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| << | < | > | >> |IndicePrefazione 9 1. Un mistero 13 2. Mistici: il numerologo e il filosofo 30 3. Maghi: il maestro e l'eretico 63 4. Maghi: lo scettico e il gigante 119 5. Statistici e probabilisti: la scienza dell'incertezza 160 6. Geometri: lo shock del futuro 202 7. Logici: riflettere sul ragionamento 230 8. Irragionevole efficacia? 269 9. La mente umana, la matematica e l'universo 298 Note 335 Bibliografia 363 Referenze 395 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Quando si lavora nel campo della cosmologia — lo studio del cosmo nel suo complesso —, una delle certezze della vita diventa l'arrivo a scadenza settimanale di una lettera, un'e-mail o un fax inviati da qualcuno (invariabilmente un uomo) che vuole esporvi la propria teoria dell'universo. Il più grosso errore che possiate commettere è rispondere gentilmente dicendo che vi piacerebbe saperne di più. Il risultato immediato sarà un interminabile fuoco di fila di messaggi. Come si può dunque prevenire l'attacco? Una tattica che ho trovato particolarmente efficace (a parte la scortesia di non rispondere affatto) è di far presente un fatto incontestabile: fintantoché una teoria non è formulata in maniera precisa nel linguaggio della matematica, è impossibile valutarne la validità. Questa risposta blocca all'istante la gran parte dei cosmologi dilettanti. La verità è che senza matematica i cosmologi moderni non avrebbero potuto progredire nemmeno di un passo nel loro tentativo di comprendere le leggi della natura. La matematica fornisce la solida impalcatura che tiene insieme ogni teoria dell'universo. Può darsi che ciò non appaia così sorprendente finché non ci si rende conto che la natura della stessa matematica non è del tutto chiara. Come ha affermato una volta il filosofo inglese Sir Michael Dummett, «Le due discipline intellettuali più astratte, la filosofia e la matematica, fanno sorgere la stessa perplessità: di che cosa trattano? La perplessità non nasce soltanto dall'ignoranza: anche coloro che si occupano professionalmente di queste materie trovano difficile rispondere alla domanda». In questo libro cercherò umilmente di chiarire sia alcune caratteristiche essenziali della matematica sia la natura del rapporto tra la matematica e il mondo che osserviamo. L'intento non è quello di stilare una storia generale della matematica: quello che faccio è piuttosto seguire l'evoluzione cronologica di alcuni concetti che hanno risvolti diretti per capire il ruolo della matematica nella nostra comprensione del cosmo. | << | < | > | >> |Pagina 13Qualche anno fa tenni un discorso alla Cornell University. Su una delle mie diapositive PowerPoint apparve la scritta: «Dio è un matematico?». Sentii uno degli studenti seduti in prima fila esclamare: «Oh Dio, spero di no!». Quella mia domanda retorica non era né un tentativo filosofico di definire Dio per il mio pubblico né un'astuta macchinazione per intimidire le persone affette da fobia per la matematica. Stavo semplicemente presentando un mistero in cui da secoli si dibattono alcune tra le menti più originali: i poteri in apparenza onnipresenti e onnipotenti della matematica, caratteristiche che in genere si associano soltanto a una divinità. Come disse una volta il fisico inglese James Jeans (1877-1946), «Sembra che l'universo sia stato progettato da un matematico puro». Sembra, insomma, che la matematica sia quasi troppo efficace per descrivere e spiegare non solo il cosmo in generale, ma persino alcune delle attività umane più caotiche. I fisici che tentano di formulare teorie dell'universo, gli analisti di borsa che si rompono la testa per prevedere il prossimo crollo dei mercati, i neurobiologi che costruiscono modelli del funzionamento del cervello, gli esperti di statistica dell'intelligence militare che cercano di ottimizzare l'allocazione delle risorse, tutti costoro utilizzano la matematica. E, anche se si servono di formalismi elaborati in differenti branche matematiche, fanno tutti riferimento a un unico sistema matematico globale coerente. Che cosa dà alla matematica questi incredibili poteri? «Come è possibile» si chiese una volta Einstein «che la matematica, un prodotto della mente umana che è indipendente dall'esperienza [il corsivo è mio], si accordi in maniera tanto eccellente agli oggetti della realtà fisica?» Questo senso di assoluta meraviglia non è nuovo. Già alcuni filosofi dell'antica Grecia, Pitagora e Platone in particolare, manifestavano il loro stupore di fronte all'apparente capacità della matematica di dar forma all'universo e di governarlo, e di esistere, a quanto sembrava, al di sopra del potere degli uomini di alterarla, dirigerla o influenzarla. Anche il filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679) non riusciva a nascondere la sua ammirazione. Nel Leviatano, l'imponente opera in cui espose ciò che considerava il fondamento della società e del governo, Hobbes individua nella geometria il paradigma del ragionamento razionale: Se allora tale verità consiste nel giusto ordinamento dei nomi nelle nostre affermazioni, un uomo che cerca la verità precisa deve ricordarsi per che cosa sta ogni nome che utilizza e posizionarlo di conseguenza, altrimenti si troverà intrappolato nelle parole, come un uccello in un rametto di vischio, che più cerca di divincolarsi e più rimane invischiato. E così in geometria (che è l'unica scienza che Dio ha voluto finora donare al genere umano) gli uomini cominciano con lo stabilire i significati delle loro parole, chiamando definizioni questa sistemazione di significati e collocando tali definizioni all'inizio del calcolo. Millenni di ricerche matematiche portentose e di speculazioni filosofiche erudite hanno contribuito relativamente poco a far luce sull'enigma del potere della matematica. Anzi, in un certo senso il mistero si è addirittura infittito. Il noto fisico matematico di Oxford Roger Penrose, per esempio, oggi identifica addirittura un triplo mistero. Penrose distingue tre «mondi»: il «mondo delle nostre percezioni coscienti», il «mondo fisico» e il «mondo platonico delle forme matematiche». Il primo mondo è la sede di tutte le nostre immagini mentali: come percepiamo i volti dei nostri figli, come godiamo di un tramonto mozzafiato o come reagiamo di fronte a orripilanti immagini di guerra. È anche il mondo che contiene l'amore, la gelosia e i pregiudizi, le nostre percezioni della musica, degli odori del cibo e della paura. Il secondo mondo è quello che in genere chiamiamo realtà fisica. Oggetti reali come fiori, pastiglie di aspirina, nuvole bianche e aviogetti appartengono a questa categoria, così come vi appartengono galassie, pianeti, atomi, cuori di babbuino e cervelli umani. Il mondo platonico delle forme matematiche, che per Penrose è altrettanto reale quanto quello fisico e mentale, è la patria della matematica. È qui che troveremo i numeri naturali 1, 2, 3, 4..., tutte le figure e i teoremi della geometria euclidea, le leggi newtoniane del moto, la «teoria delle stringhe», la «teoria delle catastrofi» e i modelli matematici del comportamento dei mercati finanziari. E a questo punto, osserva Penrose, sorgono i tre misteri. Primo, il mondo della realtà fisica sembra obbedire a leggi che risiedono nel mondo delle forme matematiche. Era questo il mistero che lasciava perplesso Einstein. Il Premio Nobel per la Fisica Eugene Wigner (1902-1995) ne era altrettanto sbalordito: Il miracolo dell'idoneità del linguaggio della matematica alla formulazione delle leggi della fisica è un dono meraviglioso che non comprendiamo né meritiamo. Dovremmo esserne grati e sperare che rimarrà valido nella ricerca futura e che si estenderà, nel bene e nel male, per il nostro piacere e forse anche per il nostro sconcerto, a vaste branche del sapere. Secondo, la stessa mente che percepisce — la sede delle nostre percezioni consce — è emersa in qualche modo dal mondo fisico. Come ha fatto la mente a nascere, in senso letterale, dalla materia? Saremo mai in grado di formulare una teoria della coscienza che sia coerente e convincente quanto lo è, per fare un esempio, la teoria dell'elettromagnetismo? Alla fine, ed è il terzo mistero, il cerchio si chiude. Quelle menti che percepiscono sono state capaci di accedere al mondo matematico scoprendo o creando ed esprimendo una raccolta preziosa di forme e concetti matematici astratti. Penrose non offre una spiegazione per nessuno dei tre misteri. Conclude invece laconicamente: «Senza dubbio i misteri non sono tre ma uno, la cui vera natura al momento non riusciamo nemmeno a intravedere». Questa è un'ammissione molto più umile della risposta data dal preside nella commedia Forty Years On (scritta dall'autore inglese Alan Bennett) a una domanda in qualche modo simile: Foster: Sono ancora un po' confuso riguardo alla Trinità, signore. Preside: Tre in uno, uno in tre, assolutamente chiaro. Per qualsiasi dubbio al riguardo rivolgiti al tuo professore di matematica. Il mistero è ancora più intricato di quanto ho appena esposto. Ci sono in realtà due facce della capacità con cui la matematica riesce a spiegare il mondo che ci circonda (una capacità che Wigner chiamava «d'irragionevole efficacia della matematica»), e sono una più straordinaria dell'altra. In primo luogo, c'è un aspetto che si potrebbe definire «attivo». Quando i fisici si aggirano per il labirinto della natura, fanno uso della matematica per illuminare la strada: gli strumenti che adoperano e sviluppano, i modelli che costruiscono e le spiegazioni che trovano sono tutti riconducibili alla matematica. Questo, in apparenza, è in sé un miracolo. Newton osservò una mela che cadeva, la Luna e le maree sulla riva del mare (non sono nemmeno sicuro che vide mai queste ultime!), non delle equazioni matematiche. Eppure, da tutti quei fenomeni naturali riuscì a ricavare leggi matematiche della natura chiare, concise e incredibilmente precise. Allo stesso modo, quando il fisico scozzese James Clerk Maxwell (1831-1879) ampliò la cornice della fisica classica per includervi tutti i fenomeni elettrici e magnetici che erano noti attorno al 1860, lo fece per mezzo di quattro equazioni matematiche soltanto. Rifletteteci solo un attimo. La spiegazione di un insieme di risultati sperimentali sull'elettromagnetismo e sulla luce la cui descrizione in precedenza aveva richiesto interi volumi, si riduceva a quattro equazioni succinte. La teoria generale della relatività di Einstein è ancora più stupefacente: è l'esempio perfetto di una teoria matematica straordinariamente precisa su qualcosa di tanto fondamentale quanto lo è la struttura dello spazio e del tempo. Ma c'è anche un lato «passivo» nella misteriosa efficacia della matematica, ed è un aspetto così sorprendente che quello «attivo» impallidisce al confronto. I concetti e le relazioni che i matematici studiano per ragioni puramente teoriche — senza assolutamente valutare un'eventuale applicazione pratica. — si rivelano a distanza di decenni (a volte di secoli) come soluzioni inaspettate a problemi che hanno le loro basi nella realtà fisica! Com'è possibile? Consideriamo il buffo caso di Godfrey Harold Hardy (1877-1947), un eccentrico matematico inglese. Hardy era così orgoglioso del fatto di lavorare esclusivamente nell'ambito della matematica pura che proclamò con enfasi: «Nessuna mia scoperta ha aggiunto qualcosa, né verosimilmente aggiungerà qualcosa, direttamente o indirettamente, nel bene e nel male, alle attrattive del mondo». Indovinate un po'? Si sbagliava. Uno dei risultati da lui ottenuti si reincarnò con il nome di legge di Hardy-Weinberg — in onore di Hardy e del fisico tedesco Wilhelm Weinberg (1862-1937) —, un principio fondamentale da cui hanno attinto i genetisti per studiare l'evoluzione delle popolazioni. Semplificando, la legge di Hardy-Weinberg stabilisce che se in una popolazione numerosa gli accoppiamenti avvengono in modo totalmente casuale (e in assenza di influenze esterne quali migrazioni, mutazioni e selezioni), allora la composizione genetica della popolazione resta costante nel passaggio da una generazione all'altra. Persino l'opera apparentemente astratta che Hardy compì nell'ambito della «teoria dei numeri» — lo studio delle proprietà dei numeri naturali — trovò applicazioni inattese. Nel 1973, il matematico inglese Clifford Cocks si servì della teoria dei numeri per ottenere un progresso rivoluzionario nel campo della crittografia, l'elaborazione di codici cifrati. La scoperta di Cocks rese obsoleta un'altra affermazione di Hardy. Nella sua famosa Apologia di un matematico, pubblicata nel 1940, Hardy aveva proclamato: «Nessuno ha ancora scoperto un uso bellico della teoria dei numeri». Ancora una volta, Hardy era in errore. I codici cifrati sono assolutamente fondamentali per le comunicazioni militari. Persino Hardy, dunque, una delle voci più critiche nei confronti della matematica applicata, fu «trascinato» (probabilmente scalciando e strepitando, se fosse stato ancora in vita) a produrre teorie matematiche utili a livello pratico. Ma questa è solo la punta di un iceberg. Keplero e Newton scoprirono che i pianeti del nostro sistema solare percorrono orbite di forma ellittica, curve che erano state studiate dal matematico greco Menecmo (circa 350 a.C.) due millenni prima. Le geometrie di nuovo tipo che Georg Friedrich Bernhard Riemann presentò per la prima volta durante l'esame di abilitazione all'insegnamento del 1854 si rivelarono proprio gli strumenti di cui Einstein aveva bisogno per spiegare la struttura del cosmo. Un linguaggio matematico chiamato «teoria dei gruppi», elaborato dal giovane prodigio francese Évariste Galois (1811-1832) al solo scopo di determinare la risolvibilità delle equazioni algebriche, è diventato oggi il linguaggio adottato da fisici, ingegneri, linguisti e persino antropologi per descrivere tutte le simmetrie del mondo. Oltretutto, il concetto di forme matematiche di simmetria ha, in un certo senso, capovolto l'intero procedimento scientifico. Per secoli, il percorso seguito per comprendere i meccanismi di funzionamento del cosmo era cominciato con una raccolta di fatti sperimentali e osservativi a partire dai quali gli scienziati, procedendo per tentativi ed errori, cercavano di formulare le leggi generali della natura. La procedura era quella di iniziare da osservazioni locali e di costruire il puzzle tassello per tassello. Nel XX secolo, con il riconoscimento del fatto che alla base della struttura del mondo subatomico ci sono motivi matematici ben definiti, i fisici moderni hanno cominciato a seguire il percorso opposto. Hanno messo al primo posto i principi matematici di simmetria, sostenendo che le leggi della natura e gli stessi costituenti fondamentali della materia dovrebbero seguire determinati modelli, e da questi requisiti hanno dedotto le leggi generali. Come fa la natura a sapere di obbedire a queste simmetrie matematiche astratte? | << | < | > | >> |Pagina 24Come ho fatto notare brevemente all'inizio di questo capitolo, l'irragionevole efficacia della matematica ci pone di fronte a interessanti enigmi: la matematica ha un'esistenza che è completamente indipendente dalla mente umana? Noi stiamo semplicemente scoprendo delle verità matematiche, esattamente come gli astronomi scoprono galassie in precedenza ignote? Oppure la matematica non è altro che un' invenzione umana? Se davvero la matematica esiste in un mondo astratto, quale rapporto c'è tra quel mondo mistico e quello fisico? Come fa il cervello umano, con i suoi limiti, a ottenere accesso a quel mondo immutabile, che sta al di fuori dello spazio e del tempo? D'altra parte, se la matematica è una mera invenzione umana che non esiste al di fuori delle nostre menti, come si spiega il fatto che l'invenzione di tante verità matematiche abbia dato miracolosamente risposte in anticipo a domande sul cosmo e sulla vita dell'uomo che non sono nemmeno state poste se non molti secoli dopo? Non sono interrogativi facili. Come mostrerò esaustivamente in questo libro, anche matematici, scienziati cognitivi e filosofi moderni non concordano sulle risposte. Nel 1989, il matematico francese Alain Connes, vincitore di due dei più prestigiosi premi matematici, la Medaglia Fields (1982) e il Premio Crafoord (2001), espresse con chiarezza la sua opinione in proposito:Prendiamo per esempio i numeri primi [i numeri divisibili solo per uno e per se stessi], che a mio parere costituiscono una realtà più stabile della realtà materiale che ci circonda. Il matematico impegnato nella propria attività può essere paragonato a un esploratore che si mette in marcia per scoprire il mondo. L'esperienza rivela fatti fondamentali. Facendo semplici calcoli, per esempio, ci si rende conto che la serie dei numeri primi sembra proseguire senza fine. Compito del matematico, allora, è dimostrare che esiste un'infinità di numeri primi. Si tratta, naturalmente, di un vecchio risultato ottenuto da Euclide. Una delle conseguenze più interessanti di questa dimostrazione è che se un giorno qualcuno dovesse sostenere di aver trovato il più grande numero primo, sarà facile mostrare che si sbaglia. Lo stesso vale per ogni dimostrazione. Dunque noi ci imbattiamo in una realtà che è altrettanto incontestabile quanto la realtà fisica. Anche Martin Gardner, famoso autore di numerosi testi di matematica ricreativa, sposa l'idea della matematica come «scoperta». Per lui non ci sono dubbi: i numeri e la matematica hanno un'esistenza propria, indipendentemente dal fatto che gli uomini ne siano o meno a conoscenza. «Se due dinosauri raggiungessero altri due dinosauri in una radura» ha osservato con arguzia, «ci sarebbero quattro dinosauri anche se non ci fossero uomini a osservarli e gli animali fossero troppo stupidi per saperlo.» Connes ha sottolineato che secondo i sostenitori dell'idea della «matematica come scoperta» (che, come vedremo, è conforme alla concezione platonica), una volta che un concetto matematico, per esempio quello di numeri naturali 1, 2, 3, 4..., è stato compreso, allora ci si trova davanti a dati innegabili, quali 3^2 + 4^2 = 5^2, a prescindere da quello che ne pensiamo. Ciò ci dà l'impressione, come minimo, di essere in contatto con una realtà esistente. Altri non sono d'accordo. Recensendo un libro in cui Connes presentava le sue idee, il matematico inglese Sir Michael Atiyah (che ha vinto la Medaglia Fields nel 1966 e il Premio Abel nel 2004) ha osservato: È probabile che qualsiasi matematico simpatizzi con Connes. Tutti noi abbiamo la sensazione che i numeri interi o i cerchi esistano realmente in un senso astratto e che la visione platonica [che sarà descritta in dettaglio nel Capitolo 2] sia estremamente seducente. Ma possiamo davvero difendere tale concezione? Se l'universo fosse stato unidimensionale o addirittura discreto, è difficile immaginare come si sarebbe potuta evolvere la geometria. Potrebbe sembrare che nel caso degli interi ci si muova su un terreno più solido, e che contare sia un concetto realmente primordiale. Immaginiamo però che l'intelligenza non avesse trovato sede nell'uomo ma in una enorme medusa solitaria e isolata, sprofondata negli abissi dell'Oceano Pacifico. Questa creatura non avrebbe alcuna esperienza degli oggetti individuali, solo dell'acqua che la circonda. Movimento, temperatura e pressione le fornirebbero i dati sensoriali fondamentali. In un continuum così perfetto, il concetto di discreto non nascerebbe, né ci sarebbe nulla da contare. Perciò, secondo Atiyah, «L'uomo ha creato [il corsivo è mio] la matematica idealizzando e astraendo elementi del mondo fisico». Della stessa idea sono il linguista cognitivista George Lakoff e lo psicologo Rafael Núñez. Nel loro libro Da dove viene la matematica, concludono: «La matematica è una parte naturale dell'uomo. Nasce dal nostro corpo, dal nostro cervello, e dalle nostre esperienze quotidiane del mondo». Il punto di vista di Atiyah, Lakoff e Núñez fa sorgere un'altra domanda interessante. Se la matematica è un'invenzione interamente umana, è davvero universale? In altre parole, se esistesse una civiltà extraterrestre, avrebbe inventato la stessa matematica? Carl Sagan (1934-1996) pensava che la risposta a quest'ultima domanda fosse sì. Nel suo libro Cosmo, quando discute del tipo di segnale che una civiltà intelligente trasmetterebbe nello spazio, conclude: È estremamente improbabile che un qualsiasi processo fisico naturale possa trasmettere messaggi radio che contengano soltanto numeri primi. Se ricevessimo un siffatto messaggio ne dedurremmo l'esistenza di una civiltà lontana che quanto meno aveva una passione per i numeri primi. Ma è un fatto certo? Nel suo recente libro A New Kind of Science, il fisico matematico Stephen Wolfram afferma che quella che chiamiamo «la nostra matematica» potrebbe rappresentare solo una possibilità tra una ricca varietà di «sapori» della matematica. Per esempio, invece di usare regole basate sulle equazioni matematiche, potremmo adottarne altre di diverso tipo, rappresentate da semplici programmi per computer. Inoltre, di recente alcuni cosmologi hanno discusso della possibilità che il nostro universo sia soltanto un membro di un «multiverso», un gigantesco insieme di universi. Se questo multiverso esiste davvero, ci dobbiamo aspettare che gli altri universi posseggano la nostra stessa matematica? | << | < | > | >> |Pagina 57Le idee di Platone costituirono la base di ciò che, nella filosofia in generale e nelle discussioni sulla natura della matematica in particolare, ha preso il nome di «platonismo». Nel senso più ampio del termine il platonismo abbraccia l'idea che esistano realtà astratte eterne e immutabili che sono completamente indipendenti dal mondo effimero percepito dai nostri sensi. Secondo il platonismo, l'esistenza reale delle entità matematiche è un fatto oggettivo tanto quanto l'esistenza dell'universo stesso. Non solo esistono i numeri naturali, i cerchi e i quadrati, ma anche i numeri immaginari, le funzioni, i frattali, le geometrie non euclidee e gli insiemi infiniti, così come una grande varietà di teoremi su queste entità. In breve, tutti i concetti matematici o le asserzioni «oggettivamente vere» (la cui definizione verrà data in seguito) che siano mai stati formulati o immaginati, e un'infinità di concetti e asserzioni non ancora scoperti, sono entità assolute, ovvero universali, che non è possibile creare né distruggere. Esistono indipendentemente dalla conoscenza che noi ne abbiamo. Inutile dire che tali oggetti non sono fisici; vivono in un mondo autonomo di entità eterne. Il platonismo considera i matematici come esploratori di terre sconosciute: essi possono solo scoprire verità matematiche, non inventarle. Così come l'America esisteva ben prima che Colombo (o Leif Eirfíksson) la scoprisse, i teoremi matematici esistevano nel mondo platonico prima che i babilonesi inaugurassero lo studio della matematica. Per Platone, le sole cose che hanno un'esistenza vera e completa sono queste forme e idee matematiche astratte, poiché solo nella matematica, sosteneva, possiamo raggiungere una conoscenza assolutamente certa e oggettiva. Di conseguenza, la matematica è strettamente associata al divino. Nel dialogo Timeo, il dio creatore usa la matematica per plasmare il mondo, e nella Repubblica la conoscenza della matematica è considerata una tappa fondamentale nel percorso verso la conoscenza delle forme divine. Platone non si serve della matematica per formulare leggi della natura che siano verificabili attraverso esperimenti: il carattere matematico del mondo è semplicemente una conseguenza del fatto che «Dio geometrizza sempre».| << | < | > | >> |Pagina 61Ci sono matematici, filosofi, scienziati cognitivi e altri «utenti» della matematica (come gli informatici) che considerano il mondo platonico come un parto dell'immaginazione di menti troppo sognatrici (parlerò in dettaglio di questo punto di vista e di altri dogmi nel Capitolo 9). Nel 1940, il famoso storico della matematica Eric Temple Bell (1883-1960) fece la seguente previsione:Secondo i profeti, l'ultimo seguace dell'ideale platonico avrà fatto la fine dei dinosauri nell'anno 2000. Spogliata dei suoi epici indumenti di eternalismo, la matematica verrà allora riconosciuta per ciò che è sempre stata, una lingua costruita dagli uomini, inventata per scopi ben definiti e stabiliti dagli uomini. L'ultimo tempio di una verità assoluta sarà svanito insieme al nulla che custodisce. La profezia di Bell si è dimostrata errata. Se è vero che sono emersi dogmi che sono diametralmente opposti al platonismo (ma che puntano in diverse direzioni), tali dogmi non hanno conquistato completamente le menti (né i cuori!) di tutti i matematici e di tutti i filosofi, che oggi rimangono più divisi che mai. Ma immaginate che il platonismo l'avesse spuntata, e che tutti noi fossimo diventati platonici convinti. Il platonismo spiegherebbe effettivamente l'«irragionevole efficacia» con cui la matematica descrive il nostro mondo? Non proprio. Perché mai la realtà fisica dovrebbe obbedire a leggi che risiedono nell'astratto mondo platonico? Dopotutto, questo è uno dei misteri proposti da Penrose, e Penrose è un platonico convinto. Perciò per il momento dobbiamo accettare il fatto che, anche se dovessimo abbracciare il platonismo, l'enigma dei poteri della matematica rimarrebbe irrisolto. Come scrive Wigner, «È difficile sottrarsi all'impressione che ci troviamo di fronte a un miracolo, un miracolo che nella sua straordinarietà è paragonabile a quello della mente umana che mette in fila mille argomentazioni senza finire in contraddizione». Per apprezzare appieno la portata di questo miracolo, dobbiamo scavare nella vita e nell'eredità di alcuni di coloro che lo hanno realizzato: le menti a cui si deve la scoperta di alcune delle incredibilmente precise leggi matematiche. | << | < | > | >> |Pagina 269Nel Capitolo 1 ho osservato che il successo della matematica nelle teorie fisiche presenta due aspetti: uno che ho chiamato «attivo» e l'altro «passivo». Quello «attivo» riflette il fatto che gli studiosi formulano le leggi della natura in termini matematici palesemente applicabili. Si servono cioè di entità, relazioni ed equazioni matematiche che sono state sviluppate presupponendo un'applicazione, il più delle volte per l'argomento stesso in discussione. I ricercatori tendono a fare affidamento sulla somiglianza tra le proprietà dei concetti matematici e i fenomeni osservati o i risultati sperimentali. L'efficacia della matematica non appare così sorprendente in questi casi, poiché è sempre possibile sostenere che le teorie erano fatte su misura per adattarsi alle osservazioni. Tuttavia, l'uso «attivo» presenta un lato stupefacente legato all'accuratezza, di cui parlerò più avanti in questo capitolo. L'efficacia «passiva» si riferisce a casi in cui teorie matematiche completamente astratte sono state sviluppate, senza un'applicazione prestabilita, solo per trasformarsi in seguito in modelli fisici potentemente predittivi. La teoria dei nodi costituisce un esempio dell'interazione tra efficacia attiva e passiva. Nodi I nodi sono addirittura protagonisti di leggende. Ricorderete forse il mito greco del nodo gordiano. Un oracolo, interpellato dagli abitanti della Frigia, diede come responso che il loro prossimo re sarebbe stato il primo uomo a entrare nella capitale a bordo di un carro. E fu così che l'ignaro contadino Gordio, arrivato in città sul suo carretto guidato da buoi, divenne re. Pieno di gratitudine, Gordio dedicò il suo carro agli dei, e lo legò a un palo con un nodo intricatissimo che rese vano ogni tentativo di scioglierlo. Secondo una successiva profezia, l'impero dell'Asia sarebbe toccato a colui che avesse disfatto il nodo. Il fato volle che a riuscirci fosse Alessandro Magno (nell'anno 333 a.C.), che in seguito divenne infatti signore dell'Asia. La soluzione escogitata da Alessandro per sciogliere il nodo gordiano non si potrebbe esattamente definire ingegnosa o corretta, visto che a quanto pare tagliò il nodo con la spada! Ma non occorre risalire fino all'antica Grecia per incontrare i nodi. Un bambino che si allaccia le scarpe, una ragazza che si fa la treccia, una nonna che lavora a maglia, un marinaio che ormeggia un'imbarcazione... Tutti fanno nodi di qualche tipo. Alcuni hanno nomi fantasiosi, come «bocca di lupo», «margherita», «gassa d'amante», «vaccaio» o «nodo del boia». I nodi marinari in particolare, considerati importanti dal punto di vista storico, ispirarono un'intera collezione di libri a essi dedicati nell'Inghilterra del XVII secolo. Uno di questi, per inciso, fu scritto nientedimeno che dall'avventuriero inglese John Smith (1580-1631), meglio noto per la sua relazione sentimentale con la principessa Pocahontas, nativa americana. La teoria matematica dei nodi vide la luce nel 1771 in un saggio del matematico francese Alexandre-Théophile Vandermonde (1736-1796). Vandermonde fu il primo a riconoscere che i nodi potevano essere studiati come facenti parte della «geometria di posizione», che si occupa di relazioni che dipendono unicamente dalla posizione, ignorando dimensioni e calcolo delle quantità. Il successivo, per il suo ruolo nello sviluppo della teoria dei nodi, fu il «principe della matematica» tedesco Carl Friedrich Gauss. Nei suoi appunti si ritrovano disegni e dettagliate descrizioni di nodi, insieme ad analisi delle loro proprietà. Per quanto fossero importanti i contributi di Vandermonde, di Gauss e di alcuni altri matematici del XIX secolo, il principale impulso alla teoria dei nodi provenne da una fonte inaspettata – un tentativo di spiegare la struttura della materia. L'idea fu frutto della mente del famoso fisico inglese William Thomson, oggi meglio conosciuto come Lord Kelvin (1824-1907), i cui sforzi si concentrarono sulla formulazione di una teoria degli atomi, i componenti basilari della materia. Secondo la sua fantasiosa congettura, gli atomi in realtà erano tubi di etere (la misteriosa sostanza che si riteneva permeasse tutto lo spazio) annodati. La varietà di elementi chimici, nel contesto di questo modello, poteva essere spiegata dalla molteplicità di nodi. Se l'ipotesi di Thomson oggi ci appare a dir poco stravagante, è solo perché abbiamo avuto un intero secolo per abituarci al corretto modello dell'atomo – in cui gli elettroni orbitano attorno ai nuclei atomici – e testarlo sperimentalmente. Ma quella era l'Inghilterra degli anni Sessanta dell'Ottocento, e Thomson era profondamente colpito dalla stabilità di complessi anelli di fumo e dalla loro capacità di vibrare, due proprietà considerate all'epoca essenziali per creare un modello dell'atomo. Al fine di sviluppare per i nodi l'equivalente di una tavola periodica degli elementi, Thomson doveva riuscire a classificarli – scoprire cioè quanti nodi diversi è possibile realizzare — e fu questa esigenza di una tabulazione a suscitare un forte interesse per la matematica dei nodi. Come ho già avuto modo di spiegare nel Capitolo 1, un nodo matematico è simile a un normale nodo in una corda, solo che i due capi sono incollati. In altre parole, un nodo matematico è raffigurato da una curva chiusa, senza estremità libere. Alcuni esempi sono mostrati nella figura 54, nella quale i nodi tridimensionali sono rappresentati con le loro proiezioni, od ombre, sul piano. La posizione nello spazio di due tratti di corda che si incrociano è indicata nella figura spezzando la linea che raffigura il tratto sottostante. Il nodo più semplice — definito «banale», cioè sciolto — non è altro che una curva circolare chiusa (figura 54a). Il «nodo a trifoglio» (figura 54b) presenta tre incroci, mentre il «nodo a otto» (figura 54c) ne ha quattro. Nella teoria di Thomson, questi tre nodi potrebbero rappresentare, in linea di principio, modelli di tre atomi di crescente complessità, per esempio atomi, rispettivamente, di idrogeno, carbonio e ossigeno. Tuttavia, si rendeva necessaria una classificazione completa dei nodi, compito al quale si dedicò un amico di Thomson, il fisico e matematico scozzese Peter Guthrie Tait (1831-1901). Le domande che i matematici si pongono riguardo ai nodi non sono in realtà molto diverse da quelle che ci si potrebbe fare davanti a una normale corda annodata o una matassa aggrovigliata di filo. Sono davvero annodate? Un nodo è equivalente a un altro? Il significato di quest'ultima domanda è semplice: un nodo può essere deformato fino ad assumere la forma dell'altro senza tagliare la corda o inserirne un tratto dentro l'altro come nei cosiddetti «anelli cinesi» dei prestigiatori? L'importanza di tale quesito è dimostrata nella figura 55, che illustra come mediante certe manipolazioni si possano ottenere due rappresentazioni assai differenti di quello che in realtà è lo stesso nodo. In definitiva, la teoria dei nodi si propone di provare che determinati nodi (come il nodo a trifoglio e il nodo a otto; figure 54b e 54c) sono davvero diversi, ignorando le differenze superficiali di altri nodi, come i due della figura 55. | << | < | > | >> |Pagina 298Le due domande: 1) La matematica esiste indipendentemente dalla mente umana?, e 2) Perché i concetti matematici hanno un'applicabilità che va ben oltre il contesto in cui sono stati originariamente sviluppati?, sono correlate in modi assai complessi. Tuttavia, per semplificare la discussione, tenterò di affrontarle una alla volta. Per prima cosa, forse vi chiederete come la pensano i matematici moderni in merito alla questione se la matematica sia una scoperta o un'invenzione. Ecco come i matematici Philip Davis e Reuben Hersh hanno descritto la situazione nel loro meraviglioso libro L'esperienza matematica: La maggior parte di coloro che scrivono sull'argomento sembrano concordi nel dire che il tipico matematico di professione è un platonista [considera la matematica una scoperta] nei giorni feriali e un formalista [considera la matematica un'invenzione] la domenica. Cioè, quando fa matematica è convinto di avere a che fare con una realtà oggettiva di cui sta cercando di determinare le proprietà. Ma poi, quando viene sfidato a fare un resoconto filosofico di questa realtà, trova più facile fingere che dopotutto non ci crede. Ho l'impressione che questa caratterizzazione possa considerarsi valida per molti matematici e fisici teorici contemporanei. Nondimeno, alcuni matematici del XX secolo si sono schierati apertamente da una parte o dall'altra. Ecco qui, a rappresentare il punto di vista platonico, G. H. Hardy nell' Apologia di un matematico: Per me, e suppongo per la maggior parte dei matematici, esiste un'altra realtà, che chiamerò «realtà matematica»; e non vi è alcun accordo riguardo la natura della realtà matematica né tra i matematici né tra i filosofi. Alcuni ritengono che sia «mentale» e che in un certo senso noi la costruiamo, altri che sia fuori e indipendente da noi. Un uomo che fosse in grado di descrivere in modo convincente la realtà matematica, avrebbe risolto moltissimi dei problemi più difficili della metafisica. Se poi riuscisse a includere la realtà fisica nella sua descrizione, li avrebbe risolti tutti. Non vorrei discutere qui nessuna di tali questioni, nemmeno se avessi la competenza per farlo, ma esporrò dogmaticamente la mia posizione al fine di evitare il minimo fraintendimento. Credo che la realtà matematica stia fuori di noi, che il nostro compito sia di scoprirla o di osservarla, e che i teoremi che noi dimostriamo, qualificandoli pomposamente come nostre «creazioni», siano semplicemente annotazioni delle nostre osservazioni. Questa idea è stata sostenuta, in una forma o nell'altra, da molti eminenti filosofi da Platone in poi, e userò il linguaggio che è naturale per un uomo che la sostiene. I matematici Edward Kasner (1878-1955) e James Newman (1907-1966) espressero esattamente il punto di vista opposto in Matematica e immaginazione: Non è sorprendente che la matematica goda di un prestigio ineguagliato da qualunque altro esercizio mentale finalizzato a uno scopo. Ha reso possibili così tanti progressi in campo scientifico, è al tempo stesso così indispensabile nelle faccende pratiche e senza dubbio un tale capolavoro di astrazione pura che il riconoscimento della sua preminenza tra le conquiste dell'intelletto umano le è quantomeno dovuto. Malgrado questa preminenza, la matematica ha avuto il suo primo significativo apprezzamento solo di recente, con l'avvento della geometria quadridimensionale e non euclidea. Questo non vuol dire che i passi avanti compiuti grazie al calcolo infinitesimale, la teoria della probabilità, l'aritmetica dell'infinito, la topologia e gli altri argomenti che abbiamo trattato, vadano minimizzati. Ciascuno ha ampliato la matematica e reso più profondo il suo significato come pure la nostra comprensione dell'universo fisico. Tuttavia, nessuno ha contribuito all'introspezione matematica, alla conoscenza della relazione che lega le parti della matematica tra loro e con il tutto, tanto quanto le eresie non euclidee. In conseguenza del coraggioso spirito critico che ha generato le eresie, abbiamo superato il concetto che le verità matematiche hanno un'esistenza indipendente e separata dalle nostre menti. Ci appare persino strano che un tale concetto sia potuto esistere. Eppure è quello che Pitagora avrebbe pensato — e con lui Cartesio e centinaia di altri grandi matematici prima del XIX secolo. Oggi la matematica non è più prigioniera; si è sbarazzata delle sue catene. Qualunque sia la sua essenza, riconosciamo che è libera come la mente, prensile come l'immaginazione. La geometria non euclidea è la dimostrazione che la matematica, a differenza della musica delle sfere, è opera dell'uomo, soggetta solamente ai limiti imposti dalle leggi del pensiero. Perciò, contrariamente alla precisione e all'accuratezza che contraddistinguono le affermazioni in matematica, qui siamo di fronte a una divergenza di opinioni più tipica dei dibattiti filosofici o politici. Dovremmo sorprenderci? No davvero. Chiatire se la matematica sia stata inventata oppure scoperta è una questione che non attiene alla matematica.
La nozione di «scoperta» implica la preesistenza in qualche
universo, reale o metafisico. Il concetto di «invenzione» coinvolge la mente
umana, individuale o collettiva. La questione
dunque appartiene a una combinazione di discipline che può
riguardare la fisica, la filosofia, la matematica, la scienza cognitiva, persino
l'antropologia, ma di certo non unicamente la
matematica (almeno non in maniera diretta). Di conseguenza,
forse i matematici non sono i meglio attrezzati per rispondere
a questa domanda. Dopotutto, i poeti, che fanno magie con il
linguaggio, non sono per forza i migliori linguisti, e i più grandi filosofi in
genere non sono esperti di funzioni cerebrali. La
risposta al dilemma «invenzione o scoperta?» può quindi ricavarsi soltanto
(sempre che sia possibile) da un attento esame di
numerosi indizi sparsi nelle discipline più disparate.
Metafisica, fisica e cognizione Quanti credono che la matematica esista in un universo indipendente dagli esseri umani si dividono ancora in due differenti fazioni quando si tratta di identificare la natura di questo universo. Innanzitutto, ci sono i «veri» platonisti, per i quali la matematica abita nel mondo eterno e astratto delle forme matematiche. Poi, ci sono coloro che suggeriscono che le strutture matematiche costituiscono di fatto una parte reale del mondo naturale. Poiché ho già parlato profusamente del platonismo puro e di alcune delle sue imperfezioni filosofiche, vorrei soffermarmi sul secondo punto di vista. La persona che offre forse la versione più estrema e congetturale dello scenario della «matematica come parte del mondo fisico» è un collega astrofisico del MIT, Max Tegmark. Tegmark sostiene che «il nostro universo non è soltanto descritto dalla matematica: è la matematica» (il corsivo è mio). La sua argomentazione parte dal presupposto indiscusso che esiste una realtà fisica esterna indipendente dagli esseri umani. Quindi passa ad analizzare quale potrebbe essere la natura della teoria definitiva di una tale realtà (quella che i fisici chiamano «teoria del tutto»). Poiché questo mondo fisico è completamente autonomo dagli uomini, afferma Tegmark, la sua descrizione dev'essere libera da qualunque «bagaglio» umano (per esempio, il linguaggio). In altre parole, la teoria definitiva non può includere concetti quali «particelle subatomiche», «stringhe vibranti», «spazio-tempo curvo» o altri costrutti elaborati dall'uomo. Da questa supposta intuizione, Tegmark giunge alla conclusione che l'unica possibile descrizione del cosmo deve implicare unicamente concetti astratti e i rapporti tra essi, che giudica essere la definizione funzionante della matematica. L'argomentazione di Tegmark a sostegno di una realtà matematica è di certo affascinante e, se fosse corretta, avrebbe aperto una strada verso la soluzione del problema dell'«irragionevole efficacia» della matematica. In un universo identificato con la matematica, il fatto che questa si adatti come un guanto alla natura non sarebbe affatto sorprendente. Purtroppo, io non trovo il ragionamento di Tegmark particolarmente convincente. Il salto dall'esistenza di una realtà esterna (indipendente dagli esseri umani) alla conclusione che bisogna credere, per citare le sue stesse parole, «in ciò che io chiamo l'ipotesi dell'universo matematico: che la nostra realtà fisica è una struttura matematica», a mio avviso implica un artificio. Quando Tegmark cerca di qualificare cosa sia realmente la matematica, afferma: «Per un logico moderno, una struttura matematica è precisamente questo: un insieme di entità astratte correlate tra loro». Ma questo logico moderno è un essere umano! In pratica, Tegmark non dimostra mai davvero che la nostra matematica non è stata inventata dall'uomo; si limita a presumerlo. Inoltre, come ha fatto notare il neurobiologo francese Jean-Pierre Changeux in risposta a una simile asserzione: «Mi sembra che rivendicare una realtà fisica per gli oggetti matematici, a livello dei fenomeni naturali che studiamo in biologia, ponga un preoccupante problema epistemologico. Come può uno stato fisico, interno al nostro cervello, rappresentare un altro stato fisico esterno a esso?» Gran parte degli altri tentativi di collocare correttamente gli oggetti matematici nella realtà fisica esterna fanno esclusivo affidamento all'efficacia della matematica nello spiegare la natura in modo verificabile. Ciò tuttavia presuppone che non sia possibile nessun'altra spiegazione per l'efficacia della matematica, il che, come mostrerò in seguito, non risponde a verità. Se la matematica non risiede né nel mondo platonico senza spazio e senza tempo, né nel mondo fisico, questo significa forse che è interamente inventata dall'uomo? Assolutamente no. In effetti, più avanti sosterrò che gran parte della matematica è dovuta a delle scoperte. Prima di passare oltre, però, ritengo utile esaminare alcune delle opinioni di scienziati cognitivi contemporanei. La ragione è semplice: se anche la matematica fosse totalmente frutto di scoperte, queste sarebbero state comunque compiute da matematici umani per mezzo dell'uso del loro cervello. | << | < | > | >> |Pagina 314Numerosi altri esempi dimostrano che la domanda «La matematica è una scoperta o un'invenzione?» è mal posta. La nostra matematica è una combinazione di invenzioni e scoperte. Gli assiomi della geometria euclidea in quanto concetto erano un'invenzione, proprio come le regole del gioco degli scacchi. Gli assiomi erano inoltre integrati con una varietà di concetti inventati, come triangoli, parallelogrammi, ellissi, il rapporto aureo eccetera. I teoremi della geomeria euclidea, d'altro canto, erano nel complesso delle scoperte; erano i sentieri che collegavano i differenti concetti. In alcuni casi, le prove generavano i teoremi: i matematici prendevano in esame ciò che potevano dimostrare e da quello deducevano i teoremi. In altri, come descritto da Archimede nel Metodo, prima trovavano la risposta a una particolare domanda che li interessava, e poi elaboravano la prova.Tipicamente, i concetti erano invenzioni. I numeri primi, come concetto, erano un'invenzione, ma tutti i teoremi sui numeri primi erano scoperte. Gli antichi matematici babilonesi, egizi e cinesi non inventarono mai il concetto di numeri primi, nonostante la loro matematica fosse assai progredita. Potremmo invece dire che semplicemente non «scoprirono» i numeri primi? Non più di quanto potremmo affermare che il Regno Unito non ha «scoperto» un'unica costituzione scritta e codificata. Proprio come un Paese può sopravvivere senza una costituzione, la matematica elaborata poteva svilupparsi senza il concetto di numeri primi. E così è stato! Sappiamo perché gli antichi greci inventarono concetti quali gli assiomi e i numeri primi? Non possiamo esserne certi, ma si potrebbe ipotizzare che facesse parte dei loro sforzi implacabili di indagare gli elementi costitutivi dell'universo. I numeri primi erano i mattoni fondamentali dei numeri, così come gli atomi lo erano della materia. In modo analogo, gli assiomi erano la fonte da cui si supponeva sgorgassero tutte le verità geometriche. Il dodecaedro rappresentava l'intero cosmo e il rapporto aureo era il concetto che dava origine a quel simbolo.
Questa discussione evidenzia un altro aspetto interessante
della matematica: essa fa parte della cultura umana. Una volta
che i greci ebbero inventato il metodo assiomatico, tutti i successivi
ricercatori europei ne seguirono l'esempio e adottarono la stessa filosofia e le
stesse pratiche. L'antropologo Leslie
A. White (1900-1975) tentò una volta di riassumere questo
aspetto della questione, osservando: «Se Newton fosse cresciuto nella cultura
[tribale sudafricana] degli ottentotti,
avrebbe calcolato come un ottentotto». Questo carattere
culturale della matematica è con ogni probabilità responsabile
del fatto che parecchie scoperte matematiche (per esempio,
gli invarianti dei nodi) e persino alcune importanti invenzioni
(per esempio, il calcolo infinitesimale) vennero fatte contemporaneamente da
diverse persone che lavoravano in modo indipendente l'una dall'altra.
Parlate la lingua della matematica? Precedentemente ho paragonato l'importanza del concetto astratto di un numero a quello del significato di una parola. La matematica è dunque una specie di lingua? Le intuizioni che provengono dalla logica matematica da un lato, e dalla linguistica dall'altro, indicano che in una certa misura lo è. Gli apporti di Boole, Frege, Peano, Russell, Whitehead, Gödel e i loro seguaci moderni (in particolare in aree quali la sintassi e la semantica filosofica, e parallelamente nella linguistica) hanno dimostrato che grammatica e ragionamento sono strettamente correlati a un'algebra della logica simbolica. Ma allora come mai ci sono più di 6500 lingue e una sola matematica? In realtà, tutti i differenti idiomi presentano numerose caratteristiche strutturali comuni. Per esempio, il linguista americano Charles F. Hockett (1916-2000) negli anni Sessanta attirò l'attenzione sul fatto che tutte le lingue dispongono di meccanismi incorporati per acquisire nuove parole e frasi (pensate a «home page», «laptop» eccetera). Allo stesso modo, tutte le lingue umane tengono conto dell'astrazione («surrealismo», «assenza», «grandezza»), della negazione (non) e di frasi ipotetiche («Se mio nonno avesse le ruote, sarebbe una carriola»). Due delle più importanti caratteristiche di tutte le lingue vengono definite «open-endedness» (indeterminatezza) e «stimulus freedom» (libertà di risposta a uno stimolo). La prima proprietà rappresenta la capacità di creare e comprendere enunciati mai sentiti prima. Per esempio, posso facilmente generare una frase tipo: «Non si può riparare la diga di Hoover con della gomma da masticare». Sebbene non l'abbiate mai udita prima, non avete alcuna difficoltà a capirne il senso. La stimulus freedom è invece la facoltà di scegliere come (o addirittura se) rispondere a uno stimolo ricevuto. Per esempio, la risposta alla domanda posta dalla cantautrice Carole King nel suo brano Will You Still Love Me Tomorrow? (Mi amerai ancora domani?) potrebbe essere una qualsiasi delle seguenti: «Non so se sarò ancora vivo, domani»; «Certamente!»; «Non ti amo nemmeno oggi»; «Non quanto amo il mio cane»; «Questa è decisamente la tua canzone più bella»; o addirittura «Mi chiedo chi vincerà gli Australian Open quest'anno». Riconoscerete come molte di queste caratteristiche (astrazione, negazione, indeterminatezza, la capacità di evolversi) siano proprie anche della matematica. Come ho già fatto notare in precedenza, Lakoff e Núñez enfatizzano il ruolo delle metafore nella matematica. I linguisti cognitivi usano le metafore per esprimere quasi tutto. Cosa forse ancor più importante, sin dal 1957, anno in cui il celebre linguista Noam Chomsky pubblicò la sua rivoluzionaria opera Le strutture della sintassi, molti degli sforzi linguistici hanno ruotato attorno al concetto di «grammatica universale», ovvero i princìpi che regolano tutte le lingue. In altre parole, quella che sembra una Torre di Babele della diversità potrebbe in realtà celare una sorprendente somiglianza strutturale. In effetti, se così non fosse, i dizionari che traducono da una lingua all'altra non avrebbero mai potuto funzionare.
Forse vi chiederete perché la matematica è tanto uniforme,
in termini sia di contenuto sia di notazione simbolica. Il
primo quesito è particolarmente interessante. La maggior
parte dei matematici concorda sul fatto che la matematica
così come la conosciamo si è evoluta dalle branche fondamentali della geometria
e dell'aritmetica praticate dagli antichi babilonesi, egizi e greci. Tuttavia,
era davvero inevitabile che cominciasse con queste due specifiche discipline?
Non necessariamente, almeno così sostiene lo scienziato informatico
Stephen Wolfram nel suo poderoso libro
A New Kind of Science.
In particolare, Wolfram ha mostrato come partendo da
semplici insiemi di regole che agiscono come brevi programmi (detti «automi
cellulari»), sia possibile sviluppare un tipo
assai diverso di matematica.
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