Copertina
Autore Claudio Marra
Titolo L'immagine infedele
SottotitoloLa falsa rivoluzione della fotografia digitale
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2006, Testi e pretesti , pag. 202, ill., cop.fle., dim. 103x170x13 mm , Isbn 978-88-424-9243-6
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe fotografia , teoria dell'arte , media , semiotica , informatica: applicazioni
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Indice

  1 Premessa

 11 1. Il campo, le questioni

 11    L'ossessione del nuovo
 21    Necrologi e attacco a Barthes
 28    Effetti sulla fotografia familiare e sul reportage

 43 2. Lo statuto tecnico: caratteristiche e conseguenze

 43    Questioni terminologiche
 47    Analogico versus digitale
 52    Un cuore identico
 55    Un processo discreto
 61    Discreto come la lingua

 67 3. Il confronto con la semiotica

 67    L'analogon come assenza di codice
 73    Analogico versus digitale = Indice versus icona
 75    Caccia all'indice
 86    Resistenza dell'indice

 95 4. Il confronto con l'arte

 95    Artisticità intrinseca del digitale?
101    Charles Baudelaire: un fan scatenato del digitale
106    Autorevolezza pittorica del digitale
112    Il coinvolgimento del ready made
120    Analogico versus digitale: due modelli di arte
124    Rappresentazione versus presentazione


       Sul campo

130    Francesco Nonino
132    Inez van Lamsweerde
134    Wim Delvoye
136    Daniela Comani
138    David LaChapelle
140    Hiroyuki Masuyama
142    Claudia Rogge
144    Sam Taylor Wood
146    Li Wei
148    Andreas Gursky
150    Jeff Wall
152    Thomas Ruff


       Al limite


157 1. L'asse Rose/Duchamp

157    Naufragio del Titanic e salvataggio del realismo ingenuo
161    Barthes, Eco e i paradossi dell'analogon
172    Paradosso per paradosso: la fotografia sembra un'icona
       ma funziona come un indice, ovvero, la fotografia sembra
       un quadro ma funziona come un ready made

179 2. A che santa votarsi?


191    Indice dei nomi

 

 

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Pagina 1

Premessa


                    Ragazze, tutto quello che vedete è finto,
                    le foto delle attrici sono ritoccate,
                    noi non siamo davvero così.
                                              Carmen Electra,
                     attrice della serie televisiva Baywatch,
                                                   Roma, 2006



Diversamente da quanto il sottotitolo potrebbe fare intendere, questo non è un libro contro la fotografia digitale. Che sia ben chiaro: non intendiamo affatto accodarci a tutta quella pletora di voci — artisti, critici, teorici e analisti vari — che già hanno intonato strazianti lamenti sulla fine di un'epoca e sul passaggio, a loro dire catastrofico, da un sistema tecnico all'altro. È imbarazzante riconoscerlo, ma nella nostra cultura continuano a pesare ampie fasce di opinione che di fronte al nuovo, e soprattutto al nuovo tecnologico, automaticamente si abbandonano al triste rimpianto per ciò che non è più, alla nostalgia lacrimosa per quanto si è perduto, per tutto un mondo di oggetti e di pratiche che nel ricordo appare immancabilmente più umano se non addirittura più ricco quanto a potenzialità comunicative ed espressive. Non intendiamo certo riaprire la vecchia querelle anni sessanta tra "apocalittici" e "integrati", ma è comunque evidente che, anche per i nuovi scenari, le questioni e i temi in discussione sono rimasti sostanzialmente sempre gli stessi e finiscono puntualmente per convergere in una serie di nefaste conseguenze derivanti, guarda caso, dall'ulteriore spinta alla massificazione imposta dalle ultime tecnologie.

È poi altrettanto chiaro che in un complessivo clima di sospetto per il nuovo che avanza sulle ali della grande rivoluzione digitale la fotografia pare essere l'anello più debole e più sofferente di tutta la catena mediale. È vero, tanto per intenderci, che c'è anche chi, confrontandosi con gli asettici file mp3, malinconicamente rimpiange il caro vecchio e ingombrante disco in vinile, ma, sofferenza per sofferenza, è evidente che per la fotografia c'è in gioco ben altro. Considerata da sempre un emozionante oggetto di memoria, si fa indubbiamente fatica ad accettare che volti e luoghi cari possano improvvisamente essere conservati in forma numerica. Così come è certo doloroso pensare che i vecchi album cartacei, amorevolmente custoditi sul fondo dei nostri cassetti, possano, in un futuro che è già presente, essere sostituiti da "file" e "cartelle" virtualmente archiviati sullo schermo luminoso di un computer. Eppure, lo dobbiamo ammettere, la fotografia continua a svolgere le stesse funzioni di sempre e anzi, nel suo rinnovamento, pare addirittura poter ampliare talune sue decisive capacità emozionali: basti pensare a come proprio l'esercizio della memoria abbia trovato una formidabile e suggestiva espansione con l'inserimento delle fotocamere nei telefoni cellulari. Se prima il gesto affettivo del conservare doveva in qualche modo essere programmato decidendo di portare con sé una macchina fotografica, oggi, con gli obiettivi inseriti nei cellulari, è comodamente sempre a portata di mano, pronto a essere esercitato in qualsiasi momento.

Questo non è dunque un libro contro il digitale ma certo è contro una particolare interpretazione del digitale. Accanto alle immancabili schiere di "apocalittici", ha infatti subito preso posizione, con molto clamore, ma bisognerebbe anche dire con una certa arroganza argomentativa, un agguerrito fronte di "integrati" pronti a celebrare i fasti della nuova tecnologia, ovviamente accompagnati da convinti e autorevoli certificati di morte per il sistema appena abbandonato. In particolare costoro hanno sviluppato i propri argomenti a partire da una radicale critica della fotografia analogica, a loro dire pesantemente viziata da talune tare genetiche oggi finalmente sanate dal nuovo sistema. Senza svelare l'intera articolazione, per altro complessa, del confronto in atto, si può sinteticamente anticipare che tutto il discorso ruota attorno al particolare e privilegiato legame con la realtà che la fotografia ha sempre potuto vantare. Un legame che evidentemente i sostenitori del digitale valutano in modo negativo e che considerano oggi fortunatamente annullato da un sistema che, anziché fondarsi su un'idea di impronta e di traccia diretta, come accade nell'analogico, funziona a partire da un principio di traduzione numerica.

L'aspetto più interessante che scaturisce dal confronto in atto fra le due tecnologie, allora, è proprio la possibilità di tornare a riflettere su una questione fondamentale per l'identità fotografica; anzi, sulla questione per eccellenza, quella che è stata capace di caratterizzare, nel bene e nel male, l'intera vicenda del mezzo nell'arte e nella comunicazione in genere, perché è ben noto in che misura la cosiddetta "questione del referente" abbia condizionato l'affermazione artistica della fotografia come pure la sua autorevolezza in ambito comunicativo. Questioni estetiche e questioni etiche, si potrebbe dire, entrambe però riconducibili alla struttura tecnica del mezzo, perché è da essa che indiscutibilmente scaturisce il forte e particolarissimo legame con la realtà di cui stiamo parlando, per poi estendersi al ruolo e alla presenza dell'autore, chiamato appunto a rapportarsi con un sistema tecnico che sembrerebbe escludere ogni principio di intervento, ogni possibilità di linguaggio e dunque di interpretazione. In altre parole, chi ha vissuto criticamente tutta questa prospettiva, in sostanza, ha rinfacciato alla fotografia una congenita indisponibilità alla menzogna. La particolare tecnologia da essa utilizzata, largamente fondata su un principio di automaticità, nonché la conseguente ridotta responsabilità richiesta all'operatore, hanno in effetti diffuso nella nostra cultura l'idea che la fotografia sia un mezzo incapace di mentire, o perlomeno non sia in grado di farlo con quella facilità che invece caratterizza ogni altro processo culturale. A spingere criticamente verso questa interpretazione, lo si sarà capito, è stato soprattutto il fronte del pensiero linguistico-semiotico, evidentemente condizionato dalla nota formula che vuole ci sia segno ogni qualvolta esista la possibilità di mentire. Ecco allora spiegato, per quanto sinteticamente, il grande dramma vissuto dalla fotografia: se strutturalmente non può mentire non è segno, se non è segno non può divenire linguaggio, se non è linguaggio non è atto culturale.

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Pagina 7

[...] In particolare, come prima cosa, si è tentato di circoscrivere con precisione il campo, così da evidenziare tutti i motivi di discussione introdotti dall'avvento della nuova tecnologia: dagli annunci di morte per la vecchia fotografia a traccia chimica fino agli interrogativi sull'attendibilità che il nuovo sistema può vantare nell'informazione giornalistica o anche, più semplicemente, nella pratica familiare. Si è poi pensato di dedicare un capitolo alla comprensione della struttura tecnica di ciò che chiamiamo fotografia digitale, tentando innanzitutto di spiegarne il funzionamento rispetto allo strumento inventato da Daguerre e da Talbot quasi centosettanta anni fa. Il confronto con questi aspetti, per quanto in certi snodi non semplicissimo, è fondamentale, perché altrimenti si rischia di non capire nemmeno di cosa si stia effettivamente parlando. Ma poi direi che la cosa si fa addirittura doverosa per chi, come il sottoscritto, considerandosi un umile e devoto seguace delle teorie generali sui media di Marshall McLuhan, è convinto che ciò che chiamiamo "significato" o "messaggio" derivi direttamente dalla struttura materiale del mezzo stesso. Insomma, per dirla ancora una volta con il più famoso slogan proposto dallo studioso canadese, «il medium è il messaggio» e se la fotografia digitale ha un "suo" messaggio questo non può che derivare da una eventuale originale struttura tecnica. Ciò che dunque, stringendo all'osso, si discute in questo capitolo è proprio questo: la fotografia digitale può essere considerata un nuovo medium oppure no?

Un terzo capitolo affronta poi l'altrettanto doveroso confronto con il discorso semiotico perché, come si cerca di spiegare nel testo, "digitale" si oppone ad "analogico": i due concetti riguardano sistemi di rappresentazione alternativi, dunque modalità differenti di correlazione tra segni e realtà, terreno sul quale evidentemente la semiotica ha piena autorità d'intervento. Una discussione apparentemente molto specialistica, ma in realtà densa di risvolti pratici perché, come già si è detto poco sopra, su questo problema del rapporto con la realtà la fotografia ha posto all'arte e alla comunicazione in genere interrogativi quanto mai appassionanti.

Un quarto capitolo riguarda infine il rapporto digitale/arte. L'obiettivo che mi sono proposto in queste pagine non è stato però quello di verificare se e come la ricerca artistica sia cambiata con l'avvento della nuova tecnologia. Piuttosto mi sono rivolto all'arte come laboratorio di idee e luogo di avanzata riflessione teorica sulla fotografia per cercare ancora una volta di capire il significato e il valore, ma anche la consistenza, delle accuse rivolte al sistema analogico, parallelamente agli elogi che, proprio in prospettiva estetica, da tanti sono invece stati rivolti al sistema digitale.

Il confronto con la produzione artistica torna invece più direttamente nelle brevi schede dedicate a una piccola selezione di autori che corredano il testo Sul campo. L'intenzione, ma credo che la cosa sia più che evidente, non era certo quella di offrire una ricognizione, non dico esaustiva, ma anche solo parziale di quanto si sta realizzando con il digitale. Mi interessava piuttosto affrontare alcuni casi "campione" dai quali ricavare, sul campo, qualche ulteriore spunto di riflessione sull'identità della fotografia. Diciamo che ogni scheda vorrebbe essere un piccolo contributo aggiunto, quasi in forma di pretesto, per riassumere ed esemplificare questioni discusse più "astrattamente" nel corso del libro. In linea di principio le scelte non vogliono dunque esprimere un giudizio critico sugli autori e sui lavori presentati, anche se è certo concesso pensare che a un'interessante ricchezza teorica possa poi corrispondere un'altrettanto stimolante ricchezza estetica.

Il volume propone infine altri due testi aggiunti in appendice. Per quello dal titolo L'asse Rose/Duchamp, si tratta di un recupero, accompagnato da qualche lieve intervento di maquillage, di un saggio già pubblicato un paio di volte in questi anni, la prima nel 2000 e la seconda nel 2002, all'interno della raccolta già segnalata in precedenza. Ho pensato di inserirlo in questo nuovo contesto perché le tesi in esso contenute mi sembrano ancora fondamentali per comprendere il particolare rapporto con la realtà proposto dalla fotografia. In quelle pagine, ora riproposte, non si parlava di digitale, però si affrontava e si tentava di risolvere la stessa identica questione che adesso è al centro del confronto tra analogico e digitale. Se prima, in regime di monopolio analogico, era tutta la fotografia a essere accusata di ingenuità quando pensava di riproporre la realtà "tale e quale", oggi il fronte risulta invece spezzato e i fan del digitale si chiamano fuori da questo problema dichiarandosi appunto postanalogici. Fra prima e dopo il punto rimane però solo uno: questa tanto discussa ingenuità della fotografia è poi veramente tale oppure no? E il "tale e quale", ammesso che il digitale l'abbia effettivamente superato, sarebbe poi tanto infamante? Ecco, nel saggio in questione si tentava di rispondere a questi interrogativi e siccome mi sento ancora di sottoscrivere in pieno quelle riposte, didatticamente parlando dovrei forse consigliare, a chi intende affrontare queste pagine, di premettere la sua lettura a quella degli altri capitoli.

Da ultimo, il testo in appendice intitolato A che santa votarsi?, potrebbe veramente apparire una pura curiosità folkloristica. Vi si racconta brevemente la vicenda di santa Veronica Giuliani e di altre sante in lizza per l'attribuzione del patronato della fotografia. In effetti si tratta forse proprio di una curiosità, oppure solo di un pretesto per discutere ancora, da un punto di vista insolito, di identità della fotografia. La cosa a molti non apparirà forse così inquietante, ma nel passaggio dall'analogico al digitale, e dunque a seguito del mutato rapporto tra fotografia e realtà, ci potrebbe anche essere chi, adducendo complesse ragioni semiotiche, potrebbe ritenere necessario avviare una devota procedura orientata a ottenere un cambio di patrona.

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Pagina 14

Eccoci allora giunti alla contrapposizione veramente fondamentale di tutta la discussione in atto: media storici o analogici da una parte e new media o media digitali dall'altra. I termini secchi della rivoluzione sarebbero proprio questi: sta crollando il regime dell'analogico e sta trionfalmente per affermarsi quello del digitale. In queste pagine parleremo a lungo della contrapposizione analogico/digitale, cercheremo di spiegare cosa si nasconda dietro questi due concetti, li indagheremo in senso strettamente tecnico ma ovviamente anche nella loro valenza concettuale. Indubbiamente però, già al margine di tutto il discorso che intendiamo svolgere, pur senza sapere ancora nulla di essi non si può fare a meno di rimanere sorpresi e anche stupiti di fronte alla riassuntiva definizione proposta da Lev Manovich, studioso fra i più impegnati nell'indagine su questa nuova frontiera: «Un nuovo media è un media analogico convertito in forma digitale». Definizione appunto sorprendente perché sembrerebbe affossare, già in partenza, ogni entusiasmo più radicale, sostituendo al fascino estremo della rivoluzione quello decisamente più discreto della riforma. Che nuovo sarà mai quello che scaturisce dalla riconversione di un sistema già esistente? Al massimo potrà considerarsi un aggiornamento, una traduzione, un lifting sostanzioso e gratificante, ma non certo un capovolgimento epocale, non una svolta tra primo e secondo impero, non un passaggio tra diverse generazioni mediali. Torneremo senz'altro su questa idea di Manovich, vi torneremo affrontando la spiegazione tecnica dei due sistemi, ma anche oltre, quando ci confronteremo con la prospettiva semiotica e con quella artistica. Certo che già ora, in avvio di tutto il ragionamento, il dubbio che gli entusiasmi e i clamori appena descritti vadano decisamente ridimensionati o comunque disciplinati, e che addirittura questa fantomatica rivoluzione innescata dal digitale possa poi non dimostrarsi tale, comincia in qualche modo a farsi strada. Bisogna però subito aggiungere che non si tratta di un dubbio affossante ma anzi, come avremo modo di verificare presto, di un'occasione decisamente costruttiva perché capace di instaurare un confronto apertissimo e senza pregiudizi tra i due sistemi, tra analogico e digitale appunto, al riparo dagli eccessi di una miopia critica spesso nutrita da entusiasmi troppo facili e superficiali.

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Pagina 25

Il riferimento a Barthes è quanto mai opportuno perché – come si può facilmente ricavare da queste due sentenze, emesse rispettivamente da Nicholas Mirzoeff e da Mario Costa sul finire degli anni novanta in termini che per altro ben riassumono il ventaglio di giudizi finora espressi sugli effetti prodotti dall'applicazione della tecnologia digitale – a essere violentemente messo in discussione, fino a negarne ormai ogni possibilità di esistenza futura, è proprio l'affascinante statuto del fotografico tratteggiato dallo studioso francese in La camera chiara:

Il nome del noema della Fotografia sarà quindi: "È stato" [...] In latino tutto ciò si direbbe senza dubbio: "interfuit": ciò che io vedo si è trovato là, in quel luogo che si estende tra l'infinito e il soggetto.

Un noema, quello individuato da Barthes, che all'atto pratico si traduce in una folgorante capacità di certificazione e di autenticazione di tutto l'esistente, cose e persone:

Perciò è meglio dire che il tratto inimitabile della fotografia (il suo noema) è che qualcuno ha visto il referente (anche se si tratta di oggetti) in carne e ossa, o anche in persona.

Per ampliare correttamente i riferimenti va detto che il richiamo a un principio dell' è stato, al noema individuato da Barthes, era in qualche modo già presente, pur se in modo meno perentorio, in vari saggi scritti nel corso degli anni settanta da Susan Sontag e poi raccolti in volume nel 1977 con il titolo di Sulla fotografia. Posizioni per altro ribadite anche in un più recente lavoro della studiosa americana, quando per esempio afferma che «un'immagine ottenuta con una macchina fotografica è, letteralmente, la traccia di qualcosa che è stato posto davanti all'obiettivo». Ma poi, retrocedendo ancora, già nelle pagine della Piccola storia della fotografia pubblicata nel 1931 da Walter Benjamin sulla rivista berlinese "Die literarische Welt" lo stesso principio di presenza e di attestazione occupava un posto assolutamente centrale in quel pionieristico tentativo di individuazione dell'identità fotografica:

I quadri, qualora durino, durano soltanto in quanto testimonianza dell'arte di colui che li ha dipinti. Nel caso della fotografia invece avviene qualcosa di nuovo e di singolare: nella pescivendola di New Haven che guarda a terra con un pudore così indolente, così seducente, resta qualcosa che non si risolve nella testimonianza dell'arte del fotografo Hill, qualcosa che non può essere messo a tacere e che inequivocabilmente esige il nome di colei che lì ha vissuto, che anche nell'effige è ancora reale e che non potrà mai risolversi totalmente in arte.

Le parole di Benjamin, oltre a confermare l'identità della fotografia, e diciamo pure della fotografia analogica, come principio dell' è stato, aggiungono un altro motivo che risulterà di grande interesse nel confronto con il digitale: la connessione forte e privilegiata con il reale da cui scaturisce tutto il potere di attestazione che caratterizza la fotografia analogica pare in qualche modo ostacolare l'esercizio di ciò che tradizionalmente indichiamo come arte. Il noema della fotografia parrebbe cioè proporsi, nella pratica, in modo automatico, autonomo, come prodotto in proprio dalla macchina e dunque, in questo senso, sembrerebbe sfuggire alle capacità di controllo dell'operatore-autore. L'arte, tradizionalmente intesa come techne, come esercizio di una qualche tecnica, di una particolare e non comune abilità da parte del soggetto, risulterebbe dunque come scavalcata e mortificata da un'impronta fortissima e ineliminabile di analogia tra l'immagine e la realtà, con un effetto talmente pesante da condizionare le stesse pretese di riconoscimento artistico avanzate dalla fotografia.

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Pagina 38

Comunque, lo ripetiamo, non ci sono solo ragioni emotive per sostenere che, anche in epoca digitale, la fotografia continua a funzionare esattamente come prima. Abbiamo fatto esempi pesanti perché crediamo sia giusto dare valore a quanto espresso dai comportamenti del cosiddetto senso comune, ma certo non è nostra intenzione liquidare in modo troppo superficiale le argomentazioni di chi sostiene che il digitale ha rivoluzionato l'identità della fotografia. Sarebbe soprattutto un errore ignorare le ragioni profonde, e non di semplice competizione tecnica, che stanno dietro allo scontro analogico/digitale. Riflettendo più attentamente sull'intera questione ci si rende perfettamente conto che in definitiva tutto si configura come ripresa, sotto nuova angolazione, della più accesa discussione da sempre al centro delle vicende fotografiche. In ballo, ancora una volta, c'è lo scontro uomo/macchina, c'è il discorso dell'automaticità di produzione, dell'autonomia dello strumento, della macchina in relazione alla responsabilità dell'autore, sia questi inteso come artista mosso da ragioni puramente estetiche oppure come reporter impegnato a documentare eventi clamorosi, o semplicemente come colui che in famiglia fotografa moglie e figli durante una vacanza. La discussione sulla perdita del potere di "è stato", se per qualcuno ha senso, lo ha proprio in questa prospettiva, cioè come recupero di un ruolo decisivo da parte di un autore ritenuto in precedenza monco, non completamente padrone di quanto prodotto. La fotografia perderebbe dunque una sua fondamentale caratteristica, una qualità per Barthes talmente affascinante da essere descritta in termini di "noema", ma evidentemente non condivisa con lo stesso entusiasmo da altri, che invece valutano tale perdita in senso totalmente positivo. Questo perché, secondo costoro, ciò che continua a pesare sulle immagini fotografiche è un'identità che ancora insiste a descriverle come «opere casuali della natura», come oggetti sottratti alla responsabilità piena dell'autore. Quello che in fondo a molti non è mai andato giù, e dunque si vorrebbe vedere ribaltato, è proprio il concetto profondo di foto-grafia, di scrittura affidata alla luce, perché l'atto dello scrivere, massima espressione di culturalità, dovrebbe necessariamente esser ricondotto sotto la responsabilità unica e assoluta dell'operatore. In termini etici, la discussione in atto sul digitale sembrerebbe dunque riguardare il problema del trucco e della falsificazione del reale, ma in effetti possiamo dire che a condizionare ogni considerazione in materia c'è un motivo, a fatica rimosso ma evidentemente non superato: una ragione che spinge a riaffermare il controllo pieno e totale dell'uomo sulla macchina.

A questo punto, almeno ce lo auguriamo, i termini dell'intera questione dovrebbero risultare del tutto chiari: il confronto tra analogico e digitale non riguarda semplicemente il passaggio da una tecnica all'altra. Non si tratta di stabilire se funzionano meglio i sali d'argento o i pixel, il problema vero non è quello di una maggiore o minore definizione dell'immagine. Ponendo in crisi il nodo forte della fotografia analogica, l' è stato di Barthes, il digitale inesorabilmente apre due grossi fronti di discussione: il primo, come si è visto, riguarda il potere di testimonianza finora esercitato dalla fotografia in tutti quei territori che possiamo definire extra-artistici, dalla fotografia familiare all'informazione giornalistica, il secondo coinvolge invece proprio l'arte e le varie difficoltà incontrate dalla fotografia in tale prospettiva. Il tutto raccolto sotto il comune denominatore del rapporto uomo/macchina, questione da sempre centrale per l'estetica tecnologica.

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Pagina 52

Un cuore identico

Ripartiamo dunque dalla spiegazione dei due sistemi. Riferendoci agli esempi fatti in precedenza potremmo dire che se l'oggetto della rappresentazione, anziché essere il tempo o la temperatura, è la luce, la fotografia tradizionalmente intesa può dirsi analogica perché i sali d'argento cosparsi sulla pellicola, registrando in modo continuo (come continuo era lo scorrimento del mercurio nel termometro e delle lancette nell'orologio) le variazioni di tonalità della luce riflessa sulle cose, producono una forma di rappresentazione della luce analoga alla condizione di continuità espressa dalla luce nel reale.

E nella fotografia che chiamiamo digitale allora cosa accade? Logica vorrebbe ci fosse qualche meccanismo che anziché registrare la luce in modo continuo, come fa la pellicola cosparsa di sali d'argento, procedesse in maniera discontinua, a salti, in chiara contrapposizione con la continuità luminosa del reale, ma invece non è così. Potrà apparire sorprendente ma il cuore tecnologico della macchina fotografica digitale è un apparato elettronico di natura analogica, così come analogico è il tradizionalissimo negativo a base chimica. Tale dispositivo è comunemente noto come CCD, acronimo di Charge Coupled Device, cioè dispositivo ad accoppiamento di carica. L'invenzione di questo componente va attribuita a due ingegneri dei laboratori americani Bell, tali George Smith e William Boyle, i quali, verso la fine del 1969, compirono ricerche finalizzate alla produzione di un microchip da utilizzare al posto del tradizionale tubo catodico come parte sensibile di una videocamera inserita in un apparecchio di videotelefonia. La Bell poi effettivamente produsse quella videocamera ma dovette passare un po' di tempo prima che il CCD trovasse applicazione anche in fotografia, poiché la sua scarsa sensibilità iniziale alla luce poteva risultare sufficiente per l'impiego su una videocamera, strumento che appunto utilizza un'immagine a bassa definizione, ma non in campo fotografico, dove, pensando alla necessità di giungere alla produzione di una stampa, il CCD non poteva ancora competere con la sensibilità (e dunque con la successiva definizione vantata dalle immagini) delle normali pellicole.

Così descritti, seppure molto sommariamente, i due dispositivi, pellicola e CCD, paiono assai diversi fra loro e ciò, almeno in parte, è anche vero, se non altro perché uno afferisce al campo della chimica e l'altro a quello dell'elettronica. Non è però diverso, come già avevano preannunciato, il sistema di rappresentazione della luce che adottano e che in entrambi i casi rimane appunto analogico. Per rendersene conto basta analizzare velocemente i due processi di funzionamento. La tradizionale pellicola è ricoperta da un'emulsione fotosensibile costituita da microscopici cristalli di bromuro d'argento i cui atomi si raggruppano quando vengono colpiti dalla luce che transita attraverso l'obiettivo. Quanto più è forte la luce tanto più densi e vasti risulteranno questi raggruppamenti. Nel CCD un microchip di silicio è invece ricoperto da una serie di piccoli elettrodi chiamati photosite disposti su una griglia più o meno fitta le cui singole caselle prendono il nome di pixel (contrazione di picture element, cioè elemento di immagine). Al momento dello scatto fotografico la superficie del CCD viene caricata di elettroni i quali sotto azione della luce si raggruppano sui vari photosite. Tanto più forte sarà la luce che colpisce ogni singolo photosite, tanto maggiore sarà il numero di elettroni che in esso si addenserà. A questo punto occorrerà misurare la quantità di carica elettrica di ogni photosite, calcolando quanti elettroni sono lì raggruppati, per stabilire quanta luce ha colpito quel determinato punto (pixel). Come si può, anche intuitivamente, comprendere da questa sintetica descrizione, il funzionamento del CCD non è dunque sostanzialmente diverso da quello della pellicola. L'unica rilevante differenza, della quale dovremo evidentemente discutere, è data dal fatto che nel CCD manca quel processo di mantenimento e di memorizzazione della traccia di luce che invece caratterizza il tradizionale negativo fotografico. Una volta effettuato il "conteggio" degli elettroni l'informazione viene infatti trasferita ad altri componenti della macchina e il CCD torna, per così dire, "vergine", pronto a effettuare una nuova registrazione. Ragionando sulla differenza tra analogico e digitale, ciò che però effettivamente conta è solo questa fase di registrazione che, come si è tentato di spiegare, risulta in entrambi i casi caratterizzata da un criterio di continuità, tanto da risultare analoga, e dunque "analogica", alla modulazione continua della luce nella realtà. Magari inizialmente, come già detto, poteva manifestarsi una diversità di risultati nella definizione dell'immagine imputabile allo scarso numero di pixel presenti sui primi CCD, ma oggi, una volta colmata questa lacuna, la distanza qualitativa fra i due sistemi risulta praticamente impercettibile, almeno se si considerano CCD di fascia medio-alta.

Se dunque fino a un certo punto le fotocamere digitali funzionano secondo un criterio di analogicità, vale la pena di continuare a descriverne sinteticamente il funzionamento tecnico, per capire quando subentra la digitalizzazione e così eventualmente rendersi conto se ci si trova effettivamente di fronte a un cambio di statuto della fotografia oppure no.

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