Autore Mariana Mazzucato
CoautoreMichael Jacobs, Stephanie Kelton, L. Randall Wray, Yeva Nersisyan, Andrew G. Haldane, William Lazonick, Stephany Griffith-Jones, Giovanni Cozzi, Joseph E. Stiglitz, Colin Crouch, Dimitri Zenghelis, Carlota Pérez
Titolo Ripensare il capitalismo
EdizioneLaterza, Bari-Roma, 2017, anticorpi 54 , pag. 368, ill., cop.fle., dim. 14x21x2,5 cm , Isbn 978-88-581-2744-5
OriginaleRethinking Capitalism. Economics and Policy for Sustainable and Inclusive Growth
EdizioneWiley-Blackwell, London, 2016
TraduttoreFabio Galimberti
LettoreRiccardo Terzi, 2017
Classe economia , economia politica , economia finanziaria , scienze sociali , ecologia












 

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Indice


I.    Ripensare il capitalismo: un'introduzione
      di Michael Jacobs e Mariana Mazzucato                                    3
      - Il disagio del capitalismo, p. 5
      - Ripensare la politica economica, p. 19
      - Oltre il fallimento del mercato: verso un nuovo approccio, p. 26
      - Note, p. 40


II.   Il fallimento dell'austerità: ripensare la politica di bilancio
      di Stephanie Kelton                                                     46

      - Introduzione, p. 46
      - «I disavanzi hanno salvato il pianeta», p. 47
      - La marcia indietro della politica di bilancio e
        lo scatto in avanti della politica monetaria, p. 57
      - Bilancio in equilibrio o economia in equilibrio?, p. 66
      - Note, p. 70


III.  Capire la moneta e la politica macroeconomica
      di L. Randall Wray e Yeva Nersisyan                                     75

      - Introduzione, p. 75
      - La visione ortodossa: la moneta esogena, p. 78
      - Moneta endogena e teoria della moneta moderna, p. 80
      - La moneta e la politica monetaria, p. 88
      - L'allentamento quantitativo, p. 93
      - Le implicazioni per la zona euro: una reintegrazione
        fra moneta e politica di bilancio, p. 97
      - Conclusione, p. 103
      - Note, p. 105


IV.   Quanto costa l'ossessione per il breve termine
      di Andrew G. Haldane                                                   108

      - Introduzione, p. 108
      - La letteratura sull'argomento, p. 110
      - L'evidenza empirica dello short-termism, p. 113
      - Implicazioni di politica economica, p. 119
      - Note, p. 122


V.    L'impresa innovativa e la teoria dell'impresa
      di William Lazonick                                                    126

      - Introduzione: cos'è che rende il capitalismo produttivo?, p. 126
      - La teoria neoclassica dell'impresa improduttiva, p. 128
      - La teoria marxiana dell'impresa produttiva, p. 134
      - La teoria dell'impresa innovativa, p. 140
      - L'integrazione di teoria e storia, p. 150
      - Note, p. 154


VI.   L'innovazione, lo Stato e i capitali pazienti
      di Mariana Mazzucato                                                   158

      - Introduzione, p. 158
      - Stiamo andando nella direzione sbagliata, p. 160
      - La teoria economica ortodossa e l'approccio
        del «fallimento del mercato», p. 164
      - Lo Stato come attore chiave del sistema dell'innovazione, p. 169
      - Socializzazione dei benefici in cambio della
        socializzazione dei rischi, p. 174
      - Capitali pazienti: l'importanza dello Stato per allineare meglio
        i rischi e ricompensare le banche di investimenti, p. 178
      - Conclusione, p. 184
      - Note, p. 187


VII.  La crescita trainata dagli investimenti:
      una soluzione per la crisi dell'Europa
      di Stephany Griffith-Jones e Giovanni Cozzi                            192

      - Introduzione, p. 192
      - Sottoinvestimenti e stagnazione economica in Europa, p. 195
      - L'assetto corrente delle politiche comunitarie, p. 201
      - Proposta per una ripresa trainata dagli investimenti, p. 204
      - L'impatto previsto delle nostre proposte, p. 207
      - Conclusione, p. 213
      - Appendice: il Cambridge Alphametrics Model (Cam), p. 213
      - Note, p. 214

VIII. Disuguaglianza e crescita economica
      di Joseph E. Stiglitz                                                  216

      - Introduzione, p. 216
      - La grande crescita della disuguaglianza, p. 217
      - Spiegare la disuguaglianza, p. 224
      - Il prezzo della disuguaglianza, p. 235
      - Invertire la disuguaglianza, p. 238
      - Conclusione: ridefinire il concetto di performance economica, p. 241
      - Note, p. 243


IX.   I paradossi delle privatizzazioni e delle esternalizzazioni
      di servizi pubblici
      di Colin Crouch                                                        249

      - Introduzione, p. 249
      - I limiti alla concorrenza, p. 250
      - La convertibilità reciproca delle risorse economiche e politiche, p. 264
      - Conclusione: capitalismo e democrazia, p. 268
      - Note, p. 272


X.    La decarbonizzazione: innovazione ed economia dei cambiamenti climatici
      di Dimitri Zenghelis                                                   275

      - Introduzione, p. 275
      - La sfida per il capitalismo, p. 277
      - La sfida per l'economia, p. 280
      - Innovazione e crescita, p. 283
      - Path-Dependence e innovazione, p. 285
      - Modelli economici, p. 290
      - Politiche climatiche, p. 296
      - Conclusioni, p. 300
      - Note, p. 302


XI.   Capitalismo, tecnologia e un'età dell'oro verde a livello globale:
      il ruolo della storia per contribuire a disegnare il futuro
      di Carlota Pérez                                                       307

      - Introduzione: crescita senza tecnologia o
        sostenibilità senza crescita?, p. 307
      - Rivoluzioni tecnologiche e sviluppo economico, p. 311
      - L'informatica e la direzione verde, p. 322
      - «Crescita verde», sviluppo, occupazione e disuguaglianza, p. 328
      - Una radicale riorganizzazione del quadro di politica economica, p. 335
      - Note, p. 346


Ringraziamenti                                                               351
Gli autori                                                                   353
Indice analitico                                                             361


 

 

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capitolo primo
RIPENSARE IL CAPITALISMO: UN'INTRODUZIONE
di Michael Jacobs e Mariana Mazzucato



Nel novembre del 2008, mentre il crac finanziario globale si allargava inesorabilmente, l'ottantaduenne regina Elisabetta visitò la London School of Economics. Lo scopo era inaugurare un nuovo edificio, ma era più interessata agli accademici riuniti. Pose loro una domanda tanto innocente quanto incisiva: com'era possibile che nessuno si fosse accorto che stava per arrivare un disastro di proporzioni tanto vaste?

Normalmente, non è abitudine dei monarchi ereditari andare in giro a smontare la presunzione degli uomini e delle donne che governano l'economia mondiale, o degli economisti pagati per interpretarla. Ma la domanda della regina andava dritta al cuore di due fallimenti clamorosi: il capitalismo occidentale nel 2007-2008 ha rischiato di crollare, e da allora non si è ancora ripreso; e la stragrande maggioranza degli economisti non ha capito che cosa stava succedendo.

Il libro che avete fra le mani tratta di questi due fallimenti. Da un lato, le economie capitalistiche del mondo sviluppato, che per due secoli hanno trasformato la società umana con un dinamismo senza eguali, da un decennio a questa parte appaiono profondamente disfunzionali. Non solo il crac finanziario ha condotto alla recessione più profonda e prolungata della storia moderna, ma a quasi un decennio di distanza le economie avanzate che sono riuscite a tornare a qualcosa di paragonabile a condizioni stabili e normali sono ben poche e le prospettive di crescita rimangono estremamente incerte. Anche durante il periodo precedente al crac, quando la crescita economica era solida, il tenore di vita della maggioranza delle famiglie nei paesi industrializzati era cresciuto di pochissimo. La disuguaglianza tra gli strati più ricchi e il resto della società è a livelli che non si vedevano dal XIX secolo. Contemporaneamente, le persistenti pressioni ambientali, in particolare quelle legate ai cambiamenti climatici, pongono pericoli molto seri per la prosperità mondiale.

In tutto questo, la capacità degli economisti di comprendere il funzionamento di un'economia moderna è stata messa seriamente in discussione. La crisi finanziaria è stata uno shock così grande (in due sensi) non soltanto perché pochissimi economisti sono riusciti a prevederla, ma anche perché, nel decennio precedente, tutti sembravano ormai convinti che il policymaking fosse riuscito, essenzialmente, a risolvere il problema di fondo del ciclo economico: le grandi depressioni, era opinione generale, erano una cosa del passato. Anche la politica economica si è dimostrata altrettanto inefficace dopo la crisi. La ricetta ortodossa del «rigore di bilancio» (tagliare la spesa pubblica nel tentativo di ridurre il disavanzo e il debito dello Stato) non ha rimesso in salute le economie occidentali e la politica economica si è dimostrata clamorosamente incapace di risolvere le debolezze profonde e durature che le affliggono.

La tesi centrale di questo libro è che gli insuccessi della teoria e della politica economica sono collegati. Il pensiero economico dominante ci offre risorse inadeguate per comprendere le molteplici crisi con cui devono fare i conti le economie contemporanee. Per affrontarle, ci serve una visione molto più chiara di come funziona il capitalismo moderno (e perché, sotto certi aspetti fondamentali, attualmente non funziona). È necessario rivedere alcune delle teorie dominanti del pensiero economico. E questa revisione deve tradursi in una serie di direzioni nuove della politica economica, che possano affrontare con maggiore efficacia i problemi del capitalismo moderno.

Ognuno dei capitoli del libro prenderà in esame un problema economico fondamentale e l'interpretazione che ne dà l'ortodossia corrente. Gli autori propongono un approccio diverso e più sofisticato all'analisi economica, e da qui generano nuove soluzioni di politica economica. Per farlo attingono a importanti scuole di pensiero che offrono interpretazioni estremamente convincenti dei sistemi capitalistici, ma che nel dibattito dominante sono state dimenticate o lasciate ai margini. In ciascun caso, la conclusione è che rimodellare e reindirizzare il capitalismo per correggere i suoi limiti attuali è possibile, ma solo ripensando l'impianto intellettuale della scienza economica e adottando approcci nuovi alle politiche.




IL DISAGIO DEL CAPITALISMO


In questa introduzione metteremo insieme alcune delle idee fondamentali del libro. Per prima cosa, esporremo l'evidenza dei fallimenti del capitalismo occidentale, spiegando i tre problemi di fondo che caratterizzano la sua debolezza attuale. Dopo aver descritto l'approccio a questi problemi adottato in ogni capitolo, ne estrarremo alcuni insegnamenti per la teoria e l'analisi economica. Proporremo una critica delle nozioni tradizionali dei mercati e dei «fallimento del mercato». E spiegheremo come una comprensione più ricca e profonda del capitalismo possa generare approcci più efficaci alla politica economica, con l'obiettivo di realizzare forme di crescita e prosperità più innovative, inclusive e sostenibili.




Una crescita debole e instabile


Il punto di partenza di questa analisi è ineludibile. Il crac finanziario del 2008, con la lunga recessione e la lenta ripresa che sono seguite, offrono la prova più evidente che il capitalismo occidentale non è più in grado di generare una crescita forte o stabile.

Le proporzioni del crac sono colossali: nel 2009, in 34 delle 37 economie avanzate il prodotto interno lordo è calato e l'economia mondiale nel suo insieme è entrata in recessione, per la prima volta dalla seconda guerra mondiale; nel giro di appena un anno, si è avuto un calo del 4,5 per cento del Pil in tutta l'Eurozona (addirittura del 5,6 per cento nell'economia più forte del continente, la Germania), del 5,5 in Giappone, del 4,3 nel Regno Unito e del 2,8 negli Stati Uniti; tra il 2007 e il 2009, il numero di disoccupati a livello mondiale è cresciuto di circa 30 milioni di unità, oltre la metà dei quali nelle economie avanzate, con 7,5 milioni di disoccupati in più negli Stati Uniti.

Per impedire una crisi ancora più grande, i governi sono stati costretti a riversare una quantità di denaro pubblico senza precedenti nel salvataggio delle banche che con le loro prassi creditizie avevano fatto esplodere la crisi. Negli Stati Uniti, i prestiti di emergenza della Federal Reserve a 30 banche e altre società hanno toccato il record di 1.200 miliardi di dollari. Nel Regno Unito, l'esposizione dello Stato per il supporto fornito alle banche sotto forma di liquidità e garanzie ha raggiunto un picco di 1.162 miliardi di sterline. Contemporaneamente, i governi hanno messo in atto importanti misure di stimolo per cercare di sostenere la domanda di fronte al tracollo della spesa privata e degli investimenti. L'enorme tonfo del Pil e l'aumento della disoccupazione hanno indotto notevoli incrementi dei disavanzi pubblici, per via del calo degli introiti fiscali e dell'entrata in azione degli «stabilizzatori automatici» collegati agli esborsi dei sistemi di welfare e ad altri tipi di spesa pubblica: nel 2009-2010, questi disavanzi hanno toccato livelli pari al 32,3 per cento del Pil in Irlanda, il 15,2 in Grecia, il 12,7 negli Stati Uniti, il 10,8 nel Regno Unito, l'8,8 in Giappone e il 7,2 in Francia.

Il crac finanziario ha messo a nudo le debolezze di fondo del funzionamento e della regolamentazione del sistema finanziario mondiale. Come ha ammesso a denti stretti l'ex presidente della Federal Reserve Alan Greenspan nella sua deposizione di fronte al Congresso, c'era una «falla» nella teoria alla base della regolamentazione finanziaria nel mondo occidentale: l'assunto che «l'interesse egoistico delle organizzazioni, in particolare le banche, fosse tale da renderle in grado di proteggere nel migliore dei modi i propri azionisti e il loro capitale» si era rivelato sbagliato. Contrariamente a quanto sostiene la «teoria dei mercati efficienti», che è alla base di tale assunto, i mercati finanziari avevano valutato in modo sistematicamente errato le attività e i rischi, con risultati catastrofici.

Il crac finanziario del 2008 è stato il più grave della storia dopo quello del 1929. Ma, come hanno sottolineato Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, da quando la quasi totalità dei paesi ha intrapreso la strada della liberalizzazione finanziaria, negli anni Settanta e Ottanta, la frequenza delle crisi bancarie è aumentata notevolmente (cfr. il grafico 1): a livello mondiale, nel periodo compreso tra il 1970 e il 2007, il Fondo monetario internazionale ha registrato 124 crisi bancarie sistemiche, 208 crisi valutarie e 63 crisi di debito pubblico. Per il capitalismo moderno, l'instabilità non è più l'eccezione, ma una caratteristica apparentemente strutturale.

Come ci si poteva aspettare, dopo il crac le autorità si sono date da fare per migliorare la regolamentazione delle banche e incrementare la stabilità complessiva del sistema finanziario. Ma per quanto importanti, questi sforzi non affrontano il problema più fondamentale: l'incapacità delle moderne economie capitalistiche di generare una quantità di investimenti pubblici e privati nell'economia reale sufficiente ad alimentare la crescita e una domanda sostenuta.

La crisi finanziaria ha portato alla luce una verità scomoda: la crescita, apparentemente benevola, del decennio precedente, non costituiva, in buona parte, un'espansione sostenibile della capacità produttiva e del reddito nazionale, ma era il frutto di un incremento senza precedenti dell'indebitamento di famiglie e imprese (cfr. il grafico 2). Tassi di interesse bassi e prassi creditizie disinvolte, in particolare per terreni e immobili, avevano alimentato una bolla dei prezzi delle attività che era destinata inevitabilmente a scoppiare. In questo senso, la crescita del prodotto precedente alla crisi può essere giudicata solo alla luce del tracollo avvenuto dopo.

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Tenore di vita al palo e disuguaglianza in aumento


Una crescita debole e instabile, tuttavia, è solo una parte del problema del capitalismo moderno. Uno degli aspetti più sorprendenti delle economie occidentali negli ultimi quarant'anni è che, anche quando la crescita è stata consistente, la maggioranza delle famiglie non ha sperimentato un incremento commisurato del proprio reddito reale. Negli Stati Uniti, il reddito familiare medio reale nel 2014 era appena più alto di quello del 1990, mentre nello stesso periodo il Pil era cresciuto del 78 per cento. Anche se negli Stati Uniti è cominciata prima, questa divergenza dei redditi medi rispetto alla crescita economica complessiva ormai è diventata un aspetto tipico della maggioranza delle economie avanzate.

Qui sono all'opera tre tendenze distinte: nella maggior parte dei paesi sviluppati la quota totale del lavoro (stipendi e salari) sul prodotto complessivo è calata, i guadagni non hanno tenuto il passo dell'aumento della produttività e la distribuzione di questa quota ridotta del lavoro è diventata più iniqua. [Grassetto del Lettore]

In tutte le economie avanzate, la quota del Pil che va ai lavoratori è scesa in media del 9 per cento tra il 1980 e il 2007: il 5 per cento (da 70 a 65) negli Stati Uniti, il 10 per cento (da 72 a 62) in Germania e un rotondo 15 per cento (da 77 a 62) in Giappone. Fino agli anni Settanta, le retribuzioni tendevano a seguire l'andamento della produttività, ma dagli anni Ottanta in poi la produttività oraria reale del lavoro nel settore delle imprese (non agricole) degli Stati Uniti è aumentata dell'85 per cento circa, mentre la retribuzione oraria reale solo del 35 per cento circa. L'Organizzazione internazionale del lavoro calcola che in 36 economie sviluppate la produttività del lavoro è cresciuta a un ritmo quasi tre volte superiore alla crescita dei salari reali (cfr. il grafico 7).

Mentre la quota del lavoro diminuiva, la sua distribuzione interna diventava più sperequata, con un allargamento della fetta per i lavoratori con i compensi più alti e un restringimento per quelli con compensi medi e bassi. In tutte le economie avanzate, i lavoratori a più alta qualifica tra il 1980 e il 2001 hanno guadagnato 6,5 punti percentuali in più sulla quota del lavoro, mentre i lavoratori a bassa qualifica sono indietreggiati di 4,8 punti percentuali.

[...]

Il risultato di queste tendenze è stato un aumento della disuguaglianza in tutto il mondo industrializzato. Tra il 1985 e il 2013, il coefficiente Gini, che misura la disuguaglianza di reddito, è cresciuto in diciassette paesi dell'Ocse, in altri quattro è variato di poco e soltanto in uno (la Turchia) è diminuito. La disuguaglianza di ricchezza è cresciuta ancora più della disuguaglianza di reddito, per effetto dello spostamento dai salari ai profitti nella distribuzione dei guadagni e dell'enorme incremento dei valori dei terreni e degli immobili. Nel Regno Unito, la quota della ricchezza nazionale nelle mani dell'1 per cento più ricco è salita dal 23 per cento del 1970 al 28 per cento del 2010. Negli Stati Uniti, nello stesso periodo, è passata dal 28 al 34 per cento: nel 2010, lo 0,1 per cento più ricco, da solo, possedeva quasi il 15 per cento di tutta la ricchezza nazionale. In entrambi i paesi, oltre il 70 per cento della ricchezza complessiva ormai è controllato da un decimo della popolazione.




Cambiamenti climatici e rischio ambientale


Alla base di queste recenti tendenze del capitalismo moderno c'è un'altra tendenza, più profonda: l'aumento delle emissioni di gas a effetto serra a livello mondiale, che espone il pianeta a un serio rischio di trasformazioni del clima.

Durante tutta la storia del capitalismo, la crescita economica è stata accompagnata da danni ambientali – dall'inquinamento dell'aria, dell'acqua e dei terreni alla perdita di habitat e specie animali e vegetali – che facevano da contraltare costante al benessere che veniva prodotto. Nei paesi sviluppati, alcuni di questi problemi sono stati affrontati in parte, ma nessuno è stato risolto. La consapevolezza del grado di dipendenza delle società umane dai processi biofisici che le sorreggono e della pericolosità delle soglie critiche (o «limiti planetari») che molti di questi processi hanno ormai raggiunto o sono prossimi a raggiungere rimane troppo limitata.

Eppure i cambiamenti climatici rappresentano una minaccia globale senza precedenti. L'effetto cumulato di due secoli di impiego dei combustibili fossili nei paesi sviluppati, aggravato ora dalla rapida crescita delle economie emergenti, espone il pianeta a danni seri se non si riuscirà a ridurre drasticamente i livelli delle emissioni. Al ritmo di emissioni attuale, la terra va verso un incremento delle temperature medie globali di 3-4 gradi centigradi o ancora di più. Già al di sopra dei 2 gradi, ammonisce il Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici, ci possiamo aspettare un'incidenza molto più alta di eventi meteorologici estremi (come inondazioni, mareggiate e siccità), che potrebbe determinare: un collasso delle reti infrastrutturali e dei servizi fondamentali, specialmente nelle regioni e nelle città costiere; un calo della produttività agricola, con maggiori rischi di insicurezza alimentare e di un collasso dei sistemi agroalimentari; un peggioramento dei livelli di salute e mortalità originato da episodi di caldo estremo e malattie; maggiori rischi di migrazioni di persone e di conflitti; un'accelerazione della perdita di ecosistemi e specie.

In generale, le prove di questo pericolo sono note da un quarto di secolo. Tuttavia, fino a scarsissimo tempo fa si è fatto molto poco per evitarlo. La ragione principale è che la produzione di emissioni di gas a effetto serra – in particolare l'anidride carbonica – è parte integrante dei sistemi tradizionali di produzione e consumo del capitalismo, che si è sviluppato proprio grazie all'uso dei combustibili fossili. In totale, l'80 per cento dell'energia mondiale ancora oggi proviene da petrolio, gas e carbone. Nelle economie sviluppate, per effetto di una deindustrializzazione strutturale e dell'adozione, recentemente, di politiche per il clima, le emissioni stanno scendendo: ma parte del calo è dovuta semplicemente al trasferimento de facto della produzione verso i paesi in via di sviluppo, con l'avvento della globalizzazione. Le economie occidentali non stanno ancora riducendo le loro emissioni (quelle che generano direttamente e quelle contenute nei beni e servizi che importano) alla velocità che sarebbe necessaria per tenere sotto controllo il riscaldamento globale (cfr. il grafico 9). Il capitalismo moderno, di fatto, sta accumulando rischi enormi per la sua stessa prosperità e sicurezza future.

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RIPENSARE LA POLITICA ECONOMICA


Sotto tutti questi aspetti, dunque, negli ultimi decenni la performance del capitalismo occidentale è stata profondamente deficitaria. Il problema è che non si tratta di carenze temporanee, ma di difetti strutturali. I regolatori si stanno dando da fare per cercare di ridurre i rischi sistemici creati dai comportamenti del mercato finanziario, ma la complessità del sistema finanziario moderno fa temere a molti che eliminare tali rischi sia impossibile. La presenza di incentivi fortemente radicati per i detentori di attività e gli alti dirigenti delle aziende incoraggia nettamente un approccio incentrato sul breve periodo (short-termism), sia nella finanza che nell'industria. Da questi incentivi, e da debolezze consolidate della domanda in tutte le economie del pianeta, derivano bassi livelli di investimenti, specialmente nell'innovazione. Dalle strutture del mercato del lavoro, dai meccanismi di retribuzione delle grandi aziende e dalla distribuzione della proprietà di terreni e ricchezze traggono origine una stagnazione dei salari reali e un aumento della disuguaglianza. La struttura dei sistemi energetici e dei trasporti implica livelli elevati di emissioni di gas serra. Gli approcci correnti alla politica economica in tutti i paesi sviluppati non lasciano intravedere possibilità di soluzione a nessuno di questi problemi.

Non significa tuttavia che soluzioni non ci siano. Il capitalismo occidentale non è irrimediabilmente destinato a fallire, ma è necessario che venga ripensato. Perché, come sostengono gli autori dei saggi raccolti in questo libro, la teoria economica ortodossa alla base di gran parte delle politiche attuali non spiega bene come funziona il capitalismo moderno, e di conseguenza come può funzionare meglio. Le ricette per nuove politiche proposte in questo libro sono basate su una critica dell'approccio dominante alla scienza economica nel settore di ciascun autore, e sulla presentazione di un'alternativa dotata di maggiore forza esplicativa. Ogni capitolo affronta un problema specifico del capitalismo moderno e del relativo dibattito sulle politiche da adottare.

Uno dei più controversi fra questi dibattiti riguarda il ruolo della politica di bilancio e della politica monetaria nella risposta alla crisi finanziaria e alla ripresa stentata che è seguita. Nei loro capitoli, Stephanie Kelton, Randall Wray e Yeva Nersisyan contestano la ricetta ortodossa del rigore di bilancio. La tesi della Kelton è che l'austerità si basa su un fraintendimento economico di fondo. Sostenere che sono stati i disavanzi pubblici a provocare la recessione significa capovolgere la realtà dei fatti: è stata la recessione a causare l'esplosione dei disavanzi, con la drastica riduzione degli introiti fiscali incassati dai governi e l'ingresso in scena degli stabilizzatori automatici rappresentati da indennità sociali e spesa pubblica. La Kelton dimostra che in realtà i disavanzi hanno impedito che la recessione diventasse molto più grave, generando domanda proprio nel momento in cui lo spettacolare calo dei consumi privati e degli investimenti la stava riducendo. Dal momento che in un'economia tutti i risparmi e i debiti (incluso il settore estero) per definizione si devono bilanciare, l'aumento del debito pubblico era la conseguenza inevitabile del colossale ripiegamento sul risparmio del settore privato seguito al crac. Sottraendo domanda all'economia nel tentativo di far scendere i disavanzi il più in fretta possibile, le politiche di austerità hanno ritardato la ripresa, e nel caso di paesi colpiti in modo particolarmente pesante, come la Grecia, la Spagna e il Portogallo, l'hanno in gran parte impedita. L'estrema lentezza della crescita di fatto ha impedito che i disavanzi scendessero con la rapidità prevista: l'austerità non è riuscita a raggiungere nemmeno il proprio stesso obiettivo.

Wray e Nersisyan si spingono più in là, sostenendo che la visione ortodossa della politica macroeconomica prende le mosse da una concezione errata della natura della moneta: la moneta non è determinata per via esogena dalle autorità centrali, come recita la teoria ortodossa, ma viene creata, di fatto, ogni volta che le banche commerciali prestano denaro e di conseguenza incrementano íl potere d'acquisto dei mutuatari. La moneta è endogena all'economia reale. Esaminando l'operato delle moderne banche centrali, Wray e Nersisyan mostrano che per una nazione che dispone di una valuta propria la spesa pubblica non è vincolata alle risorse disponibili attraverso la tassazione o l'emissione di titoli di Stato. L'Eurozona, in particolare, ha sofferto a causa delle proprie stesse regole, espressamente disegnate per impedire alle economie più deboli di indebitarsi in assenza di una valuta propria. L'allentamento quantitativo, da parte sua, non è un modo efficiente per potenziare la domanda aggregata. La politica di bilancio è uno strumento molto più potente ed efficace per stimolare la crescita, sostengono gli autori.

Come forse era prevedibile, le politiche di austerità non sono riuscite a invertire la tendenza a bassi livelli di investimenti, tratto distintivo, ormai da tempo, delle economie occidentali. Nei rispettivi capitoli, Andrew Haldane, William Lazonick, Mariana Mazzucato, Stephany Griffith-Jones e Giovanni Cozzi prendono in esame le origini economiche di questo problema.

Haldane si domanda se l'ossessione per il breve termine nei mercati finanziari possa aver limitato la propensione delle imprese a investire. Esaminando le quotazioni azionarie per capire se rivelino uno sconto eccessivo degli utili futuri, Haldane ha riscontrato un effetto economicamente significativo nel periodo dal 1995 in avanti, effetto che era assente nel decennio precedente. Allo stesso modo, mettendo a confronto i comportamenti delle imprese quotate in borsa e quelle non quotate riguardo alla distribuzione di dividendi (in alternativa al reinvestimento degli utili), ha osservato che le imprese britanniche non quotate tendenzialmente reinvestono nella loro attività una percentuale dei profitti fra le quattro e le otto volte superiore a quella delle imprese quotate. Complessivamente, è la sua conclusione, l'ossessione per il breve termine sembra incidere in modo concreto sulle scelte di investimento delle imprese. Haldane suggerisce diversi rimedi, fra cui una maggiore trasparenza riguardo alle strategie aziendali di lungo periodo, cambiamenti dei meccanismi di remunerazione degli alti dirigenti, riforme della shareholder governance e modifiche del regime fiscale per premiare chi conserva a lungo attività in portafoglio.

Lazonick concentra la sua attenzione sulla teoria dell'impresa nell'economia ortodossa. Gli economisti neoclassici si ispirano a un modello in cui l'impresa è vista come un'entità a scopo di lucro ottimizzante, vincolata nelle proprie azioni dai mercati competitivi su cui opera. Ma è un modello che non spiega il fenomeno dell'innovazione. Proponendo una teoria alternativa dell'impresa innovativa (quelle aziende che generano miglioramenti della produttività e beni e servizi più competitivi, e sono quindi all'origine della crescita economica), Lazonick sostiene che l'elemento fondamentale non è la natura del mercato, bensì la struttura e l'organizzazione dell'impresa. Usando l'esempio comparativo delle aziende del settore industriale giapponese e americano nella seconda metà del XX secolo, mostra come metodi organizzativi e gestionali diversi generino livelli diversi di innovazione, e dunque di successo commerciale. Lazonick afferma che l'unico modo per comprendere correttamente come nascono l'innovazione e lo sviluppo economico è basarsi su esempi storici reali, invece che su teorie puramente astratte.

Il capitolo di Mariana Mazzucato riprende questo tema. La visione economica ortodossa afferma che l'innovazione è realizzata dal settore privato e le politiche statali devono limitarsi alla ricerca scientifica di base. Ma la Mazzucato dimostra che si tratta di una concezione sbagliata: la verità è che lo Stato moderno, in particolare negli Stati Uniti, è stato il motore dell'innovazione in un gran numero di settori. Tutte le nuove tecnologie contenute nell'iPhone della Apple, per esempio, sono state sviluppate grazie al sostegno pubblico. Descrivendo nel dettaglio la reticenza crescente degli investitori privati a finanziare l'innovazione – in contrasto con íl mito ortodosso del venture capital – invoca uno «Stato imprenditore» che investa nell'innovazione per affrontare problemi importanti della società come i cambiamenti climatici e l'assistenza sanitaria agli anziani. Considerando i rischi che comporta «dirigere» l'innovazione (scegliere le missioni, le tecnologie, i settori e le imprese da sostenere), i contribuenti devono poter contare su una quota dei guadagni. La Mazzucato sostiene che le banche di investimenti pubbliche, come la KfW in Germania, possono giocare un ruolo particolarmente importante nell'indirizzare capitali «pazienti» di lungo periodo verso infrastrutture e innovazioni a più alto rischio.

Stephany Griffith-Jones e Giovanni Cozzi dimostrano poi quali risultati potrebbe ottenere un programma di investimenti basato su questi principi. Criticando la risposta inadeguata dell'Unione Europea alla lentezza della ripresa seguita al crac finanziario, gli autori propongono un piano di investimenti quinquennale per stimolare l'economia, basato su un incremento dell'attività di prestito della Banca europea per gli investimenti (la banca di investimenti pubblica dell'Unione Europea). Contestando la visione ortodossa secondo cui gli investimenti pubblici finiscono per «spiazzare» (crowd out) gli investimenti privati, Cozzi e Griffith-Jones affermano che in una situazione di tassi di interesse molto bassi, con un accumulo di capitali alla ricerca di rendimento, è vero semmai il contrario: gli investimenti pubblici avranno un effetto leva sui capitali privati. Gli autori usano un modello macroeconomico per confrontare il loro pacchetto di investimenti con la situazione corrente e scoprono che non solo farebbe aumentare la crescita e l'occupazione in Europa, ma ridurrebbe più rapidamente i disavanzi pubblici.

I capitoli di Joseph Stiglitz e Colin Crouch prendono in esame due aspetti in cui lo scarto fra la teoria economica ortodossa e la realtà del capitalismo moderno è più accentuato. Stiglitz si sofferma sulla crescita della disuguaglianza negli ultimi trent'anni. Prende di mira la visione neoclassica secondo cui il salario riflette la produttività marginale del lavoratore, dimostrando che i redditi elevatissimi dei dirigenti d'impresa in realtà rivelano una forma di rendita che estrae guadagni senza alcun rapporto con la produttività o la performance economica. Sottolinea inoltre (anche qui contrapponendosi alla visione ortodossa) che una disuguaglianza di queste proporzioni non è il prezzo da pagare per avere una maggiore prosperità economica, ma che di fatto rallenta la crescita. Stiglitz propone una serie di misure in grado di invertire le tendenze recenti, fra cui modifiche dei meccanismi di retribuzione dei dirigenti, politiche a livello macroeconomico per ridurre la disoccupazione, maggiori investimenti nell'istruzione e una riforma della tassazione dei capitali. Conclude sottolineando che gli indicatori di politica economica non devono limitarsi a misurare la crescita del Pil: anche la distribuzione e la composizione del Pil sono importanti.

Crouch analizza l'esperienza delle privatizzazioni e delle esternalizzazioni. Negli ultimi decenni, una serie di paesi (in particolare il Regno Unito) hanno privatizzato settori che prima erano gestiti dallo Stato e hanno esternalizzato servizi pubblici al mercato. Queste politiche seguono i precetti della teoria economica neoliberista, secondo la quale la concorrenza di mercato genera maggiore efficienza e libertà di scelta per i consumatori. Ma Crouch sottolinea che in realtà le cose non sono andate così: nella pratica, nei settori privatizzati e nella fornitura di servizi pubblici sono sorti oligopoli che hanno portato a una concorrenza o a una libertà di scelta per i consumatori molto limitate. Processi che nelle intenzioni avrebbero dovuto essere basati sul mercato sono diventati profondamente politicizzati, una forma di «neoliberismo delle corporation» che va in senso opposto alle tesi originali della teoria. Crouch sostiene che l'azione di lobbying delle grandi imprese ormai è diventata talmente potente da mettere a rischio í principi stessi della democrazia.

Gli ultimi due capitoli del libro prendono in esame le conseguenze ambientali del capitalismo. Dimitri Zenghelis spiega perché i cambiamenti climatici rappresentano una sfida importantissima, non solo per il sistema economico, ma anche per l'economia in quanto disciplina di studio. L'analisi scientifica dei cambiamenti climatici implica che le emissioni di gas a effetto serra devono essere ridotte, in prospettiva, quasi a zero, se si vuole fermare l'aumento della temperatura a livello globale. Ma quasi tutta l'attività economica attualmente si basa sulla combustione di carbonio di origine fossile, la fonte principale di queste emissioni. Pertanto sarà necessaria una trasformazione strutturale pressoché totale dell'energia, dei trasporti, dell'uso del territorio e dei sistemi industriali per affrontare il problema. Zenghelis sostiene che l'economia neoclassica, con la sua insistenza sulla marginalità dei fallimenti del mercato, è del tutto inadeguata per analizzare un compito di questa portata. Quello di cui abbiamo bisogno è comprendere i processi di innovazione tecnologica e cambiamento strutturale, influenzati in entrambi i casi dalla path-dependence (quel fenomeno per cui la traiettoria storica degli investimenti condiziona i cambiamenti futuri) e dalle aspettative economiche. Un'azione forte e coerente delle autorità può contribuire a spostare gli investimenti verso punti di svolta in cui diventa possibile orientare rapidamente l'innovazione verso una direzione a basse emissioni.

Carlota Pérez osserva che cambiamenti strutturali di questo genere sono già avvenuti in passato. Dalla rivoluzione industriale originaria, basata sull'energia idrica e la meccanizzazione, passando per l'era del carbone e del vapore, dell'acciaio e delle ferrovie, delle automobili e della produzione in serie e, più recentemente, delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, il mondo moderno ha assistito a diverse ondate di rivoluzione tecnologica. Ognuna di esse ha seguito uno schema, sia nella diffusione delle nuove tecnologie e dei nuovi prodotti sia nella reazione del sistema finanziario e delle politiche pubbliche. Carlota Pérez sostiene che oggi esistono potenzialità enormi per combinare lo sviluppo futuro delle tecnologie informatiche con tecnologie ambientali che riducano drasticamente il contenuto di emissioni e materiali della produzione e del consumo. Il risultato sarebbe una nuova ondata di crescita che simultaneamente limiterebbe i danni per l'ambiente, offrirebbe nuove fonti di occupazione e potrebbe ridurre le disuguaglianze. Proponendo una serie di misure per accelerare questa transizione, fra cui uno spostamento dell'onere fiscale dal lavoro e dai profitti all'energia e alle risorse, l'autrice prevede che questa crescita porterà (e attingerà) a una visione nuova e più ecologica del «benessere», sia nei paesi avanzati che nei paesi in via di sviluppo.

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OLTRE IL FALLIMENTO DEL MERCATO: VERSO UN NUOVO APPROCCIO


Ogni capitolo di questo libro affronta il proprio argomento in modo differente. La nostra intenzione, al momento di commissionare i vari saggi, era riuscire a riflettere una varietà di punti di vista sulla natura dei problemi del capitalismo e sui principi economici necessari per affrontarli. Gli autori sono responsabili solo dei propri capitoli: non era nostro obiettivo che tutti concordassero fra loro, e non pretendiamo che sia così. Tuttavia, le loro critiche hanno molti elementi in comune. Ognuno dei saggi mette in discussione un aspetto importante della teoria economica ortodossa e delle sue ricette di politica economica.

Quando parliamo di «teoria economica ortodossa» intendiamo la visione che domina il dibattito pubblico sulla politica economica. All'interno del mondo accademico ci sono vivaci discussioni su molti aspetti teorici e pratici dell'economia, ma il discorso economico dominante poggia in misura considerevole su una semplicissima concezione di fondo del funzionamento del capitalismo: il capitalismo è un sistema economico caratterizzato da mercati competitivi. In questi mercati, imprese controllate da privati, allo scopo di realizzare profitti per i loro azionisti, competono fra loro per fornire beni e servizi ad altre imprese e consumatori che scelgono liberamente a chi rivolgersi. Nei singoli mercati, la teoria neoclassica (su cui si basa la visione ortodossa) sostiene che questa concorrenza produce efficienza economica, che a sua volta massimizza il benessere. Si presuppone che i mercati tendano verso l'equilibrio e che le imprese siano fondamentalmente simili, analizzate come «agenti rappresentativi» condizionati ad agire nello stesso modo dalle pressioni esterne del mercato. A livello dell'economia in generale, l'idea è che la concorrenza fra imprese genera innovazione e porta crescita economica nel lungo termine.

Il modello ortodosso è consapevole che i mercati non sempre funzionano bene e ricorre quindi al concetto di «fallimento del mercato» per spiegare perché a volte si hanno risultati non ottimali e come migliorarli. I mercati falliscono in diverse circostanze: quando le aziende hanno un potere monopolistico che limita la concorrenza, quando ci sono asimmetrie informative tra produttori e consumatori, quando ci sono «esternalità» (impatti su terzi) di cui non viene tenuto conto nel prezzo di mercato e quando esistono beni pubblici e comuni di cui non è possibile, per i singoli produttori o consumatori, «catturare» i benefici. La propensione dei mercati reali a fallire nei modi che abbiamo elencato implica che i mercati «liberi» non massimizzano il benessere. La teoria del fallimento del mercato offre pertanto una giustificazione razionale per l'intervento pubblico. Le politiche pubbliche devono cercare di «correggere» i fallimenti del mercato, per esempio promuovendo la concorrenza, imponendo di rendere più accessibili le informazioni su beni e servizi, costringendo gli operatori economici a pagare le esternalità attraverso strumenti come le tasse sull'inquinamento, fornendo o sovvenzionando beni pubblici.

Al contempo, la visione ortodossa insiste sul fatto che non sono solo i mercati a fallire: pure lo Stato fallisce. Anche governi mossi da buone intenzioni possono intervenire a sproposito, creando risultati peggiori di quelli che si sarebbero avuti se i mercati fossero stati lasciati a loro stessi (anche perché gli operatori privati spesso correggono il proprio comportamento per compensare). Inoltre, le istituzioni pubbliche non sono mai disinteressate: sviluppano obiettivi e incentivi propri, che non necessariamente rispecchiano il benessere generale della società. Gli interventi pubblici, quindi, devono sempre soppesare l'obiettivo di correggere i fallimenti del mercato con il rischio di generare fallimenti dello Stato ancora più grandi.

Allargando il discorso, gran parte dei commentatori e dei policymakers dei nostri tempi si basano su questo modello generale del capitalismo, che porta a certe conclusioni ben note in materia di politica economica, prima fra tutte l'idea che i mercati in generale producono risultati positivi che accrescono il benessere e vanno dunque lasciati liberi di agire senza grosse interferenze, laddove possibile. È necessario un quadro normativo di base per la tutela del lavoro, dei consumatori e dell'ambiente per correggere le esternalità più evidenti e le asimmetrie informative, ma i governi non dovrebbero cercare di dirigere i mercati o condizionare le imprese che in essi operano. La «mano invisibile» del mercato sa quello che fa e genera le attività che producono il maggior benessere laddove le imprese cercano di massimizzare il valore per i propri azionisti. Perfino in quei casi in cui il mercato sembra funzionare male, i governi non possono dare per scontato di saperla più lunga: di conseguenza, decidere chi vince e chi perde (picking winners) attraverso la politica industriale e le politiche per l'innovazione, cercare di spingere le banche e le altre istituzioni finanziarie a effettuare forme di investimento specifiche o investire in modo diretto nell'economia privata sono tutte cose che andrebbero fatte con estrema cautela. Gli investimenti pubblici, specialmente se finanziati attraverso il debito, non faranno altro che «spiazzare» (crowd out) gli investimenti privati. I governi, dove possibile, dovrebbero cercare di usare l'impresa privata competitiva per fornire servizi pubblici. Tenere in equilibrio i conti dello Stato dev'essere la priorità assoluta della politica di bilancio. La tassazione è necessaria, ma dal momento che tende a disincentivare la creazione di ricchezza e il lavoro, dovrebbe essere mantenuta ai livelli più bassi possibili. Dietro a ciascuna di queste affermazioni ci sono forti dissensi fra gli studiosi, spesso motivati sulla base di teorie di raffinata complessità ed evidenze empiriche particolareggiate. Ma nel dibattito pubblico queste opinioni ricorrono frequentemente, e negli ultimi anni hanno avuto un ruolo dominante nelle politiche applicate dalle autorità.

Il modello ortodosso offre un impianto di attraente semplicità per ragionare sulla teoria e le politiche economiche. Combina l'eleganza matematica della microeconomia neoclassica con affermazioni plausibili in materia macroeconomica. Il fatto che molte delle ricette politiche che conseguono da questo modello favoriscano i soggetti che rivestono posizioni di potere nell'economia gli garantisce una presa considerevole sul dibattito pubblico.

Ma non è un modello adeguato per comprendere il funzionamento del capitalismo, perché i mercati non sono strutture semplici che si comportano nei modi illustrati nei manuali di economia; e il «fallimento del mercato» non è un concetto utile per analizzare i problemi principali del capitalismo o i modi per risolverli. Queste teorie idealizzate tralasciano molti degli aspetti fondamentali del capitalismo, o li trattano come «imperfezioni» invece che come caratteristiche strutturali, sistemiche. Ignorano gran parte dell'evidenza sul funzionamento concreto di economie differenti, e i casi e le ragioni per cui vanno bene o male. Nessuno dei problemi di fondo che il capitalismo occidentale ha sperimentato negli ultimi decenni – crescita debole e instabilità finanziaria, calo degli investimenti e finanziarizzazione, stagnazione del tenore di vita e aumento della disuguaglianza, gravi rischi per l'ambiente – trova spiegazione in queste teorie.

Le economie capitalistiche non sono astrazioni teoriche, ma sistemi complessi e dinamici, saldamente radicati in società specifiche oltre che in contesti ambientali governati da leggi biofisiche. Si compongono di molteplici relazioni tra operatori economici reali ed eterogenei, il cui comportamento non è quello dell'«agente rappresentativo» idealizzato, ma deriva da caratteristiche e scelte specifiche nelle diverse circostanze. Queste relazioni non producono una situazione di equilibrio, bensì schemi di crescita e cambiamento dinamici. Gli esiti macroeconomici che generano sono qualcosa di più della semplice somma delle loro parti microeconomiche. I loro problemi non sono fallimenti di mercati «normalmente» efficaci, ma originano da caratteristiche e strutture di fondo. Pertanto, per comprendere come funzionano, e spiegare come aiutarli a funzionare meglio tramite le politiche, abbiamo bisogno di un approccio molto più ricco.

Fortunatamente, la scienza economica dispone di ampie risorse in tal senso. Non si può certo dire, infatti, che queste caratteristiche delle economie capitalistiche siano delle rivelazioni. Sono state analizzate a livello teorico e documentate a livello pratico da oltre un secolo di studi economici. Sono alla base del lavoro di alcuni fra i più grandi economisti del secolo scorso, come Karl Polanyi , Joseph Schumpeter e John Maynard Keynes , e scuole di pensiero più recenti come l'economia evolutiva, l'economia istituzionale e l'economia postkeynesiana. Come i vari capitoli di questo libro dimostrano, l'analisi fondata su queste basi può generare critiche penetranti delle politiche correnti e prospettive alternative efficaci.


Un ripensamento del capitalismo in questi termini poggia su tre intuizioni fondamentali.

La prima è che abbiamo bisogno di una descrizione più ricca dei mercati e delle imprese al loro interno. Non è utile concepire i mercati come istituzioni astratte in cui gli operatori economici (imprese, investitori e famiglie) «entrano» per fare affari, e che impongono loro, una volta che sono là, di comportarsi in modi specifici. [GdL] I mercati vanno concepiti come risultati di interazioni tra operatori economici e istituzioni, sia pubbliche che private. Questi risultati dipenderanno dalla natura degli operatori (per esempio le varie strutture di gestione delle imprese), dalle loro dotazioni e motivazioni, dai vincoli imposti dal corpus legislativo e normativo e dai contesti culturali e dalla natura specifica delle transazioni che vi si svolgono. I mercati sono «incastonati» in queste strutture istituzionali e in queste condizioni sociali, legali e culturali più ampie. Nel mondo moderno, come sottolineava Polanyi, il concetto di un mercato «libero» è un costrutto della teoria economica, non un'osservazione empirica. L'economista di origine ungherese faceva notare semmai che il mercato capitalista nazionale era stato creato forzosamente attraverso le politiche pubbliche, che non c'era nulla di «naturale» o universale in esso.

Il concetto ortodosso di concorrenza tra le imprese è altrettanto fuorviante. Molti dei mercati più importanti nel capitalismo moderno hanno una forma oligopolistica, caratterizzata da economie di scala ed «effetti di rete» che portano alla concentrazione e favoriscono gli operatori già presenti sul mercato. [GdL] Ma anche laddove esiste maggiore concorrenza, le imprese capitalistiche non sono entità tutte uguali, costrette a comportarsi in modo simile dalle forze esterne del «mercato». Al contrario: come dimostra Lazonick, c'è un'eterogeneità persistente, sia per quanto riguarda le caratteristiche interne delle imprese sia per quanto riguarda le loro reazioni alle diverse circostanze di mercato. Considerando che devono necessariamente competere attraverso l'innovazione, la cosa non stupisce. Come l'economia evolutiva sottolinea, questa eterogeneità non è una transizione di breve durata verso un mondo di operatori simili tra loro, ma una caratteristica di lunga durata del sistema. Norme e consuetudini differenti agiscono congiuntamente generando comportamenti ed esiti differenti.

I dati dimostrano in effetti l'importanza specifica delle strut- ture di proprietà e di governance. Negli ultimi trent'anni, la visione ortodossa che sostiene che la massimizzazione del valore per l'azionista produce la maggiore crescita economica possibile ha assunto un ruolo dominante nella teoria e nella pratica dell'attività imprenditoriale, in particolare negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Ma per gran parte della storia del capitalismo, e in molti altri paesi, le aziende non sono state organizzate prioritariamente come un veicolo per la massimizzazione dei profitti immediati di azionisti «mobili» e la remunerazione dei vertici delle aziende medesime. In Germania, in Scandinavia e in Giappone, per esempio, le aziende sono strutturate, sia con riguardo al diritto societario sia con riguardo alla cultura aziendale, come istituzioni che rendono conto a un più vasto numero di stakeholders (dipendenti compresi), con la produzione e la redditività di lungo termine quale missione primaria. Sono capitaliste anch'esse, ma si comportano in modo diverso. Le aziende che seguono questo tipo di modello di solito operano investimenti in innovazione maggiori di quelle che si concentrano sulla massimizzazione del valore per l'azionista nel breve termine, hanno un rapporto meno sproporzionato fra il compenso dei dirigenti e il salario medio dei dipendenti, destinano agli investimenti (invece che al pagamento di dividendi) una quota degli utili più alta e hanno azionisti che mediamente conservano le azioni più a lungo. E i dati indicano che anche se la loro redditività nel breve termine (in alcuni casi) è più bassa, nel lungo periodo tendono a generare una crescita più solida. L'attenzione alle strutture di proprietà, di governance e di gestione delle imprese rappresenta dunque un campo cruciale per il miglioramento della performance economica attraverso le politiche pubbliche.

Insomma, i mercati non sono astrazioni idealizzate, ma esiti concreti e differenziati che emergono da circostanze differenti. Contrariamente agli economisti ortodossi che dicono che «le leggi dell'economia sono come le leggi dell'ingegneria: funzionano ovunque», la realtà è che esistono molti tipi di comportamenti differenti dei mercati, e diverse varietà di capitalismo.

La seconda intuizione fondamentale è che la forza trainante della crescita economica e dello sviluppo sono gli investimenti, sia pubblici che privati, nell'innovazione tecnologica e organizzativa. [GdL] La diffusione di queste innovazioni nell'economia influenza non soltanto i modelli di produzione, ma anche i modelli di distribuzione e di consumo. Negli ultimi duecento anni è stata la fonte primaria di miglioramenti della produttività, e dei conseguenti aumenti del tenore di vita. Pertanto, in una teoria del funzionamento delle economie capitaliste, la dinamica dell'innovazione deve occupare un ruolo centrale, con una chiara comprensione sia della natura specifica degli investimenti necessari sia degli esiti, conflittuali e di non equilibrio, che produce.

Tutto ciò richiede però una comprensione dei meccanismi dell'innovazione più dinamica e accurata di quella offerta dalle teorie economiche ortodosse sulla concorrenza imperfetta. Attingendo all'originaria analisi di Schumpeter dei processi di «distruzione creatrice», l'economia evolutiva moderna ha contribuito notevolmente a spiegare come le aziende agiscano con razionalità limitata in circostanze di incertezza, quando i mercati tendono allo squilibrio e il cambiamento è influenzato dalla storia pregressa (path-dipendent). La crescita è il prodotto di una coevoluzione delle strutture tecnologiche, aziendali e industriali e delle istituzioni sociali e pubbliche che le sorreggono, collegate fra loro attraverso complicati processi di retroazione.

Per promuovere l'innovazione, dunque, è necessario dedicare attenzione a ciascuno di questi elementi. L'economia ha bisogno di aziende con culture di gestione del rischio e incentivi che ricompensino gli approcci a lungo termine, invece di quelli, come sottolinea Haldane, che mettono l'accento soprattutto sui rendimenti finanziari nel breve termine. L'innovazione richiede forme di finanza molto specifiche: paziente, a lungo termine e responsabile. Come affermano Griffith-Jones e Cozzi, questo ritaglia un ruolo particolare per le banche pubbliche, che possono indirizzare i finanziamenti verso progetti a lunga scadenza, fare leva sui capitali privati e stimolare effetti moltiplicatori. Le politiche fiscali devono incentivare gli investimenti di lunga durata.

Un aspetto cruciale, come mostra la Mazzucato, è che l'innovazione necessita anche di una ricerca pubblica dotata di fondi adeguati, di istituzioni per lo sviluppo e di politiche industriali forti, rivolte all'intera catena dell'innovazione e non soltanto alla classica area di «bene pubblico» rappresentata dalla scienza di base. È fondamentale rendersi conto che l'innovazione non ha solo un ritmo, ma anche una direzione. Storicamente, in molti casi questa direzione è stata determinata da politiche pubbliche mission-oriented, che hanno incanalato investimenti pubblici e privati verso campi nuovi. Durante l'era della produzione in serie, come osserva Carlota Pérez, furono le politiche che accompagnarono la dispersione urbana (o suburbanizzazione) a consentire la diffusione e il dispiegamento ad ampio raggio delle tecnologie di produzione in serie. La Mazzucato sottolinea che sono stati i fondi pubblici a trainare la rivoluzione informatica e settori come le bio e nanotecnologie e le tecnologie verdi dei nostri giorni. [GdL] In ognuno di questi casi si sono avute politiche, sia sul lato della domanda sia sul lato dell'offerta, che hanno creato nuovi mercati oltre che nuovi prodotti, e gli investimenti pubblici hanno «attirato» (crowd in) quelli privati.

Fissando missioni per la società intera, e usando le proprie risorse per co-investire con capitali a lungo termine, i governi possono fare molto di più che limitarsi a creare regole del gioco uguali per tutti, come prescrive la visione ortodossa. Possono aiutare a indirizzare le regole del gioco verso il conseguimento di obiettivi pubblicamente selezionati. Così come la creazione dello Stato sociale nel dopoguerra e la rivoluzione informatica a cavallo del secolo scatenarono nuove ondate di crescita economica e allargamento del benessere, così le nuove missioni, oggi, hanno le potenzialità per catalizzare nuova innovazione e nuovi investimenti. Un ruolo preminente fra tali missioni dev'essere assegnato alla sfida rivoluzionaria di ridurre (e in prospettiva eliminare) le emissioni di gas a effetto serra per limitare il rischio di pericolosi cambiamenti climatici, e di contenere entro confini biofisici gli impatti ambientali più generali dell'economia. Come afferma Carlota Pérez, questa direzione «verde», unita al continuo sviluppo delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, è quella che ha le maggiori probabilità di riuscire a trainare una nuova ondata di trasformazione strutturale e di crescita.

Il riconoscimento del ruolo del settore pubblico nel processo di innovazione è strettamente attinente alla terza intuizione fondamentale, e cioè che la creazione di valore economico è un processo collettivo. [GdL] Le imprese non creano ricchezza da sole: nessuna azienda oggi può operare senza i servizi fondamentali forniti dallo Stato: scuole e università, servizi sanitari e sociali, case popolari, previdenza sociale, polizia e difesa, infrastrutture fondamentali come i sistemi di trasporto, le reti energetiche e idriche e i sistemi di smaltimento dei rifiuti. Questi servizi, il livello di risorse di cui dispongono e il tipo di investimenti che vengono effettuati in essi, sono cruciali per la produttività delle imprese private. Non è vero che il settore privato «crea ricchezza» mentre i servizi pubblici finanziati dai contribuenti la «consumano». Lo Stato non si limita a «regolare» l'attività economica privata: il Pil è coprodotto dall'interazione di operatori pubblici e privati, ed entrambi sono modellati da condizioni sociali e ambientali più ampie, che a loro volta contribuiscono a modellare.

L'analisi del ciclo economico di Keynes è fondamentale a questo proposito. La sua intuizione più importante è stata che gli investimenti privati sono al tempo stesso troppo volatili e troppo prociclici: rafforzano le proprie stesse tendenze all'espansione e alla recessione. Gli investimenti dello Stato sono quindi necessari, non solo per stabilizzare la domanda aggregata quando la spesa è troppo bassa, ma anche per stimolare gli «spiriti animali» del settore delle imprese, che investe solo quando è sicuro delle aree di crescita futura. Qualcuno ha interpretato questa osservazione di Keynes semplicemente come una stigmatizzazione dello spirito da gregge dei mercati finanziari, sempre pronti a seguire le mode del momento, ma è molto più di questo: Keynes propone la tesi degli investimenti pubblici come strumento per creare opportunità economiche, e dunque per invogliare le imprese a investire. Come afferma Zenghelis, la creazione di aspettative sulla crescita futura rappresenta un ruolo cruciale per lo Stato, e non soltanto durante le recessioni. È per questo che le politiche di innovazione mission-oriented, che mettono insieme Keynes e Schumpeter, hanno un ruolo così importante nel determinare una performance più solida dell'economia. Anzi, Keynes sosteneva che la «socializzazione dell'investimento» – che, come suggerisce Mariana Mazzucato, può includere un settore pubblico che agisce come investitore e azionista – garantirebbe maggiore stabilità alla funzione di investimento, e di conseguenza alla crescita.

È proprio perché la spesa pubblica è fondamentale per la coproduzione delle condizioni necessarie alla crescita, come evidenzia Stephanie Kelton, che le politiche di austerità che l'hanno tagliata nel periodo seguito al crac finanziario si sono rivelate tanto futili, facendo crescere il rapporto debito/Pil invece di ridurlo. E come Wray e Nersisyan sottolineano, la natura endogena della moneta creata dal sistema bancario premendo un tasto garantisce ai governi margini di manovra molto più ampi di quanto prescriva l'approccio ortodosso per usare la politica di bilancio a supporto della crescita.

Insomma, le dimensioni e le funzioni dello Stato influiscono profondamente sulla performance delle economie capitalistiche. Gli economisti ortodossi affermano spesso che il ruolo del settore pubblico dev'essere ridotto ai minimi termini, per liberare l'impresa privata dalla «zavorra» della regolamentazione e dall'impatto perverso del crowding out. In realtà, le economie di successo hanno quasi sempre avuto uno Stato che si impegna attivamente per il loro sviluppo. Non stiamo parlando semplicemente del ruolo dello Stato come fornitore o co-investitore in infrastrutture (ruolo talvolta riconosciuto anche da coloro che per altro verso guardano con scetticismo agli investimenti pubblici), anche se è indubbiamente una funzione importante: come abbiamo visto, è decisivo anche il suo ruolo nell'innovazione. Contestualmente, lo sviluppo di una forza lavoro qualificata e adattativa esige investimenti approfonditi nell'istruzione, nella formazione, nella sanità, nell'assistenza all'infanzia e nell'assistenza sociale. Queste funzioni non possono essere semplicemente esternalizzate o privatizzate: come mostra Crouch, quando questo succede l'obiettivo di incrementare la concorrenza degenera quasi sempre in un oligopolio privato in cui lo scopo pubblico si perde e aumenta l'influenza politica delle imprese. Dobbiamo riconoscere, semmai, la dipendenza reciproca tra impresa privata e settore pubblico, tra attività di mercato e non di mercato.

Tutto ciò ha un'implicazione importante per il ruolo della tassazione. La visione economica ortodossa descrive la tassazione come un'attività essenzialmente negativa, in cui il valore generato dalle imprese private viene confiscato dallo Stato. Ma comprendere il ruolo del settore pubblico nella coproduzione del Pil consente un'ottica più accurata. La tassazione è il mezzo con cui gli operatori economici pagano il settore pubblico per il suo contributo al processo produttivo. Il modello ortodosso afferma che riducendo la quota della tassazione nella produzione economica complessiva tendenzialmente si rafforza la crescita. Ma se la tassazione viene usata in modo produttivo da un settore pubblico dinamico, può essere vero il contrario.

La natura collettiva della produzione capitalista rende la distribuzione del reddito e della ricchezza una variabile importante per la crescita. [GdL] Nel modello ortodosso, si ritiene che i ricavi che vanno al lavoro e al capitale riflettano la loro produttività (marginale). Ma questa teoria, come sostiene Stiglitz, non è in grado di spiegare la clamorosa crescita della disuguaglianza avvenuta negli ultimi decenni. È evidente, semmai, che azionisti e alti dirigenti – specialmente nel settore finanziario – ricavano rendite immeritate dal valore prodotto dalle imprese. E come ha dimostrato Thomas Piketty , il capitale ereditato (in particolare terreni e immobili), che ha registrato un incremento di valore largamente superiore a quello dell'economia nel suo insieme, distorce la distribuzione complessiva della ricchezza a livelli tali da eclissare qualsiasi idea di produttività meritata. Tutto questo influisce in profondità sull'equità e l'inclusività delle economie odierne, ma impatta negativamente anche sulla crescita stessa. I dati (raccolti e riconosciuti ormai anche dall'Ocse e dal Fmi) dimostrano con estrema chiarezza che le economie con una distribuzione più equa del reddito e della ricchezza hanno una crescita economica più solida e stabile di quelle caratterizzate da una maggiore disuguaglianza. In generale, è dimostrato che le politiche ridistributive che riducono la disuguaglianza hanno un impatto positivo sulla crescita.

Tutto ciò segnala l'importanza di riequilibrare la distribuzione degli utili tra capitale e lavoro. I lavoratori dipendenti sono diventati troppo deboli, con la perdita di potere e iscritti da parte dei sindacati, e la presenza di mercati del lavoro «flessibili» e deregolamentati ha consentito ai datori di lavoro di imporre salari più bassi e condizioni lavorative peggiori. Un elemento cruciale, come l'esperienza dei salari minimi legali dimostra, è che aumentare i salari di regola costringe le aziende a fare investimenti per migliorare la produttività, che rendono più solida l'economia. Le politiche pubbliche hanno quindi un ruolo importante nella regolamentazione del mercato del lavoro, nell'incoraggiamento della sindacalizzazione e dell'azionariato dei dipendenti e nella gestione del mercato immobiliare. Devono anche garantire sistemi fiscali progressivi, non solo per quanto riguarda il reddito ma anche per il patrimonio, e tanto per le imprese quanto per i singoli individui. [GdL]

C'è un altro aspetto fondamentale della coproduzione, con conseguenze importanti sul piano della distribuzione. Tutte le economie operano all'interno di sistemi biofisici. Da un punto di vista ecologico, l'attività economica genera valore usando risorse materiali ed energia che vengono successivamente restituite all'ambiente sotto forma di rifiuti e scorie, in uno stato dal punto di vista termodinamico più disordinato (entropico). La crescita economica può derivare da un'espansione dell'uso delle risorse biofisiche o da un incremento del valore economico generato per unità di input. Oggi, con molte delle funzioni biofisiche dell'ambiente naturale che hanno raggiunto il limite di sicurezza o sono prossime a raggiungerlo, riveste un'enorme importanza quale di esse predomina (anche per la distribuzione della ricchezza fra le generazioni presenti e future). In un contesto di cambiamenti climatici pericolosi, come sostiene Zenghelis, la centralità del carbonio nelle economie industriali rende vitale, per l'analisi economica, avere una visione chiara del cambiamento strutturale (non semplici correzioni a fallimenti del mercato marginali).

Queste tre intuizioni hanno implicazioni profonde sul nostro modo di concepire il processo di definizione delle politiche economiche. Le politiche pubbliche non sono «interventi» nell'economia, come se i mercati esistessero indipendentemente dalle istituzioni pubbliche e dalle condizioni sociali e ambientali in cui sono inseriti. Il ruolo delle politiche non è semplicemente «correggere» i fallimenti di mercati per il resto liberi, bensì contribuire a creare e plasmare i mercati per giungere a una coproduzione, e a un'equa distribuzione, del valore economico. La performance economica non può essere misurata semplicemente sulla base della crescita del Pil nel breve termine, ma richiede indicatori migliori che diano conto della creazione di valore nel lungo periodo, del benessere sociale, della disuguaglianza e della sostenibilità ambientale.

Il capitalismo occidentale negli ultimi anni non sta funzionando bene. Le politiche economiche predominanti, che rispecchiano un'ortodossia economica ormai superata, si sono dimostrate incapaci di avviarlo lungo un nuovo percorso. La nostra speranza è che le idee esposte in questo libro dimostrino che non c'è nulla di inevitabile in questo fallimento. Un sistema più innovativo, sostenibile e inclusivo è possibile. Ma per arrivarci, sarà necessario modificare alla radice la nostra visione di come funziona il capitalismo e di come le politiche pubbliche possano contribuire a creare e modellare un futuro economico diverso.

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