grande.

I messaggi del DNA specificano l'organismo specificando la composizione delle proteine di cui gli organismi sono fatti. Una particolare sequenza di DNA codifica una particolare proteina secondo un fascio di regole di decodificazione e di processi di manifattura che ci sono ben noti. Una parte del codice del DNA determina esattamente quale proteina dev'essere prodotta. Una proteina è una lunga stringa di unità fondamentali chiamate aminoacidi, di cui esistono venti tipi diversi. Il codice del DNA è letto in gruppi di tre nucleotidi consecutivi, e a ciascuna delle triplette AAA, AAC, GCT, TAT, ecc. corrisponde uno degli aminoacidi. Dal momento che ci sono sessantaquattro possibili triplette e solo venti aminoacidi, più di una tripletta si accorda con uno stesso aminoacido (il codice è «ridondante»). Un'altra parte del DNA determina in quale momento dello sviluppo e in quale punto dell'organismo dev'essere «attivata» o «disattivata» la produzione di una data proteina. Attivando e disattivando i geni nelle diverse parti nei diversi momenti dello sviluppo dell'organismo, il DNA «crea» l'essere vivente, «corpo e mente».

Ma come il DNA ricrea se stesso? Con la sua propria struttura duale e autocomplementare (come del sangue di Cristo si dice che viene rinnovato nel Graal dalla colomba dello Spirito Santo). La stringa degli acidi nucleici del DNA che porta il messaggio per la produzione delle proteine è accompagnata da un'altra stringa intrecciata con essa a elica e ad essa legata con un abbraccio chimico. Questo Doppelgänger di DNA è combinato nucleotide per nucleotide con la striscia del messaggio in maniera complementare. A ogni A della stringa del messaggio corrisponde una T sulla striscia complementare, a ogni C corrisponde una G, a ogni G corrisponde una C, e a ogni T corrisponde una A.

La riproduzione del DNA si opera, paradossalmente, attraverso la separazione delle strisce accoppiate, cui fa seguito la costruzione di una nuova striscia complementare su ciascuna delle stringhe genitrici. L'autoriproduzione del DNA è così spiegata con la sua struttura duale, complementare, e il suo potere creativo con la sua differenziazione lineare.


Il problema in tutta questa storia è che, benché sia corretta nella sua descrizione molecolare di dettaglio, è sbagliata rispetto a quello che pretende di spiegare. In primo luogo, il DNA non si autoriproduce; in secondo luogo, il DNA non fa niente; e in terzo luogo, gli organismi non sono determinati da esso.

Il DNA è una molecola morta, una delle molecole meno reattive e chimicamente più inerti del mondo vivente. È per questo che può essere recuperato in condizioni abbastanza buone, tanto da poterne determinare la sequenza, dalle mummie, da mastodonti congelati decine di migliaia di anni fa, e persino, nelle giuste circostanze, da piante fossili con un'età di una ventina di milioni di anni. L'uso giudiziario del DNA per collegare presunti criminali con le loro vittime dipende dal fatto che, raschiando, si riescono a recuperare molecole non degradate di sangue da tempo seccato e di pelle. Il DNA non ha il potere di riprodurre se stesso. È invece prodotto da materiali elementari tramite un meccanismo cellulare complesso di proteine. Mentre si dice spesso che il DNA produce proteine, in realtà sono le proteine (enzimi) che producono il DNA. Il DNA appena prodotto è senz'altro una copia del vecchio, e la struttura duale della molecola del DNA fornisce una sagoma complementare su cui il processo di copiatura si compie. Il processo di copiatura di una fotografia include la produzione di un negativo complementare che viene poi stampato, ma non per questo presentiamo la fabbrica Eastman Kodak come un luogo di autoriproduzione.

Nessuna molecola vivente si autoriproduce. Solo le cellule intere possono contenere tutto il meccanismo necessario per la «auto»-riproduzione e anch'esse, nel corso dello sviluppo, perdono tale capacità. Né gli interi organismi si autoriproducono, come la lettrice o il lettore scettico capirà subito non appena voglia verificarlo. Eppure, anche il sofisticato biologo molecolare, quando descrive il processo di copiatura del DNA, cade nella retorica dell'«autoriproduzione». Così Christopher Wills, nel corso di una descrizione meccanica della sintesi del DNA, ci dice che «il DNA non puo fare copie di se stesso senza assistenza» (corsivo mio), e inoltre che «perché il DNA [si] duplichi, la doppia elica dev'essere districata in due catene separate...». La forma verbale riflessiva si insinua inavvertitamente.

Non soltanto il DNA è incapace di fare copie di se stesso, con o senza aiuto, ma è incapace di «fare» alcunché. La sequenza lineare di nucleotidi nel DNA è usata dal meccanismo della cellula per determinare quale sequenza di aminoacidi dev'essere inserita in una proteina, e determinare quando e dove la proteina dev'essere prodotta. Ma le proteine della cellula sono fatte da altre proteine, e senza quel meccanismo di costruzione delle proteine niente può essere fatto. Si ha qui l'impressione di un cammino all'indietro all'infinito («Che cosa produce le proteine necessarie per fare la proteina?»), ma questa impressione è dovuta a un altro errore della biologia volgare, che cioè siano solo i geni a essere trasmessi dai genitori alla prole. In realtà, un uovo, prima della fecondazione, contiene un apparato completo di produzione depositatovi nel corso del suo sviluppo cellulare. Noi ereditiamo non solo i geni fatti di DNA ma anche un'intricata struttura di meccanismo cellulare costituito di proteine.

È l'entusiasmo evangelico dei moderni Cavalieri del Santo Graal e l'ingenuità degli accoliti del mondo giornalistico da loro catechizzati che hanno fatto così del DNA un feticcio. Ci sono anche delle inclinazioni ideologiche che si fanno sentire qui. La più accurata descrizione del ruolo del DNA vede in esso il portatore dell'informazione che viene letta dal meccanismo della cellula nel processo produttivo. Insensibilmente, da portatore di informazione il DNA viene poi di colpo trasformato in DNA come progetto, come piano, come disegno di costruzione, come molecola maestra. E il trasferimento nell'ambito della biologia della credenza nella superiorità del lavoro mentale su quello puramente fisico, del pianificatore e disegnatore sull'operaio generico della catena di montaggio.


Il risultato pratico della convinzione che quello che vogliamo sapere sugli esseri umani è contenuto nella sequenza del loro DNA è il Progetto Genoma Umano negli Stati Uniti e, quello che è il suo corrispettivo internazionale, la Human Genome Organization (HUGO), chiamata da un biologo molecolare «le Nazioni Unite per il genoma umano».

[...]

4. I nove libri qui recensiti sono solo un campione di quello che è stato e di quello che verrà. Il costo del sequenziamento del genoma umano è stimato ottimisticamente in 300 milioni di dollari (dieci centesimi a nucleotide per i tre miliardi di nucleotidi dell'intero genoma), ma se si includono i costi dello sviluppo non sarà di sicuro inferiore al mezzo miliardo di dollari attuali. Inoltre il Progetto Genoma in senso stretto è solo l'inizio del cammino di sapienza. E intanto diverse centinaia di milioni devono essere spesi per inseguire le elusive differenze di DNA per ogni specifica malattia genetica, di cui circa 3000 sono oggi a noi note, mentre un'altra frazione notevole di quel denaro resterà attaccato alle mani dei genetisti molecolari in veste di imprenditori. Nessuno dei nostri autori ha il cattivo gusto di ricordare che molti genetisti molecolari di fama, inclusi parecchi di quelli che compaiono come contributori in The Code of Codes, sono fondatori, direttori, funzionari e azionisti di aziende che operano nel campo della biotecnologia commerciale, fra cui ditte produttrici di materiali e attrezzature impiegate nella ricerca del sequenziamento. Non tutti gli autori hanno l'apertura di Norman Mailer quando scrivono resti di pubblicità a favore di se stessi.

Fin dalle prime scoperte di biologia molecolare è apparso chiaro che l'«ingegneria genetica», la creazione su ordinazione di organismi geneticamente modificati, apre enormi possibilità al profitto privato. Se i geni che consentono alle piante di trifoglio di fabbricare il proprio fertilizzante dall'azoto dell'aria possono essere trasferiti al mais o al grano, i contadini potranno risparmiare grandi somme e i produttori del seme geneticamente modificato faranno un sacco di soldi. I batteri geneticamente modificati coltivati in grandi recipienti di fermentazione possono essere resi fabbriche viventi per produrre rare e costose molecole per il trattamento di malattie virali e del cancro. Già è stato prodotto un batterio capace di mangiare il petrolio grezzo e di renderlo così biodegradabile. Come risultato di queste possibilità, i biologi molecolari sono diventati imprenditori. Molti hanno fondato aziende biotecnologiche finanziate da capitalisti d'azzardo. Alcuni sono diventati molto ricchi grazie al successo di qualche offerta pubblica di loro azioni che li ha fatti diventare improvvisamente possessori di grandi quantità di titoli di proprietà. Altri si trovano con grossi pacchetti azionari di società farmaceutiche internazionali che hanno rilevato l'impresa-madre del biologo assicurandosene per giunta la consulenza.

Non c'è eminente biologo molecolare di mia conoscenza che sia libero da interessi finanziari nel campo della biotecnologia.

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