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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione La melanconia è un ritorno al futuro: un altro mondo è possibile 9 1. L'anomalia: antropologia delle passioni melanconiche 1 I due volti della melanconia 17 2 Sulla scia di Freud: melanconia di genere e melanconia postcoloniale 18 3 L'animale anomalo: i Problemi aristotelici 21 4 Melanconia e rivolta 27 2. È tutta colpa di Freud? La riscossa della mania 1 Lutto e melanconia: Freud in chiaroscuro 31 2 Antropologia della perdita? Melanconia e creazione 37 3 Melanie Klein: un tentativo di riparazione 43 4 L'illustre sconosciuto: Abraham e la sindrome maniaco-depressiva 46 5 Danzare, arrampicarsi, saltare: Binswanger e l'antropologia della mania 54 6 Il cigno nero: vino e mania 68 3. Al di là della tristezza: melanconia e azione innovativa 1 La sfida di Heidegger: la melanconia, stato d'animo della creatività 77 2 Aristotele, Ippocrate e Platone: il buono, il brutto e il cattivo 79 3 Il melanconico in città: tre caratteristiche etiche 90 4 Contro l'accidia e la tristezza 96 5 Il genio e la poesia: una rivalutazione fuorviante 104 6 Il qualunque e il performer: il melanconico 108 4. Ai limiti del linguaggio: una passione priva di misura 1 L'altro limite del linguaggio: oltre meraviglia e tautologia 115 2 Una vita priva di misura: oltre la tautologia 120 3 Il sublime e lo smisurato: oltre la meraviglia 129 4 Incommensurabilità e rivoluzione: contraddizione e melanconia 134 Appendice Il corpo di Aiace: iconografia di una introversione 139 Bibliografia 153 |
| << | < | > | >> |Pagina 9La melanconia è un ritorno al futuro: un altro mondo è possibile«Up on melancholy hill There's a plastic tree Are you bere with me? Just looking out on the day Of another dream». Gorillaz, Melancholy Hill Ritorno al futuro è il titolo di un film di successo che narra di una moderna macchina del tempo. Nel cuore degli anni Ottanta, un adolescente della classe media americana e un inventore scombinato si ritrovano nel 1964 col problema di tornare indietro, all'epoca cui appartengono. La pellicola, nella sua semplicità, dà corpo a una sensazione che nell'Occidente capitalistico durante gli ultimi decenni si è sempre più rafforzata: la storia è finita, il picco umano dell'evoluzione tecnico-economica è stato raggiunto, l'unico modo per cambiare il futuro è tornare sui propri passi. La necessità di tornare indietro e fare diversamente, sulla cui realizzazione fantastica ruota l'intera pellicola, è terreno fertile per la coltura delle passioni melanconiche. Le cito al plurale per sottolineare le molte sfumature e le vesti cangianti sotto le quali la melanconia appare: in un paesaggio serale, in una canzone senza pretese, in un odore che riporta indietro verso tempi lontani. La varietà delle forme sensoriali che travestono la melanconia stona però con un dato altrettanto appariscente: la melanconia gode oggi di una reputazione melliflua e stantia. Le maldicenze circa questo stato d'animo riguardano gli ambiti più diversi: dall'articolo del quotidiano al saggio filosofico, dalla teoria politica alla critica d'arte il termine "melanconia" è di solito considerato sinonimo, perlomeno parente prossimo, di "triste", "nostalgico", "bloccato nell'agire e nel dire". Anche le ricerche che negli ultimi cinquant'anni hanno tentato di riabilitarne la storia e mostrarne la complessità hanno rischiato, loro malgrado, di peggiorare la situazione. Saturno e la melanconia (Klibansky, Panofsky, Saxl, 1964) ha contribuito a legare in modo indissolubile questa passione alla celebre incisione di Dürer con la sua protagonista alata ma immobile. Nei primi capitoli di Stanze Giorgio Agamben (1977) ha proposto una via di riscatto per mezzo dell'apparentamento con una passione, l'accidia, anch'essa controversa poiché la tradizione ha finito con il legarla alla pigrizia, al torpore e alla sonnolenza. A tal proposito, il libro che avete tra le mani vorrebbe suggerire un movimento doppio. Visto che il ritorno a una delle prime rappresentazioni rinascimentali della melanconia legata a Saturno e la riscoperta di una passione medioevale (l' acedia dei monaci) non sono stati sufficienti, occorre tentare una mossa estrema: fare un passo indietro ulteriore, cercare nelle origini più lontane della melanconia addentellati positivi di una passione che oggi appare senza speranza. Meglio chiarirlo subito: non si tratta di impelagarsi in un'impresa filologica, magari interessante, ma che rischia di rimanere neutralizzata nei dubbi fasti dell'erudizione. Si tratta di tirar fuori potenzialità emotive sepolte dalle stratificazioni storiche, le svolte culturali, i cambiamenti linguistici che hanno portato la melanconia dentro un imbuto che ne ha ristretto il senso e stravolto il significato. Detto in una battuta, dunque in forma goffa e caricaturale: mentre oggi "melanconia" è divenuto sinonimo di "depressione" e "tristezza nostalgica", alle sue radici la passione che si credeva fosse legata all'azione di una sostanza specifica, la nera bile (la mélaina cholé, da qui il termine italiano), era propria di un temperamento completamente differente. Il melanconico era colui che, messo di fronte a trasformazioni repentine, non riusciva a rendersi subito conto di quel che lui stesso era riuscito a compiere. Nel bene e nel male: nel salvare la città o nell'uccidere i propri compagni, la melanconia è protagonista di una dinamica fatta di azioni e parole volta al cambiamento di una forma di vita. Un interrogativo vorrebbe essere il baricentro delle pagine che seguono: qual è il volto emotivo di chi trasforma la vita propria e quella altrui? La mia ipotesi è che lo stravolgimento delle passioni melanconiche abbia coinciso con l'impoverimento della nostra rappresentazione delle capacità innovative proprie degli esseri umani. Recuperare le potenzialità della bile nera non significa semplicemente rendere giustizia a una delle passioni dell' Homo sapiens. Significa provare a compiere un affondo in grado di riportare alla luce e far riemergere un sentimento capace di ricordarci che un altro mondo è possibile. Riscoprire il volto della melanconia significa, dunque, impegnarsi in un ritorno al futuro. Non quello elusivo vagheggiato dal film hollywoodiano, ma un altro più faticoso ed efficace che consiste in una archeologia semantica. Dissodare le nostre parole e la loro storia nella speranza di trovare traccia di un altro modo di sentire, un sentire in grado di cambiare il tempo che ci aspetta. Per aumentare le possibilità di centrare l'obiettivo, è stato opportuno escogitare due piccoli accorgimenti strutturali. Il primo: ogni paragrafo comincerà con una breve citazione in exergo: per fornire un ulteriore spunto ai contenuti offerti nel testo; per riproporre e così neutralizzare i ritornelli, a volte filosofico-letterari altre musicali, che organizzano il nostro modo di intendere le passioni melanconiche. Il secondo accorgimento riguarda la struttura del libro che, come vedrete, non è lineare. In linea di principio, ogni capitolo può essere letto indipendentemente dagli altri e la successione nella quale sono proposti contiene, più che mai, un alto tasso di arbitrio. Le quattro sezioni che compongono il testo sono però strettamente imparentate tra loro poiché ogni volta finiscono col convergere su uno degli aggettivi principali che compaiono nel luogo di nascita filosofico della melanconia. Il capitolo XXX dei Problemi di Aristotele è un testo considerato tanto minore da esser accusato a più riprese di inautenticità (probabilmente a torto: Carbone, 2011, pp. 68-69). Eppure, in quelle poche pagine emerge il condensato di una passione tipica dell'Occidente (difficile trovare un correlato preciso in altri sistemi culturali: Kleinman, Good, 1985) ma non per questo poco significativa per una indagine sulla natura di quegli strani animali, bipedi e implumi, che noi siamo. Il melanconico è anomalo, dice Aristotele (anómalos, cap. I): non solo non è conforme alla regola in vigore, ma è in grado di trasformarla rendendola altro da quello che è ora. Chi è tormentato dagli eccessi della bile nera ha il pregio e il difetto di essere diverso da sé stesso. Non è dunque fiore all'occhiello di chi si fa vanto della propria coerenza di condotta, ma non è neanche strumento docile delle mire oscure del sofista: non inganna mai gli altri più di quanto non inganni sé stesso. Le accuse mosse a questa passione da molta filosofia politica contemporanea, dalle estrazioni teoriche più diverse (da Paul Gilroy a Judith Butler ), sono a dir poco ingenerose: schiacciano le possibilità emotive offerte dalla bile nera su uno solo dei possibili esiti, la rimozione rancorosa della propria identità culturale, linguistica o di genere. Il melanconico, invece, è maniacale, prosegue Aristotele (manikós, cap. II): è preso dall'azione. Non è semplicemente impulsivo, sa che alcune delle potenzialità umane emergono solo all'interno della prassi. Secondo questa accezione originaria, il melanconico è più prossimo alle alterne vicende sensomotorie dell'atleta che allo struggimento interiore del romantico. Quando sono in grado di saltare l'asticella che si trova qui di fronte a me? Sono in grado di saltare solo dopo aver compiuto il salto con successo e aver superato la misura. La melanconia è protagonista di una torsione vertiginosa nella quale la potenza cede il passo all'atto. Nulla di misterioso: si tratta di un fenomeno tipico dell'apprendimento, quel che lo psicologo L. Vygotskij chiama realizzazione dello sviluppo prossimale. Per imparare, a volte, bisogna fare il contrario di quel che consigliano le nonne: è necessario che il passo si faccia più lungo della gamba. A tal proposito, la psicoanalisi rischia di porgere la mano alla melanconia per poi farle lo sgambetto: per un verso, l'ha messa al centro delle sue linee di ricerca (da Freud a Klein , da Abraham a Recalcati ); per un altro ha messo da parte le possibilità creative del suo volto maniacale concentrandosi soprattutto sull'apparentamento con il lutto. E così dopo aver fatto della bile nera una sostanza vicina all'accidia e alla tristezza, questa è divenuta simile pure alla sostanza scura e soffocante che affligge i personaggi di Matrix, il film dei fratelli Wachowski, quando sono sull'orlo del baratro preda dei loro nemici digitali: un filtro mortifero e disperato che arriva nel momento in cui ormai i giochi sono fatti. Non è affatto così. Il melanconico è distimico, insiste Aristotele (dusthumós, cap. III). Il termine greco è pressoché intraducibile e per questo occorre in prima battuta ricorrere a un semplice calco italico: il suo animo vive una frattura difficile da ricomporre. Quel che oggi chiamiamo "depressione" è una delle sue possibili fasi, non un destino inoppugnabile e finale. La distimia corrisponde alla caduta dopo il salto, per riprendere un esempio che lo psichiatra Binswanger annovera tra le forme maniacali di comportamento: nel caso in cui il tentativo si riveli un fallimento il melanconico è tale perché ha la forza di rialzarsi e ritentare ancora, seguendo strategie e tecniche diverse da quelle impiegate fino a quel momento. La bile nera non produce cocciutaggine ma fratture in grado di dar vita a nuove forme di condotta. Per questo il melanconico, conclude Aristotele, è privo di misura (perittós, cap. IV). Non solo è approssimativo, non riesce a conformarsi a uno standard prefissato, è impreciso cioè alla ricerca di una regola da consolidare. Questa mancanza di standard prefissati e istintivi (quelli che consentono allo scimpanzé di non cadere quando volteggia tra i rami e all'ape di non perdere mai la via di casa) produce conseguenze contrastanti: il disorientamento di chi non sa che pesci prendere; la possibilità di meravigliarsi di quel che accade. Dei due stati d'animo, paradossalmente, è più interessante il primo perché più produttivo sebbene (o forse proprio perché) più inquietante. Questa mancanza di orientamento non sottolinea il volto sublime dell'esperienza (la potenza delle onde marine o la magnificenza della tormenta montana), ma la sproporzione, le difficoltà di misura, tra la vita umana e le cose più insignificanti che la circondano. Poiché non vogliamo farci mancare niente, l'appendice propone un percorso se possibile ancora più sperimentale, e incauto, dei precedenti. L'analisi iconografica di una delle figure mitologiche più strettamente imparentate alla melanconia, Aiace Telamonio, può dare un'idea visiva veloce ma precisa, a tratti addirittura impressionante, del processo semantico ed emotivo subìto da questa passione durante una storia oramai millenaria. Una breve escursione tra le vicende rappresentative di questo eroe dubbio (protagonista della guerra achea contro Troia, ma poi preda di raptus omicidi nell'omonima tragedia sofoclea) può costituire un buon test per verificare connotati e modalità di un vero e proprio ripiegamento passivo. Da attore di imprese equivoche ma sicuramente attive, a partire dai primi secoli prima di Cristo Aiace subisce un'introversione sospetta: diventa sempre più personaggio contemplativo e inibito, che invece di essere colto nel gesto bellico o nel riposo dopo aver compiuto l'impresa (e il misfatto) è ritratto come paralizzato e incapace di ogni ulteriore azione. Il protagonista melanconico si introverte e rassegna: da propiziatore di eventi possibili diventa mesto contemplatore di quel che non potrà più essere. Aiace finisce in un triste angolo neutralizzato: simbolo eloquente del destino che molti vorrebbero riservare alla melanconia e al suo potenziale innovativo. | << | < | > | >> |Pagina 17«Senza più melanconici, vivremmo in un mondo in cui tutti accetterebbero lo statu quo». E.G. Wilson § 1 I due volti della melanconia È bene dire subito un paio di cose. La prima: nella letteratura filosofica contemporanea, soprattutto di matrice politica, gli stati d'animo melanconici godono di pessima fama. Di solito, la melanconia è considerata la passione dell'aggressività inespressa e interiorizzata, l'emozione più adatta a un mondo dominato dal capitale, l'equivalente pulsionale della nostalgia dei bei tempi andati quando lo Stato regnava sovrano. La seconda: credo che questa visione della melanconia sia parziale e fuorviante, sostanzialmente sbagliata. Procederò, dunque, così: seppur in modo veloce, analizzerò due delle concezioni più influenti circa lo status politico della melanconia, quelle di Paul Gilroy e Judith Butler; poi proporrò una visione alternativa in grado di recuperare, innanzitutto, la portata antropologica di questa passione. La melanconia ha infatti due volti: uno è paralizzato e subalterno, proprio del lutto cronico e di forme di identificazione autoritarie; l'altro è luogo di origine di prassi e immaginazione, grazie alle quali modificare le forme della vita umana, rovesciare istituzioni e trasformare rapporti di potere. Per questa ragione, impiego la dicitura di melanconia e non quella, più moderna, di malinconia: il sapore retrò della prima espressione manifesta da subito un luogo etimologico (la melaina cholè, la bile nera della tradizione ippocratica: cfr. § 3) e il carattere tecnico di una nozione che comprende l'impiego quotidiano della parola (quando diciamo «oggi mi sento un po' malinconico», «è una canzone malinconica») senza ridursi a esso. | << | < | > | >> |Pagina 27§ 4 Melanconia e rivolta«Questo non è un paese per vecchi». C. McCarthy Tra i fraintendimenti che funestano la comprensione degli stati melanconici, uno ricorre con frequenza: la melanconia sarebbe nostalgia dei bei tempi andati, tristezza inacidita di menti anziane ormai giunte al capolinea. L'analogia tra vino e melanconia suggerita dal primo antropologo di questa passione, Aristotele, destituisce di fondamento anche questa variante dell'equazione «melanconia uguale risentimento reattivo» (ivi, 955a 1-5): Il motivo per cui tutti gli esseri umani hanno la tendenza a bere fino a ubriacarsi è che il vino bevuto in grande quantità rende fiduciosi [euelpídes]: è lo stesso effetto della giovinezza sui ragazzi, perché i vecchi sono privi di speranza mentre i giovani ne sono pieni. La melanconia rende, innanzitutto, "euelpídes", di buona speranza: spinge all'azione, muove la prassi e solo dopo il colpo andato a vuoto (se è andato a vuoto) si ripiega su sé stessa in modo riflessivo. Ipnotizzati dalle raffigurazioni romantiche della melanconia che propongono corpi rannicchiati, menti appoggiati sul pugno o sguardi fissi a terra, si rischia di scambiare l'inizio con la fine e pensare che la melanconia costituisca l'antitesi emotiva dell'agire. È vero: la riflessione melanconica guarda indietro, ma quel che vede sono le azioni appena compiute, e anche quelle che si potranno compiere nel futuro prossimo. Il passato melanconico è prossimo per definizione (cioè anche ma non solo negli accessi paralizzanti): il rimprovero, che riscontra Freud nell'analisi dei suoi pazienti, «ma come ho fatto a farlo?», è l'interrogativo di Aiace ed Ercole, domanda di chi fa politica, combatte e produce. Perché sbaglia solo chi agisce. Rispetto a quel che la riflessione politica contemporanea dà a intendere, il quadro è rovesciato: la melanconia è passione della prassi, è una delle incarnazioni emotive dello squilibrio pulsionale di chi non è incastrato in un ambiente biologico o istituzionale. La melanconia vive gli eccessi delle delusioni proprio perché è lo sguardo retrospettivo e prospettico di chi con la speranza ci campa. È per questa ragione che la melanconia greca non coincide con la depressione, ma con la coppia bipolare depressione-mania (cap. II). È perdita di sé nell'azione e, contemporaneamente, riflessione immaginativa sull'azione. È disaderenza ai dintorni: distacco dalla regola, dall'ambiente biologico, dalla condizione culturale. Questo iato può trasformarsi nel rifugio, in una fantomatica e alienata interiorità o in una nicchia mentale impolitica e risentita, ma può essere anche il motore per vedere quello che ancora non c'è e la caducità di un ingiusto presente. Quando Gilroy insiste sulla risposta melanconica alla caducità dell'impero coloniale britannico sfiora un tema importante. Oltre a L'Io e l'Es, parte integrante (cioè opposta e complementare) di Lutto e Melanconia è anche un breve saggio freudiano dal nome Caducità. In questo testo, Freud sottolinea lo stato d'animo di chi, vedendo un prato in primavera, ne intravede già lo sfiorire: sente che l'apogeo del ciclo naturale è arrivato e che, dunque, la ruota sta girando. La melanconia non è soltanto percepire come presente quel che non è più, ma anche percepire come assente quel che è ancora in piedi. La melanconia è sia scoramento (dysthumia: ivi, 955a 6) che speranza. Il lato caduco di questa passione può accompagnarsi sia al primo che alla seconda: può essere disperazione per un mondo ormai a pezzi che mi illudo ci sia ancora; può diventare speranza per la creazione di un mondo diverso. La caducità melanconica è un'arma immaginativa a doppio taglio: rimpianto per un impero che va effettivamente scomparendo; certezza della fine di un altro impero, quello capitalistico, proprio nel momento del suo massimo splendore. Il sentimento della bile nera indica una torsione emotiva: individuare la bellezza del capitale, scorgerne gli oggetti più brillanti e trionfanti per sentire il crepitio della loro linea discendente. La melanconia può aiutare a uscire dall'ipnosi capitalistica per la quale questo sarebbe l'unico mondo davvero naturale per gli esseri umani: spinge a intravederne le crepe e la decadenza, a immaginare azioni nella certezza che la torta non verrà come dice la ricetta. L'animale umano è perittós e anómalos: la melanconia lavora, nel bene e nel male, su quel margine di indeterminatezza che caratterizza il nostro mondo. La mancanza di misura pulsionale può portare a due esiti "anomali". Il primo trasforma la mancanza di misura in approssimazione, cioè la conforma a una regola anche quando la regola non lo prevede. Il secondo fa di noi animali non approssimativi ma imprecisi (per questa distinzione e il prossimo esempio: Garroni, 2005, pp. 9-15) che, lavorando sullo scarto tra la regola e la sua applicazione, inventano una nuova regola. Se in alcuni casi è immediatamente manifesto quale sarà la strada che il carattere eccessivo e melanconico delle nostre azioni ci farà intraprendere, in altri essa emerge in modo inatteso. Un esempio del primo tipo di circostanza: faccio uno schizzo di un progetto architettonico e lo riguardo. La sua incompletezza mi spinge a modificarlo, stravolgerlo, arricchirlo, a introdurre nuove regole applicative che servano a fare in modo che l'edificio stia in piedi e assuma una forma specifica. L'imprecisione dello schizzo può indurmi a tentare una strada innovativa o a rifarmi a un canone stabilito. Ma il valore ambivalente del perittós, quel che ne fa la controparte del carattere anomalo della melanconia umana, può emergere anche in situazioni apparentemente più quiete e predeterminate. Si tratta di un elemento costitutivo della nostra vita messo in evidenza da Ludwig Wittgenstein: quel che egli chiama un gioco linguistico che «non è limitato ovunque da regole» (RF, § 68). Come le regole del calcio non impediscono né prescrivono passaggi improduttivi, lenti e ripetuti, il cui obiettivo è solo far scadere il tempo a disposizione (in gergo "fare melina" che in origine era un altro gioco con regole proprie), così anche un'operazione aritmetica può rivelare all'improvviso un'area applicativa ancora neutra, un'indeterminata terra di nessuno. Il risvolto emotivo-pulsionale di questa duplicità, approssimativa e imprecisa, è melanconico. Il primo non si arrende alla decadenza effettiva di un mondo sull'orlo della fine. Il secondo coincide con la creazione di nuove forme di vita, collettive e individuali, grazie alla percezione della contingenza dello stato attuale delle cose. La melanconia è anomala perché, come non si stanca di ripetere il monaco medioevale, vive la disaderenza alla regola: fuga delirante verso la negazione della perdita; produzione innovativa di nuovi giochi linguistici. Afferma perentoria Ildegarda di Bingen (De causis, p. 75), mistica e medico del XII secolo: Dio creò l'uomo e a lui asservì ogni cosa vivente; ma poiché l'uomo trasgredì il precetto divino, fu mutato nel corpo e nella mente. [...] Se invece fosse rimasto nel paradiso, avrebbe conservato una condizione perfetta e immutabile. Ma, dopo la trasgressione, tutto questo fu mutato in qualcosa di nuovo e amaro. La melanconia, prosegue il testo, «è per natura in ogni uomo, perché l'uomo trasgredì» (ivi, p. 82). È questo lo stato d'animo della prassi umana e delle sue origini: è azione e innovazione, tentativo ed errore, rivolta e caduta, produzione agrodolce e continua di «qualcosa di nuovo e amaro». | << | < | > | >> |Pagina 56[...] È la danza a costituire l'esempio privilegiato di quel movimento «non direzionato e non limitato» tipico della vita festosa. La danza produce una trasformazione nel modo di vivere lo spazio e il proprio corpo: ballando non ci si sposta, si riempie lo spazio. La danza richiede una sincronizzazione: con il ritmo e la musica, ma anche con coloro i quali ci si sta muovendo. La vita festosa ha però un risvolto pratico che emerge per mezzo di un secondo esempio, pur solo accennato: «Il movimento di scalare una montagna trasmette il vissuto della vittoria» (ivi, p. 44. Il corsivo è nel testo). La sottolineatura sulla trasmissione di questa idea è legata a una esplicita correzione di quel che affermava Freud in Lutto e melanconia: «L'eccitazione maniacale non produce l'ebbrezza della vittoria e il giubilo della festa, le fa solo emergere dall'uomo» (ivi, p. 47. Il corsivo è nel testo).Il caso dell'arrampicarsi è addirittura più interessante del precedente: se la danza sottolinea il legame tra mania ed esperienza estetica, questo mette a fuoco la sua relazione con una forma di attività pratica di ordine diverso. Mentre nella danza il movimento non è finalizzato, nella scalata i movimenti hanno una caratterizzazione particolare. Per un verso, sono legati al riempimento dello spazio: la parete dell'arrampicatore non è solo una superficie, ma un corpo con il quale entrare in sintonia. Diversamente dalla danza, però, l'arrampicatore effettua spostamenti veri e propri: ha una meta da raggiungere e un percorso da fare. Come per la danza, la scalata propone un problema di orientamento del corpo proprio nello spazio. A differenza di questa, orientarsi non significa solo ritrovare le coordinate nelle quali inserire i propri movimenti (dopo una piroetta sul palco o uno «sbandieramento», il violento strappo che prova a sbalzarci via dalla parete) ma anche pone la questione di ritrovare la via. Nella mania estetica sembra esserci una contrapposizione tra festa e cultura, tra movimento e riflessione (è un punto sul quale Binswanger insiste molto). Il movimento in salita presenta invece un'alleanza. Il tipo di trance tipico di chi arrampica non è riducibile né a una mera spinta a salire irriflessa (possibile solo su percorsi semplici che come tali quasi non presentano l'esperienza dell'ascesa), né tanto meno a un calcolo riflessivo (semplicemente non ce n'è il tempo). La dimensione tecnica dell'ascesa si presenta altrettanto complessa: per un verso non è la qualità del materiale a fare la differenza; per un altro ascendere in parete significa farsi tutt'uno con protesi tecnologiche. La corda e i moschettoni, l'imbraco e i mezzi per assicurarsi alla parete sono parte integrante del percorso, ne costituiscono la modulazione, l'articolazione tecnica interna. Mentre la danza è una forma d'espressione che affonda le sue radici nel buio del nostro passato preistorico, la storia dell'alpinismo è molto recente perché legata allo sviluppo tecnico del secolo appena concluso. La vita festosa ha dunque un risvolto pratico e tecnico che Binswanger stenta a riconoscere perché sembra dimenticare che la festa ha un legame strettissimo con il rito. Dalle celebrazioni dei santi patroni a quelle della fertilità agricola, dai baccanali dionisiaci alle ricorrenze legate allo Stato-nazione, la vita festosa è organizzata in forme istituzionali la cui manifestazione cronologica è periodica. Anche in casi del genere la festa non è semplicemente qualcosa che accade, ma qualcosa che accade e che riesce (o, dunque, fallisce). L'elemento di performance presente in ogni rito nella festa vive di un cortocircuito: la festa riesce non solo se adempie al compito (commemorare un santo, unire la patria) ma se fa vivere un'esperienza di comunanza al di là del motivo per il quale ci si riunisce. La seconda forma emotiva, l'ottimismo, costituisce il controaltare rispetto all'occlusione prospettica tipica del depresso. Trovare una discontinuità netta tra una posizione maniacale e una visione semplicemente rosea del futuro è difficile, soprattutto a volte è possibile farlo solo a cose fatte. Retrospettivamente è possibile dire se quella che abbiamo compiuto è una grande impresa legata alla nostra fiducia oppure il tentativo maniacale che "non conosce ostacoli" (ivi, p. 80). Questo è il senso melanconico dell'espressione impiegata da Virgilio nell' Eneide divenuta proverbiale «audentis fortuna iuvat»: nel compiere un'azione al limite delle nostre possibilità è possibile scorgere se quello che abbiamo di fronte è un limite insuperabile solo dopo aver compiuto il tentativo (è un tema che ritornerà nel cap. III, § 3). Non si tratta dunque di una semplice invocazione al gesto eroico (cosa da lasciare volentieri all'esaltazione dei paracadutisti della Folgore), quanto a un'indicazione circa la struttura di ogni azione umana che si confronta con l'esperienza del limite. Nella danza può trattarsi di una combinazione di passi particolarmente impegnativa; nell'arrampicata di raggiungere con un lancio, cioè senza sostegni e spingendosi nel vuoto, una presa apparentemente irraggiungibile; nell'agire politico di cominciare un tumulto e accorgersi, quasi increduli, che questo prende piede e dà il via a un vero e proprio movimento rivoluzionario. L'ottimismo, prosegue Binswanger, è caratterizzato da una inconsueta vicinanza tra i mondi dell'agire e del pensiero. Questo stato d'animo riduce al minimo la frattura tra pensiero e azione. Per questa ragione, il pensiero di chi è preso nell'azione (e non solo da chi è affetto da fuga di idee) può risultare "impreciso" (ivi, p. 85) o grossolano come «un cowboy in un campo di tulipani» (ivi, p. 56). Anche in questo caso, però, si tratta di una imprecisione a posteriori (problema che ritroveremo, anche questo, nel melanconico greco-aristotelico: cfr. cap. IV, § 2): è il passo andato a vuoto che per questo giudichiamo più lungo della gamba; il volo dell'arrampicatore che ha mancato la presa; il fallito assalto all'edificio nel quale si sta tenendo l'ennesimo consiglio del G8.
L'ottimismo rivoluzionario, legato all'idea che «un altro mondo
è possibile» (cfr. introduzione), è un'esperienza più a portata di
mano di quel che potremmo credere. Quando si fa ricerca scientifica e più in
genere riflessione teorica, è proprio questa convinzione, rosea e maniacale, che
muove lo studioso a cercare quel che
ancora non si vede. Questo passaggio che lega azione e pensiero
nell'ottimismo maniacale è notevole proprio perché oggi sotto
scacco. Siamo testimoni di una doppia forma di crisi di questo
legame. Per un verso, ricorda
Hannah Arendt
(1958, p. 171), la
ricerca scientifica sembra essere rimasta l'ultima forma di attività
umana che può riservare novità e cambiamento: mantiene in sé il
germe innovatore di una prassi atrofizzata. Per un altro, la figura
che oggi più di ogni altra potrebbe compendiare ricerca scientifica
e attività politica,
Noam Chomsky
(il più importante linguista vivente oltre che
teorico politico coraggioso e radicale), propone una
via di antagonismo e separazione che va nella direzione inversa. La
distinzione che egli propone tra «problemi», questioni teoriche alle
quali è possibile in linea di principio dare una risposta, e «misteri»,
questioni alle quali non è possibile rispondere in linea di principio, risente
del mancato riconoscimento nella ricerca empirica e
teorica della presenza dell'ottimismo venato di maniacalità proprio
dell'azione politica. Nel primo caso (la diagnosi di Arendt sul presente)
abbiamo l'ottimismo maniacale nella ricerca ma non nella
politica; nel secondo (l'opera di Chomsky) nell'azione politica ma
non nella ricerca empirica.
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