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| << | < | > | >> |Pagina 3L'ultima biblioteca che ho avuto si trovava in Francia, all'interno di un'antica canonica in pietra a sud della valle della Loira, in una borgata tranquilla di meno di dieci case. Io e il mio compagno avevamo scelto quel posto perché vicino alla casa c'era un granaio, crollato in parte secoli addietro, grande abbastanza per sistemarci la mia biblioteca, che a quel tempo aveva raggiunto i trentacinquemila volumi. Pensavo che una volta che i libri avessero trovato il loro posto, anch'io avrei trovato il mio. I fatti mi avrebbero smentito.| << | < | > | >> |Pagina 11Ho sempre amato le biblioteche pubbliche, ma devo confessare un paradosso: non sono a mio agio quando ci lavoro. Sono troppo impaziente. Non mi piace aspettare per i libri che desidero, un'attesa inevitabile a meno che la biblioteca non sia benedetta dalla generosità degli scaffali aperti. Non mi piace avere il divieto di scrivere sui margini dei libri che prendo in prestito. Non mi piace dovere restituire i libri se scopro nelle loro pagine qualcosa di sorprendente o di prezioso. Come un avido predatore, voglio che i libri che leggo siano miei.Nasce forse da qui quel senso di scomodità che provo nelle biblioteche on-line: non possiamo possedere davvero un fantasma (è semmai il fantasma a poter possedere noi). Voglio la materialità della cosa verbale, la solida presenza del libro, la forma, la dimensione, la consistenza. Capisco la convenienza dei libri immateriali e l'importanza che hanno in una società del XXI secolo, ma per me hanno la stessa qualità delle relazioni platoniche. Forse è questa la ragione per cui mi addolora tanto perdere i libri che le mie mani conoscevano cosí bene. Sono come Tommaso, che per credere voleva toccare. | << | < | > | >> |Pagina 13Tutti i nostri plurali sono, alla fin fine, singolari. Che cos'è allora che dalla fortezza del nostro io ci spinge a cercare la compagnia e la conversazione di altri esseri nei quali rispecchiarci all'infinito nello strano mondo in cui viviamo? Il mito platonico della duplice natura dei primi uomini, divisa successivamente in due dagli dèi, spiega entro certi limiti il perché del nostro sforzo: siamo alla nostalgica ricerca della nostra metà perduta. E tuttavia strette di mano, abbracci, dibattiti accademici e sport di contatto non bastano comunque a far breccia nella nostra convinzione di individualità. Il nostro corpo è un burka che ci protegge dal resto dell'umanità, e non c'è bisogno che Simeone lo Stilita, per sentirsi isolato dai suoi simili, salga in cima a una colonna nel deserto. Siamo condannati alla singolarità. Ogni nuova tecnologia, però, offre nuove speranze di ricongiungimento. Le pitture murali delle caverne chiamarono a raccolta i nostri antenati, a discutere i ricordi collettivi delle cacce al mammut; le tavolette d'argilla e i rotoli di papiro permisero loro di comunicare con chi era distante e con chi non c'era più. Johannes Gutenberg creò l'illusione che non siamo unici e che ogni copia del Don Chisciotte sia uguale a qualsiasi altra (un trucco che non ha mai convinto del tutto la maggior parte dei suoi lettori). Assiepati davanti al televisore, abbiamo assistito al primo passo di Neil Armstrong sulla luna e, non contenti di fare parte di quella sterminata folla contemplativa, abbiamo inventato nuovi dispositivi per riunire amici immaginari, ai quali confidiamo i segreti piú pericolosi e per i quali postiamo i ritratti piú intimi. In nessun momento del giorno o della notte siamo inaccessibili: ci siamo resi reperibili nel sonno, durante i pasti, in viaggio, nel bagno, mentre facciamo l'amore. Abbiamo reinventato l'occhio onniveggente di Dio. La silenziosa amicizia della luna che fu di Virgilio non ci appartiene piú, e abbiamo abbandonato le «assise di dolci silenti pensieri» che tanto piacevano a Shakespeare. Soltanto le vecchie conoscenze che rispuntano su Facebook risvegliano in noi il ricordo delle cose passate. Gli amanti non possono piú essere assenti, né i conoscenti sparire per un po': basta il tocco di un dito e li possiamo raggiungere, come loro possono raggiungere noi. Soffriamo del disturbo opposto all'agorafobia: ormai siamo perseguitati da una presenza costante. Sono tutti sempre qui. | << | < | > | >> |Pagina 46Forse la piú grave perdita di una biblioteca (ma non c'è biblioteca la cui perdita non sia inestimabile) avvenne in un giorno misteriosamente sfuggito alle nostre storie. Non sappiamo con precisione quando fu che la biblioteca destinata a servire da modello a tutte le biblioteche, la Biblioteca di Alessandria, conobbe la propria fine. In realtà non conosciamo quasi niente della grande biblioteca, a parte la sua fama. La descrizione di Kingsley probabilmente è piú vicina a un coevo dipinto di Lawrence Alma-Tadema che alla biblioteca, troppo ben conosciuta dai viaggiatori dell'epoca perché si prendessero la briga di descriverla. Non ci è arrivato neanche un racconto su come funzionasse, sull'aspetto e le dimensioni che poteva avere, sui lettori che ci studiavano. Possiamo desumere alcune di queste informazioni da diverse fonti, ma tutto quel che abbiamo è una serie di storie (probabilmente vere) sulla sua creazione e di storie (probabilmente false) sulla sua fine. La Biblioteca di Alessandria, per quanto ne sappiamo, fu fondata nel III secolo a.e.v. da Tolomeo I, un generale macedone che aveva servito sotto Alessandro Magno, che a sua volta aveva avuto Aristotele come tutore. Leggenda vuole che la biblioteca sia stata costruita a partire dai libri che Aristotele aveva lasciato a un suo allievo, Demetrio di Falero e abbia trovato sede nel Museion, la casa delle Muse, figlie della dea Memoria. Per soddisfare la smisurata cupidigia dell'impresa, i re tolemaici ordinarono che ogni libro del regno fosse acquistato o copiato e trasferito nella biblioteca, che all'apice della fama si dice possedesse quasi mezzo milione di rotoli. Le navi che ormeggiavano nel porto di Alessandria venivano perquisite alla ricerca di libri. I libri eventualmente trovati erano confiscati dalle autorità portuali, copiati e quindi restituiti, anche se a volte a tornare al proprietario erano le copie anziché gli originali. Per almeno tre secoli la Biblioteca di Alessandria custodí sotto il proprio tetto la maggior parte della memoria del mondo mediterraneo. La sua fine avvenne in circostanze tanto incerte quanto quelle della sua esistenza. Scrivendo a quasi un secolo di distanza dai presunti eventi, Plutarco ci racconta che la biblioteca fu distrutta da un incendio appiccato dalle truppe di Giulio Cesare nel 48 a.e.v. durante l'assedio di Alessandria, una versione che oggi appare dubbia alla grande maggioranza degli studiosi, secondo i quali l'incendio distrusse soltanto i depositi nei pressi del porto, dove erano custoditi i libri in eccedenza. Può darsi che l'attrattiva del racconto, frequentemente ripetuto, dipenda dalla Schadenfreude di sapere che la superba biblioteca incontrò la sua rovina in un incendio tanto divorante quanto la sua ambizione. Quale che ne fosse stata la causa, dopo la distruzione i lettori di Alessandria si servirono di una «succursale» della Biblioteca ospitata nel Serapeo, un tempio eretto in un'altra zona della città, destinato anch'esso a una tragica fine. Secondo lo storico del V secolo Socrate di Costantinopoli, nel 391 il pope copto Teofilo ordinò di radere al suolo il Serapeo. Era un'epoca di epiloghi. Lo stesso anno l'imperatore Teodosio I proibí i riti pagani e proclamò il cristianesimo religione di Stato, chiuse tutte le scuole non cristiane di filosofia, proscrisse i luoghi pagani di culto e spense il sacro fuoco che ardeva nel Tempio di Vesta a Roma. Uno dei primi studiosi a lavorare nella Biblioteca fu Callimaco, poeta e critico greco straordinariamente prolifico. [...] Quasi sicuramente tra i titoli scomparsi figurava l'epopea comica di Omero Il Margite, secondo Aristotele opera antesignana di tutte le commedie, «come l' Iliade o l' Odissea stanno in rapporto alle tragedie». Il secondo libro della Poetica di Aristotele (che fornisce un movente all'assassino del Nome della rosa di Umberto Eco) scomparve insieme alla Biblioteca. È andata perduta anche la maggior parte delle opere dei piú importanti drammaturghi greci. Secondo fonti antiche la Biblioteca custodiva 90 drammi di Euripide, 70 (secondo alcuni 90) di Eschilo e 123 di Sofocle. Di questa enorme collezione, a parte qualche frammento sparso, solo 18 opere di Euripide, 7 di Eschilo e 7 di Sofocle sono giunte fino a noi nella loro interezza. Callimaco mori nel 240 a.e.v., anno in cui un altro bibliotecario di Alessandria, Eratostene, considerato il fondatore della geografia, calcolò la circonferenza della Terra con un errore del 2 per cento. Durante il suo ufficio di capo bibliotecario Eratostene fece acquisire alla Biblioteca le copie ateniesi ufficiali (ciò che di piú vicino agli originali poteva esserci) delle opere dei tre giganti della drammaturgia greca, Sofocle, Eschilo ed Euripide. Riuscí a convincere il re a versare l'equivalente odierno di quattro milioni di dollari come garanzia dei preziosi manoscritti. Tuttavia, una volta che i rotoli arrivarono ad Alessandria, Eratostene chiese al re di rinunciare al deposito, ordinò di copiare i manoscritti e rimandò le copie ad Atene. Gli ateniesi, ritrovandosi con i testi e con il denaro, dovettero rimanere soddisfatti. | << | < | > | >> |Pagina 56[...] La creazione è un impegno lecito, alla portata degli uomini, o siamo condannati a fallire dal momento che l'arte, essendo umana e non divina, porta in sé il seme del proprio fallimento? Dio dice di essere un Dio geloso: ma è anche un artista geloso? Secondo un commento talmudico citato da Louis Ginzberg nelle Leggende degli ebrei, il serpente, nel Giardino dell'Eden, disse a Eva: «Anche lui mangiò dapprima del frutto dell'albero, e poi creò il mondo. Per questo vi proibisce di mangiarne, per tema che voi creiate altri mondi. Tutti sanno che "si odiano coloro che fanno lo stesso mestiere». Per artisti e scrittori è allettante pensare di far parte della stessa gilda di colui che li creò e li dotò delle loro capacità creative.Una delle versioni piú esplicite di questo paradosso è costituita dalla leggenda del Golem, che credo possa essere usato come metafora della biblioteca. La parola golem appare per la prima volta nel salmo 139: «I tuoi occhi hanno visto il mio golem». Secondo rabbi Eliezer, che scriveva nel I secolo e.v., la parola golem significa «massa informe». La leggenda settecentesca del Golem, di questa «massa informe», narra di come il Maharal di Praga (acronimo per Moreinu Ha-Rav Loew, «il nostro maestro rabbi Loew») avesse plasmato una creatura di argilla per proteggere gli ebrei dai pogrom. Sulla fronte della creatura rabbi Loew scrisse la parola emet, «verità», che permise al Golem di prendere vita e aiutare il rabbino nelle faccende quotidiane. Successivamente, però, il Golem sfuggí al controllo del maestro e seminò il caos nel ghetto, obbligando cosí rabbi Loew a farlo tornare polvere cancellando la prima lettera di emet, in modo che la parola diventasse met, «morte». Il Golem ha antenati prestigiosi. In un passo talmudico del Sanhedrin, si afferma che nel IV secolo e.v. il maestro babilonese Rava creò un uomo d'argilla e lo mandò da rabbi Zera, il quale provò a conversare con lui, e quando si accorse che la creatura non riusciva a emettere neanche una parola, le disse: «Tu sei della stirpe degli stregoni; torna nella polvere». Immediatamente la creatura si sgretolò in un ammasso informe. Un altro passo spiega che nel III secolo due maestri palestinesi, rabbi Haninah e rabbi Oshea, con l'aiuto del Sefer Yetzirah, o Libro della Creazione, a ogni vigilia di Shabbat davano la vita a un vitellino, che si cucinavano per cena. Nel 1915, prendendo spunto dalla leggenda settecentesca di rabbi Loew, lo scrittore austriaco Gustav Meyrink pubblicò Il Golem, romanzo fantastico che racconta di una creatura che ogni trentatre anni appare alla finestra irraggiungibile di una stanza circolare senza porte nel ghetto di Praga. Il romanzo di Meyrink era destinato ad avere un'inattesa progenie. Nello stesso anno il sedicenne Jorge Luis Borges , bloccato con la famiglia in Svizzera durante la guerra, lesse Il Golem di Meyrink in tedesco restando affascinato dall'atmosfera inquietante del romanzo. «Tutto in questo libro è sinistro», avrebbe scritto piú tardi, «perfino i monosillabi dell'indice: Prag, Punsch, Nacht, Spuk, Licht...» Borges vide nel Golem di Meyrink «un racconto fatto di sogni che racchiudono altri sogni» e utilizzò quella modalità fantastica di raccontare il mondo per gettare le basi di gran parte della sua narrativa successiva. Più di quarant'anni dopo, nel 1957, Borges fece riferimento al Golem nella prima versione del suo Libro degli esseri immaginari; | << | < | > | >> |Pagina 59[...] I traduttori lo sanno bene, forse meglio di chiunque altro lavori con le parole: qualsiasi cosa costruiamo con le parole non coglie mai nella sua interezza l'oggetto desiderato. Il Verbo che sta al principio nomina, ma non può essere nominato.Per tutta la vita Borges indagò e mise alla prova questa verità. Dalle sue prime conferenze a Buenos Aires fino agli ultimi scritti dettati dal suo letto di morte a Ginevra, ogni testo diventava per lui dimostrazione del paradosso letterario dell'essere nominato senza che il nominare riesca a dare la vita a ciò che nomina. Fin dall'adolescenza in tutti i libri che leggeva gli sembrava che gli sfuggisse qualcosa, come un mostro capriccioso, che prometteva però un'illuminazione maggiore alla pagina seguente, alla lettura successiva. E qualcosa in ogni pagina che scriveva lo costringeva ad ammettere che l'autore non era il padrone ultimo della sua creazione, del suo Golem. Questo doppio legame, la promessa di rivelazione che ogni libro offre al suo lettore e l'annuncio di sconfitta che ogni libro presenta al suo scrittore, è ciò che fornisce all'atto letterario la sua costante fluidità. Per Borges questa fluidità arricchisce la Commedia di Dante e al tempo stesso le aggiunge un elemento di tragedia. Secondo Borges, Dante tentò di creare un universo di parole di cui il poeta fosse il signore assoluto: un mondo in cui egli potesse godere dell'amore dell'adorata Beatrice, parlare all'amato Virgilio, rinnovare i rapporti con amici che non c'erano ricompensare con un posto in paradiso coloro che riteneva lo meritassero, e vendicarsi dei suoi nemici condannandoli all'inferno. L'antica massima Nomina sunt consequentia rerum, «le parole sono conseguenze delle cose», può funzionare in entrambe le direzioni, come insegnavano i kabbalisti basandosi sulla storia di Adamo nel libro della Genesi. Se le parole esistono perché corrispondono a cose esistenti, anche le cose potrebbero esistere perché ci sono parole che le nominano. In letteratura però le cose non funzionano cosí. | << | < | > | >> |Pagina 63Secondo uno dei piú comuni luoghi comuni letterari, il numero di trame possibili è alto, ma limitato. Non potrebbe essere cosí anche per le biblioteche? Il numero delle combinazioni di libri, per quanto inconcepibilmente grande, non è infinito. Piú di un secolo fa, Lewis Carroll riassunse questa idea sconcertante in Sylvie e Bruno: «Verrà un giorno», scriveva, «in cui tutti i libri saranno stati scritti! Perché le parole sono di numero finito». E aggiungeva: «Invece di chiedersi "che tipo di libro scriverò?" un autore si chiederà "che numero di libro scriverò?"» Sembra che siamo condannati alla ripetizione.Ma questa ripetizione è dovuta alle deboli capacità della mente umana o alle percezioni associative di noi lettori? «Poiché la vita è un viaggio o una battaglia», osservava Raymond Queneau , «ogni storia è un' Iliade o un' Odissea». D'accordo, ma è perché siamo incapaci di concepire una storia completamente nuova o perché in tutte le storie riconosciamo tracce di nostre precedenti letture? Il fatto che le Avventure di Pinocchio mi sembrino una riscrittura delle Avventure di Telemaco (entrambe narrano la storia di un ragazzo in cerca del padre) e che ogni nuovo romanzo spazzatura assomigli a un vecchio romanzo spazzatura dipende dalla scarsità di provviste nella nostra dispensa mentale o dalla nostra abilità nel riconoscere - per dirla con Henry James - la figura nel tappeto? Il mio sospetto è che esista una terza possibilità. Noi amiamo le ripetizioni. Da bambini chiediamo che ci rileggano sempre la stessa storia esattamente allo stesso modo. Da adulti, pur proclamandoci amanti delle novità, cerchiamo sempre gli stessi giocattoli a cui siamo abituati, camuffati in genere da ammennicoli diversi, con la stessa sconcertante determinazione con cui continuiamo a votare gli stessi uomini politici che si presentano sotto maschere diverse. Chesterton pensava che in questo fossimo uguali a Dio, che a suo parere si bea della monotonia. «Può darsi», scrisse Chesterton, «che ogni mattina Dio dica: "Fallo ancora" al sole e ogni sera dica: "Fallo ancora" alla luna». Nella ripetitività troviamo conforto. Gli antichi non si preoccupavano di essere originali. Le storie raccontate da Omero erano ben note ai suoi ascoltatori, e Dante poteva contare sul fatto che il suo pubblico fosse al corrente (fin troppo bene) dei peccati puniti all'inferno e dei pettegolezzi su Paolo e Francesca. Le cose che sarebbero successe erano già parte dell'esperienza dei nostri predecessori, anche se non le ricordavano bene o le riconoscevano con difficoltà. La storia era una ripetizione di cicli, come capí Giambattista Vico , e noi salivamo (o scendevamo) per spirali di tempo e cicli di conoscenza, come quando si ritorna in vecchi luoghi che ci sono familiari. Le sorprese non ci sono gradite. Può darsi quindi che in quest'epoca ansiosa cerchiamo consolazione nel raccontare le stesse vecchie storie all'infinito, perché alimentano la nostra speranza che plus ça change, plus ça reste tel quel. I nostri eroi dell'infanzia - Superman, Batman e altri fusti incantevoli - sono tornati per aiutarci a immaginare che è possibile combattere per la giustizia, cosf come Sherlock Holmes ha abbandonato il suo ritiro di apicoltore per venire a risolvere odiosi problemi nel secolo dei cattivi cibernetici e della criminalità finanziaria. Shakespeare traeva le sue trame da Boccaccio e Bandello; noi prendiamo le nostre dai film di Hollywood. | << | < | > | >> |Pagina 84Come Nabokov aveva ben capito, la lingua che usiamo non è solo uno strumento - per quanto limitato, impreciso e infedele - per comunicare con gli altri nel modo migliore che possiamo. A differenza degli altri strumenti, la lingua che parliamo ci definisce. I nostri pensieri, la nostra etica, la nostra estetica sono tutti, entro certi limiti, definiti dalla nostra lingua. Ogni singola lingua provoca o permette un certo modo di pensare, suscita un determinato tipo di pensieri che ci vengono in mente non solo per mezzo della lingua che chiamiamo nostra, ma anche per sua causa. I traduttori sanno bene che il passaggio da una lingua a un'altra implica, più che un processo di ricostruzione, un processo di riconversione, inteso nel senso più profondo di cambiamento del proprio sistema di credenza. A nessuno scrittore francese sarebbe mai venuto in mente être ou ne pas être per dire «to be or not to be», come nessun autore inglese avrebbe mai scritto For a long time I went to bed early per dire «Longtemps, je me suis couché de bonne heure». A impedirlo è la loro lingua, non la loro esperienza, perché anche se l'umana esperienza è universalmente la stessa, dopo Babele le parole di cui disponiamo per nominare quell'esperienza comune sono differenti. L'identità delle cose, dopo tutto, dipende dal nome che diamo loro.| << | < | > | >> |Pagina 89Se i libri sono i nostri depositi di esperienza e le biblioteche i nostri archivi della memoria, i dizionari sono allora i nostri talismani contro l'oblio. Non un monumento commemorativo in onore della lingua, che saprebbe di tomba, e neppure un tesoro, che farebbe pensare a qualcosa di chiuso e inaccessibile. Il dizionario, nato per registrare e definire, è di per sé un paradosso: da una parte accumula ciò che la società crea a proprio uso e consumo, nell'intento di pervenire a una comprensione condivisa del mondo; dall'altra, fa circolare ciò che accumula, in modo che le parole vecchie non muoiano sulla pagina e quelle nuove non ne restino ai margini. L'adagio latino verba volant, scripta manent ha due significati complementari. Uno è che le parole pronunciate hanno il potere di spiccare il volo, mentre quelle scritte restano ancorate alla pagina, l'altro è che le parole dette a voce possono volare via e svanire in cielo, mentre quelle scritte restano lí fino a quando ce ne sia bisogno.| << | < | |