Autore Amin Maalouf
Titolo Il naufragio delle civiltà
EdizioneLa nave di Teseo, Milano, 2019, i Fari 55 , pag. 352, cop.rig.sov., dim. 15x21,4x3 cm , Isbn 978-88-9344-927-4
OriginaleLe naufrage des civilisations
EdizioneGrasset & Fasquelle, Paris, 2019
TraduttoreAnna Maria Lorusso
LettoreGiorgia Pezzali, 2019
Classe storia contemporanea , storia sociale , paesi: Egitto , paesi: Iran , paesi: Israele












 

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Indice


      Prologo                                  11


I.    Un paradiso in fiamme                    23

II.   Di popoli in perdizione                  93

III.  L'anno del grande capovolgimento        175

IV.   Un mondo che si disgrega                255


      Epilogo                                 339



 

 

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Pagina 11

Prologo


                        Ciò che riserva l'avvenire, solo gli dei lo conoscono,
                        loro solo sono possessori di tutte le luci.
                        Gli uomini saggi non percepiscono dell'avvenire che
                        ciò che è imminente. A volte quando sono
                        completamente immersi nei loro studi,
                        i loro sensi si mettono in guardia. A loro sale
                        l'appello segreto degli eventi che stanno per accadere,
                        e lo ascoltano con raccoglimento...

                                       Konstantinos Kavafis (1863-1933), Poèmes



Sono nato in buona salute tra le braccia di una civiltà morente, e per tutta la vita mi sono sentito come un sopravvissuto, senza merito o colpa, mentre tante cose intorno a me scivolavano nel caos; come quei personaggi cinematografici che passano attraverso strade dove crollano tutti i muri, eppure ne escono indenni, scuotendo la polvere dai propri vestiti, mentre dietro di loro la città intera è solo un mucchio di macerie.

Questo è stato il mio triste privilegio, fin dal mio primo respiro. Ma è anche, senza dubbio, una caratteristica della nostra epoca, se la confrontiamo con quelle che l'hanno preceduta. Nel passato, gli uomini avevano la sensazione di essere effimeri in un mondo immutabile; le persone vivevano nelle terre in cui avevano vissuto i loro genitori, lavoravano come loro avevano lavorato, si curavano come loro si erano curati, si istruivano come loro si erano istruiti, pregavano allo stesso modo, si muovevano con gli stessi mezzi. I miei quattro nonni e tutti i loro antenati da dodici generazioni sono nati tutti sotto la stessa dinastia ottomana, come avrebbero potuto non pensare che fosse eterna?

"A memoria di rosa, non si è mai visto morire un giardiniere," sospiravano i filosofi francesi dell'Illuminismo pensando all'ordine sociale e alla monarchia del loro paese. Oggi, quelle rose pensanti che siamo noi vivono sempre più a lungo, mentre i giardinieri muoiono. Nell'arco di una vita, abbiamo tempo per assistere alla scomparsa di paesi, imperi, popoli, lingue, civiltà.

L'umanità sta cambiando sotto ai nostri occhi. Mai la sua avventura è stata tanto promettente, né così pericolosa. Per lo storico, lo spettacolo del mondo è affascinante. Ma deve comunque fare i conti con la sofferenza dei suoi simili e con le sue personali preoccupazioni.


Sono nato nell'universo levantino. Ma esso è talmente dimenticato al giorno d'oggi che la maggior parte dei miei contemporanei forse non sa più neanche a cosa mi riferisca. È vero che non è mai esistita una nazione con questo nome. Quando qualche libro parla del Levante, la sua storia rimane imprecisa, e la sua geografia mobile: per lo più solo un arcipelago di città mercantili, spesso costiere, ma non sempre, da Alessandria a Beirut, Tripoli, Aleppo o Smirne, e da Baghdad a Mosul, Costantinopoli, Salonicco, Odessa o Sarajevo.

Nel mio uso, questo termine obsoleto - "levantino" - si riferisce all'insieme dei luoghi dove le antiche culture dell'Oriente mediterraneo hanno frequentato quelle più giovani dell'Occidente. Dalla loro intimità stava quasi per nascere, per tutti gli uomini, un avvenire diverso.

Tornerò più in dettaglio su questo appuntamento mancato, ma devo dire una parola su di esso fin da ora per chiarire il mio pensiero: se i cittadini delle diverse nazioni e i seguaci delle religioni monoteistiche avessero continuato a vivere insieme in questa parte del mondo e fossero riusciti ad accordare i loro destini, l'intera umanità avrebbe avuto davanti a sé, a ispirazione e illuminazione del suo cammino, un modello eloquente di convivenza armoniosa e prosperità. Purtroppo, è accaduto il contrario, ha prevalso il disprezzo ed è stata l'incapacità di vivere insieme a diventare la regola.

Le luci del Levante si sono spente. E l'oscurità si è diffusa in tutto il pianeta. E, dal mio punto di vista, non è una semplice coincidenza.


L'ideale levantino, per come i miei lo hanno vissuto, e tale quale io ho sempre voluto viverlo, richiede che ciascuno si assuma tutte le sue appartenenze, e un po' anche quelle altrui. Come ogni ideale, aspiriamo a esso senza mai raggiungerlo completamente, ma l'aspirazione stessa è salutare, indica la strada da seguire, il sentiero della ragione, la via del futuro. Arriverò persino a dire che è questa aspirazione a segnare, per la società umana, il passaggio dalla barbarie alla civiltà.

Durante tutta la mia infanzia, ho osservato la gioia e l'orgoglio dei miei genitori quando menzionavano amici o parenti appartenenti ad altre religioni o ad altri paesi. Era solo un'intonazione nella loro voce, a malapena percepibile. Ma un messaggio passava: un'indicazione di indirizzo, direi oggi.

A quel tempo, la cosa mi sembrava normale, non ci facevo neanche caso, ero convinto che tutto ciò avvenisse sotto tutti i cieli. È stato solo molto più tardi che ho capito quanto tale prossimità tra comunità diverse che regnava nell'universo della mia infanzia fosse rara. E quanto fosse fragile. Ben presto nella vita l'avrei vista sbiadirsi, degradarsi, poi svanire, lasciandosi alle spalle solo nostalgia e ombre.


Ho avuto ragione a dire che l'oscurità si è diffusa sul mondo quando le luci del Levante si sono spente? Non è incongruo parlare di oscurità quando, come sappiamo tutti, io e i miei contemporanei stiamo assistendo al più spettacolare progresso tecnologico di ogni tempo? Quando abbiamo a portata di mano, come mai prima, tutta la conoscenza umana; quando i nostri simili vivono sempre più a lungo, e con una salute migliore rispetto al passato; quando così tanti paesi del vecchio Terzo mondo, a cominciare dalla Cina e dall'India, finalmente sono usciti dal sottosviluppo?

È proprio qui il desolante paradosso di questo secolo: per la prima volta nella storia, abbiamo i mezzi per liberare la specie umana da tutte le piaghe che l'assalgono, per condurla serenamente verso un'era di libertà, di progresso senza macchia, di solidarietà planetaria e opulenza condivisa; ed eccoci qui, invece, lanciati a tutta velocità sul percorso opposto.


* * *


Non sono una di quelle persone cui piace credere sempre che "prima era meglio". Le scoperte scientifiche mi affascinano, la liberazione delle menti e dei corpi mi incanta, e considero un privilegio il fatto di vivere in un'epoca inventiva e sfrenata come la nostra. Tuttavia, negli ultimi anni sto vedendo delle derive sempre più preoccupanti che minacciano di distruggere tutto ciò che la nostra specie ha costruito finora, tutto ciò di cui siamo stati legittimamente orgogliosi, tutto ciò che siamo abituati a chiamare "civiltà".

Come siamo arrivati a questo punto? È la domanda che mi faccio ogni volta che mi trovo ad affrontare le sinistre convulsioni di questo secolo. Cos'è che è andato storto? Quali sono le strade che non avremmo dovuto prendere? Avremmo potuto evitarle? E oggi, è ancora possibile raddrizzare la barra?

Se ricorro a un vocabolario marinaresco è perché l'immagine che mi ossessiona da alcuni anni è quella di un naufragio - un moderno e scintillante transatlantico, sicuro di sé e considerato inaffondabile come il Titanic, che trasporta una folla di passeggeri provenienti da tutti i paesi e che avanza col gran pavese verso la sua rovina.

Devo aggiungere che non è solo da spettatore che ne osservo la traiettoria? Io ci sono a bordo, con tutti i miei contemporanei. Con le persone che amo di più, e quelle che non mi piacciono molto. Con tutto quello che ho costruito, o credo di aver costruito. Senza dubbio mi sforzerò, in questo libro, di mantenere il tono più pacato possibile. Però devo dire che è con spavento che vedo le montagne di ghiaccio avvicinarsi a noi. Ed è con fervore che prego il Cielo, a modo mio, affinché riusciamo a evitarle.

Il naufragio è, ovviamente, solo una metafora. Inevitabilmente soggettiva, necessariamente approssimativa. Si potrebbero trovare molte altre immagini capaci di descrivere gli alti e i bassi di questo secolo. Ma è questa quella che mi ossessiona. Non passa giorno, in questi ultimi tempi, senza che mi venga in mente.

Spesso, troppo spesso, purtroppo, è il mio paese natale a farmi pensare a questa immagine. Tutti questi posti di cui mi piace pronunciare gli antichi nomi - Assiria, Ninive, Babilonia, Mesopotamia, Emissa, Palmira, Tripolitania, Cirenaica, o il regno di Saba, un tempo noto come "Arabia Felix"... Le loro popolazioni, eredi delle più antiche civiltà, fuggono su delle zattere proprio come dopo un naufragio.

A volte è in gioco il riscaldamento globale. I giganteschi ghiacciai che continuano a sciogliersi, l'oceano Artico che, durante i mesi estivi, diventa nuovamente navigabile, per la prima volta in migliaia di anni; gli enormi blocchi che si staccano dall'Antartide; i paesi insulari del Pacifico preoccupati dalla prospettiva di ritrovarsi presto sommersi... Ci saranno davvero nei prossimi decenni dei naufragi apocalittici?

Altre volte l'immagine è meno concreta, meno toccante umanamente, più simbolica. Così, quando si guarda a Washington, capitale della prima potenza mondiale, quella che dovrebbe dare l'esempio di una democrazia adulta e dovrebbe esercitare sul resto del pianeta un'autorità quasi paterna, non si pensa forse a un naufragio? Nessuna imbarcazione di fortuna fluttua sul Potomac ma, in un certo senso, è la cabina di pilotaggio del vascello umano che è inondata, ed è l'umanità intera che sta andando incontro al naufragio.

Altre volte ancora si tratta dell'Europa. Il suo sogno di unione è stato, a mio avviso, uno dei più promettenti dei nostri tempi. Che fine ha fatto? Come abbiamo potuto lasciare che sprofondasse in questo modo? Quando la Gran Bretagna ha deciso di lasciare l'Unione, i leader del mondo si sono affrettati a minimizzare l'accaduto, promettendo iniziative coraggiose tra i membri rimanenti per riavviare il progetto. Spero con tutto il cuore che ci riusciranno. Nel frattempo, non posso che sussurrare di nuovo: "Che naufragio!"

Lunga è la lista di tutto ciò che, ancora fino a ieri, riusciva a far sognare gli uomini, a elevare le loro menti, a mobilizzare le loro energie, e che ha ormai perso la sua forza di attrazione. Questa "smonetizzazione" degli ideali, che non smette di espandersi, e che riguarda tutti i sistemi, non mi sembra offensivo equipararla a un naufragio morale generalizzato. Mentre l'utopia comunista sprofonda negli abissi, il trionfo del capitalismo è accompagnato da un'oscena esplosione di disuguaglianza. Cosa che forse ha, economicamente, la sua ragion d'essere; ma a livello umano, a livello etico, e senza dubbio anche sul piano politico, è innegabilmente un naufragio.

Questi esempi sono eloquenti? Non abbastanza, secondo me. Spiegano certamente il titolo che ho scelto, ma non permettono ancora di comprendere l'essenziale. Ovvero che si è messo in moto un ingranaggio che nessuno ha volutamente innescato, ma verso il quale tutti siamo condotti di forza, e che minaccia di annientare le nostre civiltà.


Evocando la turbolenza che ha guidato il mondo sulla soglia di questo disastro, dovrò spesso dire "io", "me" e "noi". Avrei preferito non dover parlare in prima persona, specialmente nelle pagine di un libro che si preoccupa dell'avventura umana. Ma come avrei potuto fare altrimenti essendo io, fin dall'inizio della mia vita, un testimone vicino agli sconvolgimenti di cui mi appresto a parlare; quando il "mio" universo levantino è stato il primo ad affondare; quando la "mia" nazione araba è stata quella la cui angoscia suicida ha portato l'intero pianeta in un ingranaggio distruttivo?

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Pagina 50

A volte penso che ci dovrebbe essere, in un museo dedicato alla storia universale, uno spazio chiamato "il Pantheon di Giano". Andrebbero lì, sotto la tutela emblematica della divinità bifronte, personalità di alta statura che hanno giocato un ruolo storico degno di ammirazione, ma anche, e a volte allo stesso tempo, un ruolo detestabile, persino distruttivo. Due dei grandi uomini che ho già menzionato in queste pagine meriterebbero un posto di rilievo in questo Pantheon: Nasser e Churchill.

Per quanto riguarda il rais, avrò l'opportunità di citare, nelle prossime pagine di questo libro, alcune sue prese di posizione che me lo rendono caro e fanno sì che la sua prematura scomparsa susciti in me, come in molte persone arabe, nostalgia; ma è stato anche innegabilmente una delle persone che hanno affossato il Levante che amavo. Senza attardarmi troppo a lungo qui sulle ragioni di questa ambivalenza, direi che l'uomo è cresciuto, come molti altri della sua generazione, nel risentimento verso la dominazione straniera, e ha mobilitato le sue energie per porre fine a tutto questo, senza che nessuno si rendesse conto che demolendola rimuoveva anche uno stile di vita ormai assestato, che avrebbe potuto essere, con alcuni aggiustamenti, un fattore insostituibile per il progresso e la modernizzazione.


Riguardo a Churchill, ovviamente non ho bisogno di grandi discorsi per dimostrare quanto la sua lotta ostinata al nazismo sia stata preziosa. Senza la sua energia, la sua determinazione, la sua abilità, l'Inghilterra avrebbe forse rinunciato a battersi, l'America non sarebbe entrata in guerra e una lunga notte sarebbe caduta sul mondo. Per parafrasare una delle sue formule, "mai così tante persone sono state così in debito" verso un solo uomo.

Tuttavia, se guardiamo alla sua azione nel mondo arabo-musulmano, scopriamo un altro volto. La sua leggendaria ostinazione, ammirevole contro Hitler, non fu affatto tale contro il coraggioso Mustafā al-Nahhās - un patriota moderato, un patrizio occidentalizzato, un audace modernizzatore, che era arrivato al punto di affidare a un uomo illuminato come Taha Hussein il ministero dell'Educazione.

Va da sé che l'obiettivo di Churchill non era quello di chiudere la strada a uno sviluppo pacifico e armonioso dell'Egitto. Voleva solo preservare, a ogni costo, gli interessi della Corona britannica, senza preoccuparsi degli effetti collaterali che sarebbero derivati dalle sue azioni. Ma le conseguenze sono state devastanti. Senza la strage del 25 gennaio 1952, che Churchill aveva, se non ordinato, almeno autorizzato, sarebbe forse prevalsa un'altra forma di patriottismo e l'avvenire dell'Egitto, così come dell'intero mondo arabo, avrebbe potuto seguire un percorso completamente diverso.

La responsabilità di questo grande uomo è ancora più evidente in un altro caso, quello dell'Iran. Churchill in persona ha lavorato energicamente per far cadere il governo di Mossadeq, un democratico modernizzatore la cui unica colpa era stata quella di rivendicare per il suo popolo una quota maggiore dei ricavi petroliferi. Sappiamo oggi, documenti alla mano, che è stato il primo ministro britannico ad andare a Washington a fare lobbying, per convincere gli americani a organizzare un colpo di stato a Teheran nel 1953.

Così, attraverso la sua azione in Egitto, Churchill ha favorito l'emergere del nazionalismo arabo nella sua versione autoritaria e xenofoba; e con la sua azione in Iran, ha aperto la strada all'islamismo khomeinista. Senza intenzione, presumo, in entrambi i casi...

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Pagina 65

Mi sono soffermato sul caso siriano, che è quello che più colpisce; ma il fenomeno era molto più ampio, e più antico. Il Libano ha a lungo giocato il ruolo di terra d'asilo per "gli indesiderati" del Medio Oriente. Un po' come era stato l'Egitto fino agli anni quaranta. Questa analogia può dare all'osservatore tardivo una falsa impressione di somiglianza tra i due modelli levantini. In realtà, non riposavano sulle stesse basi.

Il cosmopolitismo all'egiziana derivava dalla lunga tradizione degli "scali commerciali", spazi in cui i cittadini europei godevano della protezione dei consoli delle potenze coloniali, in virtù di trattati iniqui imposti in passato all'"uomo malato" ottomano. Senza dubbio il contesto politico ora non era più lo stesso, ma alcune pratiche persistevano. Se un italiano che viveva in Egitto uccideva il suo vicino, poteva chiedere di essere processato in Italia, e le autorità locali non avevano il diritto di opporvisi.

Non ho preso questo esempio a caso, mi è stato ispirato da un evento che aveva fatto scalpore al tempo dei miei nonni. Nel marzo 1927, Salomon Cicurel, il principale proprietario dei negozi che portano questo stesso nome, è stato assassinato con otto coltellate nella sua villa del Cairo. La polizia non ha avuto problemi a risalire agli assassini: il suo autista, un ex dipendente che aveva licenziato e due complici. Dei quattro criminali, due erano di nazionalità italiana, e gli inquirenti furono obbligati a consegnarli alle autorità del loro paese senza poterli giudicare; un terzo era greco e si dovette consegnare alla Grecia; solo il quarto, un certo Dario Jacoel, che i documenti del tempo designano come "ebreo apolide", fu processato e condannato. Sosteneva anche lui di essere italiano, e pure membro del partito fascista, ma non poteva provarlo. Fu indicato come "l'anima della cospirazione", mentre era chiaramente solo una comparsa, e fu debitamente impiccato.

La cosa fece scalpore. Alcuni noti intellettuali egiziani impugnarono la penna per denunciare una situazione aberrante che poneva i cittadini stranieri al di sopra della legge, dando a ciascuno di loro una specie di immunità diplomatica, per non dire una garanzia di impunità.

Questi privilegi abusivi suscitarono sia appetiti che risentimenti. Alcune categorie della popolazione cercavano di avvicinarsi agli occidentali per godere degli stessi benefici. Ma la maggior parte degli autoctoni vedeva nello status di straniero un insulto all'indipendenza del paese e alla sua dignità. Il fuoco del Cairo non fu forse una spia dell'immensa rabbia che stava fermentando? Molte altre esplosioni si sarebbero verificate nel corso degli anni in diversi paesi della regione, per ragioni analoghe.


A volte, con conseguenze pesanti e durature. Così, la rottura tra l'ayatollah Khomeini e il regime dello scià fu consumata il giorno in cui il monarca accettò, nel 1964, su richiesta di Washington, che i militari americani insediati in Iran non potessero essere giudicati dai tribunali locali. Ne derivò una contestazione radicale, che doveva portare, quindici anni dopo, al crollo della monarchia e all'avvento della Repubblica islamica... Non ho dubbi sul fatto che questa rivoluzione - su cui avrò modo di tornare - sia da ricondurre a molte ragioni; ma la rabbia contro l'extraterritorialità di cui beneficiavano gli occidentali fu innegabilmente un fattore determinante. Non è un caso, del resto, che uno dei primi atti dei rivoluzionari militanti iraniani fu sfidare l'immunità dell'ambasciata americana e prendere i diplomatici come ostaggio.

Era, ovviamente, una sfida sfacciata a tutte le convenzioni internazionali. Ma era soprattutto un atto di ribellione contro un "ordine mondiale" che prevaleva da secoli, e che aveva stabilito, a volte esplicitamente e a volte implicitamente, una gerarchia tra i popoli e tra le culture, con gli occidentali sul gradino più alto.

Per le popolazioni che l'avevano subita, questa organizzazione fondata sulla disuguaglianza è sempre stata degradante; e al crepuscolo dell'era coloniale, era diventata inaccettabile. Tutto ciò che era collegato a essa veniva respinto con rabbia. Anche le poche ricadute positive che potevano legittimamente essere messe al suo attivo. Come avere favorito l'emergere, a Shanghai, Calcutta, Algeri o Alessandria, di "paradisi" culturali dove, per un po', si sarebbero schiusi fiori delicati, nati da incontri rari tra lingue diverse, credenze diverse, conoscenze diverse, tradizioni diverse.

Questa sublime fioritura non poteva che essere effimera. Fondata su basi così inique, non aveva alcuna possibilità di perpetuarsi. Quanto alle comunità percepite come "allogene", anche quando non erano responsabili della situazione che assicurava il loro status, sembravano colpevoli solo perché ne avevano tratto beneficio. E hanno finito col pagarne il prezzo. È stato così per l'Egitto, per i siro-libanesi o i greci, in Libia per gli italiani, in Algeria per i pied-noir.

Sarei stato felice se l'universo culturale che aveva prodotto Kavafis, Camus, Ungaretti o Asmahan avesse potuto trasformarsi e adattarsi invece di scomparire completamente; ma dobbiamo riconoscere che le sue fondamenta erano minate.

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Pagina 84

Questa profonda diffidenza tra i fedeli delle religioni monoteiste, fermamente radicata nelle menti e costantemente alimentata dalle notizie di ogni giorno, rende difficile qualsiasi scambio fecondo tra le popolazioni e ogni possibilità di osmosi armoniosa tra culture.

Non dubito che esistano, sotto tutti i cieli, innumerevoli persone di buona volontà che vogliono capire sinceramente l'Altro, coesistere con lui, superando pregiudizi e paure. Ciò che non sperimentiamo quasi mai, invece, e che io ho visto solo nella città levantina dove sono nato, è questo contatto permanente e intimo tra popolazioni cristiane o ebraiche intrise di cultura araba, e popolazioni musulmane risolutamente rivolte a Occidente, alla sua cultura, al suo modo di vivere, ai suoi valori.

Questa specie così rara di convivenza tra religioni e tra culture era il frutto di una saggezza istintiva e pragmatica piuttosto che di una dottrina universalista esplicita. Ma sono sicuro che avrebbe meritato di avere grande diffusione. Mi capita anche di pensare che avrebbe potuto agire come antidoto ai veleni di questo secolo. O, almeno, fornire alcuni argomenti convincenti a coloro che vorrebbero resistere alle derive identitarie. Il fatto che le popolazioni che giocavano questo ruolo di catalizzatore siano oggi sradicate e sull'orlo dell'estinzione non è cosa triste solo per queste stesse comunità e per la diversità delle culture. La disintegrazione delle società pluraliste del Levante ha causato un degrado morale irreparabile, che ora colpisce tutte le società umane, e scatena sul nostro mondo una barbarie insospettabile.

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Pagina 102

Questa "normalità" è oggi dimenticata. Molte persone fanno fatica persino a credere che sia davvero esistita, tanto si sono abituate a guardare tutto ciò che concerne gli arabi e l'islam come proveniente da un'altra galassia. Non è inutile, allora, ricordare a queste persone, ad esempio, che la frattura ideologica che l'umanità vedeva nel XX secolo tra il marxismo e i suoi avversari attraversava il mondo arabo-musulmano come il resto del pianeta.

Paesi come il Sudan, lo Yemen, l'Iraq o la Siria ospitavano importanti formazioni politiche di obbedienza comunista. E la Striscia di Gaza, prima di diventare il bastione di Hamas, l'emanazione palestinese dei Fratelli Musulmani, è stata fino agli anni novanta il feudo di un'organizzazione che si presentava come marxista-leninista.

Più eloquente ancora è l'esempio dell'Indonesia. Al giorno d'oggi, ogni volta che se ne parla, si sottolinea che è la più grande nazione musulmana del mondo. Ai tempi della mia adolescenza era nota per un'altra particolarità, quella di ospitare il più grande partito comunista del pianeta dopo la Cina e l'Unione Sovietica; ha contato, al suo apogeo, quasi tre milioni di membri, un po' più del suo "concorrente" più vicino, il partito comunista italiano.

Con questo non voglio elogiare il movimento comunista. Ha suscitato immense speranze per l'umanità intera, poi le ha tradite. Ha sollecitato persone di valore, portatrici degli ideali più generosi, poi le ha condotte in un vicolo cieco. Il suo fallimento è stato un cataclisma, enorme quanto le sue distrazioni, e ha facilitato lo scivolamento del mondo verso il decadimento globale cui stiamo assistendo oggi.

Se il tono che uso evocando questo passato prossimo denota comunque un po' di nostalgia, è perché la presenza, in molte nazioni a larga maggioranza musulmana, tra gli anni venti e la fine degli anni ottanta, di un'ideologia risolutamente laica come il marxismo mi sembra oggi un fenomeno significativo, rivelatore, e di cui si può legittimamente rimpiangere la scomparsa.

Al di là dell'aspetto puramente politico, va ricordata l'atmosfera intellettuale e culturale che ha prevalso per buona parte del XX secolo, e che io stesso ho conosciuto a Beirut. Penso, ad esempio, ai dibattiti che gli studenti e le studentesse potevano avere all'Università di Khartoum, nei giardini di Mosul o nei caffè di Aleppo; ai libri di Gramsci che questi giovani erano soliti leggere, alle opere di Bertolt Brecht che mettevano in scena o applaudivano, alle poesie di Nazim Hikmet o Paul Éluard, alle canzoni rivoluzionarie per cui i loro cuori battevano, agli eventi che li facevano reagire - la guerra del Vietnam, l'omicidio di Lumumba, l'imprigionamento di Mandela, il volo spaziale di Gagarin o la morte del Che. E più che a tutto questo penso, con profonda nostalgia, al sorriso che gli studenti afghani o yemeniti irradiavano ancora sulle foto degli anni sessanta. Poi li confronto con l'universo angusto, scuro, triste e rachitico dove sono rinchiusi quelli che frequentano oggi gli stessi posti, le stesse strade, le stesse aule...

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Coloro che, come me, amano navigare sul web possono trovarvi un video sorprendente girato in Egitto a metà degli anni sessanta. È in arabo, ma degli internauti si sono presi cura di sottotitolarlo in altre lingue, tra cui francese e inglese. Vediamo Nasser in un'aula ad anfiteatro, o in una sala congressi, che spiega a un vasto pubblico i suoi rancori contro i Fratelli Musulmani. L'interesse del documentario sta tanto nelle parole del rais quanto nelle reazioni del pubblico.

Il presidente racconta che, dopo il rovesciamento della monarchia egiziana, i Fratelli avevano cercato di assumere la giovane rivoluzione sotto la propria tutela, e che lui stesso aveva incontrato il loro capo supremo per cercare di trovare un terreno d'intesa. "Sapete cosa mi ha chiesto? Che imponessi il velo in Egitto, e che ogni donna che usciva per strada si coprisse il capo!"

Una grande risata scuote la stanza. Una voce si leva tra il pubblico a suggerire che il leader dei Fratelli Musulmani indossi lui il velo. Le risate riprendono ancora più forti. Nasser continua. "Gli ho detto: 'Ci vuoi riportare al tempo del califfo al-Hākim, che aveva ordinato alla gente di uscire in strada solo di notte e di chiudersi a chiave in casa durante il giorno?' Ma la guida dei Fratelli ha insistito: 'Tu sei il presidente, dovresti ordinare a tutte le donne di coprirsi.' Ho risposto: 'Hai una figlia che studia alla facoltà di Medicina, e lei non è velata. Tu non riesci a far indossare il velo a una sola donna, tua figlia, e vorresti che io scendessi in strada per imporre il velo a dieci milioni di egiziane?"

Il rais è così divertito da quello che racconta che fa fatica a riprendere il discorso. Beve un sorso d'acqua. E quando riesce a superare la fase di riso incontrollabile, inizia a elencare le richieste fatte dal leader islamista: le donne non devono più lavorare, cinema e teatri devono chiudere ecc. "In poche parole, l'oscurità deve dominare ovunque!" Di nuovo, risate...

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4.


Da anni, contemplo il mondo arabo con angoscia, cercando di capire come ha potuto deteriorarsi in questo modo. Le opinioni su questo argomento sono innumerevoli e contraddittorie. Alcuni incriminano soprattutto il radicalismo violento, il jihadismo cieco e, più in generale, i rapporti ambigui, nell'islam, tra religione e politica; altri invece accusano il colonialismo, l'avidità e l'insensibilità dell'Occidente, l'egemonia degli Stati Uniti, o l'occupazione, da parte di Israele, dei territori palestinesi. Se tutti questi fattori certamente hanno giocato un ruolo, nessuno di essi spiega da solo la deriva cui stiamo assistendo.

Ciononostante, a mio parere, c'è un evento che si stacca da tutto il resto, e segna un punto di svolta decisivo nella storia di questa regione del mondo, e non solo; uno scontro militare che si è svolto in un periodo incredibilmente breve, ma le cui ripercussioni si riveleranno durature: la guerra arabo-israeliana del giugno 1967.

Come posso descriverne l'impatto? Mi viene subito in mente Pearl Harbor - ma solo per l'aspetto folgorante dell'attacco aereo giapponese, e per l'effetto sorpresa, non per le conseguenze militari. Perché se la flotta degli Stati Uniti aveva subito, la mattina del 7 dicembre 1941, gravi perdite materiali e umane, il paese aveva però mantenuto la maggior parte delle sue capacità difensive e offensive. Mentre la mattina del 5 giugno 1967, le flotte aeree egiziana, siriana e giordana sono state praticamente annientate; i loro eserciti di terra hanno dovuto ritirarsi, cedendo alle forze israeliane dei territori strategici: la città vecchia di Gerusalemme, la Cisgiordania, le alture del Golan, la Striscia di Gaza e la penisola del Sinai.

Da questo punto di vista, sarebbe più appropriato paragonare questa sconfitta araba a quella subita dalla Francia nel giugno 1940. Il suo esercito, per quanto ancora avesse un'aura di prestigio per aver vinto la prima guerra mondiale ventidue anni prima, era crollato molto rapidamente di fronte all'offensiva tedesca. Le strade si erano riempite di profughi, Parigi e poi l'intero paese erano stati occupati. La sensazione che in quel momento la nazione ebbe di essere stata messa al tappeto, umiliata, violentata, fu cancellata solo dalla liberazione, quattro anni dopo.

Ed è questa la grande differenza tra il 1967 e questi due episodi della seconda guerra mondiale. A differenza degli americani e dei francesi, gli arabi sono rimasti come bloccati a questa sconfitta, e non hanno mai più ritrovato la fiducia in se stessi.

Mentre scrivo queste righe, è passato più di mezzo secolo da allora, e le cose non sono migliorate. Piuttosto che guarire e cicatrizzarsi, le ferite sono diventate sempre più gravi e tutto il mondo ne soffre.

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Lo spirito del tempo di solito funziona senza che nessuno lo noti. Ma a volte il suo effetto è così evidente che possiamo quasi vederlo intervenire in tempo reale. È questa, in effetti, l'impressione che ho avuto quando ho nuovamente rivolto l'attenzione alla storia recente per provare a trarne qualche lezione.

Come avevo potuto non vedere una congiunzione così forte tra gli eventi? Avrei dovuto trarre da molto tempo questa conclusione, che oggi mi salta agli occhi; e cioè che eravamo appena entrati in un'era radicalmente paradossale in cui la nostra visione del mondo sarebbe stata trasformata, o addirittura completamente stravolta. Da allora il conservatorismo si sarebbe preteso rivoluzionario, mentre i sostenitori del "progressismo" e della sinistra non avrebbero avuto altro scopo che la conservazione dello status quo.

Nei miei appunti, ho iniziato a parlare dell'"anno del capovolgimento", o talvolta dell'"anno del grande stravolgimento", e ad elencare i fatti notevoli che giustificavano tali definizioni. Ce ne sono molti, e ne citerò solo alcuni in queste pagine. Sono soprattutto due quelli che mi sembrano particolarmente emblematici: la rivoluzione islamica proclamata in Iran dall'ayatollah Khomeini nel febbraio 1979; e la rivoluzione conservatrice realizzata nel Regno Unito dal primo ministro Margaret Thatcher nel maggio 1979.

C'è un oceano di differenze tra i due eventi, come tra queste due forme di conservatorismo. E anche, ben inteso, tra i due personaggi chiave; per trovare nella storia d'Inghilterra un equivalente di quello che è successo in Iran con Khomeini, dovremmo tornare indietro ai tempi di Cromwell, quando i rivoluzionari regicidi erano sia puritani che messianisti. Tra questi due eventi esiste, però, una certa somiglianza, non riducibile alla prossimità delle date. In un caso come nell'altro, è stata sollevata la bandiera della rivoluzione in nome di forze sociali e di dottrine che fino ad allora erano state le vittime, o almeno gli obiettivi, delle rivoluzioni moderne: in un caso, i fondamenti dell'ordine morale e religioso; nell'altro, i fondamenti dell'ordine economico e sociale.

Ciascuna di queste due rivoluzioni avrebbe avuto enormi ripercussioni a livello planetario. Le idee della signora Thatcher avrebbero rapidamente conquistato gli Stati Uniti con l'arrivo di Ronald Reagan alla presidenza; mentre la visione khomeinista di un islam al tempo stesso insurrezionale e tradizionalista, risolutamente ostile verso l'Occidente, si sarebbe diffusa in tutto il mondo, assumendo forme molto diverse, e travolgendo gli approcci più concilianti.

[...]

L'avvento della signora Thatcher non avrebbe avuto la stessa importanza se non fosse stato parte di un movimento profondo e ampio che sarebbe andato rapidamente al di là delle frontiere dell'Inghilterra. Prima verso gli Stati Uniti, con l'elezione di Reagan nel novembre 1980; poi verso il resto del mondo. I precetti della rivoluzione conservatrice anglo-americana verranno adottati da molti leader della destra e della sinistra, a volte con entusiasmo, a volte con rassegnazione. Diminuire l'intervento del governo nella vita economica, limitare la spesa sociale, dare maggiore flessibilità agli imprenditori e ridurre l'influenza dei sindacati saranno considerate le norme di una buona gestione degli affari pubblici.

Uno dei libri emblematici di questa rivoluzione è il romanzo intitolato Atlas Shrugged (La rivolta di Atlante). Opera di una emigrata russa trasferitasi negli Stati Uniti, Ayn Rand , racconta di uno sciopero organizzato non dai lavoratori, ma dagli appaltatori e dalle "menti creative" esasperate dai regolamenti iniqui. I1 titolo evoca la figura mitologica di Atlante che, stanco di portare il peso di tutta la terra sulla schiena, finalmente scuote vigorosamente le spalle - ed è questo movimento di esasperazione e rivolta che esprime il verbo to shrug, al passato shrugged.

Questo romanzo a tesi, pubblicato nel 1957 e di cui molti conservatori americani, sostenitori di un "libertarismo" risolutamente antistatalista, avevano fatto la loro Bibbia, è stato superato dalla realtà. La rivolta degli abbienti contro gli interventi di uno stato ridistributore di ricchezze non è avvenuta nel modo in cui la scrittrice l'aveva descritta, ma è accaduta. Ed è stata coronata dal successo. Ciò ha avuto l'effetto di accentuare notevolmente le disuguaglianze sociali, fino al punto di creare una piccola casta di super-miliardari, ognuno dei quali più ricco di intere nazioni.


L'altra "rivoluzione conservatrice", quella dell'Iran, avrebbe avuto, allo stesso modo, ripercussioni significative su tutto il pianeta.

Non era in alcun modo una rivolta dei ricchi contro i poveri - al contrario, è avvenuta nel nome dei poveri, i "dannati della terra", e da questo punto di vista era in linea con altre rivoluzioni del XX secolo. Ciò che la rendeva atipica, però, era il fatto che fosse diretta da un clero socialmente conservatore, esasperato dalle riforme che, dal suo punto di vista, andavano contro la religione e i valori tradizionali.

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4.


Un altro evento che descriverei come un'ulteriore "delusione" per i sovietici - anche se all'epoca probabilmente non l'hanno percepita così - è stato l'assassinio di Aldo Moro, il leader della Democrazia cristiana che si batteva per un compromesso storico tra il suo schieramento politico e il partito comunista. Rapito dalle Brigate Rosse in una strada di Roma il 16 marzo 1978, è stato trovato morto nel bagagliaio di un'auto il 9 maggio successivo.

Ancora oggi, dopo quarant'anni, è difficile dire con certezza chi ha ordinato l'assassinio, e a quale obiettivo specifico mirasse. Sono state avanzate molte teorie, che non cercherò qui di illustrare. Gli assassini obbedivano a un'organizzazione segreta, a dei "servizi" stranieri o solo ai propri deliri ideologici? Il loro obiettivo era impedire al partito cattolico di legittimare i comunisti e così aprire loro la strada al potere? O, al contrario, impedire ai comunisti di rammollirsi e tradire così gli ideali del marxismo-leninismo? Il dibattito non è mai stato chiuso in modo definitivo.

Una cosa mi sembra certa oggi: al di là dell'omicidio di un uomo, ciò che fu buttato nella spazzatura della Storia fu una promettente utopia.


Era nell'aria da decenni. Nata per alcuni dalla paura di un disastro nucleare, e per altri dal puro desiderio di vedere l'umanità finalmente riconciliata, si basava su una domanda piena di speranza: se il comunismo e il capitalismo, anziché continuare a combattersi senza sosta in tutto il pianeta, si avvicinassero gradualmente l'un l'altro e arrivassero a una sintesi - il primo mostrandosi più preoccupato per la libertà e la democrazia, il secondo introducendo una dose maggiore di giustizia sociale? Non sarebbe allora la fine di questo estenuante confronto di blocchi contrapposti, che rischia di annientare l'intera umanità?

Tale prospettiva non era necessariamente irragionevole. Menti brillanti ci hanno creduto - scrittori, filosofi, storici, ma anche qualche leader politico. Tra cui, appunto, Aldo Moro. Il suo paese poteva legittimamente aspirare, in questa materia, al ruolo di pioniere. Patria dei papi e cuore del mondo cattolico, l'Italia ha avuto anche il partito comunista più potente e autorevole del mondo occidentale, quello che ha goduto più di tutti gli altri di grande prestigio intellettuale; sotto la guida del suo segretario generale Enrico Berlinguer, un uomo appartenente alla nobiltà sarda e non alla classe operaia, si era pronunciato pubblicamente a favore del multipartitismo e della libertà di espressione nei paesi dell'Est. Aldo Moro non poteva sperare in un partner migliore per realizzare il suo sogno di un "compromesso storico" tra i due sistemi che si contendevano il pianeta.

Ma questo sogno non piaceva certo ai leader sovietici. Parlando dell'omicidio del leader democristiano come di una delusione per loro, mi colloco dal punto di vista dell'osservatore esterno e tardivo che può contemplare con calma anche ciò che è successo nei decenni successivi; che sa quindi che gli eredi di Lenin erano alla vigilia di una débâcle politica e morale da cui non si sarebbero ripresi; e che la linea mediana sostenuta da Moro e Berlinguer era, per i comunisti di tutto il mondo, non una trappola a cui dovevano sottrarsi, ma esattamente il contrario: l'ultima possibilità di evitare la trappola mortale che iniziava a incombere su di loro.

Detto ciò, non sono sicuro che questa opportunità esistesse ancora nel 1978. Forse il sistema era già irrecuperabile - da quando era stata soffocata la Primavera di Praga nel 1968, da quando era stata schiacciata la rivolta ungherese nel 1956, o anche prima. Ciò che è certo è che, dopo la morte del compromesso storico all'italiana, non si sono presentate altre opportunità affinché la guerra fredda si concludesse con un pareggio. La disfatta del campo socialista stava diventando ineluttabile.

Oggi, senza alcun merito, noi lo sappiamo; nel 1978, i sovietici non lo sapevano.

Peraltro, quell'anno avrebbe portato loro un altro inconveniente di rilievo. E anche questa volta, per una casuale coincidenza di luoghi e simboli, fra tutte le città, proprio a Roma.

Ho già ricordato, senza soffermarmici troppo, l'elezione nell'ottobre 1978, per la prima volta dopo più di quattrocentocinquant'anni, di un papa non italiano, polacco per la precisione, che aveva passato la maggior parte della sua vita di prelato sotto un regime filosovietico. Non è privo di importanza il fatto che l'avvento di Giovanni Paolo II si sia verificato nello stesso momento in cui un altro polacco, altrettanto ostile al comunismo, occupava alla Casa Bianca la posizione chiave di consigliere per la Sicurezza nazionale, con la missione di aiutare il presidente degli Stati Uniti a elaborare una propria strategia e metterla in atto.

Zbigniew Brzezinski, detto Zbig, non ha mai nascosto che le sue origini costituivano un elemento determinante della sua visione politica. Quando fu eletto il presidente Jimmy Carter, il suo consigliere lo convinse che, per la prima visita all'estero, avrebbe dovuto andare a Varsavia. Fin dal suo arrivo, e nonostante l'opposizione dell'ambasciatore degli Stati Uniti, Zbig insistette per incontrare il più feroce oppositore delle autorità comuniste, il cardinale Wyszynski, primate della chiesa polacca, cui aveva assicurato il suo sostegno.

Zbig sognava di travolgere, indebolire e idealmente smantellare l'impero costruito dai sovietici dietro la cortina di ferro. A questo obiettivo, che sembrava esageratamente ambizioso, il consulente si dedicò con passione, e con abilità, durante l'unico mandato del "suo" presidente, ed è ragionevole dire che la "connessione polacca" che ci fu in quegli anni tra Washington e il Vaticano effettivamente permise di allentare la presa del "grande fratello" russo sui suoi vassalli dell'Europa dell'Est, in particolare dopo la comparsa, nel 1980, del movimento Solidarnosc diretto da Lech Walesa.

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5.


Quando tento di fare un bilancio del XX secolo, mi sembra che esso sia stato il teatro di due "famiglie" di calamità, l'una generata dal comunismo, l'altra dall'anticomunismo.

Alla prima appartengono tutte le ingiustizie commesse in nome del proletariato, del socialismo, della rivoluzione o del progresso; gli episodi furono molti, sotto tutti i cieli - dai processi di Mosca e dalle carestie in Ucraina agli oltraggi della Corea del Nord, fino al genocidio cambogiano. Alla seconda famiglia appartengono gli abusi commessi in nome della lotta contro il bolscevismo. Anche in questo caso, gli episodi sono stati innumerevoli; fra questi, il più devastante fu certamente il cataclisma planetario causato dalla "peste nera" del fascismo e del nazismo.

La percezione di questi crimini è stata altalenante. Nell'immediato dopoguerra, la maggior parte degli storici riteneva eccessivo, inappropriato e persino sospetto mettere sullo stesso piano i crimini del regime hitleriano con quelli del regime sovietico. E se l'immagine di Stalin alla fine si appannò, quella del suo predecessore, Lenin, rimase integra per molto tempo.

L'immagine di Mao Tse-tung ha sperimentato analogamente alti e bassi. Le sue spettacolari iniziative, come ad esempio la grande rivoluzione culturale proletaria, all'epoca erano state incensate da intellettuali di fama internazionale. Oggi sono giudicate molto severamente, ma "il grande timoniere" non ha conosciuto la stessa sfortuna del "piccolo padre dei popoli". Non c'è stata effettivamente nessuna "demaoizzazione" e se anche i suoi successori si sono discostati dalla sua linea, hanno tenuto però il suo mausoleo in piazza Tienanmen, quale simbolo di continuità politica e stabilità.

Solo con la fine della guerra fredda, col fallimento del modello collettivista e con la disgregazione dell'Unione Sovietica è stato possibile scherzare sui "piccolo libro rosso", fare confronti tra Stalin e Hitler e mettere in discussione l'immagine di Lenin. Si è smesso di vedere in lui il rispettabile fondatore di un potere socialista che poi i suoi eredi hanno pervertito; gli si attribuisce oggi una grande responsabilità per tutto ciò che è successo dopo la rivoluzione di ottobre, la quale è ridotta ormai, da alcuni storici, al rango di un volgare colpo di stato, audace, certo, ma che non aveva niente dell'insurrezione popolare.

Questo non ci dovrebbe colpire, è un giusto riequilibrio delle cose. Il comunismo ha avuto le sue possibilità, più di qualsiasi altra dottrina, e le ha sprecate. Avrebbe potuto far trionfare i suoi ideali, e invece li ha sviliti. Per molto tempo è stato giudicato con troppa indulgenza, e adesso lo giudichiamo con severità.


Possiamo concludere che, dopo questa correzione di prospettiva, la nostra visione dei crimini del XX secolo è adeguata ed equilibrata? Non del tutto, purtroppo. Per quanto riguarda gli abusi commessi dai regimi comunisti, stiamo analizzando ora le loro ultime opacità e illusioni. Lo stesso vale per gli abusi commessi dal nazismo, dal fascismo e da tutti coloro che ruotavano nella loro orbita fra gli anni trenta e quaranta. Gli storici continueranno a scavare, a riflettere, a riferire e a interpretare, come la loro disciplina li spinge a fare; ma è ragionevole pensare che il quadro d'insieme che possediamo della prima parte del secolo appena trascorso corrisponda ormai, per l'essenziale, alla realtà.

Al contrario, la nostra visione rimane incompleta, e a volte chiaramente di parte, quando si tratta dei crimini commessi durante la guerra fredda, tra la metà degli anni quaranta e l'inizio degli anni novanta. Non c'è stata, forse, alla fine della seconda guerra mondiale, una compiacenza per gli abusi commessi da parte dei vincitori - quelli di Stalin, ovviamente, ma anche le carneficine compiute dagli occidentali a Dresda o a Hiroshima? La fine della guerra fredda ha dato luogo a questo tipo di fenomeno. Se più nessuno oggi mette in discussione gli atti mostruosi commessi dai regimi che si spacciavano per marxisti-leninisti - in Ungheria, in Etiopia, in Cambogia o a Cuba -, ciò che è stato fatto in nome della lotta al comunismo è spesso ancora considerato, se non come un intervento necessario, quanto meno come un "effetto collaterale", spiacevole senza dubbio ma inevitabile, e intercorso nella ricerca di una giusta causa.

Ciò che ho appena detto deve certo essere sfumato. La compiacenza verso questi abusi non è stata sistematica. La repressione selvaggia esercitata contro i marxisti da alcune dittature di destra, come quella di Pinochet in Cile, o quelle dei militari argentini e brasiliani, è stata ampiamente denunciata. E la "caccia alle streghe" condotta negli anni cinquanta dal senatore Joseph McCarthy è un tema ricorrente del cinema e della letteratura americani. Ma non appena arriviamo ai crimini commessi in nome dell'anticomunismo, contro le élite del mondo musulmano, le coscienze si anestetizzano.

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IV. Un mondo che si disgrega


1.


Al crepuscolo del XX secolo si è detto che, a partire da quel momento in poi, il mondo sarebbe stato segnato da uno "scontro di civiltà", in particolare tra le religioni. Per quanto desolante, questa previsione non è stata smentita dai fatti. L'errore grave è stato pensare che questo clash tra le diverse aree culturali avrebbe rafforzato la coesione all'interno di ognuna; invece è successo il contrario. Ciò che caratterizza l'umanità di oggi non è una tendenza a riunirsi nell'ambito di gruppi molto vasti, ma una propensione alla frammentazione e alla divisione, spesso nella violenza e nell'acrimonia.

La cosa si verifica con tutta evidenza nel mondo arabo-musulmano, che sembra aver assunto su di sé il compito di amplificare fino all'assurdo i difetti della nostra epoca. Se il livello di ostilità tra questa parte del mondo e il resto del pianeta non smette di aumentare, le lacerazioni peggiori si produrranno al suo interno, come testimoniano gli innumerevoli sanguinosi conflitti che si sono succeduti negli ultimi decenni dall'Afghanistan al Mali passando per il Libano, la Siria, l'Iraq, la Libia, lo Yemen, il Sudan, la Nigeria o la Somalia.

Si tratta certamente di un caso estremo. Non si riscontrano gli stessi livelli di disgregazione in altre "aree di civilizzazione", anche se la tendenza alla frammentazione e alla tribalizzazione è presente ovunque. La vediamo nella società americana, cosa che ha portato certi spiriti maliziosi a parlare di "Stati Disuniti". La vediamo nell'Unione Europea, che è stata scossa dalla defezione della Gran Bretagna così come dalle crisi e dalle tensioni legate alle migrazioni. La vediamo in modo particolarmente marcato in alcuni dei grandi e vecchi paesi del continente, unificati da secoli e un tempo a capo dei più vasti imperi, ma che oggi devono fare i conti (come in Catalogna, in Scozia e altrove) con movimenti indipendentisti forti e determinati. Senza dimenticare la vecchia Unione Sovietica e gli altri paesi un tempo comunisti dell'Europa orientale, che formavano nove stati alla caduta del Muro di Berlino, mentre oggi se ne contano ventinove...

Probabilmente non c'è, per queste diverse frammentazioni, una spiegazione semplice e univoca. Tuttavia possiamo individuare, al di là delle specificità locali, pulsioni simili chiaramente legate allo "spirito del tempo". In particolare mi sembrano in aumento, in ciascuna società come nell'intera umanità, i fattori di disgregazione rispetto a quelli di coesione. Ciò che rende ancor più grave questa tendenza è che oggi il mondo è pieno di "falsi collanti" i quali, come l'appartenenza religiosa, fingono di unire gli uomini ma in realtà svolgono il ruolo opposto.

Come preludio alla mia riflessione su cosa è diventata la solidarietà umana, è mio dovere ricordare un'idea che esercita ancora un'influenza determinante sulla mentalità dei nostri contemporanei, nonostante risalga all'Inghilterra del XVIII secolo, secondo la quale ogni individuo dovrebbe agire secondo i propri interessi, la somma di tutti questi egoismi andando necessariamente a beneficio dell'intera società; come se una "mano invisibile" intervenisse in modo provvidenziale per armonizzare l'insieme delle nostre azioni - operazione sottile, complessa e misteriosa che i governi sarebbero incapaci di svolgere e da cui farebbero meglio ad astenersi in quanto un loro intervento complicherebbe le cose, piuttosto che facilitarle.

Formulata da Adam Smith in un'opera pubblicata nel 1776, questa idea è ritornata estremamente attuale verso la fine degli anni settanta e influenza in maniera significativa la mentalità dei nostri contemporanei. Possiamo ben immaginarne le implicazioni politiche e l'attrattiva per tutti coloro che diffidano del ruolo dello stato in quanto regolatore dell'economia e ridistributore delle ricchezze; non stupisce, quindi, che i sostenitori delle rivoluzioni conservatrici in stile thatcheriano o reaganiano l'abbiano recuperata per proprio conto e che ci abbiano visto il criterio fondante della loro visione del mondo.

Un tale approccio può apparire fumoso alle menti razionali. A rigore di logica la teoria della "mano invisibile" sarebbe già dovuta cadere nell'oblio da parecchio tempo, tranne forse presso coloro che si interessano alla storia delle scienze economiche, se non addirittura alla loro preistoria. Non è andata così. L'intuizione immaginifica di Adam Smith ha resistito al tempo così come allo scherno dei detrattori e la fascinazione che esercita è molto più grande oggi rispetto a duecentocinquanta anni fa.


Questa longevità si spiega innanzitutto con il cocente fallimento del modello sovietico, il quale aveva attribuito grande importanza al carattere "scientifico" del suo socialismo. Quest'ultimo avrebbe dovuto dimostrare che solo lo stato era in grado di razionalizzare i processi di produzione e di distribuzione. Ma ha dimostrato il contrario, cioè che più un'economia è centralizzata più la sua gestione diventa assurda; più finge di amministrare le risorse, più provoca penuria.

Di conseguenza è il "socialismo scientifico" a essere caduto nell'oblio della Storia mentre la "mano invisibile" è tornata in auge, più credibile e legittima che mai, al punto da essere rivendicata dai militanti conservatori come il principio fondante del proprio impegno. Perfino la natura misteriosa e alquanto irrazionale di questa teoria si è rivelata piuttosto accattivante, dal momento che molte persone ci hanno visto una dimensione spirituale, una sorta di approvazione divina dell'esercizio del capitalismo in risposta al dirigismo "ateo".

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La terza considerazione si basa sulle due precedenti ma amplia un po' il discorso. Mi chiedo se lo smarrimento degli uomini che constatiamo oggi non sia dovuto in parte alla terribile abitudine che abbiamo preso, a partire dal XIX secolo, di smembrare le aree dove più popoli vivevano uno accanto all'altro perché ognuno vivesse separatamente.

Mi capita perfino di pensare che la teoria secondo la quale gli imperi sono delle "prigioni per i popoli" da cui questi devono liberarsi per cominciare a vivere "in casa propria", sotto un proprio governo, dentro i propri confini sia la più sanguinaria dei tempi moderni.

Mi riferisco soprattutto al destino delle due grandi entità multietniche divise all'indomani della prima guerra mondiale: l'impero austro-ungarico, la cui dissoluzione ha fatto decine di milioni di vittime favorendo l'insorgere delle peggiori tirannie; e l'impero ottomano, il cui smembramento è tuttora in corso, facendo planare su tutta l'umanità lo spettro del terrorismo e della regressione.

Tuttavia non ho nostalgia di questi imperi. Non sogno affatto di vederli restaurati. Né quello degli Asburgo, né quello degli zar e ancora meno quello dei sultani. Ciò che rimpiango è la scomparsa di una certa mentalità presente ai tempi degli imperi che considerava normale e legittimo il fatto che popoli diversi vivessero all'interno di una stessa entità politica senza avere per forza la stessa religione, la stessa lingua o lo stesso percorso storico. Non smetterò mai di combattere l'idea secondo cui le popolazioni che hanno lingue o religioni diverse farebbero meglio a vivere separatamente le une dalle altre. Mai accetterò il fatto che l'etnia, la religione o la razza costituiscano fondamenti legittimi sui quali costruire delle nazioni.

A quanti pietosi fallimenti, a quante carneficine, a quante "epurazioni" dovremo ancora assistere prima che questo approccio barbaro alle questioni identitarie smetta di essere considerato normale, realistico e "conforme alla natura umana"?

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Tra i fattori determinanti di questo cambiamento ci sono i disordini politici e morali che scuotono il mondo arabo sin dalla grande sconfitta del 1967, che si sono poi aggravati intorno al 1979 con l'inizio delle rivoluzioni conservatrici d'Oriente e d'Occidente e che, a partire dall'11 settembre 2001, hanno fatto "sbandare" l'intero pianeta, provocando reazioni a catena che oggi ci stanno portando verso l'ignoto - di sicuro verso il naufragio.

Uno degli aspetti più preoccupanti di questo sbandamento è la "deriva orwelliana" che il mondo di oggi sperimenta. Chiedo scusa allo scrittore inglese per questo appellativo, ma dal mio punto di vista si tratta di un omaggio, come quando associamo a una determinata patologia il nome dello scienziato che l'ha scoperta e che ha cercato di combatterla.

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Oggi la cosa è meno sicura. Uscito dalla porta, Big Brother rientra in qualche modo dalla finestra. Non a causa della comparsa di un nuovo potere totalitario, ma a causa di un fenomeno più diffuso e pericoloso: l'ascesa inesorabile delle nostre ansie per la sicurezza.

Col senno di poi, seppur con una distanza limitata, nel momento in cui scrivo queste righe, è chiaro che il mondo non tornerà mai più a essere lo stesso dopo gli attentati dell'11 settembre. La guerra contro il terrorismo si distingue da tutte quelle che l'hanno preceduta, in particolare dalle due guerre mondiali e dalla guerra fredda, per il fatto che non aspira a concludersi. È un po' come se avessimo dichiarato guerra al peccato o al Male. Non ci sarà mai un dopoguerra. Non potremo mai abbassare la guardia e proclamare il pericolo superato. Soprattutto quando guardiamo quello che accade nel mondo arabo-musulmano. Quand'è che questo ritroverà un po' di equilibrio e di serenità? L'unica certezza che abbiamo è che serviranno molti decenni prima di sistemare le cose.

Ci aspetta un lungo periodo di disordini, costellato di attentati, massacri e altre atrocità; un periodo inevitabilmente rischioso e traumatico, nel corso del quale una potenza come gli Stati Uniti, qualunque sia l'amministrazione in carica, vorrà proteggersi, difendersi, dare la caccia ai suoi nemici dovunque si nascondano, ascoltare tutte le loro conversazioni telefoniche, controllare ciò che scrivono su Internet, verificare ogni transazione finanziaria...

È inevitabile, e si commetteranno degli errori. Quando cercheranno di impedire i trasferimenti di denaro a favore dei terroristi, ne approfitteranno per controllare se i cittadini americani non stiano per caso frodando il fisco. Che rapporto c'è tra il terrorismo e l'evasione fiscale? Nessuno. Tranne il fatto che, se la tecnologia lo permette ed esiste un pretesto per controllare, controlleranno.

Quando cercheranno di intercettare le comunicazioni telefoniche tra terroristi, ne approfitteranno anche per ascoltare le telefonate dei concorrenti commerciali. Che rapporto c'è tra le telefonate di un terrorista e quelle di un industriale italiano, francese o coreano? Nessuno. Tranne il fatto che, se esiste un pretesto per ascoltare e la cosa in qualche modo può essere d'aiuto alle imprese americane, ascolteranno. Ascolteranno perfino le conversazioni private dei politici tedeschi, brasiliani, indiani o giapponesi; e se questi dovessero scoprirlo si scuserebbero per poi ricominciare, solo con qualche precauzione in più, così da evitare che la questione trapeli di nuovo.


Ho citato per primi gli Stati Uniti, ma la cosa è altrettanto vera - o sarà vera nei prossimi anni - per la Russia, la Cina, l'India, la Francia e, più in generale, per tutti quei paesi che avranno acquisito le competenze adeguate.

È quasi una legge della natura umana: tutto ciò che la scienza ci permette di fare prima o poi lo faremo, con un pretesto qualsiasi. Almeno fino a quando i vantaggi ci sembreranno superiori agli svantaggi.

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Sono comunque convinto che uno slancio resti tuttora possibile. È difficile per me credere che l'umanità si rassegnerà docilmente alla scomparsa di tutto quello che ha costruito. Tutte le società umane e tutte le civiltà perderanno se proseguiranno nella loro deriva, mentre vincerebbero tutte se solo correggessero la rotta. Il giorno in cui diventeremo consapevoli di questo, i comportamenti cambieranno radicalmente, la deriva sarà fermata e una dinamica positiva avrà inizio.

È pertanto necessario - se non imperativo - avvisare, spiegare, esortare e prevenire. Senza pessimismo, condiscendenza né scoraggiamento. E soprattutto senza astio. Tenendo sempre a mente che le tragedie che accadono al giorno d'oggi fanno tutte parte di un ingranaggio che nessuno regola e nel quale tutti siamo trascinati: poveri e ricchi, deboli e forti, governati e governanti, che lo vogliamo o no, qualunque siano le nostre appartenenze, le nostre origini o le nostre opinioni.

Al di là delle vicissitudini e delle urgenze dell'attualità quotidiana, al di là del frastuono di questo secolo e delle sue chiacchiere, c'è una preoccupazione essenziale che dovrebbe guidare di continuo i nostri pensieri e le nostre azioni: come convincere i nostri contemporanei che restando prigionieri di concezioni tribali dell'identità, della nazione o della religione e continuando a esaltare il sacro individualismo stanno preparando un futuro apocalittico per i loro figli?

In un mondo in cui popolazioni diverse vivono vicine e in cui una quantità enorme di armi letali è nelle mani di molti, non si può dare libero sfogo ai furori e agli egoismi di ognuno. Se pensiamo che, in nome di un comune "istinto collettivo di sopravvivenza", i pericoli svaniranno da soli non daremo prova di essere ottimisti e fiduciosi nei confronti del futuro, ma rimarremo nella negazione, nell'autoinganno e nell'irresponsabilità più totali.

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