Copertina
Autore Sebastiano Maffettone
Titolo La pensabilità del mondo
SottotitoloFilosofia e governanza globale
Edizioneil Saggiatore, Milano, 2006, La cultura 595 , pag. 320, cop.fle., dim. 140x215x20 mm , Isbn 978-88-428-1050-6
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe politica , filosofia , relativismo-assolutismo
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Indice


Prefazione                                               11


1. La pensabilità del mondo                              21

1. La situazione storica                                 21
2. Riconoscimento identitario e princìpi normativi       24
3. Liberalismo critico e multiculturalismo               28
4. Il problema e il metodo                               31
5. Libertà, eguaglianza, identità                        34
6. Globalizzazione, governanza, etica pubblica           38
7. Sovranità e basic structure                           44

2. La fragile trama della ragione pubblica               48

1. «11 settembre»                                        48
2. La perdita del senso                                  51
3. La trama della ragione pubblica                       55
4. Violenza identitaria e pluralismo culturale:
   l'integrazione pluralistica                           60
5. Excursus 1: Cultura islamica e ragione pubblica       64
6. Excursus 2: L'argomento filosofico-politico           76
7. Tramonto della sovranità e dispersione della ragione  82

3. Psiche e polis                                        89

1. Identità e identificazione                            89
2. L'identità del soggetto                               95
3. L'identità culturale                                 103

4. Diritti umani e diversità culturale:
   una visione filosofica                               118

1. Diritti umani e relativismo culturale                118
2. Questione empirica e questione filosofica            122
3. Il problema della diversità culturale
   e l'integrazione pluralistica                        132

5. Guerra giusta e intervento armato in Iraq            149

1. I movimenti per la pace nel 2003 e l'idea
   di guerra giusta                                     149
2. In equilibrio riflessivo                             151
3. La teoria classica della guerra giusta               152
4. La teoria moderna e contemporanea                    157
5. Guerra giusta come guerra difensiva
   (in senso stretto o lato)                            160
6. Giustificazione, legittimazione, legalità            164
7. Perché la guerra in Iraq è una guerra ingiusta       174

6. Sviluppo sostenibile e filosofia politica            178

1. Sviluppo sostenibile: alle origini di un'idea        178
2. Una filosofia politica per lo sviluppo sostenibile   181
3. Una visione compatibilista dello sviluppo
   sostenibile                                          190
4. In prospettiva globale                               197
5. Lo sviluppo sostenibile come politica economica      202

7. Θ il capitalismo moralmente accettabile?             206

1. Capitalismo e morale                                 206
2. Business ethics                                      210
3. Benchmarking                                         214
4. Giustificare o legittimare il capitalismo?           215
5. Etica e analisi degli stakeholder                    218
6. Il cambiamento delle preferenze                      220

8. La rivoluzione genetica                              226

   1. Premessa                                          226
   2. Gen-etica?                                        228
   3. La responsabilità della scienza                   231
   4. Problemi per una giustificazione bioetica         234
   5. Positivo-negativo e somatico-germinale            242
   6. Addendum: il caso del referendum del 2005
      in Italia                                         250

9. In che modo il futuro ha bisogno di noi?             257

   1. Evoluzione naturale e Intelligenza Artificiale    257
   2. Impossibilità logica e problema morale            264
   3. A proposito di Unabomber                          268
   4. La posizione dell'etica pubblica                  270

Note                                                    277
Indice analitico                                        303

 

 

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Pagina 11

Prefazione


«Pensabilità» allude a ciò che può essere pensato. La pensabilità del mondo, come recita il titolo di questo libro, ha come oggetto i modi e le categorie di pensare il mondo come si presenta oggi ai nostri occhi. Questo compito immodesto può essere svolto, a mio avviso, cercando di concepire mentalmente un ordine mondiale che non esiste ancora in re. Θ come se dietro i movimenti spesso caotici di cose e persone si potesse intravedere una trama sottile e talvolta interrotta. La lanterna che dirada il buio da cui siamo circondati è, nel mio caso, l'esercizio della filosofia politica. Che da molti anni ormai applico ai problemi della convivenza globale. Lo faccio con una convinzione che aiuta ad affrontare le difficoltà dell'impresa: noi filosofi politici siamo abituati a partire dal centro di imputazione della responsabilità politica. Questo era per Aristotele la polis e per Hobbes lo Stato. E, oggi, dovrebbe essere la comunità globale. Anticipare nel pensiero le forme della comunità globale in una struttura per ora in parte assente può costituire così l'unico modo per venire a capo dei problemi che essa pone.

Se il compito che il libro si pone è immodesto, il modo in cui esso è svolto lo è, invece, molto meno. E non dico solo nei risultati intellettuali, che lascio giudicare al lettore, ma anche nella maniera di affrontare i problemi teorici lungo il percorso del libro. Dal primo capitolo introduttivo in poi, ho cercato di farlo presentando una visione teorica che procede per accumulazioni successive. Questa visione è caratterizzata da un metodo e da una tesi sostanziale. Il metodo è basato sulla convinzione che libertà, eguaglianza e identità siano nozioni chiave irriducibili l'una all'altra nello studio di una filosofia delle relazioni internazionali. L'etica pubblica globale è la teoria normativa della politica che consente di trattare queste nozioni congiuntamente e in maniera non puramente eclettica, ma teoricamente orientata. La tesi sostanziale, all'interno dell'etica pubblica così concepita, è imperniata attorno all'idea di «integrazione pluralistica». L'integrazione pluralistica prevede una dialettica di locale e globale. Il quasi-ordine del mondo non esiste in un luogo centrale, e quindi non può essere esportato e tanto meno imposto, ma si afferma in modi diversi in luoghi differenti. Diritti umani, pace, sostenibilità e giustizia sociale ne sono elementi fondamentali. Ma bisogna ricondurli nell'alveo di tradizioni e culture parzialmente incommensurabili.

Nel gergo della filosofia politica contemporanea, sosterrò nelle pagine che seguono che qualcosa del genere avviene attraverso un connubio di legittimazione e giustificazione. La legittimazione proviene dal basso e dal locale. La giustificazione, invece, è più tipicamente universale e normativa. Entrambe devono essere presenti in un processo politico ben riuscito. In questo modo, cerco anche di applicare strumenti tipici delle teorie politiche liberali a problemi che invece tipici non sono. Con l'ulteriore consapevolezza che il mutamento di oggetto teorico – non più la comunità nazionale ma quella globale – imponga anche un mutamento teorico coerente.


Queste tesi teoriche sono difese nei nove capitoli del libro. Il primo capitolo, che serve anche da introduzione a tutto il libro, presenta in maniera unitaria l'argomento che poi sarà svolto analiticamente nel corso del volume. Il secondo capitolo parte dall'11 settembre per proporre, in termini di ragione pubblica, una ricostruzione del dialogo tra culture drammaticamente interrottosi in quella data. Il concetto di ragione pubblica trae sicuramente ispirazione da Kant prima, e da Rawls poi, ma viene qui riformulato nell'ottica di un pluralismo culturale coerente con la teoria dell'integrazione pluralistica dal basso. Il secondo capitolo, strettamente collegato al primo, approfondisce la questione del metodo che, a mio avviso, e indispensabile fare proprio per discutere la tesi principale. Tale metodo viene legato a un'etica pubblica liberale ed egualitarista, alla luce della nozione di identità. Quest'ultima viene, oserei dire imprevedibilmente, trattata nel capitolo terzo in un'ottica ispirata a Freud e alla psicoanalisi. La ragione di questo detour, solo apparente, consiste, oltre che nell'interesse intrinseco della psicoanalisi per chi discute questi temi, nel fatto che Freud, come chi scrive, non è essenzialista sull'identità, non la vede cioè come un aspetto immutabile e definitivo dell'essere che in effetti siamo. Proprio per ciò, Freud adopera prevalentemente «identificazione» piuttosto che «identità», dove il primo termine lascia spazio maggiore alla possibilità di essere diversi l'uno dall'altro, pur essendo dotati all'origine delle medesime caratteristiche ascrittive. Questo stesso capitolo finisce con il proporre una rilettura di Hegel, come del filosofo che più di ogni altro ha cercato di coniugare il dizionario dell'identità in termini di una riconciliazione possibile tra ragione e storia.

Il quarto capitolo cerca di discutere sistematicamente il tema dei diritti umani in una prospettiva filosofico-politica. Il che vuol dire riconoscere che in alcune aree i diritti umani sono diritto positivo e in altre no, ma al tempo stesso vuol dire che non ci si deve accontentare di questo livello iniziale. Concedere ampio spazio all'interpretazione basata su princìpi alla luce di un approccio etico-politico rappresenta il modo migliore per fare qualcosa del genere. Ma, così facendo, insorge il problema del pluralismo culturale, che viene affrontato nella seconda parte del capitolo. A mio avviso, il multiculturalismo, rettamente inteso, non è antindividualista e comunitarista. Presuppone al contrario il liberalismo e, in qualche modo, lo invera. Il quinto capitolo verte sul tema della guerra, centrale per ogni teoria delle relazioni internazionali. Questo capitolo parte dalla guerra in Iraq, per condannare moralmente l'intervento americano. Il suo intento è però più generale, e consiste principalmente nell'applicare la teoria generale presentata nella prima parte del volume alla questione della guerra.

Sesto e settimo capitolo trattano questioni di base della comunità internazionale, a cominciare dallo statuto del capitalismo e dalla possibilità di darne una valutazione etica coerente con la teoria della giustizia preferita. In particolare, il capitolo sesto tratta – in termini di giustizia sociale – il tema ormai divenuto essenziale della sostenibilità, che riguarda sia l'impresa singola sia il sistema economico nel suo complesso. Il capitolo settimo si interroga sulla moralità del capitalismo a livello macro-, partendo dai teoremi a livello micro- dell'etica degli affari. La tesi di fondo, che vi si sostiene, è che il capitalismo non è eticamente giustificabile in quest'ottica, anche se è legittimabile alla luce di una prospettiva di business ethics.

Gli ultimi due capitoli sono, a mio parere, solo apparentemente extravaganti rispetto al tema principale. L'ottavo e il nono affrontano infatti questioni inerenti ai diritti umani dell'ultima generazione, come qualcuno li chiama. Il capitolo ottavo, in particolare, ritorna sul leitmotiv legittimazione-giustificazione, per vedere come questo prenda senso, nel dominio della genetica, nella sua prospettiva etico-politica. Il capitolo nono discute, invece, i limiti e i problemi etici e sociali dell'Intelligenza Artificiale.

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1. La pensabilità del mondo


                Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro,
                sul far del giorno, il Duca D'Auge salì in cima al torrione
                del suo castello per considerare la situazione storica.
                La trovò poco chiara.


                (da I fiori blu di RAYMOND QUENEAU,

                traduzione italiana di ITALO CALVINO)



1. La situazione storica

Il mondo parzialmente globalizzato in cui viviamo è un mondo complicato. Talvolta anche contraddittorio. Al suo interno, l'impiego di Internet convive con la pratica dell'infibulazione, la libertà postcoloniale va a braccetto con il ritorno di usi primitivi che sembravano ormai dimenticati, la crescente presenza di donne emancipate non annulla le tradizioni basate sulla differenza di genere sessuale, la nuova ricchezza prodotta fa aumentare la forbice delle diseguaglianze, la scienza e la tecnica assicurano progresso ma creano anche incubi da «Grande Fratello», la telematica non vince l'ignoranza e l'analfabetismo, così come il progresso della medicina e quello della genetica non evitano l'impatto mortifero di pestilenze neomedievali, il diffondersi della democrazia e del pacifismo non cancella le tragedie della guerra e del genocidio, la fine del ricatto atomico globale legato alla guerra fredda lascia spazio a uno scenario per nulla rassicurante, popolato di crudeli guerre locali ed etniche. Come a dire che la crescita economica, scientifica e democratica non si traduce sistematicamente in maggiore benessere spirituale e materiale dell'intero pianeta. Probabilmente siamo del tutto consapevoli di queste vicende, ma sicuramente facciamo fatica a renderne conto in maniera coerente.

Si comprendono, così, le resistenze diffuse, emotive non meno che intellettuali, a concepire un ordine mondiale dotato di senso e quindi aperto all'analisi razionale. Queste resistenze animano a loro volta visioni cupe e spesso anche sciatte dell'ordine mondiale, presentato talora come un impero vagamente kafkiano in cui si aggirano personaggi postumani, magari somiglianti agli eroi di Blade Runner e ai cyberpunk che animano i racconti di William Gibson, o talaltra come una sorta di informe ectoplasma postmoderno in cui il senso dell'essere rappresenta poco più che una fastidiosa nostalgia da liquidare alla luce di una ragione cinica. Misticismo in salse varie, autoritarismo, di destra o di sinistra non importa, estetismo esotizzante, scientismo acritico, rivoluzionarismo da weekend sono i frutti maturi di questa pigrizia concettuale che si avvantaggia senza dubbio della difficoltà del compito.

Questo libro intende presentare una visione profondamente diversa dell'ordine mondiale, una visione al cui interno l'analisi razionale non si arrende alla complessità dei problemi. Questo è il senso de La pensabilità del mondo. Nelle pagine che seguono, prendo le mosse dal paradigma dell'etica pubblica — che negli anni ho inaugurato e difeso — per formulare una filosofia politica delle relazioni internazionali, il cui scopo diretto è evidentemente teorico, ma che non vuole essere per questo estranea a conseguenze pratiche. La tesi centrale, nell'ambito di questa teoria, sostiene che esiste un ordine mondiale, anche se un ordine debole e parziale, che possiamo comprendere, e sulla cui base potremmo agire sicuramente meglio di quanto non facciamo di solito.

Dal punto di vista del metodo, come vedremo nella seconda parte di questo capitolo, la tesi sostanziale de La pensabilità del mondo poggia sulla non-riducibilità reciproca di concetti fondamentali dell'analisi della governanza globale, quali libertà, eguaglianza e identità. L'illusione che, partendo da uno solo di questi concetti, si possa spiegare l'insieme è destinata, a mio avviso, al fallimento. Piuttosto, essi vanno coerentemente reinterpretati all'interno di un paradigma unitario di etica delle relazioni internazionali. Questo paradigma implica, a sua volta, una rilettura originale di alcune nozioni di base della teoria delle relazioni internazionali come governanza, sovranità, globalizzazione e la stessa etica.

Il fine intellettuale e pratico di questa teoria etica delle relazioni internazionali — di cui si parla nella prima parte di questo capitolo e che viene perseguito complessivamente nel libro — consiste nel collegare l'ingiustizia socioeconomica al deficit liberaldemocratico, nello scenario globale, in maniera diversa — e ovviamente, a mio avviso, più utile — dall'usuale. Coniugare diritti e opportunità, equità in materia di beni primari e libertà pubblica rappresenta, infatti, l'obiettivo abituale delle teorie della giustizia sociale, così come si sono sviluppate negli ultimi trent'anni sulla scia dell'opera di John Rawls. Non c'è dubbio che questo libro continui a muoversi nell'orizzonte così tracciato. Tuttavia, io ritengo che, quando ci si sposta dall'ambito dello Stato-nazione a quello della giustizia globale, una teoria normativa della giustizia debba fare i conti con questioni parzialmente diverse e che, perciò stesso, debba assumere forma e struttura differenti.

L'ordine mondiale parziale e debole, di cui si è detto, non si costituisce attraverso un processo costituzionale standard, e non procede dall'alto al basso e dal centro alla periferia. Si costituisce piuttosto attraverso una serie complessa di aggregazioni e assimilazioni di soggetti culturalmente e strutturalmente diversi tra loro e da quelli che popolano la tradizione della filosofia politica classica. La critica dell'ingiustizia, e cioè il cuore del programma di ricerca basato sull'etica pubblica, poggia perciò — se abbiamo in mente lo scenario globale — sull'estensione graduale di princìpi etici interculturali e non sull'imposizione centralistica di un pacchetto eurocentrico di diritti e opportunità a chi non li condivide per ragioni di tradizione e civiltà. Da questo punto di vista, al centro dell'etica pubblica rimane il liberalismo filosofico nella mia peculiare versione. Ma questo liberalismo va, a mio avviso, interpretato in maniera sui generis. Il liberalismo filosofico crea — in questa prospettiva — per tutti noi obblighi morali anche al di fuori della comunità politica nazionale. E, proprio per ciò, è possibile estenderne il paradigma al tema della giustizia globale. Ma al tempo stesso il tema della giustizia globale ci costringe a mutare la struttura del liberalismo filosofico.

In questo modo, il nucleo normativo di una teoria della giustizia viene modificato oltre quanto lo consentirebbe l'adozione di correttivi standard della dottrina liberaldemocratica, come quelli del «liberalismo politico» (Rawls) o della «democrazia deliberativa» (Habermas), in direzione di un più profondo senso del pluralismo basato sull'identità culturale. Questo pluralismo è convintamente multiculturale, partendo dall'idea che princìpi di giustizia globale costituiscono una sorta di area di convergenza di culture e identità differenti nella prospettiva del valore politico. Che una convinzione del genere risponda a esigenze di natura pratica e politica rappresenta — a mio parere — un fatto evidente. Nella misura in cui non siamo tanto interessati all'espansione di un impero, sia pure democratico, quanto all'affermarsi di una società globale comprensibile e quindi governabile, è chiaro che dobbiamo prendere sul serio i percorsi alternativi in cui differenti culture e civiltà costituiscono la loro visione della giustizia. Che ciò non sia empiricamente facile, non dovrebbe poi creare grandi problemi, essenzialmente per la mancanza di alternative praticabili: all'ascolto degli altri si può sostituire solo l'imposizione agli altri. Ma quest'ultima è, direi per definizione, proprio ciò che non vogliamo, perlomeno se teniamo fermo il quadro liberaldemocratico di sfondo.


2. Riconoscimento identitario e princìpi normativi

Il punto non è dunque, o almeno non è principalmente, pratico. Θ piuttosto teorico. Il delicato equilibrio tra ragione normativa e tradizioni culturali rischia di spezzarsi ogniqualvolta le tradizioni culturali medesime vanno in direzione diversa, se non opposta, ai princìpi teorico-normativi. Gli esempi possibili di questa ipotetica rottura sono praticamente infiniti, e sono di solito esempi in cui per ragioni svariate non ce la sentiamo di seguire fino in fondo gli esiti di tradizioni culturali diverse dalla nostra, perché tali esiti ci sembrano, a torto o a ragione, orribili e comunque infrequentabili. Vorremmo, in altre parole, avere botti piene e mogli ubriache, che poi, nel caso in questione, significa condividere lo charme di un multiculturalismo politically correct senza soffrirne gli ovvi limiti, per cui — pur essendo in linea di principio pluralisti convinti — non ce la facciamo poi di fatto a tollerare il trattamento abusivo delle donne da parte di qualche musulmano, la convivenza di efficienza di tipo occidentale con i resti di «dispotismo orientale» in Asia, o la sostituzione, nei programmi di letteratura, di Dante o Shakespeare con i poeti dell'Africa Nera, che pure talvolta amiamo. (Anche se, naturalmente, non bisogna far coincidere questo tipo di polemica con una distinzione tra civiltà. La tolleranza, ci ha detto tra gli altri Amartya Sen, ha antiche origini asiatiche e la pena di morte si pratica anche negli Stati Uniti.)

Simili conflitti tra generosi princìpi, da un lato, e atteggiamenti concreti prudenti, dall'altro, fanno parte dell'esistenza vissuta e capitano — suppongo — a molti. Ma per un filosofo rappresentano una sfida peculiare, quasi un test irrinunciabile della serietà della sua impresa teorica. Il modo in cui questo libro raccoglie tale sfida consiste nel rivedere sostanzialmente la teoria politica normativa, che dall'ambito dello Stato si vuole estendere al sistema-mondo. La complessità dei fenomeni, che sono richiamati di solito sotto l'etichetta più o meno felice di «globalizzazione», richiede necessariamente una revisione non di facciata dell'impianto filosofico politico che siamo abituati a maneggiare. Questa revisione avviene, nel corso del libro, attraverso una congiunzione strutturale tra due apparati teorici originalmente assai diversi tra loro, e per alcuni — di sicuro — apparentemente incompatibili. Le categorie etico-politiche squisitamente normative di libertà ed eguaglianza — quelle che caratterizzano le contemporanee teorie della giustizia — trovano un limite, nel mio modello teorico, nei processi di identificazione che costituiscono l'essenza delle costruzioni periferiche di identità. A questi processi va riconosciuta un'autenticità e una verità che la struttura delle tradizionali teorie della giustizia non è pronta a recepire. Alla luce della categoria dell'identità, solo il riconoscimento attuale (nel senso di wirklich) dei soggetti collettivi diversi, che insieme costituiscono il sistema-mondo, legittima un forma storica di comunità. Ciò, però, non equivale a proclamare la validità indifferente di tutti i processi di identificazione locale. Questi possono, infatti, aspirare a una certa legittimazione, qualora si svolgano secondo itinerari procedurali ragionevoli e coerenti. Ma non per questo possono essere considerati giustificabili. La validità teorica, e quindi la giustificabilità filosofica delle diverse forme di riconoscimento identitario che si presentano sullo scenario mondiale, dipende, infatti, a sua volta dalla capacità dei processi di identificazione di essere compatibili con gli imperativi normativi di libertà ed eguaglianza.

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Il rilievo dell'identità culturale — d'altra parte — è abbastanza evidente quando si pensa alle vicende più significative della recente politica internazionale. Dal Ruanda al Medio Oriente e alla ex Jugoslavia, infatti, il deflagrare di conflitti tragici è apparso legato come non mai alle vicende profonde del riconoscimento identitario. Il Rapporto delle Nazioni Unite del 2004 sottolinea questo fatto in maniera convincente. Da questo punto di vista — come ha sottolineato qualche anno fa l' Economist in un ampio reportage dedicato alla «geopolitica» — il credere che le guerre, e più in generale la competizione internazionale, siano basate su divergenze economico-politiche di natura sistemica è un errore che diviene evidente non appena si ragioni nell'ambito di una prospettiva storica un po' più vasta. I conflitti economico-sociali di un sistema politico caratterizzano, infatti, solo una vicenda peculiare del «secolo breve» in una prospettiva eurocentrica. Il Novecento europeo e nordatlantico ci ha forzato a credere che questa vicenda costituisca la normalità dei rapporti internazionali, ma chiaramente così non è. Prima e dopo il cuore del Novecento, e sempre fuori dai confini del primo mondo, la guerra è nata per ragioni diverse da queste, spesso ragioni religiose, etniche e culturali che è facile far rientrare nell'ambito dell'identità.


3. Liberalismo critico e multiculturalismo

Lo sfondo teorico-politico de La pensabilità del mondo poggia saldamente su un retroterra democratico in un'interpretazione «liberal» (cioè più o meno socialdemocratica). Naturale quindi chiedersi in che senso questo orizzonte liberaldemocratico cambia allorché ci si pone dal punto di vista della giustizia globale. In linea di massima, il mutamento del paradigma liberaldemocratico è duplice. Da un lato, riguarda, infatti, la struttura stessa della teoria politica liberaldemocratica e dall'altro il rapporto con lo sfondo delle teorie delle relazioni internazionali. Nella prima prospettiva, si è già visto come la questione della giustizia globale forza uno spostamento di enfasi teorica e metodologica dall'individualismo normativo in direzione di una visione istituzionalistica, sia pure sui generis. Nel mio caso, il perno fondazionale, attorno cui ruota la versione preferita della liberaldemocrazia, è costituito dal cosiddetto «liberalismo critico», una tesi liberale, in cui il liberalismo funge da sfondo teorico e la democrazia da strumento pratico per una coerente realizzazione di un regime liberaldemocratico. In questo ambito, il liberalismo critico presume una differenza sostanziale tra scelta e preferenza, nel senso che le scelte effettive degli attori politici non testimoniano, una volta e per tutte, le loro autentiche preferenze. Per ragioni complesse, il menu delle scelte reali, entro cui avviene la selezione effettiva di un comportamento politicamente significativo, può essere ridotto oltre misura, e quindi la semplice registrazione della scelta effettuata non equivale a preferenza plausibile.

In questo modo, il liberalismo critico accetta i meccanismi di scelta collettiva, come il mercato e il voto, che da un punto di vista empirico realizzano la priorità della scelta tipicamente liberale, ma per così dire lo fa con riserva. Esiste uno spazio delle ragioni, entro il quale è possibile criticare le scelte effettive in nome di quelle idealizzate. Questa possibilità apre alla distinzione tra i concetti di «legittimazione», che io leggo in chiave strettamente procedurale, e «giustificazione», che invece viene vista in termini etico-sostanziali. Il liberalismo critico non si scandalizza a interpretare alcuni fenomeni come legittimati ma non giustificati, o viceversa. Ciò avviene ogniqualvolta la correttezza delle procedure non corrisponde alla ragionevolezza morale dell'esito decisionale. Quest'opzione presuppone una forte ipotesi normativa in senso filosofico, e cioè la possibilità che una critica degli equilibri realmente esistenti in nome di princìpi etico-politici, derivati dalla teoria, sia fruttuosa. All'obiezione mossa da chi vede proprio in questo spirito normativo un pericolo autoritaristico, insito nella teoria, il liberalismo critico risponde con quello che io chiamo «principio di separazione». Secondo il principio di separazione, un'ipotesi teorico-politica ha come obiettivo non direttamente la prassi ma più semplicemente l'arricchimento del menu di scelta di ognuno di noi. In altre parole, il principio di separazione fa sì che la migliore tesi normativa arricchisca l'intelligenza critica senza sacrificare la libertà di scelta.

Spostato sullo scenario mondiale, il liberalismo critico deve affrontare il problema del multiculturalismo, cioè della difficoltà nel far valere gli stessi princìpi fondamentali attraverso le culture. Indipendentemente da come si interpreti il rapporto tra pluralismo, tipicamente liberale, e multiculturalismo, non c'è dubbio che esporre una teoria etico-politica a un panorama multiculturale implichi una riduzione delle pretese normative della teoria stessa. Ciò può essere fatto tramite una riduzione del lato prettamente etico della teoria a favore di un'enfasi concessa agli aspetti procedurali del modello. Quest'ultima è all'incirca la soluzione prescelta da Jόrgen Habermas. Oppure, può essere fatto tramite l'elaborazione di un liberalismo più politico che morale, in cui la pratica del dissidio intellettuale sia normalizzata alla luce di un interesse collettivo permanente dei soggetti a rimanere entro i limiti di un conflitto ragionevole, che consenta il perdurare di un duraturo «overlapping consensus». Questo è il nocciolo della tesi sostenuta da John Rawls. La tesi, da me sostenuta, dell'integrazione pluralistica dal basso critica entrambe queste soluzioni, giudicate insufficienti rispetto alla complessità del compito. E, come si è già detto, propone una strategia normativa più articolata, basata sostanzialmente su una dialettica complessa centro-periferia.

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D'altra parte, non c'è nulla di sorprendente in quanto m'appresto a sostenere. Una libertà astratta, se fosse mai possibile, in uno scenario segnato da drammatica povertà e dalla perdita delle proprie tradizioni non è di certo auspicabile. Come del resto non lo è un'eguaglianza priva di libertà e dignità culturale, oppure un culto della tradizione perseguito a danno di libertà ed eguaglianza. Solo mettendo d'accordo questi tre fattori, si può ipotizzare un progetto di «pace perpetua», come avrebbe detto Immanuel Kant, o quantomeno si può nutrire la speranza di un futuro accettabile per l'umanità. Se, in quest'ottica, si guarda alla governanza della globalizzazione, allora diritti e democrazia devono congiungersi a un sistema economico aperto e distributivamente equo, costruito su una rete di istituzioni che tutelino le identità degli individui e dei gruppi.

Ne risulta un modello normativo complesso, il cui esito, in breve, è che l'integrazione delle parti del pianeta in conflitto potenziale tra loro, nell'età attuale della globalizzazione, non dipende dall'imposizione dall'alto di un modello vincente di produzione-distribuzione e di legalità etico-politica, ma riflette al contrario le esperienze locali e periferiche di soggetti complessi, ricercandone i luoghi di incontro o di scontro reciproci. Si tratta del modello basato – come si è detto – sulla «integrazione pluralistica dal basso», nozione che sacrifica di certo l'eleganza in cambio, si spera, di una certa chiarezza delle sue intenzioni fondamentali. In merito a questa, si può affermare quanto segue:

1) l'allocazione delle risorse via mercato trova, in questo modello, un correttivo nella distribuzione egualitaria a tutela della sostenibilità del sistema, in maniera specificamente legata alle culture di appartenenza delle popolazioni interessate (vedi capitolo 6);

2) allo stesso modo, la ragione pubblica si espande fino a concepire i diritti anche come diritti economico-sociali, e in sintonia con le identità differenti (vedi capitolo 5);

3) Le questioni identitarie, in quanto tali, fanno sì che il modello debba essere proposto in forma «inside-out», cioè facendo emergere le caratteristiche normative dall'interno delle varie culture (vedi capitoli 5 e 3).

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2.2.

Lo scetticismo filosofico sulla fondazione dei diritti umani è tradizionale e antico. Da un punto di vista della controversia culturalista, è curioso quanto ci sia coincidenza, e quanto poco questa coincidenza sia notata, tra critiche tradizionali e critiche recenti al paradigma filosofico dei diritti umani. In realtà, le critiche tradizionali, che per esempio i romantici rivolgevano agli illuministi e che spesso gli storicisti riprendevano dai romantici, insistevano sull'omogeneizzazione e il sacrificio delle differenze che una visione illuminista e universalista dei diritti umani comportava. I diritti, in questa prospettiva, rappresentano un improprio livellamento di fertili differenze interindividuali e interculturali. Che cosa fanno i critici postmoderni dei diritti umani se non radicalizzare questo tipo di critica, riproponendola magari – come Derrida – in termini di antilogocentrismo e tutela delle differenze? Quando lo stesso Derrida sostiene che puntare sui diritti umani equivale ad abbracciare un'opzione mistica, non fa altro in realta che ribadire, in versione differenzialistica, l'anatema romantico nei confronti dei diritti umani. Jόrgen Habermas attribuisce l'esercizio sistematico del sospetto sui diritti umani a due scuole di pensiero, di cui l'una teoretica risale a Heidegger e l'altra politica a Carl Schmitt. Si può notare che nella visione postmoderna spesso la critica scettica dal punto di vista teoretico si congiunge con l'opzione politica decisionista.

Lo scetticismo filosofico sui diritti umani non è, però, solo differenzialista e decisionista, romantico, storicista e antilluminista. Θ anche reazionario, come nel caso di de Maistre, rivoluzionario, come nel caso di Marx, o iperdemocraticista, come nel caso di Bentham. Tranne l'ultimo caso, che da questo punto di vista è più complesso, a me sembra che romantici, rivoluzionari e reazionari convergano, nel loro essere contro i diritti umani, e che il collante sia costituito da una cultura poco sensibile o addirittura francamente ostile al liberalismo. Questo antiliberalismo è anche il trait d'union che rende possibile la ricordata congiunzione tra heideggeriani e schmittiani nell'esercitare il sospetto sui diritti umani. Anche in questo caso, è da notare che i relativisti, come critici dei diritti umani, possono trovare una fonte in Heidegger, laddove i realisti possono cercare ispirazione in Schmitt. Se il collante di visioni così differenti è l'antiliberalismo, e magari la volontà non sempre esplicita di giustificare regimi autoritari, non dovrebbe sorprendere che una difesa filosofica dei diritti umani poggi su una visione liberale della giustizia.

La diffusione dello scetticismo filosofico sui diritti umani eccede però di gran lunga i limiti delle culture tradizionalmente poco sensibili al liberalismo. Hans Kelsen e Benedetto Croce, entrambi liberali ma contrari ai diritti umani, sono un esempio mirabile di ciò. Fatto è che una fondazione filosofica dei diritti umani rappresenta intrinsecamente un'impresa difficile, per così dire indipendentemente dal tipo di impostazione teoretica preferita. Impresa che, naturalmente, è resa ancora più difficile quando si apre la questione della diversità culturale. Non è complicato, fortunatamente, comprendere la ragione concettuale più evidente alla base di questa difficoltà. Questa ragione ha a che fare con la natura ambigua, assieme empirica e filosofica, come la si è chiamata prima, dei diritti umani. I diritti umani sono essenzialmente diritti morali, e quindi indipendenti da ogni ordinamento giuridico e da ogni applicazione in norme concrete. E, in realtà, proprio questa loro indipendenza dal piano legale in senso stretto, e questa loro natura morale, li rendono una pietra di paragone e una riserva critica per il diritto positivo. Ciononostante, è praticamente impossibile pensare ai diritti umani senza tenere conto del fatto che esiste una loro validità effettiva e un insieme di fonti riconosciute. Il discorso filosofico sulla natura morale dei diritti umani non può, in altre parole, prescindere dalla loro istituzionalizzazione effettiva.

Questo sfondo ha una sua controparte più strettamente filosofica. Una fondazione filosofica dei diritti umani può assumere o un punto di vista esterno alle pratiche in cui i diritti si affermano, oppure un punto di vista interno a queste pratiche. Nel primo caso, si sottolinea l'aspetto morale dei diritti umani e la fondazione appare forte e significativa nella prospettiva di una critica normativa della prassi esistente. Ma, se si esclude l'ipotesi di un giusnaturalismo classico o comunque della condivisione di una Weltanschauung religiosa, come avviene nella dottrina cristiana del diritto naturale, risulta assai impervia. Nel secondo caso, invece, accade esattamente il contrario. Θ più plausibile essere d'accordo, ma più che fondare una teoria dei diritti umani si cerca spesso la conferma nella teoria di una prassi legale già esistente. Con la conseguenza di un indebolimento notevole delle capacità critiche della propria posizione teorica. C'è anche chi, come Jacques Maritain, sostiene la compatibilità di queste due opzioni: bisognerebbe essere, secondo questa visione, fervidamente convinti di una tesi fondazionale specifica, ma al tempo stesso ogni plausibile accordo su reali diritti umani sarebbe basato sulla necessità di mettere da parte provvisoriamente la disputa sui fondamenti.

Credo che la maggior parte delle critiche alla fondazione filosofica dei diritti umani non sfugga al quesito posto da questa impasse. Come vedremo più avanti, quando si discute di diritti umani e diversità culturale, le due opzioni principali, cioè il relativismo morale e l'universalismo monistico, oscillano anche esse tra queste due polarità. Tipicamente, il relativismo appare una fondazione dei diritti umani troppo interna rispetto al loro rapporto con una cultura, mentre l'universalismo risulta troppo esterno. La mia tesi, in proposito, è semplicemente che questo è un buon motivo per andare alla ricerca di una soluzione terza rispetto all'universalismo e al relativismo, in modo da sfuggire al dilemma che questi estremi pongono. L'idea alla base di questa terza soluzione consiste innanzitutto nel distinguere opportunamente tra fondazione e giustificazione. Dove la fondazione vera e propria risulta improbabile, non è detto che una giustificazione sia impossibile. Qualsiasi sia il tipo di giustificazione favorito – dialogico, contrattualista, fenomenologico ecc. – la giustificazione, come contrapposta alla fondazione, ha sempre la caratteristica di attribuire significato parzialmente normativo ad alcuni elementi del contesto effettuale. Il costruttivismo, come contrapposto, per esempio, all'intuizionismo, può costituire una base filosofica per la giustificazione.

Nell'ambito di un processo generale giustificativo, a mio avviso, è poi opportuno distinguere qui tra giustificazione e legittimazione. In un'ottica liberaldemocratica, entrambe dipendono dal consenso dei cittadini, ma come già detto altrove, la legittimazione è procedurale ed empirica e la giustificazione trascendentale o virtuale. Ciò vuol dire che la legittimazione ha sullo sfondo il consenso empirico oppure la correttezza dell'iter procedurale, mentre la giustificazione il consenso ipotetico in condizioni ideali opportunamente definite. Nel prosieguo cercherò di applicare questa distinzione tra giustificazione e legittimazione alla questione del rapporto tra universalità dei diritti umani e tutela della diversità culturale.

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6. Sviluppo sostenibile e filosofia politica


1. Sviluppo sostenibile: alle origini di un'idea

Negli anni in cui studiavo all'Università di Napoli, verso la fine degli anni sessanta, esisteva una convinzione diffusa in Europa occidentale secondo la quale il capitalismo versava in una crisi profonda e irreversibile. La ragione di questa crisi aveva molto a che fare con una vicenda centrale nella parabola di quello che due economisti marxisti, molto popolari a quel tempo, Baran e Sweezy, chiamavano il «capitale monopolistico». La crescita economica capitalistica, a sentire questi autori, era vincolata a una sorta di coazione a ripetere, il cui imperativo principale consisteva nella necessità di stimolare continuamente domanda e consumo. Questa stessa necessità rendeva cieca e non controllabile la crescita dell'economia capitalistica. E indirettamente offriva il verso alla critica di tutti coloro che, ispirandosi a personaggi più fantasiosi degli economisti sopra ricordati, quale per esempio il filosofo tedesco Herbert Marcuse, ritenevano la «dimensione» capitalistica non compatibile con una decente qualità della vita. La critica neomarxista dell'economia si congiungeva così con l'ansia libertaria per comporre quel cocktail creativo comunemente chiamato «Sessantotto» In maniera strana, ma sicuramente originale, l'impossibilità di una riconciliazione tra capitale e lavoro nell'ambito dell'economia neoclassica, che era parte importante del progetto comunque industrialista e modernizzatore di Marx, finiva per incontrare la resistenza tardoromantica e neoschilleriana all'impero della tecnica e della produzione, questa invece sostanzialmente antimodernizzatrice e antindustrialista. Una resistenza che evocava anche ritualisticamente la qualità contro la quantità, l'autenticità in vece dell'omologazione, la fantasia al posto della coazione a ripetere, l'umano piuttosto che la tecnica, lo sviluppo in luogo della mera crescita e così via.

Come dicevo, la miscela sessantottarda di marxismo e neoromanticismo era anomala, per così dire, intrinsecamente. Non stupisce così che abbia fallito i suoi obiettivi più significativi. Quando si fa un'analisi delle ragioni di quel fallimento si sottolineano di solito gli aspetti eccessivamente utopici del progetto etico-politico che sottostava al movimento del Sessantotto. E bisogna riconoscere che c'è molto di vero in questa critica retrospettiva. Analisi del genere, però, non mettono in rilievo adeguatamente due altri aspetti della questione, aspetti per altro che a me sembrano fondamentali. Intendo riferirmi da un lato a quanto c'era di buono in quella miscela del Sessantotto, e che potremmo considerare anche oggi attuale e interessante, e dall'altro lato a quanto di nuovo e significativo si è prodotto da allora a oggi nel mondo delle idee etico-politiche che, in un certo senso, potrebbe rivitalizzare la parte migliore di quel progetto esaurito. A mio avviso, non è però troppo difficile azzardare un'ipotesi interpretativa in proposito. Il meglio del progetto del Sessantotto ha a che fare con la sua capacità di riunire, in un unico paradigma, la ricerca della qualità della vita con la questione economico-sociale, sarebbe a dire con il modo di produzione capitalistico e l'ingiustizia sociale che ne deriva. Le più significative proposte etico-politiche, che si sono affacciate sul mercato delle idee da allora a oggi, riguardano gli sviluppi del paradigma della giustizia distributiva da John Rawls ad Amartya Sen.

Naturalmente, tutto ciò visto dopo il 1989 acquista una luce diversa. Perché possiamo affermare che i nostri interessi morali, politici, ma anche estetici, per una difesa della qualità della vita contro una concezione puramente quantitativa della crescita economica sono ancora simili a quelli che si nutrivano quasi quarant'anni fa, come è tra l'altro testimoniato dall'affermarsi progressivo di movimenti ecologisti e di strumenti economici qualitativi da allora a oggi. Quello che, invece, è diventato piu difficile è credere nella componente neomarxista della miscela 1968, perlomeno se presa alla lettera, come risposta alle domande poste dalla questione economico-sociale. Se si accetta questa impostazione del problema, allora diventa immediato chiedersi se quello che ho chiamato il paradigma delle teorie della giustizia distributiva possa sostituire l'anello mancante, cioè la lettura marxista della questione economico-sociale. Il ragionamento sottostante una proposta del genere è infatti chiaro: se la miscela del 1968 aveva di buono l'unione di difesa della qualità della vita e questione economico-sociale, o se volete il rendere compatibili le cause di miseria e degrado (non solo materiale); se la questione economico-sociale non può più essere riproposta come allora in termini di neomarxismo; se le teorie della giustizia da Rawls a Sen costituiscono un modo innovativo e interessante per discutere la questione economico-sociale; allora si può tentare di riproporre la difesa della qualità della vita nell'ottica di una teoria della giustizia distributiva.

Quanto detto finora costituisce la premessa motivazionale da cui dipende questo capitolo su sviluppo sostenibile e filosofia politica. La tesi principale, sostenuta qui, verte su un'interpretazione filosofica dello sviluppo sostenibile. Secondo questa interpretazione, proprio una teoria dello sviluppo sostenibile permette quella congiunzione di difesa della qualità della vita e questione economico-sociale, di cui il Sessantotto si fece portavoce. Se vogliamo, sto sostenendo che la questione della tutela del capitale naturale (contrapposto a capitale artificiale), che sta sotto l'idea di sostenibilità, non può essere scissa da quella dell'equità distributiva. Se, però, nel 1968 difendere il capitale naturale e promuovere l'equità sociale poteva coincidere con il progettare la rivoluzione comunista, oggi non è più così. La filosofia politica dello sviluppo sostenibile, che qui propongo, assume che sia possibile una conciliazione liberal e socialdemocratica di produzione via mercato, distribuzione equa e tutela del capitale naturale. Per difendere questa tesi, nel prossimo paragrafo cercherò di delineare al meglio l'ambito di una filosofia dello sviluppo sostenibile. Non è questo un compito facile, date le difficoltà teoriche e pratiche implicite nell'idea di sviluppo sostenibile, e l'ulteriore complessità che è dovuta al voler riproporre tale idea in termini di giustizia distributiva. La proposta generale di questo capitolo consiste nell'includere la questione dell'eguaglianza economico-sociale all'interno del grande tema dello sviluppo sostenibile, trattando però quest'ultimo nei modi in cui si discute di solito di giustizia distributiva. Nel terzo paragrafo discuto le basi morali e psicologiche di questa visione, presentando un'ipotesi psicologico-sociale basata sul concetto di limite. Nel quarto, cerco di estendere il paradigma alla globalizzazione economica in atto, tentando anche di riformulare l'ipotesi sul limite in termini di mutamenti della struttura economica. E nel quinto, traggo alcune conclusioni dal percorso intellettuale qui proposto, con la consapevolezza che più che un teorema etico-politico ho esposto un'idea in nuce, la possibilità di un legame che riguarda fenomeni significativi che caratterizzano il nostro tempo.

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7. Θ il capitalismo moralmente accettabile?


1. Capitalismo e morale

Per molti studiosi, e spesso anche per l'uomo della strada, la democrazia politica è un regime in crisi. Al contrario, il capitalismo sembra, al colto come all'inclita, florido più che mai. Il problema che mi sono posto nasce da qualche dubbio in proposito. Se guardato, infatti, in una prospettiva globale, il capitalismo può essere considerato parzialmente inefficiente e soprattutto causa di profonda ingiustizia. Questo capitolo nasce proprio dalla constatazione che spesso l'operare del mercato capitalistico contrasta – in primo luogo per l'ineguaglianza e la miseria che genera – con il nostro senso di giustizia. Il titolo del capitolo consiste in una domanda alquanto brutale: «Θ il capitalismo moralmente accettabile?». La risposta immediata che io do a questa domanda: «No, non è moralmente accettabile», almeno se per accettabile si intende «in grado di superare il test di una giustificazione filosofica». Nell'affermarlo, sono ben consapevole che il termine capitalismo è vago, tanto da costituire per molti un punto di partenza inadeguato. Tuttavia, in questo caso «capitalismo» basta, a mio avviso, a catturare un'intuizione comune, e a me non serve più di tanto. Evidenti sono anche i limiti della prospettiva teorica che contraddistingue il mio argomento. Da un punto di vista analitico, infatti, la mia risposta alla domanda assai generica posta dal titolo del capitolo adopera gli strumenti dell'etica degli affari, vista nell'ottica della filosofia politica. Ed è ovvio che il problema qui posto può essere posto anche in un'ottica diversa e più generale. Comunque sia, la conclusione cui pervengo è che, dati questi strumenti teorici, non è possibile trovare una giustificazione etica del mercato capitalistico. Questa tesi, però, non equivale a un rifiuto radicale né dell'etica degli affari né tantomeno del mercato capitalistico. Anzi, nel prosieguo sostengo che, su queste basi, è possibile reperire un'ulteriore legittimazione del mercato capitalistico, oltre a quelle strettamente legate all'efficienza economica. Si può anche dire che un capitalismo moralmente decente, e quindi legittimato, è il presupposto di ogni giustificazione etica del capitalismo. Θ anche opportuno aggiungere che la stessa prospettiva analitica prescelta esclude, in quanto tale, il ricorso a forme di giustificazione critica del capitalismo più radicali, in cui non sussista un meccanismo di selezione dell'informazione del tipo del mercato. Ma, per comprendere il senso di queste affermazioni, bisogna necessariamente fare un passo indietro, cominciando con l'esaminare natura e problemi dell'etica degli affari.

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