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| << | < | > | >> |IndiceCAPITOLO PRIMO Ludwig Wittgenstein e il gioco delle crittografie 1. Assenze 11 2. Il gioco del leggere e del derivare 12 3. Crittografie 16 4. Famiglie 19 CAPITOLO SECONDO Le regole del gioco 1. Giochi-games e discretezza 21 2. Linearità e anagrammi 23 3. Oscuramento del significato 24 4. Regole 25 5. Frequenze 41 CAPITOLO TERZO Scrivere per nascondere, leggere per scoprire 1. Giochi crittografici del Rinascimento: la rivoluzione silenziosa di Leon Battista Alberti 47 2. Giovanni Tritemio 52 3. Giovan Battista Bellaso 60 4. Giovanni Battista Della Porta 62 5. Blaise de Vigenère 63 6. Francis Bacon 74 7. Nel tempo 76 CAPITOLO QUARTO Parole travestite: gli anglosassoni 1. L'Età romantica e la crittografia 81 2. Lingue universali e crittografie 83 3. Edgar Allan Poe 86 4. Sir Arthur Conan Doyle 90 5. Montagne Rhodes James 96 CAPITOLO QUINTO Parole travestite: i francesi 1. Jules Verne nella Francia dell'Ottocento 101 2. Viaggio al centro della Terra 103 3. La Jangada. Ottocento leghe sul Rio delle Amazzoni 109 4. Mathias Sandorf 112 5. Continuando... 117 CAPITOLO SESTO Confusione ordinata 1. Geroglifici in crittografia 119 2. La stele di Tell Atríb 120 3. La "perturbazione" ideogrammatica 126 CAPITOLO SETTIMO Eludere la comunicazione: le macchine che non funzionano. I disegni nascosti di Leonardo da Vinci 1. I Codici di Leonardo e la loro protezione 129 2. Le macchine di Leonardo 135 3. La "grammatica meccanica" di Leonardo 136 4. I progetti dei Robot e i loro segreti. Esempi di "crittoiconica" macchinale: il carretto automotore 137 5. Il cavaliere meccanico 141 CAPITOLO OTTAVO Cecità percettiva: nascondere l'evidenza 1. Tritemio e la steganografia 151 2. Sottrarre alla vista 153 3. Un ritratto della mente attiva 155 4. Illusione e comprensione creativa 160 CAPITOLO NONO Il libro della parole o gli ipogrammi saussuriani 1. Saussure e la parole 165 2. La parola tema o ipogramma 167 3. La ricerca della prova e la verifica 170 4. L'anagramma e la mente intralinguistica 172 Note 176 Bibliografia 190 Indice dei nomi 196 |
| << | < | > | >> |Pagina 11CAPITOLO PRIMO
Ludwig Wittgenstein e il gioco delle crittografie
1. Assenze Alcuni studiosi di Ludwig Wittgenstein (1889-1951), leggendo e interpretando le Ricerche filosofiche (1953) e altri scritti dell'autore, hanno notato una particolarità singolare: quella che riguarda la mancanza, dal suo vocabolario, di termini di cui il suo secolo aveva fatto grande uso in filosofia. Wittgenstein non si servì di parole come "sociale", "società", oppure come "storia", che avrebbero ben potuto appartenere in determinate occasioni argomentative al suo pensiero: si pensi alla fraseologia inerente al "gioco linguistico", nozione paradigmatica della sua filosofia, in cui, infatti, non compaiono mai termini come "sociale", "societario" o "società"; eppure il gioco linguistico non può che realizzarsi tra la gente, nel luogo del pubblico, non può vivere che tra le persone, nelle relazioni tra individui, nella collettività "sociale" per l'appunto. Ma tali vocaboli sono assenti. E così in altri casi e con altre parole. Chiedersi del perché di queste omissioni è una legittima curiosità: se si può avanzare, nel caso del termine "storia", un'ipotesi della sua mancanza, soprattutto nell'ambito delle Ricerche - per altri scritti di tipo logico è, naturalmente, ovvio che la parola non ci sia -, potrebbe essere nel fatto che Wittgenstein si stava rivolgendo, in queste sue riflessioni, al dominio della prassi, al fare, al dire come azione e dunque, a quella zona in cui il parlante agisce e si muove, in quello spazio dove ogni atto verbale che avviene si produce, si realizza sempre nella dimensione della sincronia, nel contesto della contemporaneità. Infatti anche se persona colta, l'attore di un discorso, mentre parla o svolge e determina un'azione verbale, non ha memoria di quanto, nel passato, è successo alle parole che sta adoperando: se si chiede a qualcuno «Che cosa è questo?», il fatto che la parola "cosa" derivi dal latino causa non è di nessun vantaggio, non è di nessuna importanza nello scambio comunicativo, non ha attinenza in tale pratica.
Ogni parola non detta ha certo molte e più ragioni per essere taciuta
dal filosofo viennese il quale probabilmente riteneva che alcuni termini
fossero troppo logori, o compromessi al punto da poter falsare in qualche modo
il filo del suo ragionamento. A una medesima sospensione verbale può essere
ascritto anche un altro vocabolo che appartiene invece a
una tecnica antica e specialistica con la quale, chissà, il giovane Ludwig
avrebbe potuto aver a che fare nei suoi anni di guerra e non solo: si tratta
del termine "crittografia" o scrittura in codice. Del resto una traccia di
riferimento a tali scritture si può trovare in passi come quello in cui
Wittgenstein, esemplificando un suo concetto con l'immaginare una situazione di
scambio di lettere tra due persone, usa la parola "cifrario" che è
sinonimo di crittografia: «Naturalmente, ammetto che, senza una previa
stipulazione di un cifrario, produrrei un fraintendimento, se indicando il
punto A, dicessi che si chiama 'B'», oppure in parti come:
2. Il gioco del leggere e del derivare In una serie di passaggi delle Ricerche filosofiche e del Libro marrone (1958), in cui si argomenta che la logica tipica di una lingua è diversa da quella di ogni linguaggio formale o "primario", Wittgenstein parla dei sensi del vocabolo leggere. Egli si chiede cosa, sul piano del contenuto significativo, possa essere indicato come leggere, e mostra come sia vasto e diverso l'ambito d'uso di questo termine, e quanto sia ricco il ventaglio semantico della parola. Esplora in quanti e quali contesti il vocabolo si usi, con una successione di ragionamenti tesi a indagare quanto l'ampiezza della famiglia di casi in cui si può dire che qualcuno legge o sta leggendo qualcosa, come si possa stabilire se qualcuno legge veramente o simula, se comprende ciò che legge oppure no, se legge speditamente o compita. E questo ragionamento, il filosofo viennese, lo ritiene valido non solo per quanto riguarda il comune atteggiamento delle persone nella realtà quotidiana ma anche per le situazioni più estreme, fino a quelle oniriche e alle allucinate. Wittgenstein fa osservare la sterminata molteplicità di usi che la parola leggere ricopre e conduce chi segue il suo ragionamento a valutare la difficoltà di dare una definizione univoca che sia valida per tutti i sensi del leggere: perché il territorio semantico del leggere, se ci si permette la metafora, ha una geografia frastagliata e disuguale - dolci colline e picchi improvvisi, spiagge piatte e abissi profondi -, è una regione diversa, smisurata e dai confini variabili, dalle ombreggiature cangianti a seconda della mutevolezza del tempo. Ma tutta questa varietà d'uso finisce però per confluire sotto uno stesso termine-ombrello: leggere. Il filosofo propone allora, per cercare di dare una definizione univoca alla parola - è chiaramente una dimostrazione per assurdo -, di paragonare la lettura - il concetto di lettura, il significato di lettura, la prassi della lettura - a una specie di modello semplificato che funzioni da bussola per districarsi tra i sensi del leggere. Suggerisce di "ridurre" il significato del termine a un'attività all'apparenza più circoscritta, meno sfumata nei suoi sensi di quanto non lo sia la lettura così com'è nell'uso quotidiano, ma che, almeno in parte, si possa assimilare ad essa. È per cercare di fare chiarezza che il filosofo austriaco accosta la lettura alla derivazione. Uno «legge quando deriva la riproduzione dall'originale» intendendosi per «'originale' il testo che legge o copia; il dettato in base al quale scrive; la partitura che suona; ecc.». È appunto tra i sensi o gli usi della parola "derivazione" che ci si imbatte in descrizioni di azioni che sono proprie della "decrittazione" e/o della "crittazione" di un testo. Gli usi di derivazione di cui Wittgenstein parla sono i procedimenti di sostituzione di caratteri alfabetici che correntemente vengono chiamati "crittografie". Ma il vocabolo "crittografia" nel testo è evitato. Il termine crittografia è una delle parole scartate dal lessico filosofico del nostro autore. | << | < | > | >> |Pagina 47CAPITOLO TERZO
Scrivere per nascondere, leggere per scoprire
1. Giochi crittografici del Rinascimento: la rivoluzione silenziosa di Leon Battista Alberti Il gran secolo delle scritture segrete fu il Rinascimento sia per l'altissima qualità dei suoi frutti, sia per la folla di ingegni che si dedicarono a questo tema. Fino al sec. XV il calcolo delle frequenze aveva dato scacco a ogni possibile mascheramento delle lettere sempre che ci fossero alcune condizioni come la lunghezza del messaggio crittato, e la conoscenza della lingua in cui il testo in cifra era stato volto. Un espediente tra i più semplici con cui si era cercato di accrescere la sicurezza della codificazione a un solo alfabeto era stato sì quello di aver inserito le cosiddette lettere nulle, cioè segni grafici che non avevano nessun corrispettivo in un alfabeto corrente, ma la loro efficacia non era poi così certa e sicura. Le segreterie diplomatiche dei vari Stati, i comandi militari, i cortigiani intriganti e tutti quelli che avevano bisogno di comunicare segretamente o anche di tenere diari personali preclusi a occhi indiscreti, sapevano che i loro dispacci e i loro scritti non erano più totalmente protetti e che uno squarcio senza soluzione di continuità, quello dell'identificazione di un carattere attraverso il calcolo delle frequenze, si era aperto nel muro della cittadella degli alfabeti mascherati. Il primo a trovare un rimedio a ciò e a riempire la falla che si era scavata nella salvaguardia dei segreti fu un importante esponente del Rinascimento italiano, Leon Battista Alberti , architetto, scienziato, pittore, filologo, poeta, filosofo, matematico e musicista. Egli stesso racconta che, mentre passeggiava nei giardini vaticani, con Leonardo Dati (1407-1472), il segretario apostolico del papa Paolo II, la conversazione cadesse sul problema della ormai debole segretezza dei documenti. Fu in tale circostanza che il Dati gli propose di trovare un metodo per assicurare una maggiore difesa agli scritti che si volevano proteggere e che, al tempo stesso, permettesse agli exploratores pontifici una "lettura" più agevole dei messaggi altrui. Alberti non si era mai occupato di simili problemi, ma studiò l'argomento e scrisse all'occasione un denso trattatello dal titolo De componendis cyfris (o De cyfris) (1466-1467). Il volumetto, pubblicato postumo solo nel 1568 a Venezia da Cosimo Bartoli, contiene molte osservazioni che, precisando alcune regole importanti, ordinavano la lingua italiana dell'epoca: Alberti specificava le posizioni delle vocali e delle consonanti, elencava i bigrammi vocalici, indicava i gruppi consonantici determinando quelli impossibili in fine e all'inizio di una parola, calcolava le frequenze delle vocali e delle consonanti e, elencando le venti lettere latine generalmente utilizzate nel testo in chiaro, osservava che se in un crittogramma si trovavano più di venti caratteri sostitutivi diversi, alcuni di essi avrebbero dovuto sicuramente essere quelle otiosas et nihil importantes, conosciute come lettere nulle, ossia senza corrispondente significativo (fig.16). Ma Alberti era soprattutto un architetto, un urbanista, e fu il primo a considerare la città come "un sistema di spazi ordinati da norme" e questa idea che era evidentemente un suo principio fondante lo fece sostenitore dell'uso del volgare toscano al posto del latino perché tale posizione si basava sul concetto che "qualcosa esiste solo se è ordinato da norme". Affermava, infatti, che il toscano, al pari del latino, non era un ammasso di popolarismi e che, lungi dall'essere un'anomalia, seguiva regole precise e rintracciabili, in uno "spazio linguistico", oggi si direbbe. Peraltro interessanti e moderni parallelismi tra lingua e città, in questa direzione, li si ritrova nelle Ricerche filosofiche dove Wittgenstein, che aveva studiato ingegneria, scriveva: Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; il tutto è circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi. Alberti fu edificatore di fortificazioni - i suoi nuovi metodi divennero in breve lo statuto di difesa per ogni città europea dell'epoca - ed essendo progettista e costruttore di macchine non si smentisce quando inventa il primo apparecchio cifrante: due rotule di metallo concentriche, una con diametro leggermente superiore all'altra, sulla circonferenza delle quali, divisa in 24 parti uguali o Case, ognuna portava inciso un alfabeto. I due dischi venivano posti uno dentro all'altro e infilati in un perno in modo che potessero ruotare; il primo anello, più esterno e fisso, aveva marcate sul bordo 20 lettere dell'alfabeto canonico, più i numeri da 1 a 4 per il testo chiaro da cifrare, e il secondo anello, interno e ruotante, conteneva un alfabeto di 24 lettere mischiate a caso per il testo cifrato, il messaggio segreto risultante (fig. 17). Con tale congegno Alberti era riuscito a porre rimedio a quel grimaldello che era il calcolo delle frequenze, assillo della sicurezza di tutta la diplomazia europea. Il suo sistema, che si metteva in atto attraverso un dispositivo meccanico, consisteva nell'adoperare, invece di uno solo, molti alfabeti, così da complicare e rendere inefficace il conteggio delle frequenze, e in modo da realizzare, con una diversa manipolazione del significante, quella che viene chiamata cifra polialfabetica. Prima dell'invenzione del disco e del procedimento di Alberti, per confondere un testo chiaro, veniva scambiato un alfabeto canonico con un solo altro alfabeto cifrante: una lettera A in chiaro pur sostituita, si ponga il caso, con una W, con una C, con una L, o con un qualsiasi altro segno, poteva sempre essere riconosciuta perché manteneva sempre la stessa frequenza rispetto alla lingua adoperata. Leon Battista pensò invece di usare più alfabeti cifranti con lettere mescolate a caso, e di sostituirli in itinere durante la cifratura stessa. Un metodo di derivazione certo più complesso di quello semplicemente monoalfabetico o di sostituzione, ma che rientra pur sempre in quei giochi di derivazione wittgensteiniani di cui si è parlato. | << | < | > | >> |Pagina 746. Francis Bacon
Il Lord Cancelliere di Giacomo I Stuard, barone di Verulamio, Sir
Francis Bacon
(1561-1626), fu certamente uno dei più rilevanti filosofi empiristi,
anzi fu tra i padri fondatori dell'empirismo inglese, ed ebbe a occuparsi
anch'egli di scritture in cifra, forse per la sua attività di uomo politico e
di consulente generale della Corona. Nel primo periodo della sua vita che
arriva fino al 1607, i suoi sforzi intellettuali furono dedicati soprattutto
alla battaglia per il rinnovamento della filosofia e del metodo scientifico e la
sua opera più rimarchevole del periodo, scritta in inglese, è
The Advancement of Learning
(1605). In questo saggio oltre alle considerazioni sulla scrittura e sul
parlato, il filosofo si sofferma su alcuni metodi
per occultare i messaggi: si tratta di due sole pagine, estratte dal libro VI
dell'opera, ma abbastanza interessanti per la loro originalità di derivazione
sostitutiva. Bacon suggerisce di ridurre tutto l'alfabeto canonico a due
semplici lettere, per esempio ad a e b, e a cinque posizioni in cui
distribuirle, una specie di metodo binario:
Una frase come FUGGI, in latino FUGE, si trasformerebbe in:
Il filosofo inglese però nelle pagine precedenti del volume aveva consigliato di adoperare metodi che non destassero sospetti, e sequenze come quella dell'esempio, aabab, baabb, aabba, aabaa, fatte di a e b avrebbero fatto immancabilmente sorgere dei dubbi circa l'innocenza del messaggio e all'istante si sarebbe capito che si trattava di una scrittura in cifra. Magari chi se ne fosse accorto poteva non essere poi capace di decodificarla, ma il segreto era in parte svelato e il compito si sarebbe sempre potuto affidare a chi era in grado di farlo. Il secondo gradino che Bacon propone per evitare di essere scoperto invece contempla un alfabeto sempre ridotto a due lettere, ma tale da poter nascondere una piccola frase in un periodo più lungo. Una frase del tipo Manere te volo, donec venero, "Voglio che tu rimanga finché non arrivo", attraverso un alfabeto che diversificasse tondo e corsivo, poteva nascondere dentro di sé una frase più corta come l'avvertimento di fuggire FUGE, in questo modo: [...] | << | < | > | >> |Pagina 767. Nel tempoLa sostituzione a un solo alfabeto cifrante, il cifrario di Cesare, per intenderci, o l' Atbash, arriva fino alla crittografia informatica dei giorni nostri dove ai caratteri si sostituiscono blocchi di bit seguendo tabelle appositamente realizzate: nel computer infatti tutti i segni, lettere, cifre, interpunzioni o altro, sono rappresentati appunto da blocchi di bit, organizzati secondo una certa tabella. Il codice ASCII-Unicode per esempio rappresenta ogni carattere con un blocco di 7 bit (ASCII originale), di 8 bit (ASCII esteso) o di 16 bit (Unicode), sicché la lettera A può essere rappresentata dalla sequenza 01000001 che tradotto in numero decimale è 65, la lettera B è 01000010 ovvero 66, e così via. Per cifrare un testo simile non si fa altro che sostituire un blocco di bit del testo chiaro con un diverso blocco di una tabella costruita a piacere ma, come per ogni sostituzione a un solo alfabeto cifrante, il livello di sicurezza è piuttosto basso e inoltre la rapidità del computer rende il crittogramma più velocemente decrittabile. Quando si usa la tabula recta, metodo a più alfabeti di maggior solidità, in qualunque delle sue versioni da quella di Tritemio a quelle di Della Porta o di Vigenère, si potranno trovare, nel testo cifrato, come già si è accennato, alcuni caratteri ripetuti a distanza fissa, e se la chiave che può esserci in aggiunta a un simile crittogramma, il verme di Bellaso, è abbastanza breve, trovare la soluzione in realtà non diventa difficilissimo. Infatti la strada che, secoli dopo, seguirono sia Charles Babbage (1791-1871), matematico e filosofo inglese, nel 1854, sia il maggiore prussiano Friedrich Wilhelm Kasiski (1805-1881) nel 1863, per aprire il sistema della tavola quadrata del Vigenère, si basava proprio sulla ripetizione di schemi di lettere ricorrenti a intervalli regolari (e loro multipli) - che erano poi gli indicatori della chiave. A rifortificare la tabula, e le variazioni che il tempo vi aveva apportato, fu Gilbert Stanford Vernam (1890-1960), nel 1926, al quale venne l'idea di risolvere il problema delle ripetizioni di lettere geminate a intervalli fissi adoperando una chiave casuale infinita o, che è lo stesso, una chiave lunga quanto il testo chiaro, in modo da evitare ripetizioni di lettere a distanza regolare. L' empasse della tabula era così superato, e anzi, Claude Shannon (1916-2001), fondatore della teoria dell'informazione, nel 1949, dimostrò che ogni cifrario teoricamente sicuro è un cifrario di Vernam (e viceversa), perché il messaggio cifrato non dà nessuna informazione utile sul testo chiaro né sulla chiave, non ci sono emergenze di alcun genere, manca, da questo punto di vista, l'informazione, e il comunicato è del tutto impermeabile agli attacchi dell'analisi statistica. Naturalmente tutto ciò alla prova dei fatti è praticabile solo con tutte le incertezze dell'empiria, perché una chiave lunga come il testo deve essere non riutilizzabile e comunicata al destinatario in modo sicuro, il che risulta spesso assai difficile per non dire impossibile nell'applicazione. Ma in aiuto a teorizzazioni che si facevano sempre più raffinate fin dagli inizi del Novecento vennero le macchine: nel 1918 l'ingegnere tedesco Arthur Schrebius (1878-1929) brevettò un convertitore cifrante meccanico a rotori a cilindri, in seguito chiamato Enigma, che consisteva in una complicazione quantitativa del disco cifrante di Leon Battista Alberti. Ad Alberti si era ispirato inoltre il presidente degli Stati Uniti (1801-1804) Thomas Jefferson (1743-1826), autore della Dichiarazione d'indipendenza, nell'ideare il suo Cilindro, usato e tenuto segreto dagli americani fino al 1922 e poi riutilizzato in altra versione fino al 1950. E anche il crittologo francese Étienne Bazeries che, nel 1890, inventò un sistema meccanico del tutto equivalente a quello del Cilindro di Jefferson. Nell'hardware di Enigma invece i dischi cifranti erano più di uno ed erano posti fra loro "in cascata", e nel suo software, sempre seguendo Alberti, mancava la chiave che invece era elemento essenziale nella cifratura di quegli anni. La macchina fu modificata e potenziata nell'arco del suo lungo periodo di utilizzo soprattutto bellico nella Seconda guerra mondiale da parte dei tedeschi, finché logici come il polacco Marian Rejewski (1905-1980) prima e come l'inglese Alan Turing (1912-1954) poi - non senza l'aiuto di indicazioni spionistiche - riuscirono a violarne la cifratura fornendo decisive informazioni alle forze alleate. Con l'avvento di computer sempre più veloci e sofisticati Ronald Linn Rivest, Adi Shamir e Leonard Adleman del MIT, hanno ideato, nel 1978, l'RSA (acronimo dei loro nomi), un algoritmo di crittografia asimmetrica (perché uno solo di due corrispondenti conosce la chiave del messaggio cifrato) che con un semplice esempio si potrebbe descrivere nel modo che segue. Si immagini che A debba inviare un messaggio segreto a B; per far questo B sceglierà due numeri primi molto grandi, da 300 cifre ed oltre, li moltiplicherà con il suo computer, impiegando nell'operazione meno di un secondo, e manderà ad A il numero così ottenuto che può essere visto o intercettato da chiunque. A userà questo numero per crittare il suo messaggio - anch'esso palesabile a tutti - che manderà a B, il quale ricevendo il messaggio potrà decifrarlo attraverso quei numeri primi, la chiave, che solo lui conosce perché ignota perfino ad A. Infatti il computer se è in grado di operare velocissimamente con le moltiplicazioni non può fare altrettanto per le fattorizzazioni dei numeri: chi volesse scoprire quali numeri primi hanno dato origine al numero altissimo che hanno sotto gli occhi dovrebbe comunque iniziare la loro fattorizzazione cominciando da 2, 3, 5, 7, ecc., come si fa di solito, perché è molto difficile riuscire in un'impresa del genere cercando di trovare i numeri primi generatori in modo casuale. In realtà dato un numero N abbastanza alto (prodotto da due numeri primi p e q), potrebbero volerci migliaia di anni per trovare la soluzione anche se si riuscisse a provare con un numero primo ad ogni secondo. Al giorno d'oggi, per ovviare a questo problema della fattorizzazione, ovvero della ricerca veloce dei numeri primi che costituiscono le chiavi della crittografia asimmetrica, si è arrivati a concepire il cosiddetto computer quantico, il cui hardware è basato sulla sinergia di potenti campi magnetici in modo da orientare gli atomi direzionandoli; il software invece è costituito dalla "informazione quantistica" che adopera la matematica matriciale ovvero quel calcolo utilizzato da Werner Karl Heisenberg (1901-1976) per concepire il suo principio di indeterminazione, caposaldo della fisica quantistica. Tale computer che per ora è soltanto a livello sperimentale, pretenderebbe di risolvere in breve tempo, anzi in tempo reale, un qualsiasi messaggio crittato in RSA e, ovviamente, in qualunque altro modo, fattorizzando rapidamente in numeri primi qualsiasi numero che sia servito per crittare un messaggio. Nel tempo l'altalena del celare e dello svelare il significato di un messaggio attraverso le derivazioni degli alfabeti che consentono la manipolazione del significante continua inalterata con i mezzi tecnologici che una società, da questo punto di vista sempre più sofisticata, può mettere in atto. | << | < | > | >> |Pagina 129CAPITOLO SETTIMO
Eludere la comunicazione: le macchine che non funzionano.
I disegni nascosti di Leonardo da Vinci
1. I Codici di Leonardo e la loro protezione Quando ci si riferisce alle scritture alfabetiche e alla loro contraffazione si intende riferirsi, lo si è detto, alla manipolazione del significante; se invece ci si trova dinanzi a una scrittura ideogrammatica si mettono in opera altre strategie come quelle di cui si è appena parlato. Ma esiste un'altra produzione segnica cui non soggiace nessuna lingua - anche se è presupposta dalla conoscenza di una lingua - quella dei segni iconici figurativi (disegni, pitture, immagini) che difficilmente potrebbero essere contraffatti come una crittografia. Un'immagine, infatti, viene definita dai semiologi come qualcosa di cui si può analizzare la forma in parti che corrispondono ad alcune figure che le lingue naturali attribuiscono all'oggetto rappresentato. Sicché nella raffigurazione di una casa o di un gatto, facilmente potremmo identificare il tetto e le finestre per la prima, i baffi e la coda per il secondo: esattamente quelle figure che per casa e gatto si ritrovano nella forma del contenuto della nostra lingua, che coincide con quella che è stata chiamata la semiotica del mondo naturale e che rappresenta già una sorta di scansione. Ma il rapporto di condivisione di alcune proprietà - e quindi di necessità - tra il piano dell'espressione e quello del contenuto, la mancanza della doppia articolazione, la non linearità delle immagini ne rendono problematica e insicura la manipolazione. Con alcuni espedienti però esiste chi è egualmente riuscito a camuffare il significato di un segno iconico, e anzi a contraffare il segno stesso (dato il legame necessario tra l'espressione e il contenuto di un'immagine), almeno per quanto riguarda alcune tipologie di immagine figurativa, i progetti meccanici, ed è quanto avviene con i disegni di Leonardo da Vinci (1452-1519) il quale è stato artefice di una tecnica mimetica implicante una profonda conoscenza delle proprietà significative di un'immagine e una raffinata sapienza nella trattazione di uno spazio bidimensionale. Ormai Leonardo è diventato di moda, tutti ne parlano e lo mitizzano; qui invece si vuole fare una discettazione autentica, un'analisi reale del suo operato con il supporto di quella che viene chiamata filologia macchinale. Si vuole mostrare qualcosa che non siamo abituati a vedere e neanche a pensare: come si possa nascondere l'evidenza di un disegno, come si possa appannare un tracciato che per sua natura rappresenta la chiarezza e che può stare sotto gli occhi di chiunque lo abbia tra le mani, in originale o in riproduzione. Sappiamo che i disegni leonardeschi hanno subìto diverse vicissitudini, molti dei fogli originari si sono persi, la disposizione dei rimanenti è stata alterata nel tempo da parte di chi li aveva ereditati e successivamente da molte mani: ora gli appunti del Maestro sono suddivisi in diverse raccolte: il Codice Atlantico, il Codice Leicester, l' Arundel, il Codice Hammer, i Codici Forster, i Manoscritti dell'Institut de France, i Codici di Madrid, il Codice Trivulziano, l' Ashburnam, il Volo degli uccelli, il Windsor, poi fogli, quaderni, appunti, e non si dispera mai che altri fogli, sepolti negli archivi d'Europa, possano essere ritrovati, come quando nel 1966 vennero fuori i sopra citati Codici di Madrid. È noto che con il Rinascimento si ebbe una vera e propria esplosione dell'uso dell'immagine, si cominciò ad adoperare sistematicamente il disegno come strumento non solo di divulgazione e di propagazione del sapere, ma anche come mezzo per la chiarificazione dei propri pensieri: pittori, ingegneri e meccanici diedero prova di saper utilizzare un'altra via di conoscenza. Il Trattato della Pittura di Leonardo asserisce, diversamente dal passato, che la pittura è scienza perché rappresenta «al senso con più verità e certezza le opere di natura» e che è da considerarsi superiore alle lettere che invece «rappresentano con più verità le parole al senso», spiegando che è «più mirabile quella scienza che rappresenta le opere di natura, che quella che rappresenta [...] le opere degli uomini, com'è la poesia, e simili, che passano per la umana lingua» (I, 3). È ben rintracciabile in questi passi una deontologia platonica che pone la visione come incipit della conoscenza. E, nel medesimo Trattato, Leonardo aggiunge che fra tutte le scienze la pittura è la prima perché «non s'insegna a chi natura nol concede [...]», frase in cui si scorge probabile la priorità che viene attribuita al qualitativo sul quantitativo ripetibile. Spesso gli architetti e gli ingegneri rinascimentali hanno sentito il bisogno di celare o comunque di non divulgare troppo i segreti del loro mestiere, soprattutto quando si trattava di fortificazioni, di macchine belliche, di artifici per il divertimento e la meraviglia del principe e della sua corte. Il loro nome è a volte legato ad autentiche scoperte e invenzioni dell'arte crittografica: credo che per tutti valga il solo Leon Battista Alberti, che inventò la prima macchina cifrante con un espediente la cui evoluzione porterà al celebre Enigma, sgomento decrittatorio della Seconda guerra mondiale. Giovanni Fontana (1400 c.-dopo il 1454), autore di un Bellicorum instrumentorum liber (scritto tra il 1420 e il 1449), volume illustrato di progetti bellici (sigg. 38-39) e corredato da testi cifrati è un altro degli esempi che denotano il rapporto privilegiato tra architetti e crittografia (fig. 40). Tenere le proprie invenzioni nascoste a occhi che avrebbero potuto appropriarsene era comunque, come è ancora, una preoccupazione degli scienziati e degli inventori. Anche Leonardo ebbe tale preoccupazione? Probabilmente sì. O, almeno in parte sì, per alcuni dei suoi progetti, quelli che riguardavano macchine semoventi e macchine da guerra. Ma le sue modalità sono alquanto diverse dagli altri ingegneri e architetti. Leonardo, per prima cosa, annota i suoi pensieri tracciandoli con una scrittura che va da destra a sinistra, i suoi scritti sono leggibili agevolmente allo specchio, ma non direttamente: una povera semplice serratura questa è per noi, ma, forse, non per i suoi tempi. Inoltre, sebbene non se ne possa essere certi, tale modalità di scrittura destrorsa potrebbe anche derivare da un vezzo di mancinismo, cosa però che non escluderebbe la prima ipotesi e che anzi mostrerebbe l'utilizzazione da parte del Maestro di un'abitudine mancina per scopi pratici di segretezza. Vorrei qui subito sottolineare che l'incertezza alla quale siamo sottoposti nell'interpretazione degli schemi e dei disegni leonardeschi è un'altra piccola serratura che custodisce i suoi pensieri trascritti. Ancora un commento: in molti dei suoi studi lo scritto esplicativo è pochissimo, alle volte quasi inesistente. Aggiungo inoltre che anche nella sua pittura Leonardo ha sperimentato l'arte del celare: studi percettivi dedotti dalla presenza di figure dentro altre figure ne confermano gli esperimenti. All'inizio del secolo passato, infatti, quando la psicoanalisi andava applicando le sue categorie a ogni ambito della cultura, lo stesso Freud prese in esame (1910) l'opera del Maestro vinciano in occasione del fatto che, osservando il grande quadro S. Anna, la Madonna e il Bambino con l'agnello (1500-1510), un suo allievo vi aveva rintracciato una figura nascosta che era stata individuata come il nibbio, rapace visibile solo se lo spettatore ruota la propria testa di 90° a sinistra. Il panneggio della veste della Madonna comprende, e contemporaneamente nasconde, il profilo di un grosso uccello che si estende per tutto il grembo della Vergine e che ha una inconfondibile coda di nibbio. Ma ancora altre figure sono state successivamente rintracciate: l'affogato - così Federico Zeri chiamò il profilo disfatto di un uomo che si intravede ruotando la tela di 90° in senso antiorarío perpendicolare alla testa della S. Anna - mentre altri vi hanno inoltre individuato un autoritratto di Leonardo, una faccia maschile sorridente o seriosa a seconda da che punto di vista si guardi, componimenti di battaglie, il diavolo. Il quadro era molto caro a Leonardo, la sua stesura durò, con vari intermezzi, dieci lunghi anni, e insieme con La Gioconda (1503-1506) fu il dipinto che egli portò con sé nella Francia di Francesco I. C'è da immaginare che questa tela fosse più di un quadro, fosse un teorema della pittura venuto fuori da sperimentazioni e da verifiche, oggi diremmo gestaltiche, di vere e proprie acrobazie della forma e dell'illusione che, con la collaborazione di chi guarda, producono inganno dei sensi e della mente, mostrando e nascondendo al tempo stesso. Un incredibile capolavoro di illusioni ottiche e di scorci anamorfici è dunque questa pittura, cominciata nella chiesa dei Frati Serviti della Santissima Annunziata a Firenze, dove Leonardo applicò quei princìpi sia appuntati in un disegno del Codice Atlantico sull'anamorfosi, sia espressi nei consigli agli apprendisti pittori, che recitano: «[...] non ti sia grave il fermarti alcuna volta a vedere macchie, de' muri, o nella cenere del fuoco, o nuvoli o fanghi, od altri simili luoghi, ne' quali, se ben saranno da te considerati, tu troverai invenzioni mirabilissime, che destano l'ingegno del pittore a nuove invenzioni sì di componimenti di battaglie, d'animali e d'uomini, come di vari componimenti di paesi e di cose mostruose, come di diavoli e simili cose, perché saranno causa di farti onore; perché delle cose confuse l'ingegno si desta a nuove invenzioni. Ma fa prima di sapere ben fare tutte le membra di quelle cose che vuoi figurare, così le membra degli animali come le membra de' paesi, cioè sassi, piante e simili [...]». | << | < | > | >> |Pagina 1374. I progetti dei robot e i loro segreti. Esempi di "crittoiconica" macchinale: il carretto automotoreForse per Leonardo più che di crittografia, a parte la sua scrittura destrorsa, si dovrebbe parlare di "crittoiconica" (termine non bello per la verità), perché la sua è un'operazione che serve a nascondere le immagini. Esiste un disegno rappresentato nel foglio 812r del Codice Atlantico, datato 1484, che viene considerato il progetto dell'auto-mobile (fig. 41). In realtà si tratterebbe di un carro semovente perché, come rileva Taddei, il problema dello spostamento, nel sec. XV, era relativo soprattutto al trasporto di oggetti pesanti e non certo delle persone, che andavano a cavallo, a piedi o con mezzi trainati da animali. La filologia macchinale si è a lungo cimentata con il carretto automotore del foglio 812r: la sua importanza viene scoperta nel 1905 e da allora ingegneri ed esperti di meccanica hanno tentato di interpretarlo più o meno felicemente perché nelle sue numerose realizzazioni il carro risultava difettoso e non funzionante. Ci sono elementi mancanti nel disegno che non ne permettono una lettura completa e chi si è messo alla prova per cercare di venirne a capo è stato costretto a volte a inventare. Non voglio qui raccontare i vari fallimenti e gli inutili tentativi che ci sono stati in passato per costruire il carro, dirò solo del risultato positivo avvenuto nel 2004, quando, a Milano, il primo prototipo prese vita e, appena messo in funzione, compì un tragitto di più di 15 metri senza fermarsi. Il presupposto fondamentale di questo esemplare è la presenza di due grosse molle a scappamento sotto i due ingranaggi principali, afferma Taddei, ma nel disegno leonardesco, anzi nei disegni perché nel foglio 812r ce n'è più d'uno, in prospettive diverse, le molle non si vedono mai, sono omesse. È necessario sapere che, secondo autori come Augusto Marinoni (1911-1997), il ricorso alla trazione a molla costituisce una novità sostanziale introdotta dal Maestro rispetto ai suoi contemporanei nei progetti nei quali era necessaria una forza motrice. È la molla dunque il motore impiegato da Leonardo per azionare i suoi robot. Questa lamina di ferro arrotolata e caricata a mano, consentiva lo sviluppo di automi semoventi e davvero autonomi perché ciò che faceva muovere tali congegni era l'energia scaricata dalla sua tensione. Il problema rimaneva ovviamente quello della durata limitata dell'effetto della molla ma anche dal fatto che col suo distendersi la potenza energetica accumulata diminuisce provocando un moto non uniforme che all'inizio è più veloce e alla fine si spegne, come avviene con una qualunque spinta che venga data anche con la sola mano a un carro su ruote. Per ovviare a questo inconveniente il sec. XV aveva associato alla molla, una catenella o una corda con una "chiocciola", ossia con un cono inciso da un solco spiraliforme su cui veniva arrotolato un laccio. Questo insieme sfruttava la potenza iniziale della molla applicandola alla ridotta dimensione della punta del cono mentre l'indebolita forza finale della molla veniva utilizzata dall'ampia base del cono e grazie alla ruota dentata posta alla base della chiocciola si poteva ottenere un moto costante anche se di breve durata. Questo tipo di motore veniva applicato prevalentemente a oggetti destinati a percorrere itinerari brevi e a provocare stupore e meraviglia come, per esempio, macchine per il teatro, per le feste o per le occasioni spettacolari.
Orbene Marinoni, confrontando il foglio 812r con il 114r del
Codice Atlantico
(fig. 42), fino ad allora trascurato, dove è abbozzato un carro a
cinque ruote, vi riconosce alcuni elementi essenziali per il moto come due
grosse molle a balestra, destinate a fornire forza motrice. È come se per
completare un certo progetto avessimo bisogno di un pezzo che si trova
in un altro progetto, un pezzo, un modulo omesso nel foglio 812r senza il
quale la macchina automovente non funziona. In un altro progetto, quello
del paracadute, anch'esso non funzionante se realizzato così come è stato
disegnato da Leonardo, mancherebbe un buco sulla cima: se, infatti, ci
fosse quell'apertura il paracadute potrebbe reggere al funzionamento magari non
perfetto ma accettabile. Alcuni dei progetti leonardeschi dunque
sono incompleti per poter funzionare. Ma questa loro incompletezza è voluta?
Potrebbe essere uno stratagemma per rendere ermetico il disegno?
Con un pezzo mancante qualsiasi macchina non può funzionare: quella
prudenza con la quale altri nascondevano le loro idee attraverso espedienti
crittografici, è invece esercitata dal Maestro in un altro e più sottile
modo, quello di togliere o nascondere in un altro contesto, o foglio, pezzi che
avrebbero reso completo e quindi attuabile da altri il progetto? La
questione non è decidibile e l'indecidibilità è anch'essa una piccola serratura,
come quelle di cui più in alto si è parlato, per celare un percorso. Si
vuoi ancora sottolineare che tutto quanto si è detto è possibile pensarlo e
sostenerlo - anche se non accertarlo - per il fatto già messo in rilievo, vale a
dire per la caratteristica sistemica di Leonardo, che avendo fatto una
scansione delle macchine in moduli, può isolarne i pezzi e nasconderli
in altri fogli come appartenenti ad altro o come stanti a sé o addirittura
ometterli, sì da crittare in modo davvero originale il suo progetto.
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