|
|
| << | < | > | >> |IndicePremessa 9 PARTE PRIMA LA MODERNITÀ DEL FASCISMO 15 Gian Burrasca va alla guerra 17 Il laboratorio del male 20 Scegliere la patria 23 I corpi obbedienti 26 Di qua dal Piave 29 Ragazzo del '99 32 Fascisti alla Gogol 35 La demente Dalser 39 Gigante tra i pigmei 42 Lo spazio littorio 46 Campagna acquisti di regime 50 Bugie dalle gambe lunghe 54 Il Corriere dell'Etiopia 56 La loro Africa 60 Orrori di stampa 63 PARTE SECONDA RESISTENZA SENZA RETORICA 69 La nascita della patria 72 Le talpe della libertà 74 Quando i figli educano i padri 77 «Per timore di rettorica» 80 (R)esistenze 83 Il contastorie 86 Lettere da via Tasso 97 Al bosco del Lupo 100 La seduttrice della Linea gotica 103 Mal di Pansa 105 Lo smemorato del Campiello 108 PARTE TERZA UNA MEMORIA DIFFICILE 121 Il sangue dei vincitori 124 Ragazzi del secolo scorso 126 I guardiani del faro 129 Con l'inchiostro verde 132 Fotoromanzi 135 Il bracciante carismatico 138 L'uccisione del chiaro di luna 141 Un bacio del duce 145 Né servi né sciocchi 149 La bottega delle bugie 152 Un comunista al Cottolengo 155 Calcio all'italiana 158 I partigiani e i pidocchi 161 Dimenticare Berlinguer 164 PARTE QUARTA IL PESO DEL PIOMBO 169 Cercando un perché 171 Alla festa della rivoluzione 174 Le tre narici di Calvino 180 Corpi speciali 182 R4 192 Un racconto a chiave 196 Terrorismo e manierismo 199 La notte più nera 201 Guerrieri della memoria? 205 Lo spettacolo dei carnefici 207 Grazia e Ingiustizia 209 Il pot-pourri della storia 213 Indice dei nomi 217 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Gli storici occupano una posizione singolare nello spazio pubblico italiano. Da un lato, vengono sollecitati a intervenire al di fuori del terreno accademico, per rispondere a una crescente domanda di riflessione e di pronunciamento sul tempo passato. Come in altri paesi dell'Occidente, così in Italia si chiede agli storici di contribuire a un «uso pubblico della storia» sempre più praticato, e praticato dalla politica oltreché dalla cultura e dai media. Entro un clima dove la storia tende ormai a finire in tribunale, riesce logico che gli storici vengano convocati alle udienze in qualità di periti: quand'anche a rischio di essere confusi con i giudici, nel momento in cui si trovano a cimentarsi con categorie o con pratiche extra-storiografiche come sono quelle della colpa e del danno, del divieto e dell'obbligo, dell'assoluzione e della condanna, del risarcimento e del perdono. Dall'altro lato, in Italia più che altrove gli storici devono fronteggiare una sorta di concorrenza sleale: la concorrenza di giornalisti, o comunque di opinions-makers che il sistema dell'informazione tende ad accreditare come ferrati in materia di storia, e che il pubblico è indotto a riconoscere come tali. Altrove, può capitare (raramente) che il libro di uno storico di mestiere conosca un inopinato successo di libreria, che diventi un bestseller. Da noi, capita fin troppo spesso che diventino bestseller libri dove la storia è trattata in un modo all'apparenza cordiale, in realtà dilettantesco: autorizzando nei lettori un sentimento di familiarità con il passato che andrebbe considerato, piuttosto, ignoranza aggravata di quel passato. Nell'Italia repubblicana, i libri "storici" di Indro Montanelli hanno fondato un genere che continua a prosperare, e a fare danni: per esempio, nella forma dei libri "storici" di Giampaolo Pansa o di Bruno Vespa. In una situazione del genere, io credo che gli storici di mestiere, se hanno l'opportunità di accedere al sistema dei media, devono svolgere un'azione - per così dire - di igiene culturale. Al pari di ogni altro mestiere, quello dello storico presuppone sia la padronanza di alcune tecniche di lavoro, sia il rispetto di una deontologia professionale: senza le quali non si ha storia, ma chiacchiera, e non si ha uso pubblico del passato, ma abuso. Un falso medico che abusi del titolo per esercitare la medicina è passibile di azione legale per millantato credito, e in ogni caso viene additato pubblicamente come un ciarlatano. Perché un falso storico che abusi del titolo per discettare sul passato dovrebbe meritare un trattamento differente? Se pure mancano alla magistratura gli strumenti per contestare al falso storico il millantato credito, perché far mancare al pubblico gli strumenti per riconoscere nel falso storico il ciarlatano? Naturalmente, a fare discorsi del genere si corre il pericolo di essere fraintesi. Si rischia di vedersi rimproverato un atteggiamento corporativo, da "ordine professionale" degli storici. Addirittura si rischia di cadere nel ridicolo, figurando sulla scena mediatica come patetici professorini con il dito alzato. Eppure sono rischi che vale la pena di correre, nello sforzo di rimediare ai guasti che il chiacchiericcio sopra la storia produce nel senso comune che abbiamo del nostro passato, dunque nella percezione che abbiamo di noi stessi. Del resto, l'operazione di igiene culturale alla quale gli storici di mestiere sono chiamati non comprende unicamente un lavoro in negativo, per smascherare i ciarlatani. Comprende anche un lavoro in positivo: per indicare i maestri. Che non sono gli storici "di sinistra", né quelli "di destra", né quelli "revisionisti" o "terzisti", ma sono, semplicemente, gli storici più capaci. Attirare l'attenzione del lettore non specialista sul merito di libri e di autori che ci aiutano davvero a capire da dove veniamo, chi siamo: il presente volume non si propone niente più e niente meno di questo. Raccoglie qualche decina di interventi che mi è occorso di pubblicare durante gli anni scorsi, principalmente sulle pagine culturali del «Corriere della Sera», e che hanno tutti per tema la storia d'Italia nel ventesimo secolo. Gli interventi sono raccolti in quattro sezioni, che seguono all'ingrosso un ordine cronologico - dal Novecento più remoto al Novecento più prossimo - e che individuano altrettanti snodi problematici della nostra vicenda collettiva: la peculiare modernità del Ventennio fascista, il traumatico valore della guerra civile combattuta in Italia dal 1943 al '45, la complicata eredità dell'esperienza resistenziale, il peso politico e civile dei cosiddetti «anni di piombo». | << | < | > | >> |Pagina 63Nei giorni scorsi, si è letta sui quotidiani una notizia per molti aspetti sorprendente a proposito dei rapporti fra l'amministrazione Bush e il mondo dei media. In seguito a un'inchiesta del «New York Times», i direttori dei telegiornali locali statunitensi hanno spiegato di ricevere da Washington - dal Pentagono, dal dipartimento di Stato, dal ministero della Giustizia - pacchetti preconfezionati di informazione televisiva, e hanno ammesso di mandarli in onda tali e quali, nonostante il loro carattere scopertamente filo-governativo. Risulta dunque che l'America profonda venga aggiornata sui risultati della politica di Bush attraverso immaginette edificanti quanto tendenziose: donne afghane liberate dal giogo talebano, bimbi iracheni che giocano con i soldati Usa, laboriosi contadini al lavoro nei campi del Midwest... Roba da Minculpop, saremmo tentati di dire noi italiani. E tanto più ne saremmo tentati dopo avere preso conoscenza dell'impressionante documentazione rinvenuta in archivio da Nicola Tranfaglia, che Einaudi manda ora in libreria sotto il titolo Ministri e giornalisti. La guerra e il Minculpop (1939-43). Non si tratta delle ben note «veline» che il ministero fascista della Cultura popolare distribuiva agli organi di informazione, sotto forma di «disposizioni» cui attenersi nella messa in pagina dell'una o dell'altra notizia. Qui, siamo di fronte al precedente logico e ideologico di quelle veline: i verbali delle riunioni periodiche fra il ministro della Cultura popolare Alessandro Pavolini e i direttori dei maggiori quotidiani nazionali, riunioni durante le quali il titolare del dicastero illustrava per filo e per segno le linee-guida della propaganda fascista. Roba da Minculpop? In realtà, la scoperta archivistica di Tranfaglia - varie centinaia di pagine finora sfuggite all'attenzione degli studiosi - deve indurci a guardare con maggiore attenzione storiografica (e, viceversa, con minore condiscendenza retrospettiva) all'operato del ministero della Cultura popolare durante gli ultimi anni del Ventennio fascista. Perché a dispetto del suo nome abbreviato, che indubbiamente si prestava all'ironia, il Minculpop fu tutt'altro che un'istituzione ridicola. Anzi, se vi fu un terreno sul quale il fascismo italiano seppe dimostrarsi all'avanguardia su scala mondiale, questo fu proprio il terreno della comunicazione politica di massa. A partire già dalla seconda metà degli anni venti, con la creazione dell'Istituto Luce, Benito Mussolini inventò nientemeno che il moderno giornalismo di Stato. Dieci anni dopo, il duce seppe riconoscere in Pavolini la personalità più adatta per fare del Minculpop qualcosa come il corrispettivo italiano del pervasivo ministero della Propaganda che Joseph Goebbels andava costruendo nella Germania nazista. In effetti, Pavolini non era soltanto un fascista tutto d'un pezzo, così fanatico e violento da trasformare le sue corrispondenze di giornalista-aviatore nella guerra d'Etiopia (dov'era stato per il «Corriere della Sera») in una sorta di elogio dello squadrismo globale. Pavolini era anche un raffinato intellettuale, che sapeva costruire oltreché distruggere: non si accontentava di reprimere il dissenso, si proponeva di guadagnare il consenso. Da qui l'enorme interesse di questi suoi «rapporti ai giornalisti» fra 1939 e '43, che contengono il palinsesto argomentativo della propaganda di regime dallo scoppio della seconda guerra mondiale alla caduta del fascismo. Nei nove mesi che intercorsero fra l'inizio del conflitto e l'entrata in guerra dell'Italia, il 10 giugno 1940, Pavolini propose ai direttori dei maggiori quotidiani una scommessa impossibile. Da un lato, bisognava mantenere un atteggiamento di «assoluta lealtà» nei confronti dell'alleato tedesco, la Germania di Hitler già impegnata nello scontro militare. Dall'altro lato, bisognava informare gli italiani «con assoluta obbiettività» intorno agli sviluppi delle vicende belliche. Il risultato fu la singolare miscela di ipocrisia e di attendibilità che effettivamente si ritrova nella nostra stampa fra 1939 e '40: a riflesso di una politica estera, quella di Mussolini, che fino all'ultimo scambiò la tragedia planetaria della guerra per un'italianissima commedia dell'arte. Quando poi - caduta la Francia sotto i colpi della «guerra lampo» tedesca - il duce si risolse all'intervento armato a fianco della Germania, il suo ministro della Cultura popolare non perse tempo, e trasformò le sedute di briefing della stampa quotidiana in altrettante occasioni di lavaggio del cervello nazionale. Nei rapporti ai giornalisti del biennio 1940-41, Pavolini versò per intero l'aggressività politica e il cinismo morale che facevano di lui un vero campione del fascismo. La tendenza di non pochi italiani a intenerirsi sul destino della Francia occupata dai tedeschi? Assurda nostalgia per il «grande porcaio» che era stata da sempre la cosiddettta civilisation transalpina. Le perplessità di alcuni commentatori italiani sugli stentati progressi militari del Regio Esercito in Grecia? Vigliaccate che andavano severamente punite, perché è nei tempi duri che «si distingue un uomo da una statua di merda». | << | < | > | >> |Pagina 86Bruno Vespa non si accontenta, con la trasmissione televisiva Porta a porta, di tenere semi-quotidiana compagnia ai nottambuli del Belpaese. Verso la fine di ogni anno, pensa bene di offrire a tutti gli italiani - ai dormiglioni come ai tiratardi - qualcosa come un libro-strenna da regalarsi a Natale. Così, per una manciata di euro i più devoti fra gli aficionados possono disporre, fra i variopinti pacchetti sotto l'albero, di una versione rilegata del brunovespismo. I titoli dei volumi firmati da Vespa fra il 1994 e il 2001, cioè fra il primo e il secondo governo Berlusconi, sono istruttivi in se stessi: bastano da soli a testimoniare - oltreché ovvie esigenze di richiamo commerciale - una certa maniera di pensare la storia dell'Italia contemporanea. Il cambio (1994), Il duello (1995), La svolta (1996), La sfida (1997), La corsa (1998), Dieci anni che hanno sconvolto l'Italia (1999), Scontro finale (2000), La scossa (2001): presi uno per uno, i titoli dei libri di Vespa scandiscono ogni volta un presunto momento epocale, quando non suggeriscono un'emergenza nazionale o addirittura una crisi rivoluzionaria. Presi in serie, viceversa, alludono alla consolante evidenza per cui più tutto cambia, più tutto è la stessa cosa... Se poi si guarda ai titoli delle ultime due strenne, la Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi (2004) e Vincitori e vinti (2005), si scopre come l'ambizione dell'autore non si limiti più alla volontà, propria di un giornalista, di raccontare il presente in un modo più disteso di quanto lo consenta la stampa quotidiana o periodica. Da un anno a questa parte, Bruno Vespa ha voluto aggiungere al proprio un secondo mestiere: si è messo in testa di parlare agli italiani da storico. E a giudicare dai numeri delle vendite, in molti gli hanno riconosciuto le carte in regola per farlo. La bandella di copertina dell'ultima fatica di Vespa è altrettanto parlante del suo titolo. In poche decine di righe, è dato a qualsiasi lettore raziocinante di sospettare non soltanto la penosa inconsistenza storiografica di Vincitori e vinti, ma anche la sua insidiosa valenza ideologica. L'inconsistenza storiografica: la bandella vanta come «poderosa» la documentazione su cui il libro sarebbe fondato; dietro verifica, si scopre come questa non consista in una fonte d'archivio che sia una, bensì in un centinaio di volumi indifferentemente di storia o di memoria, autorevoli o improbabili, di qualità o di paccottiglia. La valenza ideologica: fin dalla prima riga, la bandella propone la tesi pelosamente buonista secondo cui l'«odio è un fiume carsico»; cioè propina la bufala - di matrice berlusconiana - di una storia dell'Italia contemporanea come guerra civile permanente, dal fascismo alla Resistenza e dalla Resistenza ai giorni nostri. Quanto al sottotitolo del volume, Le stagioni dell'odio dalle leggi razziali a Prodi e Berlusconi, sfonda le porte del cattivo gusto per suggerire che la legislazione anti-ebraica del 1938 e l'attuale lotta politica della sinistra contro la destra facciano parte di un'unica vicenda, la storia degli italiani che odiano altri italiani. Non si rischia granché a prevedere che il destino dell'ultimo capolavoro somiglierà a quello dei volumi che l'hanno preceduto, nella collana Mondadori intitolata nientepopodimeno che «I libri di Bruno Vespa». Dopo avere scalato le classifiche dei titoli più venduti alla vigilia del Natale, Vincitori e vinti finirà rapidamente dimenticato, inscaffalato, inutile: dall'Epifania in poi, a nessun recensore (e probabilmente a nessun lettore) verrà più in mente di interrogarsi sul suo contenuto. Quanto agli storici di mestiere, ormai abituati a operazioni di uso pubblico del passato del genere di quelle care a Bruno Vespa o a Giampaolo Pansa - la guerra di liberazione come una carneficina altrettanto sanguinolenta che gratuita; gli eccidi perpetrati dai neri ampiamente compensati da quelli perpetrati dai rossi; il delitto Gentile contro il delitto Rosselli, i fratelli Covoni contro i fratelli Cervi, il «triangolo della morte» contro la Resistenza sulle montagne, eccetera -, pochi fra loro avranno il coraggio di prendere in mano Vincitori e vinti e di guardarci dentro, magari per riflettere intorno ai guasti morali e civili di una storia raccontata dai dilettanti. A partire dall'inverno 2006, nessuno più si ricorderà di quanto pure era sembrato, nell'autunno 2005, così importante da meritare al libro di Vespa «in uscita» i lanci delle agenzie e i titoloni dei giornali. Né qualcuno si prenderà la pena di denunciare il malcostume culturale di un paese dove le vicende della notra storia contemporanea, anche le più delicate, vengono trattate con la leggerezza dello scoop ferragostano di un rotocalco popolare. Un paese dove tutti, ma proprio tutti gli opinion-makers - i giornalisti bravi come gli scarsi, i politici progressisti come i reazionari, gli intellettuali a ricarica come quelli a gettone - si sentono in diritto e quasi in dovere di commentare le «anticipazioni» su quello che Berlusconi ha detto a Vespa sui caduti di Nassiriya, o su quello che D'Alema ha detto a Vespa su piazzale Loreto. Un paese cioè dove non solo gli ignoranti, ma anche i colti riconoscono al giornalista Bruno Vespa le carte in regola per esercitare il suo nuovo mestiere, a cui nulla lo ha preparato e in cui è totalmente incapace: il mestiere di storico. Durante l'inverno del 2005, almeno un lettore della Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi ebbe ragione di non dimenticare il libro-strenna di Vespa nel breve volgere di qualche settimana. Questo lettore era un personaggio del libro stesso, menzionato dall'autore alle pagine 21 e 22. Era un ex combattente della Resistenza, gappista a Roma e poi partigiano in montagna, due volte decorato al valore militare, comunista allora e per il resto della sua vita. Questo lettore era — è — Rosario Bentivegna. Nei libri di storia, Bentivegna figura soprattutto per avere fatto parte del commando che il 23 marzo 1944 pose una bomba in via Rasella, uccidendo al passaggio trentatre militari delle forze d'occupazione germaniche: l'attentato cui seguì, l'indomani, la strage nazifascista delle Fosse Ardeatine. Sorpreso, deluso, indignato di riconoscere nelle due paginette di Vespa tutti (o quasi tutti) i luoghi comuni che per sessant'anni hanno alimentato una leggenda nera dell'attentato di via Rasella, alla vigilia di Natale del 2004 Bentivegna scrisse all'autore della Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi, per chiedergli di rettificare una presentazione degli eventi che l'ex partigiano giudicava inesatta, oltreché lesiva della sua reputazione. Da qui l'intrecciarsi di una corrispondenza privata che, con il consenso di Vespa, Bentivegna ha deciso ora di rendere pubblica. Il gappista contro l'anchorman: davanti a questi due personaggi, lo storico di mestiere è chiamato a svestire - almeno in prima battuta - i panni di cittadino della Repubblica, che può avere le sue buone ragioni per preferire il più vecchio al più giovane, il più oscuro al più famoso, il più genuino al più sfuggente. Inoltre, lo storico deve rifuggire dalla tentazione di considerare il partigiano più attendibile del giornalista per il solo fatto che l'uno c'era, in via Rasella, mentre l'altro non sarebbe venuto al mondo che due mesi dopo: deve ricordarsi che la memoria può ingannare non meno di certa storia. In ogni caso, prima ancora di essersi tolto la maschera (dicendo chiaro e tondo che il suo cuore di cittadino batte per il gappista molto più per l'anchorman], lo storico di mestiere ha il dovere di sottolineare l'impressionante pochezza di Bruno Vespa "storico" di via Rasella e delle Fosse Ardeatine. E ha il dovere di riconoscere, viceversa, la sorprendente lucidità di Rosario Bentivegna come "storico" di se stesso. Nella dozzina di lettere che si sono scambiati fra il dicembre 2004 e il giugno 2005, i due corrispondenti mettono in scena un pirandelliano gioco delle parti, ma invertito di segno e di senso. Il Personaggio cerca di sottrarsi alla propria soggettività, si sforza di ricostruire gli eventi romani del 23-24 marzo 1944 in una maniera che vorrebbe essere obiettiva; l'Autore cerca di ricacciarlo indietro, vuole rinchiuderlo nella gabbia del passato con argomenti che pertengono alla memoria, alla politica, alla morale, a tutto fuorché alla storia. Ne risulta un dialogo fra sordi. E non già per motivi banalmente generazionali, né per cause esclusivamente ideologiche. Il dialogo è fra sordi per motivi propriamente epistemologici: perché i due corrispondenti non condividono un'idea comune di che cosa significhi ricostruire il passato. L'uno, Bentivegna, prova a farlo con gli strumenti della storiografia, e spesso ci riesce; l'altro, Vespa, finge di volerlo fare, e non ci riesce mai. | << | < | > | >> |Pagina 105Dal punto di vista narrativo, l'ultimo libro di Giampaolo Pansa, La grande bugia, non ha nulla di nuovo rispetto ai precedenti che il giornalista ha dedicato alla storia della Resistenza e della Liberazione. Si fonda sul consueto sotterfugio della finzione dialogica (qui, una certa Emma pone domande, Pansa risponde): secondo una formula stilisticamente così pedestre che riesce quasi imbarazzante vederla riproposta con tanta costanza. È lo stile del catechismo. Il laico Pansa l'ha ereditato da una tradizione cattolica che i suoi lettori mostrano di apprezzare, evidentemente senza provare fastidio nell'essere trattati come bambini. Dal punto di vista dei contenuti, il libro ripete cose che si sanno. Che sono state dette e ridette, scritte e riscritte, interpretate e reinterpretate - con ben maggiore sottigliezza rispetto a quella di Pansa - da tutti i migliori studiosi della guerra civile e dell'immediato dopoguerra. Cose che non stanno nascoste in introvabili monografìe accademiche, ma in libri che basta cercare per trovare: quelli di Mirco Dondi, Guido Crainz, Santo Peli, Massimo Storchi, pubblicati dalle più note case editrici italiane. Se i recensori entusiasti di Pansa non li conoscono, questo è un problema relativo alla loro ignoranza, non ai limiti culturali della storiografìa ch'essi definiscono «di sinistra» (come se davvero esistessero una storia di sinistra e una di destra, e non una storia fatta bene e una storia fatta male). Più che entrare nel merito dell'ovvio, vale dunque la pena domandarsi perché Pansa sia il fenomeno editoriale che è. Ogni paio d'anni, quattro o cinquecento pagine sostanzialmente intercambiabili (si intitolino Il sangue dei vinti, Sconosciuto 1945, La grande bugia), che raccontano sempre la stessa vicenda: nefandezze partigiane e post-partigiane, corrività della sinistra intellettuale, eroismo del Nostro nello sbugiardare i suoi propri amici. Perché queste tonnellate di carta copiativa trovano ogni volta un ampio pubblico di lettori, o quanto meno un ampio mercato di acquirenti? Una prima risposta, fin troppo evidente, attiene alle forme della comunicazione culturale. Per un insieme di ragioni che hanno a che fare sia con il prestigio di Pansa giornalista, sia con la cassa di risonanza che gli viene offerta dai media, Pansa raggiunge il grande pubblico, gli storici di mestiere non ci riescono. Senza conoscere studi al riguardo, si può ipotizzare che il profilo merceologico del cliente di Pansa coincida con quello del cliente dei volumi di storia di Bruno Vespa (un giornalista che pure, in confronto a Pansa, torreggia come un gigante della storiografia). È un cliente che non sa distinguere fra chi ha credito scientifico e chi non ce l'ha, e per il quale il gesto di comprare un libro prolunga il gesto di fare zapping sul telecomando. Una seconda risposta, meno scontata, attiene a quanto resta delle ideologie. Fra gli aficionados di Pansa, un nocciolo duro, in via di estinzione per fatali ragioni anagrafiche, è dato dagli ex del Fascio e di Salò: che si bevono l'autore attraverso il teleschermo, se lo coccolano nelle presentazioni pubbliche, inneggiano a lui nelle lettere ai giornali, perché riconoscono nelle sue accuse contro il movimento partigiano e contro i delitti dei «comunisti» una forma di risarcimento per le loro scelte di sessant'anni fa. Perché sentono (non a torto) che l'attuale trionfo di Pansa equivale a una insperata rivincita dei vinti. Un'altra fetta importante di aficionados è data dai lettori più giovani: spesso ideologicamente agnostici, ma tendenzialmente sospettosi della cosiddetta vulgata resistenziale. Questi ultimi comprano il personaggio più che il libro: il Grande Sbugiardatore più che la Grande Bugia. Di là dall'anagrafe, il lettore di Pansa è probabilmente lo stesso che tiene in casa i libri di storia di un altro giornalista di razza, Indro Montanelli. La audience giampaolopansista corrisponde al ventre molle di un'Italia anti-antifascista prima ancora che anticomunista. Un paese felice di vedere i resistenti messi alla berlina della storia o, peggio, alla ghigliottina della morale. Un paese felice di scoprire che i propri padri o i propri nonni, che nulla avevano fatto durante la guerra civile, non valevano meno di coloro che si erano vantati di avere liberato la penisola, mentre avevano versato dovunque sangue innocente. Un paese felice di assistere alla gogna collettiva dei «comunisti» di allora e degli «antifascisti autoritari» di oggidì, in un grandguignolesco spettacolo dove tutti i nemici del Nostro grondano violenza e vergogna, dai più mitici capi partigiani ai più oscuri docenti universitari. Un paese felice di sentirsi ignorante, e di farsi illuminare dal Robin Hood di Casale Monferrato. L'Italia innamorata di Pansa è una morosa che non fa invidia. Naturalmente, è vero che la Resistenza ha avuto i suoi lati oscuri. È vero che la Liberazione ha avuto le sue pagine nere. È vero che il Pci ha avuto le sue doppiezze. Ma appunto, queste sono cose che gli storici seri sono venuti studiando e scrivendo da almeno quindici anni. È per merito loro, non certo per merito di Pansa e del circuito mediatico dei suoi ammiratori, che noi possiamo coltivare adesso un'idea antiretorica della Resistenza. E che ci possiamo sentire tanto più debitori verso chi la Resistenza ha avuto il coraggio di fare, vincendo l'ignavia e consegnandoci un'Italia libera. («Corriere della Sera», 20 ottobre 2006) | << | < | > | >> |Pagina 180Un trinariciuto con gli occhiali del saggio, Italo Calvino? Un colto, ma pappagallesco ripetitore dei luoghi comuni della cultura di sinistra, incapace di riconoscere altro - nella vita violenta dell'Italia anni settanta - che improbabili fantasmi della storia? Tale Calvino poté sembrare a Pier Paolo Pasolini quando, nell'autunno del 1975 entrambi si trovarono a commentare il delitto romano del Circeo. E Pasolini accusò Calvino per avere voluto vedere, nella carneficina perpetrata da Angelo Izzo e dai suoi complici, soltanto quanto corrispondeva ai clichés dell'antifascismo più vieto: la vocazione corruttrice della morale borghese, il nesso obbligato tra criminalità sessuale e criminalità politica, l'inesauribile malignità del binomio clerico-fascista. Benissimo ha fatto Pierluigi Battista, sul «Corriere» di ieri, a evocare questa lontana polemica fra due pesi massimi del nostro Novecento: polemica tanto più carica di implicazioni in quanto la «lettera luterana» di Pasolini a Calvino precedette di soli tre giorni la morte violenta di Pasolini stesso per mano di un balordo di borgata. Senonché la maniera in cui Battista ha presentato la vicenda rischia di peccare per manicheismo, rendendo a Pasolini un eccesso di meriti, a Calvino un eccesso di colpe. Il rischio è di aderire con tanto slancio al furore pasoliniano da ridurre il ragionare calviniano appunto a sillogismo da trinariciuti, come in un'involontaria parodia di Guareschi. Le cose erano più complicate di così. E lo avrebbero dimostrato, subito dopo la tragica fine di Pasolini, altri due interventi pubblici di Calvino, dalle colonne del «Corriere della Sera». L'uno era una replica alle denunce pasoliniane intorno ai clichés dell'antifascismo, e pesava di tutta la gravita che poteva avere la lettera aperta a un uomo assassinato. L'altro intervento era una recensione al film di Pasolini uscito proprio allora nelle sale cinematografiche, Salò o le centoventi giornate li Sodoma. Lungi dall'illustrare l'aderenza di Calvino ai luoghi comuni di una vulgata vetero-comunista, la sua Ultima lettera a Pier Paolo Pasolini ne locumenta l'onestà intellettuale. Perché se pure Calvino persisteva nel rigettare (come tanta parte della sinistra culturale di quegli anni, et pour cause) il passatismo dell'ultimo Pasolini, la contemplazione tanto estatica quanto sterile del perduto universo delle «lucciole», nondimeno egli riconosceva come il mondo moderno soffrisse di patologie ben poco decifrabili con gli strumenti diagnostici della sinistra tradizionale. Non soltanto - ammetteva Calvino - i fascisti erano diventati fisicamente indistinguibili dagli antifascisti, né soltanto i borghesi erano divenuti moralmente indistinguibili dai proletari. La confusione dei segni era molto più grave, il disorientamento ideale molto più profondo. Davvero, un po' tutte «le certezze laiche, razionali, democratiche, progressiste» andavano vacillando o addirittura crollando. Quanto all'intervento di Calvino sul Salò di Pasolini, proponeva addirittura qualcosa come una postuma inversione dei ruoli: era lo scrittore ligure che aveva buon gioco nel rimproverare al cineasta friulano il carattere striminzito e deludente del suo discorso storico-politico. Infatti, che cosa poteva mai esservi di più orecchiatamente marxista - e di più ritualisticamente antifascista - che il microcosmo saloino di Pasolini, una rappresentazione metaforica della violenza pubblica e privata in cui i carnefici sono tutti signorotti perversi, le vittime sono i loro poveri vassalli? Il Pasolini e il Calvino dell'autunno 1975 non vanno meccanicamente contrapposti, l' enfant terrible del libero pensiero contro il mascherato portavoce di un pensiero unico. Del resto, Calvino per primo si accorse di avere impiegato, nella propria critica al Salò, i medesimi argomenti che Pasolini aveva usato contro di lui nella polemica sul delitto del Circeo: l'irriducibilità della violenza degli anni settanta a certe etichette politiche o sociali, l'inservibilità del codice antifascista per la decrittazione delle dinamiche messe in moto anche in Italia dalla terza rivoluzione industriale. Ciascuno alla sua maniera, sia Pasolini che Calvino si arrovellavano intorno a un fenomeno più o meno conclamato, ma comunque epocale: la crisi dell'antifascismo. Con buona pace di Battista, sembra proprio di poter dire che l'immagine di Italo Calvino esce tutt'altro che diminuita da una rilettura di questi testi memorabili. Per averne una prova, basti riportare qui poche righe della sua recensione al Salò: «Nel film c'è un senso di colpa diffuso, generale, lirico, divenuto sostanza del mondo. Non c'è la domanda su quale parte abbiamo noi stessi nel sistema, il desiderio di vedere chiaramente dove siamo e perché, l'esame delle nostre responsabilità». Se i trinariciuti sanno esprimersi così, tanto di cappello a chi ha tre narici.
(«Corriere della Sera», 4 maggio 2005)
|