Autore Tim Marshall
Titolo I muri che dividono il mondo
EdizioneGarzanti, Milano, 2018, Saggi , pag. 272, ill., cop.rig.sov., dim. 14,5x22x2,3 cm , Isbn 978-88-11-60212-5
OriginaleDivided: Why we're living in an age of walls [2018]
TraduttoreRoberto Merlini
LettoreRiccardo Terzi, 2018
Classe politica , storia contemporanea , storia criminale , guerra-pace , storia: Asia , storia: America , storia: Europa , paesi: Cina , paesi: USA












 

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Indice


Introduzione                          9

1. Cina                              17

2. Stati Uniti d'America             45

3. Israele e Palestina               79

4. Medio Oriente                    103

5. Il subcontinente indiano         125

6. Africa                           157

7. Europa                           185

8. Regno Unito                      221

Conclusione                         251


Bibliografia                        263
Ringraziamenti                      268
Indice dei nomi                     269


 

 

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Pagina 9

INTRODUZIONE



Il muro che sorge lungo il confine tra Israele e la Cisgiordania è uno tra i più minacciosi e ostili del mondo. Visto da vicino, sia da una parte sia dall'altra, ha un aspetto lugubre e opprimente. Di fronte a questa distesa di acciaio e calcestruzzo, ti senti schiacciato non solo dalle sue dimensioni ma anche da ciò che rappresenta. Tu stai da una parte; «loro» stanno dall'altra.

Nel 1989 è caduta una barriera, dando inizio a quella che sembrava una nuova era di apertura e internazionalismo. Nel 1987 il presidente Ronald Reagan si recò alla Porta di Brandeburgo, simbolo di una Berlino ancora divisa, e invitò perentoriamente il suo omologo dell'Unione Sovietica, Gorbačëv, ad «abbattere quel muro». Due anni dopo, finalmente, il «muro della vergogna» è caduto. Berlino, la Germania e poi l'Europa erano ancora una volta unite. Sull'onda dell'entusiasmo di quei momenti, alcuni intellettuali arrivarono a prevedere la fine della storia. Ma la storia non finisce.

In questi ultimi anni l'imperativo di abbattere i muri sta perdendo il confronto dialettico con la «mentalità della fortezza». Non riesce più a farsi sentire, perché non può competere con la migrazione di massa, il movimento antiglobalizzazione, la rinascita del nazionalismo, il crollo del comunismo e gli attacchi terroristici dell'11 settembre con le loro tragiche conseguenze. Sono le linee di faglia che condizioneranno il nostro mondo negli anni a venire.

Dappertutto vediamo muri in costruzione lungo i confini. Nonostante la globalizzazione e i progressi della tecnologia, ci sentiamo più divisi che mai. Negli ultimi vent'anni sono stati eretti in tutto il mondo muri e recinti per migliaia di chilometri. Almeno sessantacinque paesi, più di un terzo degli stati nazionali del mondo, hanno costruito barriere lungo i propri confini; metà di quelle erette a partire dalla seconda guerra mondiale è stata creata tra il 2000 e oggi. Di qui a pochi anni i paesi europei potrebbero contare più chilometri di muri, recinti e barriere di quelli che esistevano nella fase più critica della guerra fredda. I primi muri dividevano la Grecia dalla Macedonia, la Macedonia dalla Serbia e la Serbia dall'Ungheria, e siccome la nostra indignazione diminuiva progressivamente all'aumentare delle distese di filo spinato, ne sono seguiti tanti altri - la Slovenia ha iniziato la costruzione di un muro lungo il confine con la Croazia, gli austriaci hanno isolato la Slovenia, la Svezia ha eretto barriere per impedire agli immigrati clandestini di entrare dalla Danimarca, mentre Estonia, Lettonia e Lituania hanno cominciato a erigere fortificazioni difensive lungo i confini con la Russia.


L'Europa non è certo un caso unico: gli Emirati Arabi Uniti hanno costruito uno steccato lungo il confine con l'Oman, e il Kuwait ha fatto la stessa cosa con l'Iraq. Iraq e Iran mantengono una separazione fisica, al pari di Iran e Pakistan - una barriera lunga in tutto 700 chilometri. Nell'Asia centrale l'Uzbekistan, benché privo di sbocchi sul mare, si è isolato fisicamente dai suoi cinque vicini di casa, Afghanistan, Tagikistan, Kazakistan, Turkmenistan e Kirghizistan. Il confine col Tagikistan è addirittura minato. E si continua con le barriere che separano il Brunei dalla Malesia, la Malesia dalla Thailandia, il Pakistan dall'India, l'India dal Bangladesh, la Cina dalla Corea del Nord, la Corea del Nord dalla Corea del Sud e così via in tutto il mondo.

Erigiamo barriere per tante ragioni, perché siamo divisi in tanti modi - in termini di ricchezza, di razza, di religione e di politica. A volte le divisioni portano alla violenza, e si alzano muri per proteggersi o per difendersi. A volte i muri servono a tener fuori certe popolazioni. E a volte non si creano muri fisici, ma la separazione si sente ugualmente perché sta nella nostra testa. Queste barriere invisibili sono spesso altrettanto efficaci.

Questi muri ci dicono molto sulla politica internazionale, ma le ansie che rappresentano trascendono i confini degli stati nazionali su cui sorgono. Lo scopo principale dei muri che si stanno moltiplicando in tutta Europa è fermare l'ondata migratoria, ma essi evidenziano anche le più ampie divisioni e l'instabilità che caratterizzano la struttura stessa dell'Unione Europea e i suoi paesi membri. Il muro che il presidente Trump vorrebbe costruire sul confine tra Stati Uniti e Messico dovrebbe arginare il flusso di migranti in arrivo da sud, ma l'iniziativa piace anche ai tanti americani che temono una profonda alterazione degli equilibri demografici.

La divisione influenza i rapporti politici a tutti i livelli: personale, locale, nazionale e internazionale. Dobbiamo prendere coscienza di ciò che ci ha diviso, e di ciò che continua a dividerci, per capire cosa sta accadendo oggi nel mondo.


Rivediamo mentalmente la scena iniziale di 2001: Odissea nello spazio, il grande film di fantascienza diretto da Stanley Kubrick nel 1968. Nella sequenza intitolata «L'alba dell'uomo», ambientata nella savana africana del Pleistocene, una piccola e unita tribù di uomini-scimmia si abbevera tranquillamente a una sorgente quando tutt'a un tratto appare un'altra tribù. Scoppia una rissa furibonda, da cui escono vincitori questi ultimi, che si impossessano della sorgente, costringendo i rivali ad allontanarsi. Se i nuovi arrivati avessero avuto la capacità di fabbricare mattoni e di mescolare il cemento, avrebbero potuto recintare la loro nuova proprietà e proteggerla. Ma poiché nella finzione cinematografica la scena si svolge milioni di anni fa, devono combattere nuovamente a distanza di pochi giorni, quando la prima tribù si ripresenta, attrezzata per la guerra, rivendicando il proprio territorio.

Raggrupparsi in tribù, temere gli estranei o reagire istintivamente alle minacce percepite sono comportamenti molto umani. Formiamo legami che sono importanti non solo per la sopravvivenza, ma anche per la coesione sociale. Sviluppiamo un'identità di gruppo, il che conduce spesso al conflitto. I nostri gruppi competono per le risorse, ma c'è anche un conflitto identitario, basato su una narrazione che contrappone «noi» a «loro».


Nella preistoria, eravamo cacciatori e raccoglitori: non c'eravamo ancora insediati nei nostri territori, e non avevamo acquisito risorse permanenti che potessero far gola ad altri. Poi, in alcune parti della Turchia e del Medio Oriente odierni, nacque l'agricoltura. Invece di viaggiare in lungo e in largo per trovare cibo, o far pascolare gli animali, quei protoagricoltori aravano i campi e aspettavano i risultati. Improvvisamente (nel contesto dell'evoluzione), noi esseri umani sentimmo via via l'esigenza di costruire barriere: muri e tetti per proteggere noi stessi e i nostri animali, recinti per marcare il nostro territorio, fortezze in cui rinchiuderci se quel territorio veniva invaso, e guardie a protezione del nuovo sistema. L'era dei muri era iniziata, e avrebbe acceso a lungo la nostra immaginazione. Parliamo ancora oggi delle mura di Troia, di Gerico, di Babilonia, della Grande Muraglia cinese, della Grande Zimbabwe, del Vallo di Adriano, delle mura Inca in Perù, delle mura di Costantinopoli e di tante altre barriere difensive. Barriere che hanno continuato a estendersi nel tempo, da una regione all'altra e da una cultura all'altra, fino al giorno d'oggi - solo che adesso sono dotate di fari orientabili, corrente elettrica e telecamere a circuito chiuso.

Queste divisioni fisiche riflettono le divisioni culturali - le grandi idee che hanno guidato le nostre civiltà e ci hanno dato un'identità e un senso di appartenenza - come il grande scisma cristiano, la suddivisione dell'islam nelle due fazioni sciita e sunnita, e più recentemente le battaglie titaniche tra comunismo, fascismo e democrazia.


Il titolo del libro pubblicato nel 2005 da Thomas Friedman, Il mondo è piatto, si basava sulla certezza che la globalizzazione ci avrebbe inevitabilmente avvicinati. È stato così, in effetti, ma ci ha anche spinto a costruire nuove barriere. Di fronte a minacce percepite - la crisi finanziaria, il terrorismo, il conflitto armato, i profughi e l'immigrazione, il crescente divario tra ricchi e poveri - le persone si attaccano maggiormente ai rispettivi gruppi di riferimento. Il cofondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, era convinto che i social media ci avrebbero uniti. Sotto alcuni aspetti lo hanno fatto, ma nello stesso tempo hanno dato voce e capacità organizzativa a nuove tribù digitali, alcune delle quali trascorrono il proprio tempo lanciando invettive e creando nuove divisioni sul web. Oggi si direbbe che ci siano tante tribù, e tanti conflitti tra di esse, quanti ce n'erano in passato. La domanda che dobbiamo porci è quali forme assumono le tribù moderne. Ci definiamo in base alla classe sociale, alla razza, alla religione o alla nazionalità? E queste tribù possono coesistere in un mondo nel quale sopravvive la contrapposizione tra «noi» e «loro»?

Tutto si riduce a questo concetto di «noi e loro» e ai muri che costruiamo nelle nostre menti. A volte «l'altro» parla una lingua diversa o ha la pelle di un colore diverso, pratica una religione diversa o ha convinzioni diverse. Me ne sono reso conto recentemente a Londra, dove tenevo un corso di formazione a trenta giovani e brillanti giornalisti provenienti da tutto il mondo. Avevo citato la guerra tra Iran e Iraq, che era costata la vita a quasi un milione di persone, e mi ero lasciato scappare l'espressione «musulmani che uccidevano musulmani». Un giovane giornalista egiziano è balzato in piedi e mi ha contestato duramente. Io ho fatto riferimento alle statistiche di quel terribile conflitto e lui mi ha risposto: «Sì, ma gli iraniani non sono musulmani». Ho avuto un piccolo mancamento. La maggior parte degli iraniani è sciita, perciò gli ho domandato: «Stai dicendo che gli sciiti non sono musulmani?». «Sì», ha replicato. «Gli sciiti non sono musulmani.» Queste divisioni non si riducono alla competizione sulle risorse, ma sfociano in sanguinosi duelli su quella che dovrebbe essere l'unica verità - e chi la pensa diversamente è considerato inferiore. La certezza della propria superiorità fa crescere i muri. Se c'è competizione sulle risorse, i muri diventano più alti. Oggi siamo esattamente in questa situazione.

Uso la parola «muri» per indicare barriere, recinti e divisioni di tutti i tipi. In ogni capitolo esaminiamo barriere fisiche, che impiegano quasi tutte calce e mattoni, cemento e filo spinato, che però attestano semplicemente la conseguenza della divisione, non il perché - e raccontano solo l'inizio della storia.

Non ho potuto analizzare tutte le regioni divise. Mi sono concentrato piuttosto su quelle che illustrano meglio i problemi dell'identità in un mondo globalizzato: gli effetti della migrazione di massa (gli Stati Uniti, l'Europa, il subcontinente indiano); il nazionalismo come forza di unità e al contempo di divisione (la Cina, il Regno Unito, l'Africa); e i legami tra religione e politica (Israele e il Medio Oriente).

In Cina, vediamo uno stato nazionale potentissimo lacerato da una serie di divisioni - come i disordini regionali e le disuguaglianze sociali - che mettono a rischio l'unità nazionale, minacciandone il progresso economico e la credibilità; perciò il governo deve esercitare il controllo sul popolo cinese. Anche gli Stati Uniti sono divisi, ma per altre ragioni: l'avvento di Trump ha inasprito i rapporti interrazziali nella terra della libertà, mettendo in luce un antagonismo senza precedenti tra repubblicani e democratici, che sono più contrapposti che mai.

Le divisioni tra Israele e la Palestina sono profondamente radicate, ma con tutte le suddivisioni ulteriori che si sono create all'interno di ciascuna popolazione è quasi impossibile tentare di raggiungere una soluzione. Anche divisioni religiose ed etniche scatenano la violenza in tutto il Medio Oriente, facendo emergere la lotta mortale tra sciiti e sunniti - ogni episodio è il prodotto di fattori complessi, ma si riduce quasi tutto alla religione, in particolare per quanto riguarda la rivalità regionale tra Arabia Saudita e Iran. I movimenti in atto nella popolazione del subcontinente indiano e quelli previsti nei prossimi anni rivelano la tragedia di quanti sfuggono alla persecuzione religiosa e quella dei tanti profughi economici e migranti ambientali.

In Africa, i confini tracciati dal colonialismo appaiono difficilmente riconciliabili con identità tribali che rimangono forti. In tutta Europa, il concetto stesso di Unione Europea è sotto minaccia perché stanno tornando a sorgere muri, dimostrando che le contrapposizioni della guerra fredda non sono state totalmente superate, e che nell'era dell'internazionalismo il nazionalismo non è scomparso del tutto. E adesso che il Regno Unito ha deciso di lasciare la UE, la Brexit rivela profonde crepe al suo interno: antiche identità regionali, ma anche le più recenti tensioni sociali e religiose che si sono formate nell'era della globalizzazione.

In una fase di paura e di instabilità, le persone continueranno a raggrupparsi per difendersi da minacce percepite. Quelle minacce non vengono solo dall'esterno. Possono venire anche dall'interno, come sa bene la Cina...

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Sono le molteplici divisioni che si stanno creando all'interno della popolazione Han, e se si radicalizzano possono rappresentare una minaccia per il governo. Le autorità devono mantenere il controllo della Cina centrale se vogliono gestire con successo la politica economica e tenere sotto osservazione le regioni esterne. La soluzione che hanno adottato è il monitoraggio del flusso delle informazioni, prevenendo la diffusione del dissenso e impedendo all'opposizione di consolidarsi. Devono dividere per unire; è così che, nell'era di Internet, è nato il Grande firewall cinese.

La sua esistenza ha dato origine a politiche contraddittorie: sopprimere le informazioni e nel contempo creare un'economia dinamica che si basa sempre di più sullo scambio di dati all'interno del paese e con il mondo esterno. Agli inizi di Internet, questo non era un problema per un governo deciso a difendere il proprio ruolo di unica fonte di potere e informazioni per la Cina. L'accesso a Internet era limitato, perciò la comunicazione interna era controllata dallo stato, e i pochi Internet café e università connessi alla rete si potevano monitorare facilmente, sia a livello fisico sia a livello elettronico. Nel 2005, solo il 10% della popolazione aveva accesso a Internet. Oggi, tuttavia, siamo al 50% e la percentuale è in ulteriore ascesa. Si tratta di circa 700 milioni di utilizzatori, che corrispondono più o meno a un quarto della popolazione mondiale online. E sono molto più difficili da controllare.

Escludere digitalmente la popolazione cinese dal mondo esterno è stato più facile che dividerla al suo interno. Quello che il mondo esterno chiama il Grande firewall è detto in Cina «lo scudo dorato». Questo muro elettronico dovrebbe mettere la popolazione cinese al riparo da idee perniciose come la democrazia, la libertà di parola e la cultura non asservita. Pur essendoci alcune «scappatoie» come i servizi Virtual Private Network (VPN), che sono progettati per «scavare un tunnel» sotto la muraglia elettronica, la maggior parte dei cinesi non può accedere a siti diversissimi tra loro come «Time», Dropbox, «The Economist», Facebook, YouTube, Amnesty International, «The Tibet Post», The Norwegian Broadcasting Corporation, «Le Monde» o Pornhub.

Le mura interne, nel frattempo, sono lì per impedire a reti virtuali di natura potenzialmente politica di emergere e per oscurare ciò che accade in una parte del paese, per esempio lo Xinjiang. Il partito teme in particolare l'utilizzo dei social media per organizzare dimostrazioni, che potrebbero sfociare a loro volta in tumulti.

Rogier Creemers, che insegna Diritto e amministrazione all'Università di Leida, in Olanda, è uno dei maggiori esperti mondiali dell'Internet cinese. Egli afferma che il mondo esterno non capisce a fondo l'atteggiamento del governo cinese in merito alla rivoluzione digitale: «Direi che al confronto noi vediamo generalmente Internet attraverso una lente tinta di rosa; pensiamo che sul web tutti siano liberi, che ci sia libertà di informazione, democrazia ecc. Le autorità cinesi sono sempre state molto più scettiche. Pensavano che la nuova tecnologia avrebbe avuto conseguenze inedite con cui avremmo dovuto fare i conti. Quando i cinesi parlano di wangluo anquan - sicurezza informatica - non si riferiscono solo all'integrità tecnologica [la protezione del sistema fisico da possibili danneggiamenti] o al crimine informatico. Si riferiscono al ruolo complessivo che potrebbe avere la tecnologia di Internet nella destabilizzazione del sistema economico e sociale. Perciò, cose che noi non consideriamo pericolose per la sicurezza informatica, come le voci che circolano in rete, per loro invece lo sono».

La Cina ha le sue versioni di aziende come Google, Facebook e Twitter: Renren, Baidu e Weibo, che vengono costantemente monitorate. Il livello di censura varia da una regione all'altra; per esempio, nel Tibet e nello Xinjiang, i firewall sono al tempo stesso più alti e più profondi. Uno studente universitario di Shanghai potrebbe tranquillamente usare un VPN per accedere a un sito di informazione estero vietato, mentre uno studente di Ūrūmqi; la capitale dello Xinjiang, riceverebbe quasi certamente un invito a presentarsi al più vicino distretto di polizia. Si riesce abbastanza facilmente a identificare chi sta usando i VPN, e per quale ragione, e lo stato vuole sapere tutto in proposito. Sa che alcune aziende nazionali ed estere, e anche molti singoli individui, usano la tecnologia a scopi commerciali, e in questi casi fa finta di niente. Ma nel 2009 alcuni attivisti uiguri sono riusciti ad accedere a Facebook, e i continui problemi giuridici che incontra l'azienda in Cina si possono far risalire a quell'episodio.

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La censura esercitata su Internet limita effettivamente il potenziale economico della Cina. Il paese è ancora leader mondiale del commercio elettronico, con quasi il 40% del totale globale, ma vendite al dettaglio su Internet e innovazione sono due cose diverse. La Cina vuole creare un mercato interno molto più grande, ma anche produrre beni di fascia alta e sviluppare una tecnologia particolarmente avanzata. Sa benissimo che, pur essendo fabbricati in Cina, gli iPhone vengono sviluppati e progettati nella lontanissima Silicon Valley.

È un prezzo che per il governo vale ancora la pena di pagare; fa parte di un delicato gioco di equilibri e di una scommessa sul tempo. Il partito comunista deve dare da mangiare a 1,4 miliardi di persone, trovare loro un lavoro, trovare oggetti da fargli produrre e mercati in cui possano essere venduti. Nello stesso tempo, è convinto di dover stroncare sul nascere qualunque forma di opposizione organizzata, dagli studenti democratici agli indipendentisti tibetani ai fanatici religiosi Falun Gong, ma anche le espressioni artistiche della libertà. Se ciò significa bloccare il libero flusso delle informazioni a spese del miracolo economico, va bene lo stesso.

Qin Shi Huang fece abbattere le mura interne degli stati in guerra solo quando fu sicuro della propria capacità di tenerli assieme. Più di duemila anni dopo, il potere del gruppo dirigente, e l'unità degli Han e della nazione, vengono ancora al primo posto. Anche se quella unità si può ottenere solo attraverso un muro digitale che separa la Cina dal resto del mondo e la divide al suo interno.

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Il giorno dopo l'elezione di Donald Trump a quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti, la nota opinionista neoconservatrice Ann Coulter ha pubblicato un «programma dettagliato» delle priorità per i primi cento giorni: «Giorno 1: iniziare a costruire il muro. Giorno 2: continuare a costruire il muro». E così via: «Giorno 3: continuare a costruire il muro. Giorno 4: continuare a costruire il muro». La litania proseguiva fino al «Giorno 100: riferire al popolo americano sui progressi compiuti nella costruzione del muro. Continuare a costruire il muro». Sono sparate grossolane, basate sull'arroganza e sul sensazionalismo online, e la aiutano a pagare il mutuo, ma è improbabile che la signora Coulter fosse così ingenua da credere veramente nella realizzazione di quel progetto. Che naturalmente non è stato realizzato.

Per mesi Trump ha promesso di costruire un muro lungo il confine tra Stati Uniti e Messico per frenare l'immigrazione illegale negli USA. Anche se dà sostanzialmente l'impressione di «consultare il proprio genio» (per usare l'espressione cui ricorrevano i francesi a proposito del presidente Giscard d'Estaing), ancora prima di insediarsi alla Casa Bianca lui sapeva benissimo quanto sarebbe costato costruire il muro, qual era il livello di opposizione politica e, cosa non meno importante, quale sarebbe stato il terreno su cui andava costruito. I discorsi su «un grande e bellissimo muro» erano musica per le orecchie dei suoi sostenitori, ma non costituiscono una solida base su cui fondare un grandioso progetto edilizio, e i piani che Trump aveva in testa sono andati ben presto a cozzare contro il muro della realtà, arenandosi nelle sabbie mobili di Washington.

[...]

Ecco il nodo della questione. I muri non solo riducono gli attraversamenti illegali, anche se questa barriera di confine è particolarmente porosa, ma fanno qualcosa in più: fanno sentire a chi «vuole che si faccia qualcosa» che si sta facendo veramente qualcosa. Come osserva Reece Jones della Università delle Hawaii, autore di Violent Borders: «I muri non funzionano quasi mai, ma sono potenti simboli di azione contro problemi percepiti». La Grande Muraglia cinese avrebbe voluto separare il mondo civilizzato dai barbari; il muro di Trump mira a separare gli americani dai non-americani. È il concetto di nazione che unisce gli americani; e adesso, per qualcuno, il muro di Trump rappresenta la preservazione e la santità di quel concetto. Promuove l'idea di «riportare l'America alla grandezza» e simboleggia la popolarità del principio «America First».

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Mentre la popolazione ispanica, in rapida crescita, subisce certamente una discriminazione, la divisione razziale più manifesta negli Stati Uniti è sempre quella tra bianchi e neri, che ebbe origine ai tempi dello schiavismo e continua tuttora. L'effetto negativo che produce sulla vita delle persone è evidente: in America, il fatto di nascere in una famiglia di colore rende più probabile una condizione economica inferiore, un livello di istruzione più basso e uno stato di salute meno buono rispetto a chi nasce in una famiglia bianca. Ciò non è sempre valido: una famiglia di colore della classe media che risiede in un distretto suburbano ha probabilmente più opportunità di una famiglia bianca impoverita che vive in una zona rurale. Uno studio della Brookings Institution indica che indipendentemente dal gruppo etnico cui appartenete - bianchi, neri o ispanici - se venite da una famiglia povera, pur avendo ottenuto una laurea, i vostri guadagni saranno più bassi rispetto a quelli di un vostro omologo appartenente a una famiglia più agiata.

Ciò premesso, come regola empirica, se siete neri le prospettive nella lotteria della vita non sono buone.

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Immaginate di essere un soldato romano di guardia al vallo di Adriano nel 380 d.C. Venite dall'Etruria e siete uno dei pochi soldati della legione che provengono dalla penisola italiana. È febbraio, fa un freddo insopportabile e siete impegnati nel turno di notte. Non riuscite nemmeno a vedere le stelle perché il cielo è nuvoloso e pioviggina. Si avvicina l'alba. Un vento pungente vi solleva la tunica e ringraziate Giove per avervi messo a disposizione le bracae (pantaloni di lana) che sono arrivate la settimana scorsa, in ritardo di «sole» tre settimane. È difficile stabilire cosa sia peggio tra il tempo e gli attacchi intermittenti dei barbari che stanno a nord del muro. Il compagno che fa il turno con voi non vi può tirare su il morale più di tanto, perché viene dalla Gallia settentrionale, parla male il latino e si è appena arruolato nella speranza di ottenere la cittadinanza romana dopo aver compiuto venticinque anni di servizio.

Guardate i confini indefiniti di questa terra infeconda, le sue rade distese erbose e i suoi giunchi piegati dal vento; pensate a casa, alle cittadine di Lucca e Siena, alle campagne, alla costa, poi tirate un gran sospiro e dite a voi stessi: "Pro di immortales, quid hic facio?" ("O dei immortali, che cosa ci faccio qui?») o qualcosa del genere.

Il vallo di Adriano doveva essere una fortificazione impressionante per le tribù «primitive» che arrivavano dalle isole. La sua costruzione iniziò nel 122 d.C.; era lungo 117 chilometri e in alcune parti raggiungeva l'altezza di 4,5 metri e una profondità di 3 metri. Un fossato profondo 4 metri e largo 9 era stato scavato di fronte a esso. Il fossato e il muro erano separati da parecchie file di pali appuntiti. C'erano numerosi cancelli fortificati e lungo il muro, ogni miglio romano [1,48 chilometri, n.d.r.], si trovava un fortino; tra un fortino e l'altro sorgevano due torrette. Da una parte del muro stava «la civiltà», dall'altra «i barbari». Ancora oggi, scherzosamente, gli inglesi si rivolgono con questo epiteto agli scozzesi, anche se il muro non è più lì a separarli.

In quindici secoli, il muro di Adriano, simbolo della capacità di espansione dell'impero romano, e dei suoi limiti, è quasi scomparso. Quando i romani se ne andarono, iniziò a decadere. Gli agricoltori ne portarono via pezzi per costruire case e recinti per le pecore, le comunità cristiane in piena fioritura ne portarono via altri per le chiese. Lentamente il ricordo dei romani in Britannia svanì, e il loro muro si sgretolò in quel paesaggio che a lungo avevano tentato di conquistare.

I romani non riuscirono mai a unificare quelle terre. Il vallo fu costruito per difendere il territorio conquistato dai popoli che non potevano mettere sotto il loro dominio. Nel 43 d.C., quando sbarcarono nell'Inghilterra meridionale, incontrarono una serie di tribù ancora ferme all'età del ferro che conoscevano i romani; avevano già avuto alcune interazioni culturali ed economiche con l'impero e oltre un secolo prima i loro predecessori avevano saggiato le capacità militari di Roma con le incursioni di Giulio Cesare. All'epoca le tribù avevano opposto una strenua resistenza, ma questa volta, quando le legioni si abbatterono su di loro, erano impreparate e soprattutto disunite. Vennero falcidiate dai romani, che poi si insediarono a Colchester mentre si preparavano a occupare l'intera isola.

Gli storici sono convinti che intorno al 47 d.C. le tribù del Sudest si fossero arrese e i romani controllassero l'intera zona che si estende da sud dell'Humber all'estuario del Severn, presso il confine con il Galles. Sarebbe iniziata da lì la difficile avanzata che li avrebbe portati nel Galles e poi verso il Nord. Nell'84 d.C. erano già all'altezza del Moray Firth, quasi 240 chilometri all'interno dell'odierna Scozia. Ci sono testimonianze del fatto che i romani arrivarono con le loro navi fino alla penisola del Kintyre e i legionari si avventurarono nelle Highlands, ma il Moray Firth segnava il limite del loro insediamento nel territorio della Britannia. Se fossero stati in grado di avanzare ulteriormente, di unificare sotto le loro insegne tutta l'isola e di restarci, la storia del Regno Unito avrebbe potuto essere molto diversa.

Ma i confini dell'impero romano erano minacciati altrove: le truppe dovevano difendere la madrepatria, non avanzare in terre sconosciute. I romani tornarono indietro, fermandosi più o meno in corrispondenza del confine odierno tra Inghilterra e Scozia. Qui costruirono il vallo, il monumento più importante alla forza e all'organizzazione militare di Roma. La conformazione geografica della regione non ha fiumi o montagne a delineare i confini naturali. Ma fu lì che i romani tracciarono militarmente il confine.

Il muro contribuì a dar forma a quello che poi sarebbe stato conosciuto come Regno Unito. Il confine resisté per due secoli e mezzo. Al di sotto del vallo, l'ambiente divenne sempre più romanizzato; al di sopra, continuò a permanere una diversa cultura celtica. Il futuro Galles e la futura Scozia non vennero mai pienamente sconfitti e avrebbero sempre mantenuto un senso di diversità da quella che sarebbe stata chiamata Inghilterra, ovvero la parte della Britannia in cui trionfò la pax romana e in cui furono costruite quasi tutte le strade e le cittadine romane.

Nel 211 d.C. l'Inghilterra meridionale era la «Britannia Superior», perché era più vicina a Roma. La capitale fu spostata a Londra (Londinium). L'Inghilterra settentrionale era la «Britannia Inferior» (un'altra distinzione che vale ancora oggi) e York fu designata capitale. Nel 296 d.C. il territorio controllato dai romani era stato ulteriormente diviso. Adesso il Sud si chiamava «Britannia Prima», il Nord fino al vallo di Adriano «Maxima Caesariensis», le Midlands erano denominate «Flavia Caesariensis» e il Galles prendeva il nome di «Britannia Secunda». Nessuno di questi appellativi sarebbe durato a lungo, ma i resti di quelle demarcazioni si vedono ancora oggi.

Alla fine, tuttavia, gli eventi in atto nel continente cospirarono contro i romani. Alcuni anni dopo il giorno in cui il nostro soldato romano si pose la domanda retorica che abbiamo visto all'inizio di questo capitolo, il generale Magno Massimo si chiese la stessa cosa; nel 383 d.C. decise di rimpatriare le sue legioni per sfidare l'imperatore di Roma. Qualche anno più tardi, l'intero apparato dell'avamposto più settentrionale dell'impero fu smantellato e riportato a Roma.

Quando Massimo se ne andò, i «barbari» (pitti e scoti) si riversarono a sud, costringendo i britanni a chiedere a Roma di inviare una legione per respingerli. I romani risposero puntualmente all'appello. A quel punto il vallo di Adriano era già in sfacelo, perciò i romani consigliarono ai britanni di costruire una barriera contro gli invasori che calavano da nord. Ma non fornirono loro le competenze necessarie per l'utilizzo della pietra, così i britanni costruirono un muro di torba. I «barbari» lo sfondarono agevolmente, obbligandoli a chiedere nuovamente aiuto a Roma. Il messaggio era lo stesso: «Salvateci!». La legione tornò in Inghilterra, cacciò gli invasori e stavolta insegnò ai britanni a costruire un muro di pietra.

Non servì a nulla. In assenza dei romani, neppure la pietra riuscì a bloccare le orde barbariche in arrivo da nord. Allora fu lanciato un terzo appello, passato alla storia come «il lamento dei britanni». La risposta è rimasta negli annali della storia britannica e si usa ancora oggi nel discorso politico. Roma scrisse: «Prendetevi cura delle vostre difese». La potenza unificatrice dell'Europa aveva girato le spalle ai britanni; i britanni avevano girato le spalle alla potenza unificatrice dell'Europa e adesso erano rimasti da soli, a prendersi cura «delle loro difese». I paragoni con la Brexit sono immediati, ma non necessariamente pertinenti. Allora il problema era l'assenza di difese adeguate. Le ombre si stavano allungando; il crepuscolo della Britannia romana stava cedendo il passo all'alto medioevo.

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La Brexit ha posto in luce profonde divisioni in tutto il Regno Unito. Ha esasperato le vecchie fratture (sia in Scozia sia nell'Irlanda del Nord la maggioranza ha votato per restare nell'UE) ma ha anche evidenziato ampie divergenze all'interno della popolazione.


Una delle distinzioni più nette che caratterizzano la società britannica si basa sulla classe sociale, ed è sempre stato così. Forse è meno rigida che nel passato (un insegnante della classe media potrebbe benissimo guadagnare meno di un idraulico e un macchinista potrebbe guadagnare più di un manager intermedio), ci sono più mobilità sociale e più eterogeneità. Ma quasi tutti gli studi in proposito rivelano che i maschi e le femmine che hanno frequentato prima scuole private e poi uno degli atenei del Russell Group (le ventiquattro università più prestigiose del Regno Unito) continuano a occupare le posizioni meglio retribuite del paese, in misura molto superiore al loro peso percentuale all'interno della popolazione nel suo complesso. Si può argomentare che in effetti queste persone sono anche le più istruite e in molti casi sono le più indicate per gli incarichi che ricoprono; ma si può pure obiettare che questo sistema impedisce a qualsiasi paese di identificare e utilizzare i suoi migliori talenti.

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Le vecchie divisioni sono difficili da superare e nello stesso tempo alcuni commentatori hanno cominciato a identificare nuove fratture all'interno della società. Lo scrittore David Goodhart ne ha individuata una particolarmente rilevante nel suo libro del 2017 The Road to Somewhere tra «anywhere», ovvero coloro che vedono il mondo in una prospettiva globale, e «somewhere», cioè coloro che lo vedono in una prospettiva locale. E spiega: «Coloro che lo vedono in una prospettiva globale dominano la nostra cultura e la nostra società. Prendono buoni voti a scuola e fanno l'università lontano da casa, dopodiché scelgono una professione che potrebbe portarli a Londra o anche all'estero per uno o due anni». Gli anywhere si sentono a casa propria ovunque vadano, a Berlino come a New York, Shanghai o Mumbai. Per contro, i somewhere hanno un senso identitario molto più definito. Come la maggior parte dei britannici, vivono nel raggio di 30 chilometri dal luogo in cui sono cresciuti e si identificano nella località, nella regione e nel paese. In poche parole, sono più «radicati».

Tra i somewhere si contano molte persone il cui lavoro è progressivamente scomparso per effetto dei cambiamenti economici legati alla globalizzazione e la cui cultura operaia è stata marginalizzata, soprattutto nel dibattito nazionale. La parola «cosmopolita» deriva dal greco e significa «cittadino del mondo». In realtà apparteniamo tutti a un solo popolo, ma è un problema convincere chi vive più o meno nello stesso posto in cui è cresciuto, ha una forte identità locale e non possiede competenze lavorative trasferibili da un continente all'altro, che è «cosmopolita».

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Ormai quasi tutti i britannici accettano l'idea dell'uguaglianza etnica, della parità di genere e dei matrimoni gay. Essere contro l'immigrazione non vuol dire necessariamente essere anche contro gli immigrati. Così come c'è una differenza tra sentirsi a disagio nei confronti del cambiamento ed essere razzisti, c'è una differenza tra patriottismo e nazionalismo. Il primo si può definire «amore per il proprio paese e rispetto per quelli degli altri», mentre il secondo si configura come «amore per il proprio paese e disprezzo per quelli degli altri». La storia ha dimostrato che ci vuole tempo per abituarsi «all'altro», ma anche che, se ben gestiti, sia «noi» sia «loro» possiamo imparare a comprenderci.

Ciò vale anche per la questione spinosa della religione. Il censimento del 2011 ha registrato decine di religioni in Inghilterra e nel Galles, tra cui quella dei Cavalieri Jedi, l'Heavy Metal e il satanismo. Ma queste fedi, insieme con il cristianesimo, l'islam e l'induismo, vengono praticate da una minoranza della popolazione, che sfiora i 65 milioni di persone.

Circa due terzi dei britannici non professano una religione e non frequentano luoghi di culto, il che dimostra quanto sia anomala, da questo punto di vista, l'Irlanda del Nord: le forti identità religiose che la caratterizzano non trovano riscontro nel resto del Regno Unito. La frequentazione delle chiese nel suo complesso continua a diminuire anno dopo anno; questo trend è iniziato negli anni Cinquanta del secolo scorso ed è in costante accelerazione. Nonostante il vistoso declino della pratica religiosa, nel censimento del 2011 il 59,3% degli intervistati, ovvero 33 milioni di persone, si definiva «cristiano». È chiaramente un retaggio culturale dei tempi in cui quasi tutto il paese dichiarava di credere nel cristianesimo: anche se molti non accettano i principi della fede cristiana, si identificano culturalmente con la sua storia e le sue tradizioni. Ma pure questa lealtà storico-culturale sta scemando: nel censimento del 2001 si definiva cristiano il 72% degli intervistati.

Oltre a far emergere quel 59,3% di cristiani, il censimento del 2011 ha rivelato che il 4,8% dei britannici si identificava come musulmano, l'1,5% come indù, lo 0,8% come sikh e lo 0,5% come ebreo. In cifre assolute sono circa 2,7 milioni di musulmani, 800.000 indù, 423.000 sikh e 263.000 ebrei. Insieme con gli «agnostici», queste sono le sei categorie più numerose. Per la cronaca, i Cavalieri Jedi si piazzavano al settimo posto con 176.000 aderenti, ma forse erano solo persone dotate di un senso dell'umorismo particolarmente spiccato. I satanisti dichiarati erano solo 1800.

L'incremento futuro dei Cavalieri Jedi e dei fedeli di Belzebù è difficile da quantificare, ma non lo è altrettanto per le religioni tradizionali. La religione più in crescita nel Regno Unito è l'islam, anche a causa dei tassi di natalità, dell'immigrazione e della pratica devozionale. Mentre quasi tutti i britannici che si identificano con la tradizione cristiana non sono religiosi (meno del 7% si definisce cristiano praticante), un sondaggio del 2014 ha scoperto che il 93% dei musulmani era praticante. Quanto di questa pratica religiosa sia devozione e quanto sia pressione culturale è difficile stabilirlo, perché in quasi tutte le culture musulmane non è accettabile professarsi atei.

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[...] «Razzismo» è una parola sempre più facile e sempre più generica: in molti casi, ci impedisce di capire cosa sta realmente accadendo nella nostra società.

Questa paura sembra affondare le sue radici in un grandissimo imbarazzo, se non addirittura in un forte senso di colpa, per tutte le atrocità del colonialismo. Perciò potrebbe essere inopportuno sventolare la bandiera britannica, ma esporre quella di un'ex colonia britannica a un evento culturale che si tiene nel Regno Unito potrebbe rappresentare una legittima espressione di orgoglio culturale. Un tipo di patriottismo è negativo, mentre l'altro è positivo. Questo atteggiamento è una suggestiva combinazione di senso di colpa, paternalismo e autoritarismo. Molti cittadini del Regno Unito sono sconcertati da questi servilismi culturali perché non fanno parte del retroterra culturale di coloro che trasmettono la narrativa dominante. George Orwell ne era pienamente consapevole. Già nel 1941 scriveva nel suo saggio Il leone e l'unicorno:

L'Inghilterra è forse l'unico grande paese i cui intellettuali si vergognano della propria nazionalità. Nei circoli di sinistra aleggia sempre la sensazione che ci sia qualcosa di lievemente ignobile nell'essere inglesi e che pertanto sia un dovere irridere a ogni istituzione nazionale, dalle corse dei cavalli al pudding di grasso di rognone. È strano, ma è inconfutabilmente vero, che quasi tutti gli intellettuali inglesi proverebbero più vergogna ad alzarsi in piedi davanti a tutti per God Save the King che a rubare dalla cassetta delle elemosine.

Orwell si riferiva in particolare all'Inghilterra e forse le sue osservazioni ci aiutano a capire la logica che ha ispirato alcuni elettori inglesi pro Brexit, ovvero quelli che hanno un forte senso di identità e di orgoglio nazionale e sono sconcertati da una classe politica e mediatica apparentemente lontanissima dalla vita della gente comune. Orwell faceva parte dell'élite intellettuale britannica ancora prima che venisse coniata la parola commentariat. Era un caso unico allora per la stessa ragione per cui lo sarebbe oggi: voleva sperimentare la cultura inglese così come la percepiva la maggior parte della popolazione. E l'esperienza diretta lo aiutò a capirla meglio.

Il Regno Unito è rimasto coeso a dispetto dei sentimenti nazionalisti e delle divisioni di classe e di religione che l'hanno lacerato in passato. Oggi viene messo nuovamente alla prova. Resta da capire se sarà in grado di superare quelle fratture e di ricreare le società relativamente unite del secolo scorso. Il vallo di Adriano è lì a dimostrazione di quanto sono antiche queste divisioni; i muri di Belfast ci dicono quanta strada dobbiamo ancora percorrere e a che punto di degenerazione si può arrivare.

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