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| << | < | > | >> |IndicePrefazione 7 I. Il Moderno della società moderna 9 II. La razionalità europea 34 III. La contingenza come valore proprio della società moderna 61 IV. La descrizione del futuro 85 V. L'ecologia del non-sapere 98 |
| << | < | > | >> |Pagina 7PrefazioneLa proclamazione del "Postmoderno" ha avuto quantomeno un merito. Essa ha reso noto che la società moderna non crede più di saper fornire descrizioni corrette di se stessa. Anche queste ammettono altre possibilità. Anche queste sono diventate contingenti. Come nel mondo rischioso della metropolitana newyorchese, coloro che vogliono parlarne si affollano, pigiandosi, nei posti a ciò delegati, sotto le luci dei riflettori e davanti alle telecamere. Tutto ciò assomiglia a una sorta di lotta per la sopravvivenza intellettuale. Apparentemente, ne va solo di questo. E nel frattempo succede quello che succede, e la società si evolve allontanandosi da ciò che ha raggiunto, verso un futuro sconosciuto. Forse il termine "Postmoderno" voleva fornire solo una delle varie descrizioni del Moderno, capace di concepire la propria unità solo in senso negativo, come impossibilità di un metaracconto. Ma questa sarebbe forse una rinuncia esagerata, di fronte alle numerose e palesi urgenze attuali. Noi concediamo volentieri che non vi sia una rappresentazione obbligata della società nella società. Ma questa non sarebbe la fine, bensì l'inizio di una riflessione sulla forma delle auto-osservazioni e auto-descrizioni di un sistema, che debbono venire proposte e imposte nell'ambito di un processo, il quale a sua volta viene osservato e descritto. I testi qui pubblicati si fondano sulla convinzione che su tutto questo possa essere detto qualcosa, cioè che sono già disponibili materiali teorici e che basta inserirli in questo tema delle osservazioni del Moderno. Osservazioni sul Moderno: il titolo è volutamente ambiguo, poiché si tratta di osservazioni della società moderna attraverso la società moderna. Non vi è alcun metaracconto, poiché non vi è alcun osservatore esterno. Se noi ci serviamo della comunicazione — e come potremmo fare altrimenti? — noi operiamo sempre all'interno della società. Ma proprio questo determina strutture e conseguenze particolari, che debbono venire chiarite. Proprio questo intento è comune alle riflessioni che seguono. | << | < | > | >> |Pagina 85IV. La descrizione del futuroLa formulazione della mia tesi può suonare un po' insolita. Quando si parla di futuro, si pensa normalmente ad una previsione. Si cerca di prevedere e predire quello che verrà. Questo desiderio è vecchio come la Mesopotamia. Oppure si vede il futuro sotto il punto di vista degli effetti in atto. Si vorrebbe poter produrre determinate situazioni che da sole non si produrrebbero. Nell'un caso si ha nel presente il problema della vera conoscenza di possibilità di regolarità, nell'altro il problema dei mezzi e dei costi. Ma perché si deve descrivere il futuro? E come si può farlo, se nel presente non è ancora visibile ciò che si dovrebbe descrivere? Proprio questo è il problema che va trattato qui. Al contempo in esso vi è una distanza voluta rispetto alle prospettive del sapere e del volere. Torniamo un passo indietro con l'interrogativo su come descrivere il futuro, e chiediamoci innanzitutto: come possiamo sapere quello che accadrà in futuro? E come possiamo volere qualcosa di determinato in merito al futuro, che non è ancora afferrabile? O in altri termini: in quali forme il futuro si presenta nel presente? Parto dalla considerazione che non vi è una risposta valida una volta per tutte a questa domanda. Tutte le affermazioni sul tempo dipendono dalla società in cui vengono formulate. I concetti di tempo sono concetti storicamente connotati. È un fatto incontestato tra gli storici, gli etnologi e i sociologi. Oggi dobbiamo vivere con prospettive future molto incerte, e l'incertezza non si fonda sul piano divino di salvezza, bensì nel sistema sociale, che deve rendere conto di se stesso. Metaforicamente si parla in ogni caso ancora di prospettive apocalittiche — il sole calante della teologia proietta lunghe ombre — ma noi sappiamo molto bene che il futuro della società è un problema che può essere formulato solo nella società e su cui solo nella società si può decidere a priori in un modo o nell'altro. | << | < | > | >> |Pagina 91Se per una descrizione del futuro si cercano appigli che permettano di individuare ciò che è intellettualmente à la mode e appare accettabile o, rispettivamente, inaccettabile, una strategia possibile consiste nel distinguere tra una dimensione del senso materiale, una sociale e una temporale. Sotto il profilo materiale balza all'occhio che la referenza di ogni uso del segno, di ogni uso linguistico, di ogni elaborazione dell'informazione è diventato un problema. Ciò è iniziato alla fine del Settecento, quando la vecchia dottrina delle idee venne sostituita dalla teoria linguistica, e appare nella realtà fittizia del Romanticismo, nella linguistica di Saussure, nella critica dell'empirismo logico di Quine, nel gioco della semiotica priva di referenza, ad esempio in Roland Barthes, ma anche nella teoria dei sistemi operativamente chiusi e al contempo cognitivi, come nell'epistemologia biologica di Humberto Maturana. La realtà non viene cioè affatto negata, e nessun rappresentante di questa tendenza intende ricadere nei vecchi errori del solipsismo. Tuttavia la garanzia della realtà si trova ora esclusivamente nelle operazioni del sistema, che debbono attenersi a ciò che ad esse riesce, finché questo funziona. All'interno si può distinguere tra autoreferenza e eteroreferenza, ma solo all'interno, solo a mo' di differenza-guida per operazioni interne, e conseguentemente in modo diverso per ciascun sistema. Con il concetto qui pertinente dell'autopoiesis si rinuncia radicalmente ad ogni prospettiva futura teleologica, sia naturale che mentale. Intenzioni e scopi sono ormai solo autosemplificazioni dei sistemi. E la discrepanza con la realtà si evidenzia presto negli effetti collaterali inattesi e non pianificabili tra i costi. Funziona, finché funziona. Questo è il messaggio. E il consiglio tecnico tiene conto della variazione delle preferenze. Nella dimensione sociale noi troviamo qualcosa di simile sotto forma di una perdita di autorità. Con autorità si intende qui la capacità di rappresentare il mondo nel mondo e di convincerne altri. L'autorità poteva fondarsi sul sapere o sul potere, sulla cononoscenza del futuro o sulla capacità di produrlo secondo il proprio desiderio; in ogni caso dunque l'autorità si fondava sul futuro. Questo però si vede solo quando al futuro viene sottratta la sicurezza che va al di là del presente. Finché l'autorità vale ancora, essa è efficace, per riprendere una formulazione di Carl Joachim Friedrich, come imputazione di una "capacity for reasoned elaboration". Di questo rimane ora solo il procedimento razionale dell'argomentazione, che è forse maggiormente considerato, e di certo lo è in determinate cerchie. Ma l'autorità consisteva proprio nel fatto che ci si poteva risparmiare la fatica di argomentare, facendo leva sul sapere o sul potere. In luogo dell'autorità sembra manifestarsi qualcosa che potrebbe definirsi come politica delle intese. Le intese sono frutti provvisori ai quali ci si può richiamare per un certo periodo di tempo. Esse non richiedono né consenso, né costituiscono soluzioni ragionevoli o anche solo corrette ai problemi. Esse fissano solo i punti di riferimento sottratti alla disputa per ulteriori controversie, in occasione delle quali le coalizioni e le contrapposizioni possono mutare nella loro composizione. Nei confronti di qualsiasi ricorso all'autorità le intese presentano un grande vantaggio: esse non possono essere screditate, debbono solo essere ristipulate in continuazione. Il loro valore non cresce con il passare del tempo, bensì diminuisce. E anche questo fa percepire che il vero problema del Moderno è nella dimensione temporale. Nella dimensione temporale il presente viene riferito ad un futuro, che si presenta ancora come modus del probabile o dell'improbabile. In altri termini: la forma del futuro è la forma della probabilità, che a sua volta orienta l'osservazione nel senso di forma bilaterale: come più o meno probabile o più o meno improbabile, ripartendo queste modalità su tutto ciò che può accadere. Per l'appunto il Moderno ha tempestivamente inventato il calcolo delle probabilità, per potersi adeguare ad una realtà fittiziamente costruita e raddoppiata. Così il presente può calcolare un futuro che può sempre avvenire in modo diverso, mantenendo la possibilità di sostenere di aver calcolato giusto, anche se gli eventi poi sono diversi. Ciò presuppone che si possa distinguere tra futuro (o prospettive future) del presente come regno del probabile/improbabile e presenti futuri, che saranno sempre come saranno, e mai diversamente. Questa frattura tra futuro presente e presenti futuri non esclude necessariamente le previsioni. Il valore di queste è tuttavia nella rapidità con cui è possibile correggerle e nel fatto di sapere da cosa ciò dipende. Esiste dunque solo la previsione "provvisoria", il cui valore non è nella sicurezza che essa garantisce, bensì nell'adattamento rapido e specifico ad una realtà che si svolge diversamente da come ci si aspettava. Al momento presente si può decidere pertanto solo tenendo conto del probabile/improbabile, anche se si sa che ciò che avviene avviene come avviene e non altrimenti. Espresso di nuovo nella dimensione sociale ciò significa che pur con tutti i tentativi di raggiungere intese, si deve partire dall'insicurezza dell'altro. Se questi la nega, è possibile dimostrargliela. Le intese hanno quindi lo scopo di accrescere le insicurezze dell'altro, in modo che non rimanga altro da fare che mettersi d'accordo. A questo corrisponde il tipo moderno dell' esperto, cioè dello specialista, al quale si possono rivolgere delle domande, cui egli non è in grado di rispondere, per poterlo parimenti ricondurre al modo dell'insicurezza. A ciò corrisponde anche la figura moderna della catastrofe, cioè del caso che non si vorrebbe mai, e riguardo al quale non si accettano né calcoli della probabilità, né valutazioni preventive del rischio. Invero questa soglia della catastrofe è sempre socialmente definita, e le catastrofi dell'uno non sono anche le catastrofi di tutti gli altri. | << | < | > | >> |Pagina 98V. L'ecologia del non-sapereUna cosa si sa oggi di certo: l'evoluzione ha sempre agito in gran parte in maniera autodistruttiva. A breve e a lungo termine. Poco di quello che essa ha creato è rimasto. Questo vale per la maggior parte degli esseri viventi. E parimenti sono scomparse quasi tutte le culture che hanno dato un'impronta alla vita umana. Il senso che hanno avuto per le persone che sono vissute con esse è oggi solo molto limitatamente comprensibile, per quanto raffinato sia il grado di ricerca e di valutazione archeologica, di antropologia culturale e storica che abbiamo oggi raggiunto. Le mentalità che una volta erano attuali oggi non sono più applicabili, o lo sono in maniera estremamente artificiosa. Con queste culture passate oggi ci è possibile stabilire un rapporto quasi turistico. Lo stesso accadrà agli aspetti per noi ovvii e alle forme culturali del "mondo della vita" della nostra società attuale. Nessuno può avere seri dubbi in proposito. Non si può escludere, ed è anzi, a pensarci bene, probabile, che gli uomini, in quanto esseri viventi, spariranno, così come sono apparsi una volta. Forse rimpiazzeranno se stessi con umanoidi geneticamente più evoluti. Forse decimeranno o estingueranno la loro stirpe provocando catastrofi. Oppure arriveranno ad un tal punto di distruzione dei mezzi tecnici che ci aiutano a vivere, che saranno possibili solo forme di vita molto elementari. Come sempre, le società future, ammesso che ve ne siano in grado di comunicare in maniera sensata, vivranno in ogni caso in un altro mondo, baseranno la loro vita su altre prospettive e su altre preferenze, e considereranno le nostre preoccupazioni e i nostri passatempi come stranezze poco divertenti, finché di questi rimangano tracce e si sia in grado di interpretarle. Un tale futuro ci appare inaccettabile, uno scenario da horror, che può piacerci solo sotto forma di "fiction", poiché supponiamo che non sarà così. Chi considera ciò che verrà senza manifestare terrore viene bollato come cinico. Nella comunicazione questa prospettiva sembra essere stata inventata per turbare gli altri e per godere della loro collera. Chi si butta dalla torre Eiffel non può veramente godersi la scena del suo precipitare, poiché sa come andrà a finire. Completamente diverso, e tuttavia simile, è il caso delle catastrofi provocate con la tecnica, che se avvengono, avvengono senza preavviso. A questo proposito, all'interrogativo: "dove ci stiamo precipitando?" si riceve la risposta tranquillizzante: precipitarsi non serve più. Perciò è chiaro che tutto il problema viene rimosso. All'evento catastrofico la popolazione è preparata dal suo non-sapere, e i ministeri da "documenti cifrati" segretissimi. Ciò vale per il caso di guerra, ma anche per catastrofi di altro genere. Il problema viene così trattato come problema a lungo termine, considerando che la catastrofe è possibile in ogni momento, ma è altamente improbabile che avvenga già domani. Si deve dunque mettere in guardia e prendere provvedimenti preventivi? Negli antichi insegnamenti di saggezza vi era sempre una figura che dimostrava come colui che cerca di sfuggire ad una profezia, proprio così facendo la realizza. La chiarificazione divinatoria del futuro richiedeva, per evitare questo, una reintroduzione di oscurità nella sentenza dell'oracolo. Anche allora esistevano già i dubbi. Pindaro invoca la dea della fortuna e del caso, Tyche; nessun dio infatti dà un segno sicuro ai mortali. Ma questo appartiene ad un mondo oggi scomparso. Noi cerchiamo con tutte le forze di salvarci, quando si profila qualcosa di negativo. Evidentemente ci lasciamo guidare da un altro rapporto con il tempo e con le nostre proprie capacità. Questo non ci libera però dalla paradossia dell'ammonimento che, se ha successo, impedisce che si accerti se sarebbe veramente accaduto ciò nei confronti di cui si ammonisce. E già l'ammonimento (forse inutile) dà luogo ai costi e alle conseguenze impreviste dell'aver evitato quel dato comportamento. La sociologia, in quanto scienza con le sue relative pretese, ha mostrato poca inclinazione per la saggezza. Essa non oscura le sue previsioni. Dal momento che la percentuale di esattezza delle sue previsioni è comunque bassa, questo potrebbe venirle perdonato. Riguardo al complesso delle minacce ecologiche e dei rischi tecnologici, essa ha soprattutto espresso ammonimenti. L'urgenza dei problemi, aumentata da chi vuole contestarla, giustifica la rinuncia a riflettere la propria attività di ammonimento e anche la consapevole esagerazione dei mezzi retorici. Questa sociologia critica la società, come d'abitudine. Essa pretende maggiore attenzione per le conseguenze della tecnica, per i rischi e i pericoli. Chiede che le risorse vengano dirette in maniera diversa. Ma essa, con questa fosca previsione, ha dimenticato un momento importante della propria tradizione, anzi proprio uno dei suoi motivi portanti, vale a dire l'interrogativo: che cosa c'è dietro? Da Marx in poi, in una certa misura, ha sempre fatto parte anche della riflessione sociologica l'osservare il mondo dei fenomeni sociali non dalla prospettiva di un osservatore di primo ordine, che è parte del fenomeno, bensì dalla prospettiva dell'osservatore di questo osservatore. Ciò ha origine nella sofistica dell'Ottocento, ma si propone nello stesso tempo come parte importante nella formazione della teoria. Marx spiega quindi la formazione delle classi con il tipo di economia capitalistica e in particolare attraverso la forma dell'organizzazione della fabbrica. Analogamente Durkheim spiega i problemi che abbiamo con la solidarietà sociale e la morale con la differenziazione funzionale (allora detta ancora "divisione del lavoro") della società moderna. Ma si trattava ogni volta di problemi interni al sistema sociale: la giustizia distributiva e la solidarietà nonostante la differenziazione. I problemi ecologici che oggi ci preoccupano hanno un'altra dimensione. Essi si collocano nel rapporto tra il sistema sociale e il suo ambiente. A maggior ragione sarebbe anche qui pertinente la domanda di rito: che cosa c'è dietro? In un senso molto generale si può anche qui rispondere: la forma della differenziazione della società moderna, cioè la differenziazione funzionale. In ogni caso è facile supporre che con questa forma della specificazione funzionale si accrescano gli effetti della comunicazione sociale sull'ambiente, mentre invece le possibilità di reagire a ciò internamente non aumentano con lo stesso ritmo, poiché in questo ordine i problemi non vengono rielaborati lì ove si creano, bensì nel sistema funzionale relativo. Se questo è esatto, se ne dovrebbe desumere quali forme assume la comunicazione nella società moderna sui problemi ecologici. Essenzialmente dalla logica di questa differenziazione consegue che si sviluppano forme di pretesa e appelli indirizzati ad altri, cioè ai sistemi che si suppone siano in grado di rielaborarli. Alcune cose vengono presentate sotto la veste di "etica". Ma se si parte dal fatto che coloro che pretendono non sono essi stessi in condizione di fornire aiuto, viene a mancare un momento essenziale di ogni ordine etico, vale a dire l'applicazione della norma a se stessi o il divieto di esentare se stessi dall'obbedire ad essa. L'etica della responsabilità è pensata solo per gli altri. Ci si può sottomettere ad essa in senso formale, ma l'autoapplicazione, per mancanza di un'efficace competenza dell'azione, non viene comunque presa in considerazione. Queste riflessioni restano tuttavia superficiali. Le analisi seguenti tentano di spingersi oltre su un terreno così picchettato. La domanda: "che cosa c'è dietro?" va precisata con la seguente: che atteggiamento si assume nei confronti del non-sapere? La retorica dell'allarme da una parte e la resistenza nei confronti delle esigenze dall'altra si fondano ambedue su un supposto sapere. Ma lo stile risoluto, spesso chiuso alla comprensione, delle controversie, rivela che questo sapere si fonda su presupposti non sicuri. È relativamente facile rendersene conto. Così però si mostra assai plausibile l'ipotesi che la comunicazione ecologica debba la propria intensità al non-sapere. Che non si possa conoscere il futuro è cosa che nel presente viene espressa sotto forma di comunicazione. La società si mostra irritata. Per reagire all'irritazione essa dispone però solo della propria modalità operativa, cioè appunto della comunicazione. | << | < | > | >> |Pagina 133Con le riflessioni precedenti siamo rimasti sul piano del sistema sociale. Se però vi sono aspettative di poter affrontare i problemi ecologici con efficacia, queste aspettative nella nostra società vengono indirizzate a delle organizzazioni. Le organizzazioni, così si suppone, posseggono una tecnologia interna di assorbimento dell'insicurezza. Esse sono specializzate nelle possibilità di "fattorizzare" i fatti sconosciuti; o quantomeno le organizzazioni che sono in grado di fare questo dispongono di migliori speranze di sopravvivenza. Un senso della distinzione tra sistemi sociali e sistemi di organizzazione potrebbe consistere nel fatto che la società, creando organizzazioni, si mette in condizione di compiere qualcosa che in altri casi non sarebbe in grado di effettuare, vale a dire di assorbire l'insicurezza. Non vi è necessità di mettere in dubbio questo; ci si può invece chiedere come le organizzazioni affrontino qualcosa che esse non possono conoscere. Un ambito della ricerca già consolidato riguarda le organizzazioni a fini educativi e terapeutici, cioè le organizzazioni che si occupano della trasformazione normale o anormale, in casi definiti patologici, della persona. La teoria generale dell'organizzazione non ha fatto molto per questo, limitandosi a creare solo un tipo speciale per particolari situazioni problematiche: per le organizzazioni senza tecnologia funzionante. Inoltre si ricorre all'ausilio dello spostamento delle aspettative di soluzione dei problemi dalle organizzazioni ai professionisti, vale a dire considerando l'impossibilità di conoscere come specifico sapere di competenza degli esperti, e come questione di motivazione e di impegno del singolo. Nel caso di problemi ecologici questa strategia di spostamento dei problemi non dovrebbe essere utilizzabile. Come alternativa sembra esservi solo la criticatissima ideologia "end-of-the-pipe" che si limita a migliorare i propri scarti dal punto di vista ecologico. In un contesto che presenta il problema in maniera estremamente sintetica non si possono ovviamente analizzare le proposte organizzative. Si può però porre l'interrogativo circa cosa la teoria dell'organizzazione, e in particolare la sociologia dell'organizzazione abbiano da offrire, allorché si pone loro il quesito scottante relativo al modo di agire all'interno di organizzazioni in cui è presente il non-sapere. La teoria dell'organizzazione classica aveva presentato un modello che può essere descritto a posteriori come modello di macchina o macchina triviale o modello input-transformation-output, o anche con il concetto del tight coupling. La premessa è che obiettivi dati (outputs) vengono raggiunti sulla base di regole (programmi) determinate, allorché si disponga degli inputs necessari e il processo non venga disturbato. Si progetta una fabbrica di automobili, la si costruisce, si avvia la produzione, e alla fine le macchine pronte per la vendita escono dalla fabbrica. Non è irrealistico supporre che le cose vadano così. La teoria sociologica dell'organizzazione, sviluppata in parallelo, concentrava le sue preoccupazioni su fatti collaterali (ad esempio la motivazione a produrre), subordinandosi così al modello primario, anche se parlava di "human relations". Da un punto di vista economico e umano le cose non funzionano così perfettamente come il modello richiede. Nel frattempo però la critica si è rafforzata, radicalizzandosi, e ha incluso questa supposizione di tecnologia interna di assorbimento dell'insicurezza in un contromodello. Non si dubita nemmeno in questo caso che le automobili vengano prodotte secondo un programma, e restano attuali le esigenze connesse di maggiore considerazione per le persone e di maggiore flessibilità strutturale. Ma l'interrogativo circa il modo di rapportarsi a livello organizzativo con il non-sapere apre prospettive del tutto diverse. Gli aspetti teorici più importanti dicono sostanzialmente quanto segue: (1) Le organizzazioni non sono sistemi che realizzano gli obiettivi, bensì sistemi che li cercano. Esse si occupano di interpretare (osservare) costantemente le loro stesse operazioni e cercano obiettivi, eventualmente nuovi obiettivi, che rendano comprensibile ciò che accade o è accaduto e consentano di prendere decisioni. La pianificazione è la costante elaborazione delle memorie del sistema. (2) Ogni pianificazione, programmazione, orientamento consiste in operazioni che debbono venire compiute all'interno del sistema, e che quindi vengono anche osservate nel sistema. Quello che avviene in funzione delle pianificazioni non risulta dalla pianificazione stessa, bensì dall'osservazione della pianificazione, e eventualmente dall'osservazione dell'essere osservata della pianificazione. La realtà opera secondo il modello della "second order cybernetics". Le organizzazioni sono osservazioni di sistemi che osservano. (3) Le organizzazioni non sono macchine banali, vale a dire macchine che reagiscono solo al loro output proprio o al loro stato momentaneo e pertanto funzionano in maniera poco affidabile. Esse forse si basano su una tecnologia triviale, che trasforma gli inputs in outputs, ma determinano l'impiego di questa tecnologia secondo parametri basati su processi autoreferenziali, dunque tenendo conto anche della loro posizione momentanea; in questo senso sono macchine storiche, che ogni momento si costruiscono come una nuova macchina - il che naturalmente non esclude affatto che esse facciano sempre la stessa cosa, che funzionino in maniera affidabile e che proprio per questo non sfruttino la possibilità di cui dispongono di cercare obiettivi. (4) I sistemi complessi raggiungono la stabilità solo attraverso il disaccoppiamento degli effetti reciproci. La vecchia cibernetica aveva parlato di funzioni scalari e di ultrastabilità. Herbert Simon aveva sottolineato l'importanza della differenziazione verticale dei livelli (formazione della gerarchia) per il disaccoppiamento orizzontale delle operazioni. Oggi si preferisce il termine loose coupling contrapposto a tight coupling. L'accoppiamento libero rintraccia difetti, isola problemi, previene problemi con efficacia. D'altra parte la ricerca, partendo da grandi catastrofi tecniche, ha dimostrato che essa è poco adatta a compensare la realtà indotta dalla tecnica, vale a dire a farla avviare in se stessa; infatti proprio questo richiederebbe la sicurezza del funzionamento in casi specifici (ma rari) in condizioni sconosciute. Su di un soddisfacente "containment" organizzativo di tecnologie rischiose non si può contare, proprio a causa di questa differenza tra loose e tight coupling. (5) La pianificazione e orientamento in organizzazioni non banali (autoreferenziali) non possono determinare a priori gli stati futuri del sistema, e nemmeno i rapporti futuri tra il sistema e l'ambiente. L'orientamento è piuttosto un processo di riduzione delle differenze, che viene contrassegnato da obiettivi, vale a dire che cerca di ridurre la differenza tra obiettivo e realtà. Il risultato non è né prevedibile, né controllabile nel sistema, ma è influenzabile con un continuo riorientamento, vale a dire contrassegnando altre differenze. La pianificazione è un going concern, e le previsioni ne specificano i punti di vista della sua correzione continua.
(6) Le organizzazioni sono sistemi autopoietici che si basano
su decisioni. Le operazioni sono per esse rilevanti solo sotto forma di
decisioni, poiché solo così sono collegabili all'interno del sistema. Tutto lo
sviluppo delle strutture dipende dallo sviluppo dell'
autopoiesis.
Come alternativa c'è solo la disgregazione, la distruzione. La tipizzazione
strutturale basata su questo identifica le premesse delle decisioni sulla base
degli organi competenti che rendono possibile un cambiamento sia
dell'attribuzione organizzativa che delle decisioni programmate, che del fatto
che questi organi competenti sono costituiti da persone. In funzione
del numero degli uffici è raggiungibile una notevolissima,
incontrollabile complessità dei collegamenti tra le decisioni, senza che, per
dirlo ancora una volta, lo stato del sistema possa venire determinato da un
organo.
La teoria alternativa dell'organizzazione, qui delineata solo in
sintesi, non è sorta durante la ricerca di una soluzione ai problemi ecologici.
Si tratta nell'insieme piuttosto di un richiamo a risolvere i problemi
attraverso la non-soluzione, vale a dire a mantenerli come momento dell'
autopoiesis
del sistema continuando costantemente a ricercare gli obiettivi e riorientando
le strutture (gli ottimisti dicono: imparando). Quanto più un problema è
insolubile, tanto maggiore è il suo valore di riproduzione. Così si
sabota innanzitutto la speranza di riuscire a trasferire i problemi
ecologici nell'agenda dei compiti da svolgere delle organizzazioni, facendo sì
in questo modo che la questione venga opportunamente aggirata. Si tratta
piuttosto, nelle riflessioni proposte, di una decostruzione delle pretese
classiche di razionalità delle organizzazioni e al contempo di una nuova
versione dell'altrettanto classica critica della burocrazia.
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