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| << | < | > | >> |IndicePARTE PRIMA - IL PAPA IN CASA 13 I due corpi del papa 17 Di qua dai monti 20 Una Seconda Controriforma 23 L'intelletto circonciso 26 La bodyguard dell'imperatore 29 Un luterano marcio 33 Meglio fallito che inquisito 36 Unioni di fatto 39 Tutta colpa di Voltaire 42 La fecondazione assistita da un prete 45 Roghi di carte 48 Il papa ridicolo 51 Soggiorno obbligato 54 San Giuseppe da Nizza 57 Gesù sotto la Mole 60 Proibito pensare 64 Per la salute della razza 67 L'altro Cristo 70 PARTE SECONDA - (T)ERRORE75 Ghigliottine multiple 77 Un dubbio radicale 82 Vertigo 86 Il fluido magico 89 Un amore finito 92 Robespierre e il mare 95 Napoleone non è mai esistito 97 Un pioniere dell'umanitario 100 I giacobini in bicicletta 103 Nessuno tocchi Tapner 106 Mazzini morente, Mazzini vivente 108 Necrologi in bottiglia 112 Un'altra Emma 115 L'immagine del potere 118 Mille e non più Mille 121 All'origine del mondo 124 Un dialogo tra sordi 128 L'Ulisse del Finistère 131 PARTE TERZA - CORPORALE 143 Nature morte 145 Cuore di tenebra 149 Dante a Verdun 152 Fronte del porto 155 Il grande pederasta 158 Amore e guerra 161 Sangue di Spagna 164 L'eredità di Nanchino 167 Lo zingarello di Mengele 170 Morire per Varsavia 173 La guarigione dell'Europa 176 I due gemelli parigini 179 Un bersaglio perfetto 182 American flag 184 Il corpo di Marilyn 188 Violenza e fraternità 192 Gagarin con l'infermiera 195 Gli smemorati di Madrid 198 Morto che parla 201 PARTE QUARTA - JUDAICA 207 La cultura del sangue 211 Pasque di ipocrisia 214 Lo straccivendolo della Rivoluzione 217 Perfidi o ciechi? 220 Il segno color giallo 223 Passione splatter 226 Charlot sulla croce 229 L'ebreo come uomo normale 232 Una tragedia tipografica 235 Saloniki 238 Il ruggito dell'agnello 241 Il fiore di una bambina 244 La lingua salvata 247 Un lavoro ben fatto 250 Lettere a Pikolo 253 La soluzione immorale 256 Considerazioni inattuali 259 Se la memoria è senza storia 262 Il trasloco della Shoah 264 Lontano da Gerusalemme 267 Umiliati che offendono 269 Grossman e il dolore 274 INDICE DEI NOMI 277 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Se non ci fossero guerre o rivoluzioni, non ci sarebbe storia; non ci sarebbe materia di storia; la storia non avrebbe oggetto. Al massimo, esisterebbero gli annali. Come insegna lo studio dei proverbi, i popoli felici non hanno storia. La storia è la scienza dell'infelicità degli uomini.Raymond Queneau | << | < | > | >> |Pagina 13Diceva Richard Cobb il maggiore studioso britannico della Rivoluzione francese che la storia va percorsa a piedi oltreché letta. Il buono storico non può limitarsi alla ricerca in archivio o in biblioteca, deve frequentare i suoi personaggi nello spazio oltreché nel tempo. Gambe in spalla, deve ritrovarli nei luoghi dove hanno vissuto, lungo le strade dove hanno camminato. A chi volesse percorrere a piedi la storia d'Italia, una passeggiata per le vie di Roma potrebbe quasi bastare. Presso Porta Pia, il marmo e il bronzo di un monumento al bersagliere sembrano veicolare il messaggio che Destra e Sinistra cercarono di trasmettere per qualche decennio dopo il 1870: la breccia aperta nei bastioni del millenario potere guelfo da un trionfante contropotere ghibellino, il papa cacciato dal Quirinale e costretto entro le stanze del Vaticano. «Nulla resiste al bersagliere», si legge nell'altisonante iscrizione alla base del monumento. Peccato che il monumento stesso risalga al 1932, auspice l'ex bersagliere Benito Mussolini: il quale tre anni prima, firmando i Patti lateranensi, proprio il vulnus di Porta Pia aveva inteso sanare. Oltre Tevere, la prospettiva aperta nei Borghi dall'operoso piccone del duce illustra in maniera meno ingannevole l'usurarsi, dopo l'avvento del fascismo, di una tradizione laica in gran parte inventata. Nella sua fredda magniloquenza, via della Conciliazione vale da rimedio di un lapsus, chiarimento di un equivoco. Sloggiato dal Quirinale, il papa ci è rimasto in casa. Dal 1998 in poi, cioè da quando l'allora cardinale Ratzinger ha ordinato l'apertura agli studiosi dell'archivio del Sant'Uffizio, gli storici si sono chinati sulle carte dell'Inquisizione romana per meglio esplorare questa antichissima condizione degli italiani: avere il papa in casa, e con lui gli strumenti non solo spirituali, ma temporali, di un'autorità tanto più salda in quanto l'unica per molti secoli riconosciuta come tale ai quattro angoli della penisola. E dall'archivio, gli studiosi si sono confermati in una persuasione che altre evidenze documentarie avevano suggerito alla storiografia già nei primi decenni del Novecento: il momento decisivo della vita religiosa d'Italia va collocato nei decenni centrali del Cinquecento. Quando più si fece sentire, anche al di qua delle Alpi, l'impatto della Riforma protestante. Quando i «lutheraní» di casa nostra giocarono la loro partita contro il papismo, e la persero. Nell'Europa unita di oggi, basta traversare qualunque ex frontiera per misurare a contrario l'eccezione italiana, l'abnorme centralità del papa e della Chiesa nella vita della nostra comunità nazionale. Come non dedurre documenti d'archivio alla mano che tale centralità deriva dal trionfo della Controriforma fra Cinque e Seicento, dalla plumbea cappa di dogmatismo intellettuale e di conformismo morale che i papi e la Chiesa riuscirono allora a distendere sull'intera penisola? Più cose si scoprono della vicenda italiana nell'età moderna, più riesce facile convincersi che il nostro oggi si spiega con l'altroieri: che la Seconda Controriforma, quale noi la viviamo e la subiamo nell'Italia del ventunesimo secolo, affonda le proprie radici nella storia di cinque secoli fa. Le terre italiane, peraltro, non furono le uniche dove i seguaci di Lutero, di Calvino, dello stesso Erasmo, vennero ricondotti a più miti consigli dai tribunali e dai roghi del Sant'Uffizio. Sia la Francia che la Spagna uscirono cattoliche dalle guerre di religione, eppure non conoscono oggi un ruolo della Chiesa paragonabile al primato che il papa e le gerarchie ecclesiastiche esercitano nell'Italia contemporanea. Il fatto è che Francia e Spagna hanno entrambe sperimentato, nella loro storia successiva alla Controriforma, un momento di brutale contrapposizione fra lo Stato e la Chiesa: rispettivamente, durante il Terrore giacobino del 1793-94 e durante la guerra civile del 1936-39. Due tragedie che sarebbe insensato, da italiani, rimpiangere di non avere vissuto. Ma due tragedie forse necessarie a gettare le basi in tempi e in modi diversi per un affrancamento dal papismo. Anche il nostro Risorgimento coincise con un'epoca di contrapposizione frontale tra lo Stato e la Chiesa. Senonché, appunto, la contrapposizione fu frontale piuttosto che brutale, a parte la militaresca messinscena di Porta Pia. Le classi dirigenti dell'Italia laica si sforzarono bensì di inaugurare una modernità che girasse al largo dalla città del Vaticano: salvo farsi soccorrere dalla Chiesa per completare, nelle trincee della Grande Guerra, la trasformazione di un popolo di contadini in un popolo di italiani. Venne quindi Mussolini, e con lui venne Giovanni Gentile, e con entrambi venne il clerico-fascismo. Molto più, quest'ultimo, che il piccone di via della Conciliazione: l'idea (l'ideologia) secondo cui l'Italia ha bisogno dei santi non meno che dei fanti. Ha bisogno dei bersaglieri, ma soprattutto di Padre Pio. | << | < | > | >> |Pagina 23Fra le cose più istruttive che i lettori del «Corriere» hanno potuto leggere negli ultimi tempi è stata la lettera con cui monsignor Bernard Fellay, superiore generale della fraternità sacerdotale San Pio X, ha inteso replicare a un intervento di Alberto Melloni sulla riforma della Messa dopo il Concilio di Trento. La Chiesa di Roma ha sostenuto monsignor Fellay potrà rimediare all'attuale crisi delle vocazioni sacerdotali e delle pratiche religiose soltanto se avrà il coraggio di gettare alle ortiche la nuova liturgia elaborata dal Concilio Vaticano II, per ritrovare l'antico tesoro della sua tradizione più genuina: il Messale di Pio V e, con esso, il «respiro dell'eternità» sapientemente raccolto dalla Controriforma cattolica. La prima tentazione sarebbe di liquidare un documento come questo con un'alzata di spalle, non riconoscendovi altro che il rigurgito di un'ecclesiologia tanto superata quanto minoritaria, alla monsignor Lefebvre. Ma questa è una tentazione da vincere. Forse, certe nostalgie per l'età della Controriforma sono diffuse nella Chiesa più di quanto si vorrebbe far credere; e vengono condivise da altissime gerarchie vaticane. E forse, dietro la nostalgia per il passato sta una visione per il futuro: il progetto di una Seconda Controriforma. Sicché per meglio difendersene gli italiani del 2005 farebbero bene a ripassare un po' di storia moderna. Autorevoli studiosi hanno dimostrato una significativa evoluzione nella strategia della Chiesa cattolica tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento. Quando, grazie allo zelo del Sant'Uffizio, il rischio di un contagio protestante in Italia poté dirsi fugato, l'autorità ecclesiastica ritenne giunta l'ora non più dei roghi dei libri o delle carni, ma di una riconquista delle coscienze come dei corpi. Via via che la minaccia ereticale perse d'urgenza, inquisitori e confessori concentrarono i loro sforzi non più sulle idee, ma sui comportamenti dei fedeli traviati: le bestemmie, le superstizioni, l'uso improprio di immagini sacre, l'abuso dei sacramenti, i reati di natura sessuale. Da tribunale dell'eresia, l'Inquisizione si fece tribunale della moralità individuale e collettiva. Due furono gli strumenti di cui la Chiesa della Controriforma seppe attrezzarsi per conseguire lo scopo: l'uno fu la cattedra, l'altro fu il confessionale. La cattedra servì a riconquistare le coscienze. Grazie all'attivismo di nuovi ordini religiosi (soprattutto gli oratoriani e i gesuiti), i chierici rifondarono un rapporto con i laici a partire dalla scuola: rivolgendosi ai bambini. Quel po' di alfabeto che i semplici imparavano nell'età moderna, lo appresero sui manuali di catechismo, come quello fortunatissimo del cardinale Bellarmino, la Dottrina cristiana breve perché si possa imparare a mente. Il confessionale (un arredo "inventato" dal cardinale Borromeo) servì invece a riconquistare i corpi. Grazie allo scrupolo pastorale sia del clero secolare, sia di monaci domenicani, francescani, cappuccini, la Chiesa prese a esercitare, attraverso il sacramento della «confessione auricolare», un controllo sempre più stretto sulla vita degli adulti: soprattutto delle donne, cui si impose di sussurrare attraverso una grata fatti e misfatti della loro vita d'alcova. Tutta questa è storia dell'Italia moderna, ma mutatis mutandis sembra fin troppo storia dell'Italia contemporanea. Che cosa fa il papa di Roma, Benedetto XVI, quando inaugura a Milano l'anno accademico dell'Università cattolica del Sacro Cuore? Spiega che l'insegnamento il pubblico come il privato deve recuperare, di contro all'errore illuministico, il principio tomistico di un'armonia fra la ragione e la fede. Cioè progetta, a suo modo, una riconquista cristiana delle coscienze. Che cosa fa il presidente della Conferenza episcopale italiana, Camillo Ruini, quando interviene nel dibattito pubblico? Dopo avere invitato con successo a boicottare il referendum sulla procreazione assistita, esprime riserve intorno alla legge sull'aborto, o mette in guardia i cattolici dallo sposarsi con i musulmani. Cioè progetta, a suo modo, una riconquista cristiana dei corpi. Se questa è la linea dettata dal Santo Padre e dal presidente della Cei, come meravigliarsi che il programma di una Seconda Controriforma vada quotidianamente trovando, dai vertici della Chiesa alla sua base, numerosi zelatori e nuovi terreni di battaglia? Ecco allora il prefetto della Congregazione dell'Educazione che si impegna a penetrare fin dentro l'inconscio dei giovani candidati al seminario, per escludere in loro ogni tendenza all'omosessualità. Ecco pedagogisti e insegnanti cattolici che si battono per giustapporre il creazionismo al darwinismo nella didattica delle scienze naturali. Ed ecco intellettuali cattolici che ricorrono a un epiteto impegnativo «negazionisti» per designare quanti osano mettere in dubbio la realtà delle apparizioni mariane... Lo scandalo non sta nel fatto che i credenti dicano, o facciano, questo e altro: è nel loro diritto, se non proprio nel loro dovere. Lo scandalo non sta neppure nel fatto che la cultura politica del centro-destra non vi trovi nulla in contrario: nella sua ricerca di ascendenti storici e culturali, Silvio Berlusconi ha provato da tempo a scomodare Alcide De Gasperi e qualche giorno fa perfino don Luigi Sturzo! Il vero scandalo sta nel fatto che la cultura politica del centro-sinistra non trovi nulla da ridire: lasciando a una manciata di radical-socialisti lo smisurato compito di arginare da soli la fiumana della Seconda Controriforma che avanza. Ma anche qui, qualche elemento di spiegazione può venire, al di là della politique politicienne, da un'analisi storica di lungo periodo. Oggi, la sinistra italiana non paga soltanto la comprensibile esigenza del suo candidato-premier di conservare un qualche rapporto con le gerarchie ecclesiastiche; né paga soltanto i percorsi individuali dell'uno o dell'altro suo leader, partito alla ricerca dell'Altissimo o già arrivato a destinazione. La sinistra paga oggi il dazio di tutta un'eredità quella togliattiana e berlingueriana che per cinquant'anni ha fatto del catto-comunismo il più blindato dei propri tesori. Così, nell'anno di grazia 2005, può succedere che í massimi dirigenti del centro-sinistra respingano con orrore la semplice possibilità di includere nel loro programma una revisione dei poteri, dei privilegi, delle immunità garantite alla Chiesa dal Concordato. Ma può succedere anche qualcosa di più grave: che l'intera società politica italiana rischi di perdere sul delicatissimo terreno del governo dei corpi e delle coscienze ogni contatto con una società civile di gran lunga più sensibile e più evoluta. Questo è il pericolo che noi tutti corriamo, mentre ai vertici delle istituzioni repubblicane ci si ostina a presentare la laicità come laicismo, e ad agitare il fantasma di Zapatero quasi fosse la reincarnazione di Robespierre. («Corriere della Sera», 12 dicembre 2005) | << | < | > | >> |Pagina 39Lo sentiamo dire tanto spesso che rischiamo di crederci. Bombardati dai sermoni vaticani sul matrimonio come «unione indissolubile tra un uomo e una donna», storditi dalla propaganda bigotta dei Family Days, colpevolizzati dal discorso pubblico laico intorno ai devastanti effetti sociali della «crisi della coppia», rischiamo di credere davvero nella favola di un bel tempo andato in cui la famiglia era un'istituzione armoniosa, stabile, coesa: papà-mamma-bambini felicemente riuniti sotto lo stesso tetto, senza tentazioni peccaminose né grilli per la testa, come Dio comanda. Giunge allora opportuno il lavoro degli storici, che non si accontentano di racconti favolosi. In una Storia del matrimonio appena pubblicata, Daniela Lombardi ci insegna a riconoscere come false le leggende più correnti sulla differenza tra il nostro oggi e lo ieri, o l'altroieri. Falso che il celibato e il nubilato siano fenomeni caratteristici della modernità (nella Bologna del 1796, per esempio, quasi il 40% degli adulti non era sposato). Falso che la sessualità fosse circoscritta entro í confini del matrimonio (in certe grandi città, il numero di nascite illegittime sfiorava il 50%). E falso, in generale, il cliché della famigliola «tradizionale», non foss'altro perché la precarietà delle esistenze (epidemie, guerre, migrazioni) rendeva la vita di coppia costituzionalmente instabile, a rischio. Con buona pace dei presuli di ogni tempo e dei «teodem» d'oggidì, gli studiosi insegnano sia la volatilità delle unioni coniugali del passato, sia la varietà dei modi storicamente praticati per metter su famiglia: insegnano la flessibilità quasi l'elasticità che per secoli ha contraddistinto la formazione delle coppie e le relazioni tra i sessi, in Italia come altrove in Europa. Coppie di fatto? Non c'è da attendere il Novecento, chissà quale '68, per incontrare uomini e donne che scieglievano di amarsi e di riprodursi fuori da ogni vincolo matrimoniale, senza «regolarizzare» la propria situazione davanti a un notaio né davanti a un prete. Le coppie di fatto rappresentavano una realtà diffusa già nell'Italia del Cinque e Seicento, come lo storico Romeo dimostra bene nel libro Amori proibiti. Fino a quando la Chiesa della Controriforma non decise di rimediare drasticamente al problema, maestri del concubinato erano i sacerdoti. Nel primo Cinquecento, forse metà dei preti viveva more uxorio con la rispettiva perpetua, senza d'altronde che i parrocchiani si scandalizzassero più di tanto. E ancora dopo il concilio di Trento, vinta la terribile guerra contro i «lutherani d'Italia», le autorità centrali e periferiche della Chiesa si concentrarono nella lotta contro la magia, la bestemmia, la bigamia, piuttosto che contro le coppie di fatto. Soltanto a partire dal Seicento la battaglia contro i concubini divenne prioritaria, per gerarchie vaticane sempre più ossessionate dall'idea di dover sorvegliare la sessualità delle donne. Specialista di storia religiosa del Mezzogiorno, Romeo si concentra sulla più popolata, la più variopinta, e (già allora) la più ingovernabile delle città italiane: Napoli. Un proverbiale porto di mare, una capitale abituata da sempre a fare i conti con genti diverse e usanze multiformi, baroni della terra e cortigiani di Spagna, chierici e artisti, puttane e vagabondi, marinai e soldati, musulmani ed ebrei. Una polveriera della carne e dello spirito, dove zelanti arcivescovi venuti da Roma cercarono di imporre le nuove regole della Controriforma: oltre all'obbligo di confessarsi regolarmente e di comunicarsi a Pasqua, il divieto di vivere da concubini. Fossero le prostitute dei Quartieri spagnoli che coabitavano con il loro sfruttatore, o fossero le popolane troppo indigenti per presentarsi con una dote sul mercato dei matrimoni combinati, ma capaci lo stesso di rimediare un'anima gemella, migliaia di napoletane del Seicento vennero sottoposte a un articolato sistema di misure sanzionatorie (convocazioni in parrocchia, blitz nelle case, cartelli infamanti, minacce di scomunica) affinché ponessero fine allo scandalo del loro accoppiamento di fatto. Salvo trovare, il più delle volte, un modo per resistere. Urlando a squarciagola come Popa Mazza, la cortigiana calabrese che nel 1639 spiegò al vicinato che la scomunica della Chiesa, lei la «teneva in culo». Oppure facendo finta di nulla, aspettando che la tempesta passasse... Durante l'antico regime, le convenzioni sociali restringevano enormemente la libertà di scelta matrimoniale degli uomini e delle donne. E tanto più nell'alta società, dove la posta in gioco, oltre a un titolo nobiliare, era un patrimonio che si voleva trasmettere integro ai discendenti. Da qui all'opposto della piramide sociale rispetto alle coppie «'nnammecate» della Napoli plebea un'altra forma di antidoto al regolatissimo mercato del matrimonio: quella curiosa istituzione che è stata, nel tardo Seicento e soprattutto nel Settecento, il sistema del «cavalier servente». Cioè il matrimonio a tre fra una donna aristocratica, un marito di analoga condizione, e l'accompagnatore ufficiale della donna non sua, cui Roberto Bizzocchi ha dedicato ora uno studio altrettanto colto che godibile, Cicisbei. L'importanza del cicisbeismo nella vita italiana del diciottesimo secolo è illustrata da tutta una segnaletica artistica e letteraria: le incisioni di Longhi come i quadri di Tiepolo, le commedie di Goldoni come i versi di Parini. Ma Bizzocchi non si è limitato a registrare l'onnipresenza dei cicisbei nell'immaginario figurativo, teatrale, poetico, del secolo dei Lumi. Frugando dentro una gran massa di lettere, diari, memorie, Bizzocchi ha saputo riconoscere in quei lontani «triangoli» (semplicemente mondani, o anche affettivi, o anche sessuali) un pezzo di storia sociale e politica dell'Italia moderna. In effetti, il cicisbeismo fu ben più che una valvola di sfogo per donne frustrate da un matrimonio di convenienza, e per ruspanti cadetti che le strategie ereditarie destinavano al celibato. Fu un vero e proprio gioco di ruoli inteso alla conservazione del primato nobiliare: non a caso si diffuse particolarmente nelle cosiddette Repubbliche aristocratiche, Venezia, Genova, Lucca. Per un «giovin signore», «servire» una dama senza sposarla, di notte come di giorno, era un buon modo per stare alla larga dai due ambienti che più rischiavano di irretirlo, il mondo delle carte da gioco e il mondo delle donne da strapazzo. Ma il cicisbeismo ha rivestito, da ultimo, anche una valenza illuministica: è stato un esercizio di libertà personale maschile e femminile contro il dispotismo coniugale e familiare. Così capitò di viverlo a personaggi di prima grandezza del nostro Settecento, come Pietro Verri. Che lungamente servì da cicisbeo di Maddalena Isimbardi, la sorella di Cesare Beccaria. Al marito di lei, geloso peggio d'«un eunuco del Serraglio», Verri non riservava che disprezzo; mentre ammirava il temperamento focoso della sua Maddalena, «buona, amabile e selvaggia».
(«Corriere della Sera», 5 giugno 2008)
Daniela Lombardi, Storia del matrimonio. Dal Medioevo a oggi, il Mulino, Bologna 2008, pp. 296. Giovanni Romeo, Amori proibiti. I concubini tra Chiesa e Inquisizione, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 256. Roberto Bizzocchi, Cicisbei. Morale privata e identità nazionale in Italia, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 360. | << | < | > | >> |Pagina 54Forse neppure l'erudito papa tedesco lo sapeva, nell'agosto scorso, quando ha scelto la città di Colonia per il suo primo viaggio apostolico all'estero. Forse neppure Benedetto XVI sapeva che un illustre suo predecessore ottocentesco, Pio IX, in tutt'altre condizioni aveva meditato di compiere analogo viaggio. Non come trionfale inaugurazione di un pontificato nuovo di zecca, ma come esito fatale di un pontificato interminabile. E non per una visita di qualche giorno, ma per rimanerci non si sa quanto, forse per il resto della vita. Era successo a fine settembre del 1870, dopo che l'Italia di Vittorio Emanuele II aveva profittato della disfatta di Napoleone III a Sedan per sbrecciare Porta Pia e conquistare Roma. Allora, il cancelliere del neonato Impero prussiano, Otto von Bismarck, aveva fatto sapere che Pio IX poteva ormai contare sulla sua protezione, e che una città come Colonia si sarebbe prestata magnificamente a servire da nuova casa del Santo Padre. Nei panni del profugo aveva spiegato Bismarck il papa non avrebbe potuto che migliorare la propria immagine di vegliardo intransigente e bisbetico: sarebbe parso «un vecchio che cerca aiuto, un buon vecchio, come un vescovo che, come gli altri, mangia e beve, fa un tiro di tabacco, oppure fuma un sigaro». In quale misura il cancelliere protestante fosse sincero nella sollecitudine verso il capo della Chiesa cattolica, lo si sarebbe visto una manciata d'anni più tardi, nel febbraio del 1878: quando la morte di Pio IX pose fine al pontificato più lungo e più drammatico dell'intera vicenda petrina. Raggiunto dalla notizia nella sua residenza di campagna, Bismarck ordinò al servitore di portargli una bottiglia di grappa, e propose: «Brindiamo!». Resta il fatto che negli anni settanta del diciannovesimo secolo, e poi ancora negli anni ottanta e novanta durante il pontificato di Leone XIII sia il Vaticano, sia le maggiori cancellerie europee misero seriamente in conto la possibilità che il papa lasciasse una Roma in cui si sentiva ormai prigioniero, per stabilirsi altrove sul continente. Dove? Si ipotizzò un po' di tutto, da Colonia a Malta, da Auch a Barcellona, dalla Corsica al Canton Ticino. E per quanto vaga, tale prospettiva rappresentò un incubo per il governo dell'Italia unita da poco, che rischiava di non reggere le conseguenze politiche (o militari) di una fuga del papa da Roma. Il Santo Padre prigioniero nelle sue stanze del Vaticano: è questa più che avventurosa, claustrofobica e ossessiva la storia raccontata adesso, con la consueta felicità di scrittura, dal migliore studioso americano del nostro Risorgimento, David Kertzer. Il quale, a partire da una messe di materiali archivistici finora trascurati o del tutto inaccessibili, è riuscito nell'impresa di restituire gli esordi dell'Italia unita al clima che fu loro proprio, e che una storiografia troppo eufemistica si è curata di occultare: il clima di una lotta senza quartiere, di uno scontro a morte fra l'Italia laica e la Chiesa cattolica. Adusi come siamo oggi dopo il pontificato itinerante di Karol Wojtyla all'idea di un papa pellegrino, noi fatichiamo a comprendere la scelta di vita di Pio IX, a cui i successori si sarebbero uniformati fino ai Patti lateranensi del 1929: la decisione di non mettere piede fuori dal Vaticano, di non spingersi neppure fino al Laterano o a Castelgandolfo, per qualcosa come cinquantanove anni di soggiorno obbligato. Kertzer ci aiuta a decifrare la logica di una scelta così grave. Era la volontà di mettere sotto scacco il governo italiano (fosse questo espressione della Destra o della Sinistra: di Lanza o di Depretis, di Lamarmora o di Crispi), presentando come il più odioso dei soprusi la politica laica di una separazione netta fra lo Stato e la Chiesa. Ai quattro angoli dell'Italia e dell'Europa, e particolarmente in Francia, i devoti di Pio IX furono abilissimi nel brandire l'icona del papa prigioniero in Vaticano come un'arma di propaganda. Preti e suore presero a vendere come una reliquia sacra la paglia sulla quale dicevano il Santo Padre era costretto dal governo italiano a passare le sue notti d'infelice. E il conte di Montalembert, figura chiave della Chiesa cattolica francese, mise in guardia i presunti carcerieri del papa: «Badate bene, che gl'italiani non diventino i giudei della cristianità futura. Badate che dai lidi dell'Irlanda a quelli dell'Australia, i nostri figliuoli non imparino infin dalle fasce a maledirli». Il governo italiano tenne duro, anche quando dopo il 1887 il nuovo segretario di Stato di Leone XIII, il machiavellico cardinale Rampolla, cercò di utilizzare l'adesione dell'Italia alla Triplice Alleanza con l'Austria e la Prussia come pretesto per scatenarle contro la Terza Repubblica francese. Ma se pure le trame del Vaticano intorno al papa prigioniero non approdarono a nulla di concreto, la puntuale ricostruzione di Kertzer vale a illuminare la storia moderna d'Italia secondo una prospettiva di lungo periodo. Dopo il 1870, Pio IX non esitò a scomunicare collettivamente la classe dirigente dell'Italia unita e poi, nel 1873, il re sabaudo in persona, Vittorio Emanuele II. Da allora tante cose sono cambiate, ma non l'abitudine di certi inquilini d'oltre Tevere di levare il dito accusatore contro chiunque osi presumere che il nostro è uno Stato laico.
(«Corriere della Sera», 30 ottobre 2005)
David I. Kertzer, Prigioniero del Vaticano. Pio IX e lo scontro tra la Chiesa e lo Stato italiano, Rizzoli, Milano 2005, pp. 366. | << | < | > | >> |Pagina 75«Noi dobbiamo cospirare, procurarci bombe, usare passaporti falsi, contrabbandare materiale, e, se non possiamo fare altro, fare la rivoluzione coi pugnali». Questa consegna non è tratta dall'intercettazione telefonica di un odierno militante di Al Qaeda, né dalla posta elettronica di un guerrigliero colombiano delle Farc, ma da una lettera di Giuseppe Mazzini risalente al 1853. A torto hanno fatto scandalo, pochi anni fa, le tesi dello storico francese Pierre Milza, colpevole di avere suggerito che certa tradizione del terrorismo italiano possa risalire appunto a Mazzini: al nemico giurato delle monarchie assolute e dei Savoia, cospiratore e rivoluzionario nell'Europa dell'Ottocento. A torto ci si è stracciati le vesti sul pericolo di una confusione retrospettiva fra buoni e cattivi. Quasi che, nella storia, le rivoluzioni siano state immancabilmente pacifiche, rivoluzioni dei garofani o di velluto. Quasi che i cambiamenti di regime non richiedano, spesso, un lavacro di sangue. E quasi che la parola «terrorista» non tenda a designare in ultima istanza il rivoluzionario che perde, mentre il rivoluzionario che vince diventa «padre fondatore». Gli unici rivoluzionari che abbiano osato vantare il terrore in corso d'opera sono stati coloro dai quali la parola è derivata: i giacobini francesi che nel 1793 misero (come dissero) il Terrore all'ordine del giorno, facendone un metodo dí governo. I neologismi terrorisme e terroriste sono stati peraltro coniati, con valore peggiorativo, durante la stagione successiva alla caduta del giacobinismo, cioè all'epoca del Termidoro. Quando i deputati medesimi della Convenzione che avevano sostenuto Robespierre nella politica del Terrore si scoprirono mansueti, e trasformarono la figura edificante del giacobino in quella infamante del buveur de sang. Da allora, diligentemente tradotti in tutte le lingue, i sostantivi «terrorismo» e «terrorista» sono divenuti sinonimi del maligno. Nel lessico di una storia proverbialmente scritta dai vincitori, il terrore è l'errore (l'orrore) di chi è lontano da noi, diverso, alieno. Secondo l'icastica formula di un critico letterario, Daniele Giglioli, «il terrorismo è la violenza degli altri». Frequentare la storia della Rivoluzione francese può servire almeno a questo: a respingere il luogo comune del terrore come alterità, male altrui, e a riconoscerlo come identità, male nostro. Il terrore come il luogo da cui tutti proveniamo. Perché la Rivoluzione è stata fin dall'inizio prima ancora del 1793, prima del Terrore con la maiuscola un'utopia della fraternità minacciata dall'entropia del fratricidio. Fin dal 1789 l'unanimismo buonista dei rivoluzionari presumeva la logica dell'esclusione, ammetteva la prassi dell'intimidazione, comprendeva la vertigine della punizione. D'altra parte, frequentare la storia della Rivoluzione francese può servire a riconoscere come la violenza stessa sia levatrice di storia. Perché vorrà pur dire qualcosa il fatto che la Francia del Terrore sia stata la culla di ogni pratica moderna dei diritti dell'uomo e del cittadino. Universalità del suffragio, laicità delle istituzioni, scolarità obbligatoria e gratuita, assistenza sociale dei poveri, emancipazione dei neri e degli ebrei: altrettante conquiste maturate (e, provvisoriamente, marcite) all'ombra delle ghigliottine. Nell'Italia del Risorgimento, la Rivoluzione francese godette di pessima stampa. Non soltanto tra i moderati, anche tra i radicali. Mazzini per primo, in una vita fatta di trame rivoluzionarie e di sogni repubblicani, tenne a prendere le distanze dal precedente transalpino del tardo Settecento. «Aborriamo dal sangue fraterno», l'esule genovese scandì già nel 1832, intendendo con ciò che aborriva il Terrore. Eppure quello era lo stesso Mazzini dei passaporti falsi, dei pugnali, delle bombe. Era l'uomo che i governi europei dell'Ottocento mantennero per decenni in cima alla lista dei most wanted. Era ben più di un Karl Marx il terrorista per antonomasia, barbuto spauracchio dei benpensanti, Osama Bin Laden del diciannovesimo secolo. Qualunque cosa ne dicano i semplificatori di professione, la storia è una cosa complicata. | << | < | > | >> |Pagina 82Sono appena dieci pagine, disperse fra le quasi cinquecento di un libro sorprendentemente vivo per valere da omaggio accademico. Ma sono pagine che hanno il dono della trasparenza, e si aggiungono a quelle di un volume di memorie e di un racconto di viaggio per restituirci il profilo della «ragazza del secolo scorso». Rossana Rossanda le ha intitolate Tra due '89. Storia e rivoluzione. E già alla seconda riga ha voluto dirne il senso: «non più che una confessione». Tutto iniziò confessa dunque Rossanda nel 1989, bicentenario della Rivoluzione francese. Allora le venne «il primo dubbio, e gigante». Il dubbio che la tragedia originaria del sangue innocente (il «sangue "in più"», imprescrittibile al tribunale della storia) andasse collocata non tanto nel 1917 della rivoluzione d'Ottobre, quanto centoventi anni prima, nel 1789 del 14 luglio: nel passaggio forse obbligato, fatale, dalle picche della Bastiglia alle ghigliottine del Terrore. Peggio: il dubbio che Franηois Furet avesse ragione, che ogni Ottantanove contenga un Novantatre. «Che le rivoluzioni sono nel migliore dei casi superflue. Ma sempre esecrande». Non che la navigata fondatrice del «manifesto» si lasciasse sfuggire le implicazioni ideologiche delle tesi di Furet, in un'Italia che usciva dall'incubo del brigatismo rosso per entrare nel tunnel identitario del post-comunismo. Non che si nascondesse allora, né si nasconda oggi, la ricaduta dell'entusiasmo manifestato per Furet dai suoi zelanti epigoni italiani: il trionfo di un nuovo pensiero unico, pronto a ritenere terroristico ogni intervento di gruppo o di popolo non autorizzato da un'istituzione della democrazia elettiva. Ma quali che fossero gli usi politici del revisionismo storiografico, Rossanda fu presa allora da «un dubbio radicale», che ancora l'accompagna. Il 14 luglio? «Un vortice nel quale sprofondavo». Si può mai capire (secondo la famosa raccomandazione di Leopold von Ranke) che cosa è veramente successo nel passato, nella storia? E più che mai nella storia delle rivoluzioni? «Quel che è realmente avvenuto sta nella concatenazione di fatti, e questa si disegna in un processo che ha già il segno di un "giudizio di valore". O no? Insomma mi perdo. E divento prudentissima». «Il problema è quando un fatto cambia segno. Come se "il" fatto fosse necessariamente esiguo, e la sua chiave stesse "accanto" e "dopo", nelle onde concentriche che si allargano dal sasso gettato nello stagno. Ma non sto precipitando nel furetismo di destra o di sinistra? Quel sasso resta essenziale, anche se è il primo a scomparire dalla superficie delle acque che ha turbato. Chi non sa di storia deve ripetersi "prudenza, prudenza, prudenza". E chi fa politica? Terribile». Θ un'ottantenne piena di dubbi questa ragazza del secolo scorso, anche se le «obliose nuove generazioni» la dipingono come una coltivatrice di certezze finalmente andate in pezzi. Ed è una donna tentata di rimpiangere l'abbandono degli studi giovanili, l'estetica sacrificata alla politica: «avrei fatto meglio a occuparmi di storia dell'arte». Ma perfino quando trova rifugio nelle sale di un museo, può capitare che la donna si senta pedinata, disorientata, minacciata: «anche là la storia mi insegue e mi tende tranelli». Così, per esempio, quando contempla il capolavoro di Diego Velàzquez, Las Meninas. E non può più andare certa che il pittore si sia proposto una mise en abξme, una rappresentazione della rappresentazione: l'artista che ritrae se stesso mentre fa il ritratto del re e della regina, Filippo IV di Spagna e Marianna d'Austria, riflessi nello specchio sullo sfondo. Perché una recente radiografia ha rivelato come, nella prima versione del quadro, pittore e tela non ci fossero affatto... «Delle Meninas si sa dunque (quasi) tutto, compresi nomi, vita, morte e miracoli dei nove personaggi più un cane più i due riflessi nello specchio. Ma, stringi e stringi, che cos'è il "fatto", realmente avvenuto una volta per sempre, se non la tela medesima e nient'altro, come ci appare al Prado? Tutte le notizie non sono che appendici superflue e perdipiù variabili, del solo veramente avvenuto, quella metà superiore tutta in penombra, quelle luci dorate e azzardose sul primo piano e smaglianti su una porticina in fondo, quelle pennellate che a un metro di distanza sembrano fondersi e non sono fuse, quella loro densità sontuosa sulle sete e sui colori spenti insomma niente e tutto? Divertente, interessante, l'iconologia non mi darà mai ragione dell'addensarsi di idee, emozioni, saperi, ambizioni, tecniche, in "quel" dipinto. Non devo tornare alla visibilità pura, che storia non è? Oppure no, diviene anch'essa? Ma diviene e non sedimenta. Non fa storia?». Se soltanto i critici sempiterni di Rossana Rossanda fossero capaci di altrettante domande, se soltanto si lasciassero scuotere da altrettanti dubbi riguardo al loro proprio feticcio, le sorti magnifiche e progressive del capitalismo. E se sapessero che a onor del vero la ragazza del secolo scorso non ha avuto bisogno né di Furet, né del 1989, per ammettere che i conti della storia non le tornavano affatto. Successe un quarto di secolo prima del bicentenario della Rivoluzione francese: nella Spagna del 1962. Inviata in missione clandestina dal Pci di Togliatti, una Rossanda trentottenne percorse in lungo e in largo la penisola retta ancora dall'inflessibile dittatura di Franco. Incontrò i capi di un'opposizione antifranchista diffidente, stanca, immatura, e riconobbe ben maggiore la lucidità di una destra pronta a liquidare il fascismo dall'interno, senza neppure l'ombra di una rivoluzione. Nella Spagna del 1962 Rossanda toccò con mano la caduta delle sue certezze, raccontandola in un libro dell'81 che Einaudi ha ristampato da poco, Un viaggio inutile: piccolo grande libro sulla solitudine delle idee, «quando la società esce da loro e le abbandona come binari fra le erbe». Già quel libro, in fondo, niente più che una confessione. Il riconoscimento di tutta la distanza che corre in politica come nella vita fra la coscienza e la scelta, il capire e il potere. E al Prado, già allora, la scoperta che neppure l'arte garantisce un rifugio: «perfino El Greco, che da lontano amavo, mi ha rivelato facilità e imbrogli». A volte, sembrano valere per la Rossanda di oggi le parole che lei stessa ha scritto sui vecchi anarchici sopravvissuti alla guerra civile spagnola, che «ora interrogavano la storia, senza più esecrazioni, senza speranze». Altre volte, sembra prevalere in lei una giusta fierezza: l'orgoglio di chi sa come l'intero suo viaggio sia stato tutt'altro che inutile. «Fu una bellissima storia, di quelle da cui esci torchiato come un panno dalla lavatrice e ti appendi ad asciugare bello pulito, alla fine. Se questa non è vita, che cosa lo è?».
(«Corriere della Sera», 26 luglio 2008)
Autori vari, L'intellettuale militante. Scritti per Mario Isnenghi, Nuova Dimensione, Portorgruaro (Venezia) 2008, pp. 476. Rossana Rossanda, Un viaggio inutile, Einaudi, Torino 2008, pp. 122. | << | < | > | >> |Pagina 143Secondo una celebre teoria di Michel Foucault, l'avvento della modernità in Occidente significò anche l'avvento della biopolitica. Cioè di una forma di esercizio del potere non più incentrata sul governo dei territori dove si raccoglievano le une o le altre popolazioni, ma incentrata sul governo delle popolazioni stesse attraverso un massimo di controllo sopra la vita di ogni singolo abitante. Disciplinamento della devianza, profilassi delle malattie, igiene dei luoghi: per Foucault, il cosiddetto «progresso» fu una progressione del potere e del sapere verso una gestione coatta delle anime e soprattutto dei corpi. Dal Cinquecento all'Ottocento, nei confessionali come nei lazzaretti, nelle prigioni come negli ospedali, nei manicomi come nelle fabbriche, la politica trovò gli strumenti più vari per fare crescere la sua presa normativa, igienica, statistica, poliziesca sugli esseri umani in quanto esseri viventi. Formulate negli anni settanta del Novecento e fin da allora controverse, le tesi di Foucault intorno alla nascita della biopolitica nell'Europa moderna ci interpellano più che mai al giorno d'oggi, nel terzo millennio: dentro il paesaggio mentale di una contemporaneità fortemente sollecitata (e profondamente turbata) da nuove frontiere della vita e della morte. Che si tratti di cellule staminali o di vitalità del feto, di morte cerebrale o di accanimento terapeutico, di testamento in vita o di eutanasia, non c'è dilemma bioetico del nostro presente che non finisca per ruotare intorno al problema centrale dell'ultimo Foucault: l'antico problema del rapporto tra norma e libertà, reso oggi tanto più urgente da un'inedita, vorticosa, drammatica riconfigurazione dei rapporti tra pubblico e privato, natura e cultura, storia e destino. Altrettanta materia, evidentemente, per gli storici del futuro. Ma già gli storici di adesso hanno ragione di chiedersi in che misura il paradigma interpretativo di Michel Foucault quello di una biopolitica progressivamente e inesorabilmente trionfante, dalla lotta seicentesca contro le epidemie alle campagne ottocentesche per le vaccinazioni regga alla prova, sopra il terreno cronologico dove Foucault ha rinunciato a verificarlo di persona: la storia del Novecento. In che misura il ventesimo secolo può avere segnato un ulteriore progresso nella sovranità del potere sugli esseri umani in quanto esseri viventi, cioè nell' emprise della politica sui corpi, nello strapotere degli Stati sovrani sulle nude vite? Θ questa la cruciale domanda che gli epigoni più acuti di Foucault sono andati ponendo, da una dozzina d'anni in qua, alla storia del Novecento. E dietro verifica, essi hanno ritenuto di dover rispondere affermativamente. Almeno sino alla metà del secolo sino ad Auschwitz e a Hiroshima la biopolitica non finì di trionfare nel mondo, in Occidente come in Oriente. Quale prova più chiara e più tremenda della sua apoteosi che le dis-incarnazioni tragicamente caratteristiche dell'umanità novecentesca, le spolpate vittime del Lager e le saponificate vittime della Bomba? Aggiungendosi alle riflessioni di un filosofo come Giorgio Agamben o di un sociologo come Wolfgang Sofsky, le analisi di uno storico come Enzo Traverso hanno contribuito a definire una genealogia culturale della violenza nel Novecento. Per ricostruire la quale occorre peraltro risalire al secondo Ottocento, e occorre guardare a contesti spaziali extraeuropei: l'America della guerra civile, l'Africa della concorrenza coloniale. Fu infatti lontano da noi ma a partire da scoperte tutte nostre, brevetti europei: le deportazioni di massa degli schiavi neri, le esecuzioni di massa inaugurate dalla Rivoluzione francese che gli uomini del secolo decimonono sperimentarono una prima volta quanto sarebbe divenuto esperienza comune per gli uomini del secolo successivo. Sui campi di battaglia degli Stati Uniti, la messa a morte meccanizzata, seriale, di intere classi di età. Nelle foreste equatoriali dell'Africa, lo sfruttamento industriale di una manodopera schiavizzata oltre il limite dell'umano. Prove generali per quello che l'Europa si apprestava a vivere durante l'età delle trincee e del filo spinato: dal 1914 al 1945, nella sua nuova guerra dei Trent'anni. | << | < | > | >> |Pagina 207Siamo debitori a due ebrei torinesi Emanuele Artom e Giacomo Debenedetti di due testi quasi coevi (l'uno del 1941, l'altro del 1944) che ragionano entrambi della "funzione-ebraismo" nella storia d'Occidente. Che lo fanno nel momento più grave e più tragico dell'intera vicenda ebraica moderna: rispettivamente, verso l'inizio e verso la fine della Shoah. Ma che approdano a conclusioni sensibilmente diverse. Nel settembre del 1941, Artom è un ventiseienne altrettanto istruito che timido, e non può immaginare quanto lo aspetta: la scelta di farsi partigiano, dopo l'8 settembre '43; la Resistenza combattuta nelle valli piemontesi, da commissario politico del Partito d'azione; l'arresto in un rastrellamento nazifascista, le sevizie degli aguzzini, la morte in carcere nell'aprile del '44, la sepoltura in un luogo mai più identificato. Nel '41 Artom è soltanto un giovane storico del giudaismo, la migliore promessa dell'ebraistica subalpina. Tiene un diario, dove appunto gli càpita di interrogarsi anche sopra il ruolo degli israeliti entro la storia dei gentili. E nella desolazione dell'ora quando sui discendenti di David si vanno accumulando non più solo le nubi della discriminazione razziale, ma i fumi della persecuzione e i fulmini della deportazione Artom sente di avere le idee chiare. Per lui, la funzione storica degli ebrei è stata, fin dalle origini dell'era cristiana, quella di servire da agnello sacrificale al resto degli esseri viventi: «Sono duemila anni che Israele è perseguitato e continua a essere il popolo della moralità; in questa sanguinosa storia umana, intessuta di ingiustizie e di orrori, nessuna colpa si può imputargli, è il popolo che non ha mai fatto del male a nessuno». Nel settembre del 1944, Debenedetti è un ebreo di mezza età che l'imperscrutabile logica delle circostanze (e il concretissimo aiuto dei goìm) ha appena sottratto, durante i nove mesi dell'occupazione tedesca di Roma, al rischio di un arresto e di un viaggio verso Auschwitz. Nella parte d'Italia ormai libera dai persecutori, il raffinato studioso di letteratura non ha bisogno di affidare al segreto di un diario le proprie riflessioni intorno alla funzione-ebraismo nella storia occidentale: dopo averle messe per iscritto, può pubblicarle a stampa. Ed è avendo ancora negli occhi la retata del ghetto 16 ottobre 1943 che Debenedetti trova il coraggio per interpretare la distruzione presente degli ebrei d'Europa non tanto come l'ennesimo, tragico segno di un destino d'eccezione (il popolo eletto delle vittime), ma piuttosto come un'occasione terribile, unica, per riconoscere nella sofferenza degli ebrei la sofferenza dell'umanità. «Se una rivendicazione gli ebrei hanno da fare, è questa sola: che i loro morti di violenza e di fame, i piccini che non hanno resistito al primo sorso di latte finalmente somministrato, dopo mesi di inanizione, nei paesi di asilo, le donne prese a calci e mitragliate, i poppanti lanciati in aria e impallinati come uccelletti, siano messi in fila con tutti gli altri morti, con tutte le altre vittime di questa guerra. [...] Senza un supplemento di pietà pietà per i poveri ebrei che umilierebbe il loro sacrificio». Allora internato ad Auschwitz, un terzo ebreo torinese Primo Levi spenderà buona parte della sua vita di «salvato» della Soluzione finale arrovellandosi intorno ai medesimi temi di queste riflessioni di Artom e di Debenedetti. Da un lato, il tema della totale asimmetria, nella catastrofe del popolo ebraico, fra l'onnipotenza dei carnefici e l'impotenza delle vittime. Dall'altro lato, il tema della fondamentale somiglianza tra le sofferenze degli ebrei e quelle di infinite altre vittime della violenza nazifascista. In generale, il tema della condizione ebraica come una fattispecie fra le tante della humana conditio. Cioè, in ultima analisi, la rinuncia a trattare la storia degli ebrei in termini provvidenziali, come storia di un popolo eletto di vittime: la volontà, propriamente laica, di pensare gli ebrei come un popolo "normale". Se non i testi di Levi, le pagine di Artom 1941 e di Debenedetti '44 sono presumibilmente sconosciute alla maggior parte degli intellettuali che nell'ultimo quarto di secolo dagli anni ottanta del Novecento a oggi hanno alimentato il boom occidentale (e italiano) dei Jewish Studies. Poco importa. Qui, si è voluto evocarle come minuscoli incunaboli del travaglio consegnato dalla Shoah alla riflessione contemporanea degli ebrei e sugli ebrei. Con il sovrappiù di problemi che sono venuti, nel frattempo, dagli sviluppi della storia mediorientale: la fondazione dello Stato di Israele, coronamento più o meno genuino del sogno sionista; l'impiego variamente strumentale che Israele stesso ha compiuto della Shoah nella Palestina postbellica; la propaganda ferocemente e ottusamente antisemita dei nemici arabi dello Stato ebraico; il progressivo inabissarsi di Israele, dopo la guerra dei Sei Giorni, nelle sabbie mobili di una politica nominalmente difensiva, di fatto aggressiva e colonialista. Faccende complicate, che poco o nulla hanno a che vedere con i duemila anni precedenti di storia ebraica. Ma faccende che rendono quanto meno anacronistica nel nostro 2009 la definizione degli ebrei consegnata da Emanuele Artom al suo diario del '41: Israele popolo della moralità, «il popolo che non ha mai fatto del male a nessuno». | << | < | > | >> |Pagina 223La Shoah non è uscita tutta intera dalla testa di Hitler, come Minerva dalla testa di Giove. Il progetto nazista di eliminare la «razza» ebraica ha origini culturali che affondano le loro radici nella storia europea del tardo Ottocento e del primo Novecento. Almeno su questo punto, gli storici dell'antisemitismo si trovano d'accordo. E citano quasi sempre, come precedente dell'hitleriano Mein Kampf, i celebri Protocolli dei savi anziani di Sion: un falso documento prodotto dalla polizia segreta zarista nel 1905, destinato a circolare ovunque nel continente e ad alimentare l'isteria antisemita di almeno due generazioni di europei. Professore di antropologia e storia alla Brown University di Providence, David Kertzer non si è accontentato di risalire nello studio delle origini culturali della Shoah al passaggio di secolo tra Otto e Novecento. Né si è accontentato di limitare il suo sguardo all'Europa centrale e orientale, là dove il mostruoso disegno dello sterminio avrebbe finito per mietere la maggior parte delle sue vittime. Studioso dell'Italia moderna, Kertzer ha voluto ricercare le radici della tragedia già a partire dal Settecento, e più vicino a casa nostra: scavando nella storia della Roma vaticana e della cultura cattolica. I papi contro gli ebrei è un libro che si legge con fastidio e con pena. Il fastidio deriva dalla mediocrità della traduzione italiana. La pena deriva da qualcosa di molto più grave: dalle responsabilità della Chiesa nella genesi della Shoah. Alla vigilia del 2000, dopo una decennale riflessione ordinata da Giovanni Paolo II, il Vaticano ha ufficialmente negato qualsiasi collegamento fra l'antigiudaismo tradizionale della Chiesa e l'antisemitismo eliminazionista. Ma il libro di Kertzer dimostra l'infondatezza di questa autoassoluzione. Se lo sterminio degli ebrei ha potuto avere luogo in paesi di antica civilizzazione cristiana, è anche perché la Chiesa cattolica (e i papi in persona) hanno contribuito per due secoli dopo l'illuminismo a legittimare e a corroborare un pregiudizio antisemita. «Debbano gli Ebrei dell'uno, e dell'altro sesso portare il segno color giallo, per cui vengano distinti dagl'altri, e debbano sempre portarlo in ogni tempo, e luogo, tanto nei Ghetti, quanto fuori di essi»: questa non è la traduzione maccheronica di un qualche ordine pubblicato dai nazisti nella Varsavia del 1942; è il testo originale di un editto di papa Pio VI, risalente al 1775. Il testo continuava vietando agli ebrei dello Stato pontificio di giocare, mangiare, bere, addirittura parlare con i cristiani, «sotto pena agli Ebrei di scudi dieci, e del carcere ad arbitrio, ed a' Cristiani di scudi dieci, e di altre corporali ad arbitrio». Da Pio VI a Pio VII e da Pio VIII a Pio IX, la musica del Vaticano non sarebbe cambiata granché. Durante il secolo successivo alla prima emancipazione degli ebrei, avvenuta con la Rivoluzione francese, i papi avrebbero instancabilmente ripicchiato sul tasto del malvagio giudeo: un giudeo così pericoloso per il cristiano da doverlo sempre sorvegliare, se proprio non era possibile convertirlo. Da qui pratiche odiose come quella della predica obbligatoria, che gli ebrei erano costretti ad ascoltare, di sabato, dalla voce irridente di un sacerdote cattolico. O come la pratica dei battesimi forzati dei bambini, incubo ricorrente nella vita delle famiglie israelite. Tra il 1858 e il 1860, intorno al battesimo forzato di un fanciullo l'ebreo bolognese Edgardo Mortara scoppiò uno scandalo internazionale che finì per costare caro a Pio IX, contribuendo alla fine del suo potere temporale: è la storia splendidamente raccontata da Kertzer nel suo libro precedente, Prigioniero del papa re. Ma anche dopo il 1870, quando (dopo la breccia di Porta Pia) i papi si trovarono confinati in quella sorta di ghetto che divenne il Vaticano, i successori di Pietro non persero l'abitudine di trattare gli ebrei come nemici giurati della cristianità. Al contrario, riscontrarono nell'evoluzione sociale e politica dell'Europa nuove ragioni per urlare al complotto «giudaico-massonico», riconoscibile così nelle trame della finanza internazionale come nei progressi dell'idra socialista. Uno dopo l'altro, i papi si rifiutarono poi di smentire l'antica «accusa del sangue», secondo la quale gli ebrei avevano bisogno di uccidere bambini cristiani per preparare con il loro sangue il pane azzimo delle feste. Né Leone XIII, né Pio X furono disposti a sottoscrivere una confutazione ufficiale delle leggende relative al cosiddetto omicidio rituale. Ancora nel 1914 la «Civiltà cattolica» l'influente periodico dei gesuiti, vicinissimo alla Curia poteva mettere in guardia dagli ebrei che consideravano il sangue «una bevanda come il latte». Quattro anni più tardi, da visitatore apostolico in Polonia, monsignor Achille Ratti nulla fece per frenare l'ondata di violenze antiebraiche che andavano scuotendo il paese. In questo silenzio sui pogrom da parte del futuro Pio XI, giustamente Kertzer riconosce la premessa di altri silenzi vaticani. Nel 1938, papa Ratti avrebbe vissuto con interiore tormento, ma senza proferire verbo, l'applicazione delle leggi razziali in Italia. E dopo di lui, Pio XII avrebbe lasciato compiersi l'intero percorso della Shoah senza mai pronunciare in pubblico la parola «ebreo».
(«La Stampa», 3 marzo 2002)
David I. Kertzer, I papi contro gli ebrei. Il ruolo della Chiesa nella nascita dell'antisemitismo moderno, Rizzoli, Milano 2002, pp. 365. | << | < | > | >> |Pagina 232«Non abbiamo nulla di cui scusarci. Siamo un popolo come gli altri e non abbiamo alcuna voglia di essere migliori di ciò che siamo». Dixit Vladimir Ze'ev Jabotinsky, ebreo russo, alla vigilia della gigantesca conflagrazione la Grande Guerra che avrebbe offerto agli israeliti della diaspora l'occasione per coronare il sogno millenario di un ritorno in Palestina. E aggiungeva, Jabotinsky: «Di piacere o meno alla gente ci è del tutto indifferente. Non abbiamo avuto, né abbiamo omicidi rituali. Ma se volete credere che esista "questa setta", prego, accomodatevi pure! Che c'importa?». Studente universitario, giornalista, romanziere, agitatore, più ancora che un ebreo russo Vladimir Jabotinsky era un apolide e un rivoluzionario di professione, quali poté produrne una generazione fattasi adulta nell'età della Seconda Internazionale e la cui maturità coincise con il trauma della prima guerra mondiale: con la fine del «mondo di ieri» per tranquilli ebrei della Mitteleuropa dello stampo di Stefan Zweig , con l'inizio del mondo di domani per sionisti impazienti come Jabotinsky. Questi, nato nel 1880 entro il vivacissimo melting pot borghese di Odessa, era destinato a sentirsi diverso sia dai russi di un impero zarista declinante, sia dagli ebrei orientali di estrazione proletaria, ancorati alla lingua yiddish e all'orizzonte ristretto dello shtetl. La vita di Jabotinsky, morto a New York nel 1940 dopo un'esistenza intera di viaggi e di lotte, di scritture e di sconfitte, è stata ora ricostruita da Vincenzo Pinto in una minuziosa biografia, Imparare a sparare. Dove il titolo allude a una raccomandazione che Jabotinsky ebbe a trasmettere, già negli anni venti, al futuro mentore dei «neocon» americani, Leo Strauss; ma dove il biografo si guarda dal ridurre il proprio personaggio alle sole dimensioni di un teorico della violenza politica, insistendo piuttosto sul significato culturale più profondo del contributo di Jabotinsky alla causa del sionismo: il tentativo di fare dell'ebreo un uomo normale. Cioè non tanto, o non soltanto un cittadino-modello, secondo l'ideale settecentesco dell'illuminismo ebraico, ma un essere umano come gli altri, capace di far bene come pure di far male. Non necessariamente una colomba, un agnello sacrificale, una vittima designata, ma all'occorrenza un falco: un uomo in grado di mostrare i muscoli, e magari di colpire per primo. Dopo il 1914, quando le circostanze della Grande Guerra esposero l'impero turco alla sua crisi ultima e definitiva, il sogno del movimento sionista radunare gli israeliti della diaspora in uno Stato ebraico parve guadagnare in concretezza, nella misura in cui la dissoluzione dell'autorità ottomana in Medio Oriente schiudeva la possibilità di un insediamento degli ebrei in Palestina. Jabotinsky fu tra i primi a intuirlo: nel mondo nuovo del dopoguerra, i discendenti di David non avrebbero più dovuto affaticarsi intorno a prospettive cervellotiche come quella di uno Stato ebraico in Uganda. Ormai l'obiettivo poteva ben essere la Palestina; e l'interlocutore politico-diplomatico doveva essere la Gran Bretagna, il paese di lord Balfour e del riconoscimento ufficiale (nel 1917) della legittimità delle richieste sioniste. Così, Jabotinsky figurò tra gli artefici della Legione ebraica, che nel '18 si affiancò all'esercito britannico nella campagna di liberazione di Gerusalemme dal giogo ottomano. Durante gli anni successivi, muovendosi infaticabilmente fra la Palestina del mandato britannico e i quattro angoli della diaspora ebraica, Berlino o Londra, Riga o Parigi, Roma o New York, Jabotinsky mise a punto la dottrina del cosiddetto «muro di ferro», che avrebbe fatto di lui il capostipite di una discendenza sionista di destra destinata a prolungarsi, attraverso uomini come Begin e Shamir, fino ad Ariel Sharon: che avrebbe fatto di lui, insomma, il padre putativo del Likud. Di contro al sionismo laburista di un David Ben-Gurion e al sionismo liberale di un Chaim Weizmann, Jabotinsky sostenne la teoria di una sostanziale incompatibilità fra gli ebrei e gli arabi in terra palestinese. Le successive ondate migratorie di sionisti dovevano garantire loro un primato demografico sugli arabi, e l'addestramento sistematico dei pionieri all'uso delle armi doveva garantire un primato militare. In tal modo, imponendo unilateralmente la loro presenza ai vicini, gli ebrei avrebbero posto le premesse per la nascita di un Grande Israele esteso su entrambe le sponde del Giordano. Largamente minoritarie all'interno del movimento sionista, le teorizzazioni di Jabotinsky produssero comunque la nascita dapprima del Betar, poi dell'Irgun: l'uno, un gruppo giovanile ebraico ultranazionalista attivo soprattutto in Europa orientale, l'altra, una milizia clandestina di terroristi ebrei operativi nella Palestina degli anni trenta. E quando certa stampa internazionale prese a parlare, con riferimento ai militanti del Betar e dell'Irgun, di «fascisti di Sion», i dinieghi di Jabotinsky non bastarono a tacitare le accuse di Weizmann e Ben-Gurion, che parlarono essi stessi di fascismo ebraico, e arrivarono a definire la versione di destra del sionismo come una forma larvata di hitlerismo. Ma non era per questo che Jabotinsky si sentiva nato: per inquadrare milizie para-fasciste di camicie brune quant'era bruna la terra di Israele, o per organizzare sanguinosi attentati dinamitardi sui mercati arabi. Il suo era stato, e restava, l'ideale di un nazionalista sui generis; un nazionalista cosmopolita, che nell'Odessa di tardo Ottocento aveva sognato un sionismo della fraternità tra nazioni, immaginando il concerto delle nazioni come un'orchestra del genere umano. Nel 1938, Jabotinsky denunciò il «desiderio di armi e di sangue» che rischiava di corrompere il sionismo fino a farlo marcire. E la morte, due anni dopo, gli risparmiò l'esperienza di tutto il resto: la distruzione degli ebrei d'Europa, sulle ceneri dei quali sarebbe sorto lo Stato di Israele. Chi voglia poi interrogarsi sulla continuità ideologica che tiene unite la dottrina di Jabotinsky sul «muro di ferro» e la decisione di Ariel Sharon di frapporre tra arabi ed ebrei la cosiddetta «barriera di sicurezza» un muro di cemento, di reti elettroniche, di filo spinato, lungo 750 chilometri può leggere un altro libro, appena uscito da Einaudi: Il conflitto israelo-palestinese, dello storico americano James Gelvin. Altrettanto disincantato che utile, un compendio della moderna guerra dei Cent'Anni.
(«Corriere della Sera», 26 maggio 2007)
Vincenzo Pinto, Imparare a sparare. Vita di Vladimir Ze'ev Jabotinsky, padre del sionismo di destra, Utet Libreria, Torino 2007, pp. 368. James L. Gelvin, Il conflitto israelo-palestinese. Cent'anni di guerra, Einaudi, Torino 2007, pp. 362. | << | < | > | >> |Pagina 241«Cari genitori, se il cielo fosse carta e tutti i mari del mondo inchiostro, non potrei descrivervi il mio dolore e tutto quello che vedo intorno a me». Così, in un giorno imprecisato della seconda guerra mondiale, il figlio di una coppia di contadini ebrei della Galizia si rivolgeva ai genitori, dall'interno del Lager polacco di Pustków, infilando la lettera nel recinto di filo spinato del campo. «So che non esco vivo da qui. Dico addio a tutti, cara mamma, caro papà, cari fratelli e piango...». Θ questa soltanto una (neppure la più straziante) del centinaio di Lettere dalla Shoah pubblicate ora da Laterza, nel mese del Giorno della memoria. Si tratta dell'edizione italiana di una raccolta uscita anni fa in Israele per cura dell'istituto Yad Vashem: una strana raccolta, meritoria nelle intenzioni, effettivamente memorabile nei contenuti, ma incredibilmente confusa nei criteri di presentazione, cui neppure la scrupolosa versione italiana dove gli originali sono state tradotti da tredici lingue, quasi l'intero campionario di idiomi della diaspora può rimediare con efficacia. Il che non impedisce al libro di valere, lettera per lettera, voce per voce, come il più diretto possibile degli accessi all'inferno della Shoah. «Cari sorella e cognato, vi scrivo della nostra disgraziata morte». Qualunque sia l'autore di ciascuna di queste missive (non sempre si è riusciti a identificarli), ci troviamo dentro una costellazione letteraria che le molte tragedie del Novecento hanno reso sin troppo familiare: appunto, il "genere" delle ultime lettere di condannati a morte. Percezione della fine imminente, inquietudine per la sorte dei familiari, fierezza di sé davanti all'infamia del nemico, consegne morali ai figli, rifugio nella fede o investimento sull'idea: nonostante l'incomparabile enormità storica della Soluzione finale, il campionario di temi presenti nelle Lettere dalla Shoah riflette la gamma di altre raccolte consimili, siano le ultime lettere dalla Resistenza italiana ed europea, o le ultime lettere dalla repubblica di Salò, o anche, al limite, le ultime lettere della Wehrmacht da Stalingrado. Ma proprio l'enormità storica della Soluzione finale lo sterminio di tutti gli ebrei d'Europa, uomini donne vecchi bambini conferisce alle ultime lettere dalla Shoah qualcosa di unico. Per l'inaudita sua natura, il programma nazista mosse infatti, in extremis, la penna non soltanto di maschi in età di combattere, militari o militanti, ma anche di anziani, di ragazzi, e soprattutto di donne. Sicché per la prima volta nella storia terribile di questo genere letterario, le voci femminili si sentono qui almeno altrettanto delle voci maschili. Dall'oltretomba della Shoah parlano anche le mogli, parlano le madri e le figlie, parlano le nipoti e le nonne. E senza posa si interrogano sullo spettacolo mai visto che avevano sotto gli occhi, nei ghetti di Polonia come nei villaggi di Lituania, nei boschi d'Ucraina come nelle campagne di Boemia: la condanna a morte non dell'uno o dell'altro combattente di una causa, ma di tutti gli appartenenti a un'etnia; il massacro paziente e sistematico di un popolo intero. «Oggi vediamo come il mondo appare senza ebrei». Le ultime lettere dalla Shoah furono scritte in circostanze estreme. Raramente sono documenti prodotti dal residuo di antichi rituali guerreschi, messaggi autorizzati dal nemico alla vigilia dell'esecuzione di un condannato. Il più delle volte, sono frammenti di carta rimessi dai rastrellati alla pietà di passanti sconosciuti, sono iscrizioni sulle pareti di sinagoghe diroccate, sono graffiti sui muri nelle fabbriche del lavoro coatto, sono fogli interrati nelle rovine dei ghetti, sono biglietti lanciati dai treni in movimento verso Auschwitz. Ciò che contribuisce a spiegare, forse, un ulteriore carattere distintivo di queste lettere: l'appello dei morituri insistito, implacato, biblico affinché sui tedeschi (e sui loro volenterosi collaboratori polacchi, ucraini, bielorussi, lituani) fosse fatta vendetta. «Ricordatevi quello che ci ha fatto Amalek. Ricordatelo e [...] trasmettetelo come una volontà divina alle generazioni future»: in articulo mortis, vittime della Soluzione finale hanno parlato con le parole della Torah, aggrappandosi al Dio della vendetta. Una madre, Zlatke, al marito Moshe fortunosamente fuggito in America: «L'unica cosa che potete fare per noi è la vendetta sui nostri assassini. Poca cosa la vendetta su di loro». Un giovane, Asher, alla sorella Rivka scappata ín Israele: «Tu e i tuoi figli, sappiate vendicare il nostro incolpevole sangue ebraico versato. [Dei tedeschi], uccidete chi vi viene a portata di mano. Nessuna differenza, uomini, donne, bambini, giacché con noi si è fatto lo stesso. [...] Devono dunque i vostri cuori solo bramare vendetta, vendetta, vendetta». Siano uomini o siano donne, certi condannati a morte della Shoah sembrano non chiedere altro che questo: vendetta, vendetta, vendetta. Mushiya: «avete l'obbligo di vendicarci». Melech: «esorto tutti gli ebrei che saranno ancora vivi dopo la guerra: vendicateci in tutti i modi e in ogni occasione che avrete!». Fanja: «fratelli di ogni paese, vendicateci». Devorah: «dopo la guerra ricordatevi di vendicare vostra sorella; a cui non è stato concesso di rivedervi ancora una volta». Natke: «ricorda solo di vendicarci, se potrai». Eliezer: «fratelli miei, siamo noi quelli a cui è stato assegnato un dovere sacro, e questo dovere è la vendetta». Esther: «sorelle e fratelli, vendicateci dei nostri assassini». Gina: «vai in guerra e vendica tua moglie e il tuo unico figlio». Feivish: «abbiamo una sola richiesta, ed è la vendetta». Quasi settant'anni dopo, che fare della spaventosa litania che accompagnò derelitti ebrei d'Europa nel loro cammino verso la fossa (ancora Eliezer, un rabbino polacco: «io stesso ho udito centinaia di volte i martiri che ho visto ero costretto a farlo mentre rendevano l'anima a Dio in santità e purezza, e le loro ultime parole erano: "Fratelli nostri, ricordate, vendicateci, vendicate il nostro sangue"»)? Questa litania sulla vendetta basta forse per rimettere in discussione la migliore storiografia, che ha sottolineato piuttosto la dimensione intrinsecamente narrativa documentaria, testamentaria, lapidaria della "letteratura" della Shoah ( La vendetta è il racconto, secondo il titolo di un saggio di Pier Vincenzo Mengaldo)? Ovviamente, non basta. Ma la litania sulla vendetta ci dice pur sempre una cosa importante riguardo all'impatto storico della Shoah sopra l'anima dell'ebraismo. Agli ebrei sopravvissuti, gli ebrei sterminati chiesero di vivere un futuro diverso da tanto, da troppo passato: non un futuro da agnelli, ma un futuro da leoni. E lo chiesero, in particolare, ai fratelli approdati nella «Terra», in Palestina: «che la vendetta contro i nostri nemici sia molto grande e condotta dal popolo di Israele». Dopo l'orrore della Soluzione finale, nulla poteva, né doveva, essere più come prima.
(«Corriere della Sera», 13 gennaio 2009)
Le mie ultime parole. Lettere dalla Shoah, a cura di Zwi Bacharach, edizione italiana a cura di Fiorella Gabizon, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 314. | << | < | > | >> |Pagina 244Forse per la sua stessa enormità, la Shoah non ha prodotto molti libri indispensabili. Libri di cui non si possa proprio fare a meno, per verbalizzare l'indicibile, per concettualizzare l'impensabile, per tramandare l'imperdonabile. I titoli di questi libri d'eccezione, credevamo di conoscerli già tutti. Se questo è un uomo di Primo Levi, La banalità del male di Hannah Arendt, Essere senza destino di Imre Kertész, Intellettuale a Auschwitz di Jean Améry. Ma adesso, alla lista delle letture indispensabili va aggiunto il titolo di un volume stampato per la prima volta in inglese, nella New York del 1947 (l'anno stesso della prima edizione di Se questo è un uomo), e da allora mai più pubblicato in alcuna lingua. La tigre sotto la pelle, di Zvi Kolitz, è un libro assolutamente straordinario. Ebreo lituano, Kolitz non aveva ancora trent'anni quando i nazisti intrapresero la Soluzione finale. Tuttavia, si era già messo alle spalle un'esistenza cosmopolita e avventurosa, quale potevano averla certi militanti sionisti degli anni trenta. Studi universitari in Italia, scienze politiche a Firenze. Fascinazione per la figura di Mussolini, del quale Kolitz scrisse la prima biografia in ebraico. Adesione al Betar, il movimento giovanile nazionalista ispirato da Vladimir Jabotinsky. Emigrazione in Palestina, affiliazione a circoli di estrema destra, carcere sotto gli inglesi. Arruolamento nell'Agenzia sionista mondiale, propaganda per la creazione di uno Stato ebraico, militanza clandestina nelle file dell'Irgun, il gruppo terroristico di Menachem Begin. Lontano dall'Europa negli anni della Soluzione finale, Kolitz non fu dunque strettamente parlando un sopravvissuto della Shoah. Aveva lasciato l'inferno per tempo: dei seimila ebrei di Alytus, la sua città natale, praticamente nessuno restava vivo nel 1945. Della Shoah, Kolitz ebbe esperienza per sentito dire, se mai può avere senso una formulazione del genere. Ma a differenza di tanti altri sionisti che vissero la tragedia dalla Palestina, Kolitz non volle trattare il sentito dire della Shoah come uno strumento di Realpolitik, buono magari a propiziare la nascita dello Stato di Israele. Non volle opporre meccanicamente la rivolta dei ghetti alle camere a gas, l'eroismo di una minoranza all'ignavia di una maggioranza, il coraggio dei rari ebrei capaci di ribellarsi all'acquiescenza dei milioni sterminati senza resistere. Nei racconti che aveva preso a scrivere in varie lingue già prima del '45, e che raccolse nel volume newyorkese del 1947, Kolitz fece di meglio che propaganda politica. Come il Primo Levi di Se questo è un uomo, volle elevare a dignità letteraria le nude vite almeno quanto i decorati al valore, i «sommersi» almeno quanto i «salvati». A onor del vero, era proprio un insorto del ghetto di Varsavia quel Yossel Rakover, cui Kolitz aveva dato vita su una rivista yiddish di Buenos Aires nel settembre del '46. Il suo testamento fittizio costituisce uno degli undici capitoli della Tigre sotto la pelle, e la fama del personaggio avrebbe superato di molto la notorietà del suo autore. A lungo ritenuto un documento autentico, messaggio in bottiglia miracolosamente lanciato da un eroe del ghetto, Yossel Rakover si rivolge a Dio è un testo che ha conosciuto nei decenni una fortuna mondiale. In italiano, è stato tradotto per la prima volta da Adelphi nel 1997 e più volte ristampato. Ma appunto, quanto Kolitz aveva da dire della Shoah non si esauriva nello pseudo-testamento varsovita dove giganteggia un ebreo di proporzioni bibliche, che sfida il Dio degli assassini e annuncia il Dio della vendetta. Oltre a Yossel Rakover, nelle Tigre sotto la pelle si incontrano personaggi meno titanici, eppure altrettanto memorabili. Ecco un'internata ebrea a Treblinka, la madre senza nome di una figlia chiamata Hannah. Le due donne sono state deportate insieme, ma poi la ragazza ha cercato di scappare, è stata catturata, è stata arsa viva davanti alla madre e a migliaia di prigionieri. Trasformate in concime, le sue ossa di quattordicenne hanno arricchito la grassa terra di Treblinka, facendo sbocciare intorno ai recinti elettrificati un campo di magnifici papaveri. Questa notte, però, la madre ha approfittato del chiaro di luna per strisciare sotto il filo spinato. Il campo di papaveri è stracolmo, e la madre sta sussurrando il nome della figlia, fiore per fiore, disperatamente. A un tratto, eccola. La riconoscebbe tra mille, quella coppia di papaveri ha gli occhi inconfondibili di Hannah, e gli steli sembrano due braccia aperte per riceverla. Gli altri papaveri «restarono silenti, immobili, il capino rivolto alla figlia che abbracciava la madre». «Tutti gli esseri viventi quella notte si voltarono pieni di riverenza verso la scena della riunione». Ora la madre ha strappato il fiore, sua figlia, e può tornarsene lenta e risoluta in direzione del Lager. Stringe Hannah fra le mani mentre viene avviata verso il forno. Ecco il dottor Bernhardt van Meerlo e sua moglie, olandesi, ebrei dell'Aia. Hanno una quarantina d'anni, e due bambini. Gli occupanti nazisti hanno già iscritto nell'elenco dei deportati i nomi di tutta la famiglia, è solo questione di ore prima che bussino alla porta. Allora, il medico e la moglie hanno deciso di uccidere i bambini, e di suicidarsi. Il veleno è già pronto, addolcito con lo zucchero per Felix e Irene. Rimasta nell'ambulatorio annesso alla casa per non presenziare al pietoso omicidio, la moglie ha chiamato il marito, sconvolta, e gli ha raccomandato: «quando vanno a dormire, coprili bene». Il padre è rientrato in casa. Ha fatto bere ai bambini il veleno, tutto quanto, sino in fondo. Li ha svestiti, li ha messi a letto, li ha abbracciati forte. Non gli resta più che raggiungere la moglie per suicidarsi con lei. «Tornai in ambulatorio. Mia moglie mi salutò con lo sguardo apatico successivo alla disperazione: "Li hai coperti?", chiese tremando». Si vorrebbe avere più spazio, molto più spazio, per dire di un libro prezioso in ogni singola sua pagina. Contentiamoci di rendere omaggio all'editore italiano della Tigre sotto la pelle, Bollati Boringhieri, e al curatore, Vincenzo Pinto. E contentiamoci di notare che un volume come questo, pubblicato a Torino, è la risposta migliore che la città potesse offrire a quanti contestano l'invito di Israele alla prossima Fiera del Libro. Se soltanto certi mentecatti parlassero un po' di meno, e leggessero un po' di più.
(«Corriere della Sera», 7 febbraio 2008)
Zvi Kolitz, La tigre sotto la pelle. Storie e parabole degli anni della morte, a cura di Vincenzo Pinto, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 174. | << | < | > | >> |Pagina 269Le Eumenidi rimpiazzano í testimoni. Les Bienveillantes ha già questo di notevole, prima ancora che l'eventuale merito letterario: per la data di nascita di Jonathan Littell, per la sua estraneità familiare alla tragedia della Shoah, per la tempistica del suo successo in Francia e nel mondo, questo caso editoriale segna la fine di quella che proprio da un'intellettuale francese era stata definita appena dieci anni fa «l'era del testimone». Cioè l'era della vittima sopravvissuta e non più trascurata, come nel primo quindicennio dopo il 1945, non più convocata a meri fini giudiziari, come nel quarto di secolo intercorso fra il processo Eichmann e il processo Barbie, ma la vittima (se così si può dire) trionfante, sollecitata a testimoniare da un'intera società, gettonata come una rugosa star del dolore. Littell è nato a New York nel 1967 da una famiglia di ebrei russi immigrati in America sin dal tardo Ottocento. Può essere ritenuto un ebreo della diaspora, ma in nessun modo va ritenuto una vittima né un parente delle vittime. Non è neppure un testimone in senso lato, alla maniera del suo coetaneo Daniel Mendelsohn, l'autore di The Lost: non avendo avvertito sulle proprie spalle l'insostenibile pesantezza di un qualche nonno, di una nonna, di un prozio o di una prozia spariti nel nulla da uno shtetl di Polonia o d'Ucraina, Littell non si è sentito in dovere di compiere ai quattro angoli del mondo un pietoso periplo della memoria, «a search for six of six million». Così, se il libro di Mendelsohn (e il suo successo internazionale) rappresentano una fine, il canto del cigno del testimone o comunque del memore, il libro di Littell e il suo successo internazionale rappresentano un inizio: inaugurano il silenzio definitivo, non foss'altro perché fatalmente anagrafico, biologico della testimonianza e della memoria. Esaurita la voce delle vittime, il romanziere può guardare ai carnefici. Ed esaurita l'arte della memoria, il romanziere può lavorare sulla storia. Littell ha costruito Le Benevole sopra una conoscenza formidabile della storiografia intorno al genocidio degli ebrei e alla guerra sul fronte orientale. Il romanzo non sarebbe mai stato scritto, o per lo meno non avrebbe conseguito il suo effetto di precisione geometrica, maniacale, senza la base di informazione e interpretazione che Littell ha ricavato dagli studi dei vari Christopher Browning, Ian Kershaw, Omer Bartov, Richard Overy, e soprattutto dallo Ur-Text di Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d'Europa. Littell stesso lo ha riconosciuto, nell'ampia «conversazione sulla storia e il romanzo» da lui intrattenuta con Pierre Nora. Il suo punto di partenza è stato Hilberg che rispondeva a Claude Lanzmann nel documentario Shoah, e illustrava lo spirito burocratico all'insegna del quale i tedeschi avevano compiuto il genocidio: le attenzioni da loro riservate al corretto funzionamento dei treni, i problemi di pagamento delle SS alla Reichsbahn per il trasporto degli ebrei... Le Benevole è un libro maniacale anche perché aderisce esattamente, quasi scolasticamente, alla cura maniacale con cui i tedeschi gestirono lo sterminio. Peraltro, c'è una seconda cosa decisiva che Littell ha imparato dalla migliore storiografia, oltre all'aspetto burocratico del genocidio: è il profilo meta-tedesco dei carnefici. Dovunque nell'Europa occupata le SS e la Wehrmacht trovarono zelanti collaboratori, tra i francesi come gli italiani, i belgi come gli olandesi, i polacchi come i lituani, i bielorussi come gli ucraini, i serbi come i romeni, i croati come i greci. Questo è quanto l'autore di un controverso libro di storia degli anni novanta, l'ebreo americano Daniel Goldhagen, aveva rinunciato a capire: i volenterosi carnefici di Hitler non furono unicamente tedeschi, furono europei. E questo è quanto un altro ebreo americano, Jonathan Littell, ha voluto ricordare fin dall'esordio delle Benevole, attribuendo al malefico suo eroe un'identità non tedesca, ma franco-tedesca: europeizzando Max Aue. Scritto mentre conduceva le ricerche preparatorie del romanzo, un saggio di Littell recentemente pubblicato in Francia, Le sec et l'humide, conferma tale idea del Solutore Finale come homo europeus più che germanico. «Breve incursione in territorio fascista» (così il sottotitolo), il saggio è dedicato alla figura del belga Léon Degrelle, giovane fondatore del rexismo e capofila dei collaborazionisti valloni. Al pari del fittizio Aue, il vero Degrelle combatté da graduato nell'inferno del fronte orientale, trovando il modo di uscirne vivo e di riciclarsi come imprenditore nel dopoguerra. Ma di là dalle coincidenze biografiche, il collabo di Bruxelles importa a Littell in quanto prototipo psicologico del fascista. Come Aue, Degrelle è un debole corazzato da forte, e un vigliacco addestrato da prode. L'integrità del suo corpo è tutto per lui: fuori da essa, non c'è che la rovina di un io abbandonato ai due princìpi distruttivi del «femminile» e del «liquido», esposto all'umido terrificante della vulva e della merda. Studiando personaggi storici come Degrelle, Littell ha messo a fuoco il tema autentico (e propriamente eschileo) delle Benevole: il tema degli umiliati che offendono. «Si può umiliare solo chi si lascia umiliare; e a sua volta, solo chi è umiliato umilia». Come i deboli, i cosiddetti forti sono minati dall'angoscia, dalla paura, dal dubbio. «Ma gli uni lo sanno e ne soffrono, mentre gli altri non se ne rendono conto e, per consolidare ulteriormente il muro che li protegge da quel vuoto senza fondo, si rivoltano contro i primi, la cui troppo evidente debolezza minaccia la loro fragile balzanza. Così i deboli minacciano i forti e li spingono alla violenza e all'omicidio che li colpiscono senza pietà. Ed è solo quando la violenza cieca e irresistibile colpisce a sua volta i più forti che il muro della loro certezza si incrina: solo allora scorgono ciò che li attende, e capiscono di essere finiti. Era quanto accadeva a tutti quegli uomini della 6a armata, così orgogliosi, così arroganti quando distruggevano le divisioni russe, spogliavano i civili, eliminavano i sospetti come si schiacciano delle mosche: adesso, era il lento montare della marea interiore a ucciderli, tanto quanto l'artiglieria e i cecchini sovietici, il freddo, le malattie e la fame. Montava anche in me, acre e puzzolente come quella merda dall'odore dolciastro che colava a fiotti dalle mie budella». Non si tratta qui di decidere se la lettura psicologica del fascismo offerta da Littell sia condivisibile o meno in sede storiografica. Discutere la verità delle Benevole rispetto alla seconda guerra mondiale sarebbe altrettanto vano che discutere, per dire, la verità dei Soldati di Salamina di Javier Cercas rispetto alla guerra civile spagnola. Ovviamente, dopo avere compitato sulla storia della Shoah e del fronte orientale, Littell si è preso tutta la libertà di immaginazione che è consentita al romanziere, mentre è vietata allo storico. Vale piuttosto la pena, qui, di rilevare una circostanza biografica che distingue l'autore delle Benevole da professori universitari splendidamente imprestati alla letteratura come Cercas o Mendelsohn: è la lunga esperienza di Littell allora operatore di un'organizzazione umanitaria su fronti di guerra tra i più accesi degli anni novanta. Concepito al sicuro di una qualche biblioteca francese o americana, leggendo Hilberg e traducendo Eschilo, il romanzo è cresciuto nella mente dell'autore tra i palazzi sventrati di Sarajevo e di Grozny, tra le rovine di una Bosnia violentata dai serbi e i fumi di una Cecenia bombardata dai russi. Attento critico di se stesso, Littell per primo ha spiegato a Nora come il progetto delle Benevole abbia preso forma compiuta nei suoi anni di lavoro umanitario, «perché l'ambito umanitario è l'interfaccia tra guerra e burocrazia»: «allora ho capito che la cosa più interessante della guerra non sono necessariamente i tipi che si sparano addosso». Nel romanzo, il dottor Aue non è un carnefice nell'accezione militare della parola; le sue mani si rivelano eventualmente lorde di sangue, familiare o amicale, ma quasi per nulla di sangue nemico, ebraico o ucraino o russo. Max Aue non è di quei tipi che si sparano addosso. E neppure lo è Mandelbrod, il misterioso e luciferino suo mentore. Il quale somiglia semmai al Nikola Koljevic che capitò a Littell di incontrare a Sarajevo, restandone folgorato. «Era un professore di lettere, lo specialista jugoslavo di Shakespeare, con un'enorme cultura»: ma era anche il feroce ideologo dei serbi di Bosnia. I mostri possono avere le mani pulite, possono saper leggere di greco e di latino, e la loro lingua madre non è necessariamente il tedesco. Ecco quanto Littell ha imparato tra l'ex Yugoslavia e la Cecenia, ed ecco si direbbe la ragione migliore per scrivere Le Benevole. Pure questo, in fondo, libro del testimone e del memore. Ma libro di un'altra testimonianza e di un'altra memoria rispetto a quelle dominanti nella sfera pubblica occidentale di fine Novecento, ossessivamente incentrate sull'unicità della Shoah: libro di testimonianza e di memoria su Srebrenica, su Kigali, su Kabul (altrettanti luoghi, il Ruanda e l'Afghanistan, dove Littell ha svolto lavoro umanitario). Non romanzo del «male assoluto», come la Shoah è stata stucchevolmente e inutilmente definita, ma romanzo del male storico, che in quanto tale può sempre ritornare. E che infatti è ritornato, nei terribili anni novanta durante i quali Littell visse l'«era del testimone» non dalle aule universitarie di Parigi o dai salotti buoni di New York, ma dagli accampamenti di Sarajevo e dai campi profughi di Goma. Così, le Eumenidi vendicano Lessing. Perché uno dei prezzi più alti che la coscienza ebraica del secondo Novecento abbia dovuto pagare alla tragedia della Shoah è stato il sacrificio delle parole con cui Nathan il Saggio personaggio-simbolo dei Lumi settecenteschi rispondeva alla domanda «Chi è lei?». «Sono un uomo», scandiva l'ebreo di Lessing, e intendeva: prima ancora che alla stirpe di David, io appartengo al genere umano. Dopo l'illuminismo e l'emancipazione ottocentesca, generazioni di israeliti della diaspora vollero riecheggiare Nathan il Saggio, finché il genocidio non ha indotto i sopravvissuti, loro malgrado, a rispondere alla domanda «Chi è lei?» come Hannah Arendt dopo il 1945: «Sono un'ebrea». Adesso, beneficiando della grazia di una nascita tardiva rispetto alla tirannia identitaria della Soluzione finale, Littell può parlare nuovamente la lingua di Lessing. E può scrivere Le Benevole per fare della Shoah, cioè del male nella storia, un problema «meno ebraico», «molto più universale»: «Il mio assioma di partenza è che si tratta di un problema umano. Lo affronto non come ebreo, ma come essere umano». Posto in questi termini, il tema eschileo delle Benevole quello degli umiliati che offendono acquista un massimo di intensità tragica, perché vieta alla coscienza ebraica di cullarsi nello stereotipo doloroso ma rassicurante degli ebrei vittime per antonomasia, sempre e comunque, da che mondo è mondo. E il tema acquista un massimo di valenza politica, perché allude all'eventualità che gli ebrei scampati al genocidio possano trasformarsi essi stessi nei carnefici di qualcun altro (in israeliani che massacrano palestinesi, ad esempio). Non che ciò sia scritto nero su bianco nel libro di Littell. Ma suggerito sì, con il gergo cinico di Thomas, l'amico-nemico di Max Aue: «A Kiev dicevi che uccidere gli ebrei era uno spreco. Ecco, appunto, sprecando le loro vite come si lancia il riso a un matrimonio, gli abbiamo insegnato a spendere, gli abbiamo insegnato la guerra. E la prova che funziona, che gli ebrei cominciano a capire la lezione, è Varsavia, sono Treblinka, Sobibór, Bialystok, sono gli ebrei che ridiventano guerrieri, che diventano crudeli, che diventano anche loro degli assassini». Sarebbe futile, tuttavia, voler scovare nelle Benevole chissà quale riferimento cifrato a Israele e al conflitto mediorientale: il libro è abbastanza scandaloso senza che si debba trovargli significati nascosti. L'essenza dello scandalo consiste nel muovere dallo specifico della Shoah per restituire il tema degli umiliati che offendono alla sua irrimediabile universalità, passata-presente-futura. Θ questo il senso dell'incipit del romanzo, entrato già nel canone della letteratura francese: «Frères humains, laissez-moi vous raconter comment ηa s'est passé. [...] Et puis ηa vous concerne: vous verrez bien que ηa vous concerne». Ed è questo stratagemmi artistici a parte il senso della scelta di raccontare la storia di Aue in prima persona. Le Benevole riflette la consapevolezza che nessuno di noi può andar certo della risposta alla domanda: «Io, in fin dei conti, cos'avrei fatto?». Nessuno di noi può andar certo che avrebbe preferito subire il torto piuttosto che infliggerlo. Anzi, i più pensosi tra noi possono sospettare il contrario. Come Jonathan Littell, che di Max Aue ha avuto il coraggio di dire: «Il personaggio l'ho costruito su di me».
(«Allegoria», luglio-dicembre 2008)
Jonathan Littell,
Le Benevole,
Einaudi, Torino 2007, pp. 953.
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