Autore Thomas Piketty
Titolo Il capitale nel XXI secolo
EdizioneBompiani, Milano, 2014, Saggi , pag. 952, ill., cop.fle., dim. 15x21x4 cm , Isbn 978-88-452-7773-3
OriginaleLe capital au XXIe siècle
EdizioneSeuil, Paris, 2013
TraduttoreSergio Arecco
LettoreGiorgia Pezzali, 2014
Classe economia politica , economia finanziaria , economia , politica , globalizzazione , storia economica , storia sociale












 

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Indice


    Introduzione                                             11


                          PARTE PRIMA

                      REDDITO E CAPITALE

1.  Reddito e prodotto                                       67

2.  La crescita: illusioni e realtà                         119


                         PARTE SECONDA

           LA DINAMICA DEL RAPPORTO CAPITALE/REDDITO

3.  Le metamorfosi del capitale                             175

4.  Dalla Vecchia Europa al Nuovo Mondo                     215

5.  Il rapporto capitale/reddito sul lungo periodo          251

6.  La divisione capitale-lavoro nel XXI secolo             305


                          PARTE TERZA

              LA STRUTTURA DELLE DISUGUAGLIANZE

7.  Disuguaglianze e concentrazione: primi riscontri        363

8.  I due mondi                                             413

9.  La disuguaglianza dei redditi da lavoro                 465

10. La disuguaglianza della proprietà da capitale           517

11. Merito ed eredità sul lungo periodo                     581

12. La disuguaglianza mondiale dei patrimoni nel XXI secolo 665


                          PARTE QUARTA

              REGOLARE IL CAPITALE NEL XXI SECOLO

13. Uno stato sociale per il XXI secolo                     729

14. Ripensare l'imposta progressiva sul reddito             771

15. Un'imposta mondiale sul capitale                        813

16. La questione del debito pubblico                        861


    Conclusioni                                             919


    Indice dei grafici e delle tabelle                      933

    Indice dei nomi                                         941


 

 

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Pagina 11

INTRODUZIONE



La questione della distribuzione delle ricchezze è oggi una delle più rilevanti e dibattute. Ma che cosa si sa, davvero, del suo sviluppo sul lungo termine? La dinamica dell'accumulazione del capitale privato comporta inevitabilmente una concentrazione sempre più forte della ricchezza e del potere in poche mani, come pensava Marx nel XIX secolo? Oppure le dinamiche equilibratrici della crescita, della concorrenza e del progresso tecnico determinano, nelle fasi avanzate del processo economico, una riduzione spontanea delle disuguaglianze e un'armonica stabilizzazione dei beni, come pensava Kuznets nel XX secolo? Che cosa sappiamo realmente del processo di distribuzione dei redditi e dei patrimoni dal XVIII secolo in poi, e quali lezioni possiamo trarne per il XXI?

Sono queste le domande alle quali tento di rispondere in questo libro. Diciamolo subito: le risposte da me suggerite sono imperfette e incomplete. Ma sono fondate su dati storici e comparativi più ampi rispetto a quelli offerti da tutti i lavori precedenti, e trovano posto entro un quadro teorico rinnovato che consente di comprendere meglio le tendenze e i meccanismi messi in campo. La crescita moderna e la diffusione delle conoscenze hanno permesso di evitare l'apocalisse marxista, ma non hanno modificato le strutture profonde del capitale e delle disuguaglianze, o quantomeno non nella misura in cui si è immaginato potessero farlo nei decenni di ottimismo che hanno accompagnato il secondo dopoguerra. Quando il tasso di rendimento del capitale supera regolarmente il tasso di crescita del prodotto e del reddito – come accadde fino al XIX secolo e come rischia di accadere di nuovo nel XXI – il capitalismo produce automaticamente disuguaglianze insostenibili, arbitrarie, che rimettono in questione dalle fondamenta i valori meritocratici sui quali si reggono le nostre società democratiche. Tuttavia, esistono strumenti in grado di far sì che la democrazia e l'interesse generale riprendano il controllo del capitalismo e degli interessi privati, senza peraltro fare ricorso a misure protezionistiche e nazionalistiche. Questo libro tenta di avanzare proposte in tal senso, appellandosi agli insegnamenti che si possono trarre dalle esperienze storiche. Il racconto di tali esperienze costituisce la trama principale dell'opera.


Un dibattito senza fonti?

Per lungo tempo i dibattiti intellettuali e politici sulla distribuzione delle ricchezze sono stati caratterizzati da troppi pregiudizi e da pochissimi fatti.

Sarebbe certamente sbagliato sottovalutare l'importanza delle conoscenze intuitive che ciascuno, nella propria epoca, in assenza di qualsiasi quadro teorico e di qualsiasi statistica significativa, ha sviluppato in materia di redditi e patrimoni. Vedremo per esempio come il cinema e la letteratura, in particolare il romanzo del XIX secolo, abbondino di informazioni estremamente precise sui livelli di vita e di ricchezza dei differenti gruppi sociali, e soprattutto sulla struttura profonda delle disuguaglianze, sulle loro motivazioni e implicazioni nell'esistenza di ciascun individuo. I romanzi di Jane Austen e di Balzac , in particolare, ci offrono quadri assai esaurienti della distribuzione delle ricchezze nel Regno Unito e in Francia nel periodo 1790-1830. I due narratori dispongono di una conoscenza profonda della gerarchia dei patrimoni in vigore alla loro epoca. Ne sanno cogliere i segreti confini, ne conoscono le implacabili conseguenze sulla vita degli uomini e delle donne di allora, sulla strategia delle rispettive alleanze, sulle loro speranze e sui loro insuccessi. Ne ripercorrono le implicazioni con una verità e una potenza evocativa che nessuna statistica, nessuna dotta analisi, saprebbero uguagliare.

Di fatto, la questione della distribuzione delle ricchezze è troppo importante per essere lasciata ai soli economisti, sociologi, storici e filosofi. È una questione che interessa tutti, ed è meglio che sia così. La realtà concreta e fisica della disuguaglianza è ben visibile a tutti coloro che la vivono, e suscita naturalmente giudizi politici netti e contraddittori. Contadino o nobile, operaio o industriale, cameriere o banchiere: ciascuno, dal proprio punto di osservazione, vede cose importanti sulle condizioni di vita degli uni e degli altri, sui rapporti di potere e di dominio tra gruppi sociali, e matura la propria concezione di ciò che è giusto e di ciò che non lo è. La questione della distribuzione delle ricchezze avrà sempre questa dimensione squisitamente soggettiva e psicologica, irriducibilmente politica e conflittuale, che nessuna analisi più o meno scientifica potrà porre in secondo piano. Per nostra somma fortuna, la democrazia non sarà mai soppiantata dalla repubblica degli esperti.

Tuttavia la questione della distribuzione merita anche di essere studiata in maniera sistematica e metodica. Nell'assenza di fonti, metodi e concetti definiti con precisione, diventa possibile dire tutto e il contrario di tutto. Per alcuni, le disuguaglianze non possono che continuare a crescere, e il mondo sarà sempre più ingiusto per definizione. Per altri, le disuguaglianze tendono invece a decrescere naturalmente, oppure a disporsi da sé in modo armonico, per cui qualunque intervento rischierebbe di turbare il felice equilibrio e sarebbe sconsigliato. In risposta a un simile dialogo tra sordi, in cui ciascun fronte ideologico spesso giustifica la propria pigrizia intellettuale con quella del fronte avverso, esiste uno spazio di ricerca sistematica e metodica, per quanto non scientifico al cento per cento. L'analisi intellettuale, infatti, non potrà mai porre fine ai violenti conflitti politici suscitati dalle disuguaglianze. La ricerca condotta dalle scienze sociali, non avendo la pretesa di trasformare l'economia, la sociologia e la storia in scienze esatte, è e resterà sempre imperfetta. Eppure, definendo con pazienza fatti e costanti, analizzando con serenità i meccanismi economici, sociali e politici in essa coinvolti, essa può fare in modo che il dibattito democratico sia meno dispersivo e si focalizzi sulle questioni giuste. Può contribuire a ridefinire in ogni momento i termini del dibattito stesso, a smascherare le false certezze e le imposture, rimettendo sempre tutto in discussione. È questo, a mio avviso, il ruolo che possono e devono svolgere gli intellettuali, e tra loro i ricercatori di scienze sociali: cittadini come gli altri, i quali hanno però la fortuna, rispetto agli altri, di avere più tempo per dedicarsi allo studio (nonché di essere pagati per farlo: privilegio non da poco).

Ora, va detto subito che per molti decenni le ricerche degli specialisti sulla distribuzione delle ricchezze si sono fondate su un numero relativamente esiguo di fatti stabiliti con fondatezza, e su molte speculazioni del tutto teoriche. Prima di esporre con maggior precisione le fonti sulle quali mi sono basato e che ho tentato di raccogliere nel contesto del volume, sarà utile tracciare un rapido excursus storico su quanto è stato scritto in merito a tali questioni.

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Pagina 14

Malthus, Young e la Rivoluzione francese

Quando nel Regno Unito e in Francia, tra la fine del XVIII secolo e l'inizio del XIX, nasce l'economia politica classica, la questione della distribuzione è già al centro di tutte le analisi. A nessuno sfugge il fatto che si avviano trasformazioni radicali, tra cui in particolare una crescita demografica sostenuta (fenomeno fino ad allora sconosciuto), e gli inizi degli esodi rurali e della Rivoluzione industriale. Quali conseguenze potranno avere sconvolgimenti del genere nella distribuzione delle ricchezze, nella struttura sociale e nell'equilibrio politico delle società europee?

Per Thomas Malthus , che pubblica nel 1798 il suo Saggio sul principio di popolazione, non sussistono dubbi: la principale minaccia è la sovrappopolazione. Le sue fonti sono insufficienti, ma Malthus cerca comunque di utilizzarle al meglio. È influenzato in modo particolare dai racconti di viaggio di Arthur Young, agronomo inglese che ha attraversato le strade del regno di Francia nel 1787 e nel 1788 alla vigilia della Rivoluzione, da Calais ai Pirenei, passando per la Bretagna e la Franca Contea, e che descrive la miseria delle campagne francesi.

Non c'è nulla di falso nell'appassionante racconto di Young. Anzi. All'epoca, la Francia è il paese europeo di gran lunga più popolato, e costituisce dunque un punto d'osservazione ideale. Intorno al 1700 il regno di Francia contava già più di 20 milioni di abitanti, mentre il Regno Unito appena 8 (e l'Inghilterra circa 5). La Francia vede la sua popolazione crescere a ritmo sostenuto per tutto il XVIII secolo, dalla fine del regno di Luigi XIV a quello di Luigi XVI, con una progressione tale che la popolazione francese si avvicina, nel periodo 1780-90, a 30 milioni di abitanti. Tutto lascia credere che un simile dinamismo demografico, ignoto nel corso dei secoli precedenti, abbia effettivamente contribuito, nei decenni che culminano nella fiammata Rivoluzionaria del 1789, alla stagnazione dei salari agricoli e allo sviluppo della rendita fondiaria. Ebbene. Senza volervi individuare l'unica causa della Rivoluzione francese, è evidente che una dinamica del genere non poté che incrementare la già crescente impopolarità dell'aristocrazia e del regime politico dominante.

Il racconto di Young, pubblicato nel 1792, è tuttavia infarcito di pregiudizi nazionalistici e di paragoni approssimativi. Il nostro grande agronomo è molto insoddisfatto degli alberghi in cui soggiorna e dell'abbigliamento dei servi che gli portano da mangiare, che ritrae con disgusto. Inoltre pretende di ricavare dalle sue osservazioni, spesso di bassa lega e aneddotiche, conseguenze valide per la storia universale. Young è molto preoccupato, in primo luogo, per gli eccessi politici ai quali la miseria delle masse potrebbe condurre. Ed è convinto, in secondo luogo, che solo un sistema politico all'inglese, con Camere separate per l'aristocrazia e il terzo stato, e con il diritto di veto per la nobiltà, consenta uno sviluppo armonioso e pacifico, guidato da persone responsabili. Young è insomma persuaso che la Francia, accettando tra il 1789 e il 1790 di far sedere gli uni e gli altri nello stesso Parlamento, stia correndo verso la rovina. Non è esagerato dire che l'insieme del suo racconto risulti condizionato dalla paura che nutre nei confronti della Rivoluzione francese. Quando si discute di distribuzione delle ricchezze, è inevitabile che faccia capolino la politica, ed è spesso difficile sfuggire ai pregiudizi e agli interessi di classe del proprio tempo.

Quando il reverendo Malthus pubblica nel 1798 il suo famoso Saggio, si dimostra, nelle conclusioni, ancor più radicale di Young. È allarmato, come il compatriota, dalle notizie politiche provenienti dalla Francia e, per assicurarsi che tali eccessi non si estendano un giorno al Regno Unito, giudica che vada urgentemente soppresso ogni sistema di assistenza ai poveri, dei quali dovrà essere severamente controllata la natalità. Senza una tale regolamentazione, il mondo intero sprofonderà nel buco nero della sovrappopolazione, sinonimo di caos e miseria. In realtà, non è possibile capire la cupezza — eccessiva — delle previsioni malthusiane, se non si dà conto della paura che assale gran parte delle élite europee negli anni novanta del XVIII secolo.

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Ricardo: il principio di rarità

A posteriori, è molto facile fare dell'ironia su simili profeti di sventure. È tuttavia importante rendersi conto che le trasformazioni economiche e sociali in corso tra la fine del XVIII secolo e l'inizio del XIX erano obiettivamente impressionanti, per non dire traumatizzanti. Non soltanto Malthus e Young, ma la maggior parte degli osservatori dell'epoca, coltivavano una visione relativamente pessimista, per non dire apocalittica, dell'evoluzione a lungo termine del processo di distribuzione delle ricchezze e della struttura sociale. È il caso, in particolare, di David Ricardo e di Karl Marx , di sicuro i due economisti più influenti del XIX secolo, i quali ritengono entrambi che un piccolo gruppo sociale — i proprietari terrieri per Ricardo, i capitalisti dell'industria per Marx — sia destinato inevitabilmente ad appropriarsi di una quota in continua crescita nella composizione del prodotto e del reddito.

Per Ricardo, il quale pubblica nel 1817 i suoi Principi dell'economia politica e dell'imposta , la principale preoccupazione riguarda la crescita a lungo termine del prezzo della terra e del livello della rendita fondiaria. Al pari di Malthus, Ricardo non dispone in pratica di alcuna fonte statistica degna di questo nome. Il che non gli impedisce di avere una profonda conoscenza del capitalismo del suo tempo. Nato in una famiglia di finanzieri ebrei di origine portoghese, Ricardo pare anche serbare meno pregiudizi politici di Malthus, Young e Smith. Pur influenzato dal modello di Malthus, spinge più lontano il proprio modo di ragionare. Ricardo è colpito in particolare dal seguente paradosso logico: a partire dal momento in cui la crescita della popolazione e del prodotto tendono stabilmente ad accentuarsi, la terra tende a divenire un bene sempre più raro tra gli altri beni. La legge della domanda e dell'offerta dovrebbe portare a un continuo rialzo del prezzo della terra e degli affitti versati ai proprietari terrieri. Questi ultimi, sia a breve sia a lungo termine, incamereranno una quota più cospicua del reddito nazionale, mentre il resto della popolazione ne riceverà una sempre meno rilevante, con conseguente distruzione dell'equilibrio sociale. Per Ricardo l'unica soluzione logicamente e politicamente soddisfacente è un'imposta progressiva, sempre più onerosa, sulla rendita fondiaria.

Vedremo come una tale cupa profezia non si sia realizzata: la rendita fondiaria è sicuramente rimasta, per lungo tempo, a livelli elevati, ma alla fine, con il calo progressivo del peso dell'agricoltura nel reddito nazionale, il valore dei terreni agricoli è calato inesorabilmente rispetto alle altre forme di ricchezza. Scrivendo nel periodo 1810-20, Ricardo non poteva certo prevedere l'ampiezza con la quale sia il progresso tecnico sia la crescita industriale si sarebbero affermati negli ottant'anni successivi. Così come, al pari di Malthus e di Young, non poteva immaginare un'umanità totalmente affrancata dalla logica della produzione terriera e agricola.

L'intuizione di Ricardo sul prezzo della terra resta nondimeno interessante: il "principio di rarità", sul quale fa leva l'economista, può potenzialmente spingere determinati prezzi ad acquisire valori sproporzionati nel corso dei decenni. Il che è condizione più che sufficiente a destabilizzare dalle fondamenta intere società. Il sistema del prezzo svolge un ruolo insostituibile nella gestione del comportamento di milioni – o piuttosto di miliardi di individui – nel quadro della nuova economia globale. Il problema è che esso non conosce né limite né morale.

Sarebbe un grave errore trascurare l'importanza di tale principio nell'analisi della distribuzione mondiale della ricchezza nel XXI secolo e per convincersene basta sostituire, nel modello di Ricardo, i prezzi dei terreni agricoli con quello degli immobili urbani nelle grandi capitali, o con il prezzo del petrolio. In entrambi i casi, se si estende al periodo 2010-50 o 2010-2100 la tendenza osservata dal 1970 agli anni dieci del XXI secolo, si arrivano a ipotizzare squilibri economici, sociali e politici di vasta portata, sia tra un paese e l'altro, sia all'interno dello stesso paese, squilibri che potrebbero davvero far pensare all'apocalisse ricardiana.

Esiste certo, in linea di principio, un meccanismo economico molto semplice che consente di equilibrare il processo: il gioco della domanda e dell'offerta. Se l'offerta di un bene è insufficiente, e se il suo prezzo è troppo elevato, la domanda per il bene in questione deve per forza abbassarsi, il che permetterà di calmierare il mercato. In altri termini, se i prezzi immobiliari e petroliferi aumentano, basta andare ad abitare in campagna, oppure usare la bicicletta (o le due cose insieme). Ma, oltre a poter risultare in parte sgradevole e complicato, un tale mutamento può richiedere varie decine d'anni, nel corso dei quali i proprietari di immobili e i petrolieri potranno accumulare crediti talmente rilevanti rispetto al resto della popolazione da trovarsi comunque a possedere, per un tempo non calcolabile, tutto ciò che c'è da possedere, compresi la campagna e la bicicletta. Come sempre, il peggio non è mai prevedibile. Da qui al 2050, sarebbe prematuro annunciare al lettore che prezzo dovrà pagare per il suo alloggio all'emiro del Qatar: la questione verrà esaminata a suo tempo, e la risposta che potremo dare sarà evidentemente vaga, anche se tutto sommato rassicurante.

L'importante è capire fin d'ora che il gioco della domanda e dell'offerta non impedisce affatto una tale eventualità, vale a dire uno squilibrio sempre più forte e duraturo nella distribuzione delle ricchezze, legato al flusso estremamente mobile di determinati prezzi relativi a determinati beni. È questa la lezione più importante che possiamo ricavare dal principio di rarità di Ricardo. Dopotutto, non siamo obbligati a giocare a dadi.

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Marx: il principio di accumulazione infinita

Quando Marx, nel 1867, ossia esattamente mezzo secolo dopo la pubblicazione dei Principi di Ricardo, pubblica il Libro I del Capitale , le realtà economiche e sociali si sono profondamente modificate: non si tratta più di sapere se l'agricoltura riuscirà a nutrire una popolazione in crescita o se il prezzo della terra salirà alle stelle, bensì di capire la dinamica di un capitalismo industriale in pieno sviluppo.

Il fatto più rilevante dell'epoca è la miseria del proletariato industriale. A dispetto della crescita, o forse in parte per suo stesso effetto, con l'enorme esodo rurale provocato dall'aumento sia della popolazione sia della produttività nell'agricoltura, gli operai si ammassano dentro topaie e bicocche. Le giornate lavorative sono lunghissime, per salari bassissimi. Si va sviluppando una nuova miseria urbana, più visibile, più scioccante, e per certi versi ancor più estrema della miseria rurale dell'ancien régime. Germinale, Oliver Twist o I miserabili non sono nati certamente dall'immaginazione degli scrittori, così come per altro le stesse leggi che proibiscono il lavoro manifatturiero ai minori di 8 anni in Francia nel 1841, o ai minori di 10 anni nelle miniere nel Regno Unito nel 1842. Il Tableau de l'état physique et moral des ouvriers employés dans les manufactures, pubblicato in Francia nel 1840 dal dottor Villermé, ispiratore della timida legislazione del 1841, descrive la medesima sordida realtà descritta da Engels in La situazione della classe operaia in Inghilterra, pubblicato nel 1845.

Di fatto, tutti i dati storici di cui oggi disponiamo indicano che per registrare una crescita significativa del potere d'acquisto dei salari bisogna attendere la seconda metà se non l'ultimo terzo del XIX secolo. Tra il periodo 1800-10 e quello 1850-60 i salari sono fermi a livelli bassissimi – vicini a quelli del XVIII secolo e dei secoli precedenti – o, in alcuni casi, a livelli addirittura inferiori. Questa lunga fase di stagnazione salariale, riscontrabile sia nel Regno Unito sia in Francia, è tanto più impressionante in quanto il periodo coincide con un'accelerazione della crescita economica. La quota del capitale – profitti industriali, rendita fondiaria, affitti urbani – che concorre alla composizione del reddito nazionale, nella misura in cui è possibile valutarla con le fonti imperfette di cui oggi disponiamo, è destinata a crescere sensibilmente durante la prima metà del XIX secolo. Diminuirà, di poco, solo negli ultimi decenni del secolo, quando i salari recupereranno in parte il ritardo a lungo accumulato nella crescita. I dati che abbiamo raccolto indicano comunque che nessuna diminuzione strutturale delle disuguaglianze si produce prima della prima guerra mondiale. Tra il 1870 e il 1914 si assiste se mai a una stabilizzazione delle disuguaglianze, e a un livello alquanto elevato; anzi, per certi versi, a una perpetuazione della spirale senza fine della disuguaglianza con, in particolare, una concentrazione sempre più massiccia dei patrimoni. È molto difficile dire dove avrebbe portato quella curva in assenza delle gravi ripercussioni economiche e politiche prodotte dalla guerra del 1914-18, ripercussioni che, alla luce dell'analisi storica, e con il senno di poi di cui oggi disponiamo, appaiono come le uniche vere cause della riduzione delle disuguaglianze dopo la Rivoluzione industriale.

Fatto sta che la prosperità del capitale e dei profitti industriali, in contrasto con la stagnazione dei redditi da lavoro, è nel decennio tra il 1840 e il 1850 una realtà talmente evidente che tutti ne sono perfettamente consapevoli, anche se nessuno dispone al momento di statistiche nazionali significative. È in questo contesto che si sviluppano i primi movimenti comunisti e socialisti. La prima, urgente domanda è molto semplice: a che cosa serve lo sviluppo dell'industria, a che cosa servono tutte le innovazioni tecniche, tutta quella fatica, tutti quegli esodi, se in capo a mezzo secolo di crescita industriale la situazione delle masse resta sempre così miserabile, e se si è ridotti a proibire il lavoro in fabbrica ai bambini al di sotto degli 8 anni? Il fallimento del sistema economico e politico dominante appare del tutto ovvio. La seconda domanda è altrettanto ovvia: che cosa si può dire dello sviluppo a lungo termine di un tale sistema?

Il compito che Marx si propone è appunto quello di dare una risposta. Nel 1848, alla vigilia della Primavera dei popoli, ha già pubblicato il Manifesto del Partito comunista, testo breve ed efficace che si apre con la famosa frase: "Uno spettro si aggira per l'Europa: lo spettro del comunismo" e termina con la non meno famosa profezia rivoluzionaria: "Lo sviluppo della grande industria ha tolto da sotto i piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa ha fissato il proprio sistema di produzione e di appropriazione. È la borghesia a produrre innanzitutto i suoi stessi becchini. La caduta della borghesia e la vittoria del proletariato sono parimenti inevitabili."

Marx, nei due decenni successivi, si dedicherà alla stesura del voluminoso trattato che dovrà giustificare la conclusione del Manifesto e porre le fondamenta dell'analisi scientifica del capitalismo e del suo crollo. L'opera resterà incompiuta: il Libro I del Capitale viene pubblicato nel 1867, ma Marx muore nel 1883 senza aver terminato i due volumi successivi, che verranno pubblicati postumi dall'amico Engels, sulla base dei frammenti manoscritti, a tratti oscuri, che Marx ha lasciato.

Come Ricardo, Marx intende incentrare il proprio lavoro sull'analisi delle contraddizioni logiche connaturate al sistema capitalista. Aspira così a distinguersi sia dagli economisti borghesi (che vedono nel mercato un sistema autoregolato, ossia capace di equilibrarsi da solo, senza contraccolpi di rilievo, a somiglianza della "mano invisibile" di Smith e della "legge degli sbocchi" di Say), e dei socialisti utopisti o proudhoniani, i quali, secondo lui, si limitano a denunciare la miseria operaia, senza tuttavia proporre uno studio veramente scientifico dei processi economici in campo. Riassumendo, Marx muove dal modello ricardiano del valore del capitale e del principio di rarità, e spinge molto oltre l'analisi della dinamica del capitale stesso, considerando un mondo in cui il capitale è prima di tutto capitale industriale (macchine, attrezzature ecc.) e non terriero, e può dunque, in teoria, accumularsi illimitatamente. Di fatto la sua conclusione di fondo coincide con quello che possiamo chiamare "principio di accumulazione infinita", vale a dire la tendenza inevitabile del capitale ad accumularsi e concentrarsi su scala illimitata, senza un termine naturale, da cui discende la soluzione apocalittica prevista da Marx: o si arriva a un calo tendenziale del tasso di profitto del capitale (il che manda in tilt il motore dell'accumulazione e può portare i capitalisti a sbranarsi a vicenda) o la quota di capitale del reddito nazionale si accresce indefinitamente (il che porterà i lavoratori, a più o meno breve scadenza, a unirsi e a ribellarsi). In ogni caso, non è ipotizzabile alcuno stabile equilibrio socioeconomico o politico.

Il fosco destino prefigurato da Marx non si è realizzato, così come non si sono realizzate le previsioni di Ricardo. A partire dall'ultimo terzo del XIX secolo, i salari fanno finalmente segnare un lieve progresso: il miglioramento del potere d'acquisto si generalizza, e il fenomeno cambia radicalmente la situazione, anche se le disuguaglianze restano estremamente forti e continuano per certi aspetti ad aggravarsi fino alla prima guerra mondiale. La Rivoluzione comunista ha sì avuto luogo, ma nel paese più arretrato d'Europa, quello in cui la Rivoluzione industriale era stata appena avviata (la Russia), mentre i paesi europei più avanzati hanno tentato altre vie, socialdemocratiche, a tutto beneficio dei loro popoli. Come gli autori a lui precedenti, Marx ha del tutto trascurato l'eventualità di un progresso tecnico durevole e di un costante aumento della produttività, fattore che, come vedremo, consente in una certa misura di equilibrare il processo di accumulazione e di concentrazione del capitale privato. Inoltre Marx, per perfezionare le sue previsioni, non disponeva di dati statistici adeguati. Sicuramente fu anche vittima del fatto di aver definito a priori le proprie conclusioni nel Manifesto del 1848, prima di intraprendere le ricerche in grado di poterle giustificare. Marx scriveva chiaramente in un clima di grande esaltazione politica, che comportava a volte valutazioni sommarie e frettolose, non consentendo di raccordare adeguatamente al discorso teorico fonti di carattere storico sufficientemente complete, attività a cui lui stesso non dedica l'attenzione che avrebbe potuto. Inoltre non si è affatto posto il problema dell'organizzazione politica ed economica di una società in cui la proprietà privata del capitale sarebbe stata interamente abolita, problema quanto mai complesso come stanno a dimostrare le drammatiche improvvisazioni in chiave totalitaria dei regimi che vi hanno fatto ricorso.

Vedremo in ogni caso che, malgrado tutti i limiti, l'analisi marxiana mantiene, su parecchi punti, una sua congruenza. In primo luogo, Marx parte da una visione reale (l'inverosimile concentrazione delle ricchezze verificatasi nel corso della Rivoluzione industriale) e tenta di rispondervi con i mezzi di cui dispone: ecco un approccio al quale gli economisti di oggi farebbero bene a ispirarsi. In secondo luogo, e in termini specifici, il principio di accumulazione infinita da cui Marx mette in guardia contiene un'intuizione fondamentale per l'analisi del XXI secolo come del XIX, un'intuizione ancor più inquietante, in qualche modo, del principio di rarità caro a Ricardo. Quando il tasso di crescita della popolazione e della produttività è relativamente debole, i patrimoni accumulati nel passato assumono per loro natura un valore considerevole, potenzialmente smisurato, e destabilizzante per le società interessate. In altri termini, una crescita debole permette di equilibrare solo debolmente il principio marxista di accumulazione infinita: ne risulta uno squilibrio che, se non ha i connotati apocalittici sottolineati da Marx, ha comunque connotati assai inquietanti. L'accumulazione a un determinato punto si blocca, ma questo punto può essere estremamente elevato, e rivelarsi destabilizzante. Vedremo, ad esempio, come la crescita fortissima del valore dei patrimoni privati, calcolato in annualità di reddito nazionale, riscontrabile a partire dagli anni settanta e ottanta nell'insieme dei paesi ricchi, e particolarmente in Europa e in Giappone, discenda direttamente da questa stessa logica.

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Da Marx a Kuznets: dall'apocalisse alla favola

Passando dalle analisi di Ricardo e di Marx nel XIX secolo a quelle di Simon Kuznets nel XX, si può dire che la ricerca economica si sia evoluta: da una simpatia pronunciata – e senza dubbio eccessiva – per le previsioni apocalittiche, a un'attrazione non meno eccessiva per le soluzioni favolistiche, o quantomeno per l'happy end. Secondo la teoria di Kuznets, le disuguaglianze di reddito sono infatti destinate, nelle fasi avanzate dello sviluppo capitalistico, a diminuire spontaneamente, quali che siano le politiche seguite o le caratteristiche del paese, fino a stabilizzarsi a un livello accettabile. Proposta nel 1955, si tratta davvero di una teoria concepita per il mondo fatato dei Trente glorieuses, ovvero il periodo di boom economico francese tra il 1945 e il 1975: basta pazientare, aspettare un po', e i benefici della crescita saranno una manna per tutti. Un'espressione anglosassone riassume fedelmente la filosofia del momento: "Growth is a rising tide that lifts all boats" (La crescita è un'alta marea che solleva in alto tutti i battelli). In tal senso, vale la pena di richiamare, per motivare l'ottimismo del momento, anche l'analisi di Robert Solow (1956) in merito alle condizioni di un "percorso di crescita equilibrata", cioè di una curva di crescita in cui tutte le grandezze – prodotto, redditi, profitti, salari, capitale, trend finanziari e immobiliari ecc. – crescono allo stesso ritmo, sempre che ciascun gruppo sociale benefici della crescita nelle stesse proporzioni, senza disparità rilevanti. In altri termini: l'assoluto contrario della spirale di disuguaglianza ricardiana o marxista, e delle analisi apocalittiche del XIX secolo.

Per comprendere bene la notevole influenza esercitata dalla teoria di Kuznets, quantomeno negli anni ottanta e novanta del XX secolo, e in certa misura fino ai giorni nostri, occorre insistere sul fatto che si tratta, in questo campo, della prima teoria fondata su un lavoro statistico approfondito. Di fatto, si deve attendere la metà del XX secolo perché siano finalmente stabilite le prime serie storiche di dati sulle classi di reddito, con la pubblicazione nel 1953 dell'opera monumentale dedicata da Kuznets a Shares of upper income groups in income and savings (La quota di redditi elevati nella composizione del reddito e del risparmio). Di fatto, le classi di reddito di Kuznets riguardano un solo paese (gli Stati Uniti), e un periodo di appena trentacinque anni (dal 1913 al 1948). Tuttavia si tratta di un contributo importante, che mobilita due fonti di dati totalmente inaccessibili agli autori del XIX secolo: da una parte, le dichiarazioni dei redditi pubblicate dall'Ufficio imposte federale sul reddito, creato negli Stati Uniti nel 1913; dall'altra, le stime circa il reddito nazionale degli Stati Uniti fissate dallo stesso Kuznets alcuni anni prima. È la prima volta, in assoluto, che vede la luce un tentativo così ambizioso di misurazione della disuguaglianza di una società.

È importante capire bene che senza queste due fonti, indispensabili e complementari, sarebbe semplicemente impossibile valutare la distribuzione disuguale dei redditi e la sua evoluzione nel tempo. È vero che i primi tentativi di quantificazione del reddito nazionale risalgono alla fine del XVII secolo e all'inizio del XVIII, nel Regno Unito come in Francia, e si moltiplicano nel corso del XIX. Ma si tratta sempre di stime isolate: bisogna attendere il XX secolo e il periodo tra le due guerre perché si elaborino, per iniziativa di ricercatori come Kuznets e Kendrick negli Stati Uniti, o Bowley e Clark nel Regno Unito, o Dugé de Bernonville in Francia, le prime serie di reddito annuo nazionale. La prima fonte permette di calcolare il reddito totale del paese. Mentre, per calcolare i redditi elevati e la loro quota nella composizione del reddito nazionale bisogna disporre delle dichiarazioni dei redditi: questa seconda fonte viene fornita, in tutti i paesi, dal calcolo dell'imposta progressiva sul reddito globale, introdotta un po' ovunque a ridosso della prima guerra mondiale (1913 negli Stati Uniti, 1914 in Francia, 1909 nel Regno Unito, 1922 in India, 1932 in Argentina).

È essenziale capire che, in assenza dell'imposta sul reddito, esiste sicuramente tutta una serie di statistiche riguardanti gli imponibili fiscali in vigore (ad esempio, nella Francia del XIX secolo, un calcolo basato sulla distribuzione di porte e finestre, dipartimento per dipartimento, il che non è un dettaglio privo d'interesse), ma non esiste nulla in materia di reddito. Tra l'altro, spesso le persone interessate non conoscono neppure bene il reddito di cui dispongono, o di cui omettono la dichiarazione. Lo stesso vale per l'imposta sulle società e l'imposta sul patrimonio. L'imposta non è soltanto un modo per far contribuire tutti, in modo da finanziare le opere pubbliche e i progetti comuni ripartendo i contributi nel modo più accettabile possibile; è anche un modo di stabilire delle categorie, di assicurare conoscenza e trasparenza democratica.

In ogni caso, i dati a disposizione permettono a Kuznets di calcolare, nella composizione del reddito nazionale americano, la quota di decili e centili superiori nella gerarchia dei redditi. E che cosa scopre? Scopre che negli Stati Uniti, tra il 1913 e il 1948, si è verificata una forte riduzione delle disuguaglianze di reddito. In concreto, negli anni dieci e venti, il decile superiore della distribuzione, vale a dire il 10% costituito dagli americani più ricchi, assorbiva ogni anno fino al 45-50% del reddito nazionale; alla fine degli anni quaranta, la quota del reddito nazionale riferibile al decile superiore è scesa a circa il 30-35% del reddito nazionale: un calo superiore a 10 punti del reddito nazionale, davvero considerevole, equivalente più o meno alla metà di quanto percepisce il 50% degli americani più poveri. La riduzione delle disuguaglianze è netta e incontestabile. E il dato, di notevole rilievo, avrà un impatto enorme nei dibattiti economici del dopoguerra, nelle università e negli organismi internazionali.

Decenni prima, Malthus, Ricardo, Marx e tanti altri avevano parlato delle disuguaglianze senza richiamarsi ad alcuna fonte, o a dispositivi metodologici tali da consentire una comparazione precisa tra le diverse epoche, e di conseguenza un'opzione tra le diverse ipotesi di lavoro. Ora, per la prima volta, viene proposta una base oggettiva: una base certamente imperfetta, ma con il grande merito di esistere. Inoltre il lavoro realizzato da Kuznets è molto ben documentato: il corposo volume da lui pubblicato nel 1953 espone nel modo più trasparente possibile tutti i dettagli sulle fonti e i metodi, in modo che ciascun calcolo possa essere effettuato. E, per giunta, Kuznets è latore di una buona notizia: le disuguaglianze si vanno riducendo.

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La curva di Kuznets: una buona notizia in tempi di guerra fredda

A dire il vero, Kuznets è perfettamente conscio del carattere in larga misura congiunturale della compressione degli alti redditi americani tra il 1913 e il 1948. La quale non ha molto a che vedere con un processo naturale e spontaneo, e ha invece molte correlazioni con le molteplici ripercussioni della crisi degli anni trenta e della seconda guerra mondiale. Nel suo corposo volume pubblicato nel 1953, Kuznets analizza in dettaglio le classi di reddito e pone comunque in guardia il lettore contro il rischio di generalizzazioni affrettate. Tuttavia, nel dicembre 1954, nell'ambito della conferenza che tiene in qualità di presidente dell'American Economic Association riunita a congresso a Detroit, decide di proporre ai colleghi un'interpretazione molto più ottimistica rispetto ai risultati contenuti nel volume del 1953. Ed è tale conferenza, pubblicata nel 1955 con il titolo "Economic Growth and Income Inequality" (Crescita economica e disuguaglianza del reddito), che costituisce l'atto di nascita della teoria della "curva di Kuznets".

Secondo questa teoria le disuguaglianze sarebbero ovunque destinate a seguire, nel corso del processo di industrializzazione e sviluppo economico, una "curva a U rovesciata", vale a dire un arco caratterizzato dal binomio crescita-decrescita. Secondo Kuznets, a una fase di crescita naturale delle disuguaglianze, caratteristica delle prime tappe dell'industrializzazione e che negli Stati Uniti corrisponderebbe grosso modo al XIX secolo, seguirebbe una fase di forte diminuzione delle disuguaglianze stesse che, sempre negli Stati Uniti, sarebbe iniziata nella prima metà del XX secolo.

La lettura del testo del 1955 è illuminante. Dopo aver raccomandato la massima prudenza, e richiamato l'incidenza fin troppo ovvia di contraccolpi esterni nel recente calo delle disuguaglianze in America, Kuznets suggerisce, in modo quasi anodino, che la logica connaturata allo sviluppo economico, a prescindere da qualsiasi intervento politico o trauma esterno, potrebbe comunque portare al medesimo risultato. L'idea sarebbe che le disuguaglianze crescono durante le prime fasi dell'industrializzazione (solo una minoranza è in grado di beneficiare delle nuove fonti di ricchezza assicurate dall'industrializzazione), per poi tendere spontaneamente a diminuire durante le fasi avanzate dello sviluppo (una frazione sempre maggiore della popolazione si trova allineata con i settori più abbienti: da qui una riduzione spontanea delle disuguaglianze).

Queste "fasi avanzate" sarebbero iniziate, nei paesi industrializzati, alla fine del XIX secolo o all'inizio del XX, e la compressione delle disuguaglianze sopravvenuta negli Stati Uniti dal 1913 al 1948 non farebbe dunque che testimoniare un fenomeno più generale, che tutti i paesi – anche i paesi sottosviluppati vittime, al momento, della povertà e della decolonizzazione – dovrebbero in linea di principio arrivare a conoscere, prima o poi. I fatti evidenziati da Kuznets nel libro del 1953 si trasformano immediatamente in un'arma politica di vasta portata. Kuznets è del tutto consapevole del carattere puramente speculativo di una teoria del genere. Resta il fatto che, presentando una teoria tanto ottimistica nel quadro del suo Presidential address agli economisti americani, tutti pronti a condividere e a diffondere la buona novella recata dall'illustre collega, Kuznets era in ogni caso conscio dell'enorme risonanza che essa avrebbe avuto: così nacque la "curva di Kuznets". E per assicurarsi che tutti avessero ben compreso di che cosa si trattasse, Kuznets si diede cura di precisare che le sue previsioni ottimistiche sarebbero state comunque valide a una condizione: che i paesi sottosviluppati rimanessero "nell'orbita del mondo libero". In larghissima misura, la teoria della "curva di Kuznets" è insomma il frutto della guerra fredda.

Intendiamoci: il lavoro realizzato da Kuznets per fissare le prime stime del bilancio nazionale americano e le prime classi di reddito relative alle disuguaglianze è assolutamente fondamentale e, leggendo i suoi libri prima ancora che i suoi articoli, è del tutto evidente che Kuznets era un ricercatore non privo di etica. La fortissima crescita di cui hanno beneficiato i paesi sviluppati nel secondo dopoguerra è del resto un evento incontestabile, e il fatto che ne abbiano tratto vantaggio tutti i gruppi sociali lo è ancora di più. È pertanto normale che nel corso dei Trente glorieuses sia prevalso un certo ottimismo, e che le profezie apocalittiche del XIX secolo sulla dinamica della distribuzione delle ricchezze abbiano perduto popolarità.

Resta il fatto che la teoria fiabesca della "curva di Kuznets" sia stata in gran parte formulata per motivi non nobili e che la sua previsione del tutto empirica sia estremamente fragile. Vedremo che la forte riduzione delle disuguaglianze, verificatosi un po' ovunque nei paesi ricchi tra il 1914 e il 1945, è in primo luogo una conseguenza positiva delle due guerre mondiali e delle catastrofi economiche e politiche che ne sono seguite (in particolare per i detentori di patrimoni rilevanti), e non ha molto a che vedere con il pacifico processo di mobilità intersettoriale descritto da Kuznets.

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Rimettere la questione della distribuzione al centro dell'analisi economica

La questione è importante, e non solo per ragioni storiche. A partire dagli anni settanta del XX secolo le disuguaglianze all'interno dei paesi ricchi – in particolare negli Stati Uniti, dove nel primo decennio del XXI secolo la concentrazione dei redditi ha raggiunto, o leggermente superato, il livello record del decennio tra il 1910 e il 1920 – si sono di nuovo accentuate: per cui diventa essenziale comprendere bene perché e come esse siano diminuite la prima volta. È vero che la crescita fortissima dei paesi poveri ed emergenti, in particolare della Cina, costituisce un notevole potenziale fattore di riduzione delle disuguaglianze a livello mondiale, così com'è accaduto per la crescita dei paesi ricchi durante i Trente glorieuses. Ma è anche vero che tale processo solleva forti inquietudini in seno ai paesi emergenti, e ancor più tra i paesi ricchi. Tra l'altro, gli squilibri impressionanti osservati negli ultimi decenni sui mercati finanziari, petroliferi e immobiliari possono suscitare comprensibili dubbi circa il carattere ineluttabile del "percorso di crescita equilibrata" descritto da Solow e Kuznets, secondo il quale tutto deve presumibilmente crescere allo stesso ritmo. La domanda che preoccupa è: non sarà che il mondo del 2050 o del 2100 finirà nelle mani dei trader, degli alti dirigenti e dei detentori di patrimoni rilevanti, o dei paesi produttori di petrolio, o della Banca della Cina, o addirittura dei paradisi fiscali che faranno da copertura, in un modo o nell'altro, a tutti costoro? E secondo noi sarebbe assurdo non porla, continuando a pensare, per principio, che la crescita sia per sua natura a lungo termine "equilibrata".

In un certo modo, oggi, agli inizi del XXI secolo, ci troviamo nella stessa situazione degli osservatori del XIX secolo: assistiamo a trasformazioni impressionanti, ed è ben difficile sapere fin dove potranno portare e come si presenterà la distribuzione delle ricchezze nell'arco di qualche decennio, tra un paese e l'altro e all'interno del medesimo paese. Gli economisti del XIX secolo hanno avuto un merito immenso: hanno posto il problema della distribuzione al centro dell'analisi, e hanno cercato di studiarne le tendenze sul lungo periodo. Le loro risposte non sono sempre state soddisfacenti, ma almeno rispondevano a delle buone domande. Invece, oggi, non abbiamo alcuna ragione di credere nel carattere automaticamente equilibrato della crescita. Oggi è più urgente che mai rimettere la questione delle disuguaglianze al centro dell'analisi economica e tornare a porre le domande lasciate senza adeguata risposta nel XIX secolo. Per troppo tempo il problema della distribuzione delle ricchezze è stato trascurato dagli economisti, in parte a seguito delle conclusioni ottimistiche di Kuznets, in parte a causa di un'eccessiva simpatia della professione per i modelli matematici semplicistici, i cosiddetti modelli "a parametri rappresentativi". E, per rimettere la questione della distribuzione al centro dell'analisi, bisogna cominciare con il raccogliere il massimo numero di dati storici, in modo da capire meglio gli sviluppi del passato e le tendenze del presente. Perché è stabilendo con pazienza fatti e costanti, è confrontando le esperienze dei diversi paesi, che possiamo sperare di individuare meglio i meccanismi in gioco e chiarirci le idee per il futuro.

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Le fonti utilizzate in questo libro

Il libro si articola su due categorie di fonti storiche, in grado di consentire lo studio della dinamica della distribuzione delle ricchezze: la prima riguarda i redditi e la disuguaglianza della loro distribuzione; la seconda riguarda i patrimoni, la loro distribuzione e il rapporto tra patrimoni e redditi.

Cominciamo con la prima categoria. In larga misura, il mio lavoro è semplicemente consistito nell'applicare a una scala spaziale e temporale più vasta il lavoro innovatore e pionieristico realizzato da Kuznets per quantificare la crescita della disuguaglianza dei redditi negli Stati Uniti dal 1913 al 1948. Un tale ampliamento permette di riconfigurare meglio, in una prospettiva più estesa, i processi rilevati da Kuznets (che sono assolutamente reali) e al tempo stesso di rimettere radicalmente in questione il nesso ottimistico che Kuznets stabilisce tra sviluppo economico e distribuzione delle ricchezze. Stranamente, il lavoro di Kuznets non è mai stato sfruttato in maniera sistematica, in parte perché l'utilizzo storico e statistico dei dati fiscali finisce in una sorta di no man's land accademica, di carattere troppo storico per gli economisti e troppo economico per gli storici.

Peccato. Perché solo una prospettiva di lungo termine permette di analizzare correttamente la dinamica delle disuguaglianze dei redditi, e i dati fiscali sono appunto gli unici a consentire una prospettiva di lungo periodo.

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I principali risultati ottenuti in questo libro

Quali sono le nostre principali conclusioni, raggiunte grazie alla possibilità di attingere a fonti storiche finora inesplorate? La prima lezione è che occorre diffidare, in una materia del genere, di ogni determinismo economico: la storia della distribuzione delle ricchezze è sempre una storia profondamente politica, che non si esaurisce nell'individuazione dei meccanismi puramente economici. In particolare, la riduzione delle disuguaglianze osservata nei paesi sviluppati tra il 1900 e il 1910 e tra il 1950 e il 1960 è innanzitutto dovuta all'incidenza delle due guerre e delle politiche pubbliche messe in campo per superare le gravi crisi in atto. Così come la crescita delle disuguaglianze dal 1970 al 1980 e successivamente è soprattutto dovuta ai cambiamenti politici degli ultimi decenni, specie in materia fiscale e finanziaria. La storia delle disuguaglianze dipende dalla rappresentazione di ciò che è giusto e di ciò che non lo è che si fanno gli attori economici, politici, sociali, dai rapporti di forza tra questi attori, e dalle scelte collettive che ne derivano; è ciò che viene determinato da tutti gli attori coinvolti.

La seconda lezione, nodo centrale del libro, è che la dinamica della distribuzione delle ricchezze si muove su fenomeni di grande portata, motori sia di convergenza che di divergenza in assenza di qualunque strumento naturale o spontaneo che controlli il prevalere di tendenze destabilizzanti che innescano la disuguaglianza.

Cominciamo con i meccanismi a favore della convergenza, vale a dire a favore della riduzione e della compressione delle disuguaglianze. Il principale fattore di convergenza sono i processi di diffusione delle conoscenze e di investimento sulle competenze e nella formazione. Il gioco della domanda e dell'offerta, così come la mobilità del capitale e del lavoro, che ne costituisce una variante, possono intervenire ugualmente in questa direzione, ma in misura meno intensa, e spesso in forma ambigua e contraddittoria. Il processo di diffusione delle conoscenze e delle competenze è l'elemento cruciale, il meccanismo che consente al tempo stesso la crescita generale della produttività e la riduzione delle disuguaglianze sia all'interno di ciascun paese sia a livello mondiale, come dimostra il riequilibrio economico attualmente raggiunto da molti paesi poveri ed emergenti, a cominciare dalla Cina, rispetto ai paesi ricchi. Adottando i modelli di produzione e raggiungendo i livelli di qualificazione dei paesi ricchi, i paesi meno sviluppati colmano i ritardi di produttività e accrescono il reddito nazionale. Tale processo di convergenza tecnologica può essere favorito dalle aperture commerciali, ma si tratta fondamentalmente di un processo di diffusione delle conoscenze e di condivisione del sapere – bene pubblico per eccellenza – più che di un meccanismo di mercato.

Da un punto di vista strettamente teorico, esistono potenzialmente altri elementi di forza finalizzati al raggiungimento di una maggiore uguaglianza. Per esempio si potrebbe pensare che nel corso della storia le tecniche di produzione assegnino un'importanza sempre maggiore al lavoro dell'uomo e alle sue competenze, di modo che la quota dei redditi da lavoro faccia registrare una crescita tendenziale (parallela a una decrescita dei redditi da capitale): ipotesi che potremmo chiamare "crescita o riscatto del capitale umano". In altri termini, se così fosse, il progressivo adeguamento alla razionalità tecnica comporterebbe automaticamente la vittoria del capitale umano sul capitale finanziario e immobiliare, del personale dirigente meritevole sugli azionisti oziosi, della competenza sul nepotismo. In tal senso, le disuguaglianze diventerebbero di per sé più meritocratiche e meno immutabili (se non meno evidenti) nel corso della storia: in qualche modo, la razionalità economica si tradurrebbe meccanicamente, se così fosse, in razionalità democratica.

Un altro pensiero ottimistico, assai diffuso nelle società moderne, è quello secondo cui l'allungamento della durata della vita porterebbe automaticamente a sostituire la "lotta di classe" con il "conflitto generazionale" (forma di conflitto tutto sommato meno lacerante per una società, poiché ciascuno è prima giovane e poi vecchio). In altri termini, l'accumulazione e la distribuzione dei patrimoni sarebbero oggi dominate non più da uno scontro implacabile tra le dinastie di eredi e le dinastie che non possiedono altro che il proprio lavoro, ma da una logica del risparmio nel corso del ciclo della vita: nel senso che ciascuno accumula patrimonio per la propria vecchiaia. Il progresso della medicina e il miglioramento delle condizioni di vita avrebbero quindi trasformato totalmente la natura stessa del capitale.

Purtroppo vedremo che entrambe le idee, alquanto ottimistiche (la "crescita del capitale umano" e l'affermazione del "conflitto generazionale" sulla "lotta di classe"), sono in gran parte illusorie. Più esattamente tali trasformazioni, del tutto plausibili da un punto di vista strettamente logico, hanno certo avuto luogo, ma in proporzioni molto meno massicce di quanto a volte si pensi. Non è affatto sicuro che la quota lavoro nella composizione del reddito nazionale sia incrementata in modo significativo sul lungo periodo: il capitale (non umano) appare tuttora nel XXI secolo indispensabile pressoché nella stessa misura in cui lo era nel XVIII o nel XIX secolo, e non è da escludere che lo diventi ancora di più. Per cui, oggi come ieri, le disuguaglianze patrimoniali restano al primo posto nella scala delle disuguaglianze all'interno di ciascuna classe d'età. E vedremo come l'eredità oggi, all'inizio del XXI secolo, stia riacquistando la stessa importanza che aveva all'epoca di Papà Goriot. Sul lungo periodo, il fattore veramente propulsivo e in grado di determinare processi di eguaglianza delle condizioni, è la diffusione delle conoscenze e delle competenze.

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Fattori di convergenza, fattori di divergenza

Ora, la questione cruciale è che il fattore ugualitario, per quanto importante sia, in particolare per consentire la convergenza tra paesi diversi, possa essere a volte controbilanciato e dominato da potenti fattori di segno opposto, operanti nel senso della divergenza, vale a dire dell'allargamento e della moltiplicazione delle disuguaglianze. L'assenza di un investimento adeguato nella formazione può impedire a interi gruppi sociali di accedere ai benefici della crescita, o può determinarne la discesa nella scala sociale rispetto a nuovi soggetti entranti, com'è dimostrato dal riequilibrio mondiale attualmente in corso (gli operai cinesi prendono il posto degli operai americani e francesi, e così via). In altri termini, il principale fattore di convergenza – la diffusione delle conoscenze – è soltanto in parte un fattore naturale e spontaneo: esso dipende in larga parte dalle politiche condotte in materia di educazione e di accesso alla formazione e alle competenze adeguate, e dalle istituzioni preposte.

Nel contesto del libro, porremo inoltre l'accento su fattori di divergenza ancor più inquietanti, poiché possono determinarsi in un mondo in cui tutti gli investimenti adeguati per la maturazione delle competenze potrebbero essere già avvenuti, e in cui tutte le condizioni di efficienza dell'economia di mercato – nell'accezione data dagli economisti – appaiano realizzate. Questi fattori di divergenza sono principalmente due: il primo è il processo di allontanamento, scollamento, delle retribuzioni più elevate rispetto alle altre, un fenomeno che potrà essere molto rilevante, benché per il momento sia abbastanza localizzato; il secondo, ancora più grave, è l'affermazione di una serie di squilibri legati al processo di accumulazione e concentrazione dei patrimoni, in un mondo caratterizzato da una crescita debole e da un rendimento elevato del capitale. Il secondo può risultare anche più destabilizzante del primo, e costituisce senza dubbio la minaccia numero uno per la dinamica della distribuzione delle ricchezze a lunghissimo termine.

Entriamo ora nel vivo della questione. Nei grafici I.1 e I.2 abbiamo rappresentato due indicatori fondamentali che cercheremo di comprendere e che illustrano la potenziale importanza di questi processi di divergenza. Entrambe le rappresentazioni disegnano una curva a U, decrescita e poi crescita, e si potrebbe pensare che corrispondano a realtà similari. Invece non è così: queste rimandano a fenomeni del tutto diversi, basati su meccanismi economici, sociali e politici ben distinti. Inoltre, la prima riguarda innanzitutto gli Stati Uniti, la seconda soprattutto l'Europa e il Giappone. Non è sicuramente escluso che nel corso del XXI secolo le due evoluzioni e quindi i due fattori di divergenza finiscano per sovrapporsi negli stessi paesi – di fatto vedremo che la cosa sta già avvenendo – o a livello planetario, il che potrebbe portare a livelli di disuguaglianza finora sconosciuti, in particolare a una struttura delle disuguaglianze radicalmente nuova. Per il momento, comunque, i due indicatori, di per sé impressionanti, corrispondono nella loro sostanza a due fenomeni distinti.

Il primo indicatore, rappresentato nel grafico I.1, indica la curva seguita dalla quota del decile superiore della gerarchia dei redditi nella distribuzione del reddito nazionale americano durante il secolo successivo al 1910. Si tratta semplicemente dell'estensione delle classi storiche di reddito fissate da Kuznets negli anni cinquanta. E vi ritroviamo, di fatto, la forte compressione delle disuguaglianze osservata dallo stesso Kuznets tra il 1913 e il 1948, ossia un calo di 15 punti di reddito nazionale per quanto riguarda la quota compresa nel decile superiore, equivalente al 45-50% del reddito nazionale relativo al periodo dal 1910 al 1920, percentuale scesa poi al 30-35% alla fine degli anni quaranta. La disuguaglianza si stabilizzerà a tale livello tra il 1950 e il 1970. Dopodiché, a partire dagli anni settanta e ottanta, si osserva un rapidissimo processo in senso inverso, al punto che la parte compresa nel decile superiore torna, nel decennio tra il 2000 e il 2010, a un livello del 45-50% del reddito nazionale. L'ampiezza dell'inversione è notevolissima. Per cui viene naturale chiedersi fin dove possa spingersi una tendenza del genere.

Vedremo che un'evoluzione tanto spettacolare corrisponde in larga parte all'esplosione senza precedenti dei più alti redditi da lavoro, e che riflette innanzitutto un fenomeno oggi ben visibile: un numero crescente di alti dirigenti delle grandi imprese sta prendendo il sopravvento. Una prima possibile spiegazione può essere un'improvvisa ascesa dei livelli di qualificazione e di produttività degli alti dirigenti rispetto alla massa degli altri salariati. Una seconda spiegazione, a mio avviso più plausibile e più coerente con i fatti osservati, è che sono gli stessi alti dirigenti in larga misura a fissare le proprie retribuzioni, a volte senza alcun contegno, e spesso senza un chiaro rapporto con la produttività individuale, molto difficile da stimare nell'ambito di aziende di grandi dimensioni.

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Il fattore di divergenza fondamentale: r > g

Il secondo indicatore, rappresentato nel grafico I.2, rimanda a un fattore di divergenza che è in un certo modo più semplice e trasparente, e che è senza dubbio ancora più decisivo per la curva a lungo termine della distribuzione delle ricchezze. Il grafico I.2 indica la variazione, nel Regno Unito, in Francia e in Germania, del valore complessivo dei patrimoni privati (immobiliari, finanziari e di investimento, al netto dei debiti), espressa in annualità di reddito nazionale, dal 1870 a oggi. Si noterà in primo luogo l'altissimo grado di prosperità patrimoniale che ha caratterizzato l'Europa alla fine del XIX secolo e della belle époque: il valore dei patrimoni privati si fissa attorno alle sei-sette annualità di reddito nazionale, che è un fatto considerevole. Successivamente si può constatare un forte calo, determinato dagli eventi scioccanti intercorsi tra il 1914 e il 1945: il rapporto capitale/reddito cala a due-tre annualità di reddito nazionale.

Dopodiché si nota una crescita continua a partire dagli anni cinquanta, al punto che i patrimoni privati sembrano quasi raggiungere, oggi, i livelli riscontrati alla vigilia della prima guerra mondiale: nei primi dieci anni del XXI secolo il rapporto capitale/reddito si colloca attorno a cinque-sei annualità di reddito nazionale sia nel Regno Unito sia in Francia (in Germania si colloca a un livello inferiore, nazione che però è partita da un livello più basso: la tendenza è comunque netta anche in questo paese).

La curva a U, di grande ampiezza, corrisponde a una trasfor- mazione davvero cruciale, sulla quale avremo ampiamente occasione di tornare. Vedremo in particolare che il ritorno dell'elevato rapporto tra lo stock di capitale e il flusso di reddito nazionale negli ultimi decenni si spiega in larga parte con il ritorno a un regime di crescita relativamente lenta. Nelle società a crescita debole i patrimoni ereditati dal passato assumono per loro natura un rilievo sproporzionato poiché, ad accrescere in modo continuativo e sostanziale l'ampiezza dello stock, basta anche un debole flusso di nuovo risparmio.

Se poi il tasso di rendimento da capitale raggiunge livelli consistenti e duraturi tali da superare il tasso di crescita (il che non è automatico, ma è tanto più probabile quanto più è debole il tasso di crescita) esiste allora un rischio molto forte di divergenza caratterizzata dalla distribuzione delle ricchezze.

Questa disuguaglianza fondamentale, che esprimeremo con la formula r > g – dove r indica il tasso annuo di rendimento da capitale (vale a dire quanto rende in media il capitale nel corso di un anno, sotto forma di profitti, dividendi, interessi, affitti e altri redditi da capitale in percentuale del suo valore) e g indica il tasso di crescita (vale a dire la crescita annua del reddito e del prodotto) – ricoprirà nel libro un ruolo essenziale. Anzi, in qualche modo, ne riassumerà la logica d'insieme.

Quando il tasso di rendimento del capitale supera in misura significativa il tasso di crescita – e vedremo che è il caso più frequente nel corso della storia, quantomeno fino al XIX secolo, destinato con ogni probabilità a essere la norma nel XXI, il fenomeno implica automaticamente che i patrimoni ereditati dal passato si ricapitalizzino più in fretta rispetto all'andamento del processo di produzione e dei redditi. Per cui, per chi eredita patrimoni dal passato, basta risparmiare una quota anche limitata di reddito del proprio capitale perché quest'ultimo si accresca più in fretta rispetto alla crescita economica nel suo complesso. In tali condizioni, è pressoché inevitabile che i patrimoni ricevuti in eredità prevalgano largamente sui patrimoni accumulati nel corso di una vita di lavoro, e che la concentrazione del capitale raggiunga livelli assai elevati, potenzialmente incompatibili con i valori meritocratici e i principi di giustizia sociale che costituiscono il fondamento delle nostre moderne società democratiche.

Questo determinante fattore di divergenza può inoltre essere rafforzato da meccanismi aggiuntivi, per esempio quando il tasso di risparmio cresce in sintonia con la crescita del grado di ricchezza, e ancor più quando il tasso di rendimento medio effettivamente ottenuto è tanto più elevato quanto più è elevato il capitale iniziale (fenomeno che, come avremo modo di vedere, si avvia a prevalere). Il carattere imprevedibile e arbitrario dei rendimenti da capitale e delle forme di arricchimento che ne derivano diventano così ragione per rimettere in discussione l'ideale meritocratico. Infine, tali effetti, nel loro insieme, possono essere aggravati da un meccanismo di tipo ricardiano, di divergenza strutturale dei prezzi degli immobili e del petrolio.

Riassumendo. Il processo di accumulazione e di distribuzione dei patrimoni contiene in sé fattori talmente potenti da spingere verso la divergenza, o quantomeno verso un livello di disuguaglianza estremamente elevato. Esistono sì fattori di convergenza, tali da riuscire a prevalere in determinati paesi e in determinate epoche, ma i fattori di divergenza possono in ogni momento riprendere il sopravvento, come sembra accadere in questo inizio di XXI secolo, e come lascia prevedere il probabile calo della crescita demografica ed economica nei decenni a venire.

Le mie conclusioni sono meno apocalittiche di quelle implicite nel principio di accumulazione infinita e di divergenza perpetua espresso da Marx (la cui teoria si fonda, di fatto, su un'idea di crescita zero della produttività a lungo termine). Nello schema proposto la divergenza non è perpetua, è solo uno dei possibili scenari futuri. Tuttavia non sono, le mie, conclusioni molto rassicuranti. In particolare, è importante sottolineare che la disuguaglianza di fondo r > g, massimo fattore di divergenza nel nostro schema esplicativo, non ha niente a che vedere con una qualunque imperfezione di mercato. Anzi, si tratta piuttosto del contrario: più il mercato del capitale è "perfetto", nel significato che gli economisti danno a questo aggettivo, più è probabile che la disuguaglianza si verifichi. È possibile immaginare istituzioni e politiche pubbliche che permettano di contrastare gli effetti di tale logica implacabile, come un'imposta mondiale progressiva sul capitale. Ma la loro concreta attuazione pone problemi notevoli in termini di coordinamento internazionale. È purtroppo probabile che le risposte che verranno date, nella pratica, siano molto più modeste e inefficaci – penso a manovre di varia natura a livello nazionale.

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Diciamolo francamente: la disciplina economica non è mai guarita dalla sindrome infantile della passione per la matematica e per le astrazioni puramente teoriche, sovente molto ideologiche, a scapito della ricerca storica e del raccordo con le altre scienze sociali. Troppo spesso gli economisti si preoccupano di piccoli problemi matematici che interessano solo loro, problemi che, con poco sforzo, li fanno sentire scienziati e che li esonerano dall'impegno di rispondere alle questioni ben più complesse poste dal mondo circostante. Essere economisti universitari in Francia ha un grande vantaggio: gli economisti sono considerati relativamente poco importanti sia dal mondo intellettuale e accademico, sia dalle élite politiche e finanziarie. Il che obbliga gli economisti a rinunciare alla loro diffidenza per le altre discipline e alla loro assurda presunzione di un rigore scientifico superiore, anche in considerazione del fatto che, chi più chi meno, non sanno un bel niente di niente.

[...]

In realtà, l'economia non avrebbe dovuto mai cercare di scindersi dalle altre discipline delle scienze sociali, poiché non può che svilupparsi nel loro ambito. Sappiamo troppo poco delle scienze sociali per fare stupidamente "parte per noi stessi". Per sperare di accrescere le nostre conoscenze su problemi come la dinamica storica della distribuzione delle ricchezze e la struttura delle classi sociali, è evidente che dobbiamo procedere con pragmatismo, e mettendo in campo metodi e approcci propri agli storici, ai sociologi, ai politologi, oltre che agli economisti. Dobbiamo partire dalle domande di fondo e tentare di rispondervi: i campanilismi e le differenze di appartenenza sono secondari. Questo libro è, credo, sia un libro di storia sia un libro di economia.

Come ho spiegato prima, il mio lavoro è stato inizialmente quello di raccogliere fonti e stabilire fatti e serie storiche sulla distribuzione dei redditi e dei patrimoni. Solo in un secondo tempo faccio appello alla teoria, ai modelli e ai concetti astratti, ma cerco di farlo con misura, ossia solo quando la teoria consente una migliore comprensione dei fenomeni studiati. Per esempio, le nozioni di reddito e di capitale, di tasso di crescita e di tasso di rendimento sono concetti astratti, costruzioni teoriche, e non certezze matematiche. Tenterò comunque di mostrare che essi aiutano ad analizzare in modo più efficace le realtà storiche, purché si adotti uno sguardo critico e lucido in merito alla precisione — approssimativa per natura — con cui è possibile valutarli. Utilizzerò anche alcune equazioni, come la legge α = r x β (secondo la quale la quota di capitale nella composizione del reddito nazionale equivale al prodotto del tasso di rendimento da capitale moltiplicato per il rapporto capitale/reddito), oppure la legge β = s/g (secondo la quale il rapporto capitale/reddito è pari, sul lungo termine, al rapporto tra il tasso di risparmio e il tasso di crescita). Prego il lettore poco ferrato in matematica di non chiudere subito il libro; si tratta di equazioni elementari, che possono essere spiegate in modo semplice e intuitivo, la cui piena comprensione non necessita di alcun bagaglio tecnico particolare. Tenterò in particolare di dimostrare come un quadro teorico minimo come questo aiuti a comprendere meglio cicli storici importanti per tutti.

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Piano dell'opera

Il seguito del libro si compone di quattro parti e sedici capitoli. La Parte prima, intitolata Reddito e capitale si compone di due capitoli e introduce nozioni fondamentali che saranno utilizzate in abbondanza nel prosieguo dell'opera. In particolare, il capitolo 1 presenta i concetti di reddito nazionale, di capitale e del rapporto capitale/reddito, per poi descrivere a grandi linee il processo di distribuzione mondiale del reddito e del prodotto. Il capitolo 2 analizza più in dettaglio l'evoluzione dei tassi di crescita della popolazione e della produzione a partire dalla Rivoluzione industriale. La Parte prima non contiene elementi realmente nuovi, per cui il lettore, una volta che ha familiarizzato con le suddette nozioni e con la storia complessiva della crescita mondiale dal XVIII secolo in avanti, può scegliere di passare direttamente alla Parte seconda.

La Parte seconda, intitolata La dinamica del rapporto capitale/reddito, si compone di quattro capitoli. L'obiettivo di questa parte è analizzare il modo in cui si sta presentando oggi il problema dell'evoluzione a lungo termine del rapporto capitale/lavoro e della distribuzione globale, tra redditi da lavoro e redditi da capitale, del reddito nazionale. Il capitolo 3 presenta innanzitutto le metamorfosi del capitale a partire dal XVIII secolo, cominciando con i casi del Regno Unito e della Francia, i meglio conosciuti sul lunghissimo periodo. Il capitolo 4 introduce i casi della Germania e dell'America. I capitoli 5 e 6 estendono le analisi, per quanto è consentito dalle fonti, all'intero pianeta, e soprattutto cercano di trarre insegnamenti dalle esperienze storiche studiate per analizzare la possibile evoluzione del rapporto capitale/reddito e della divisione capitale-lavoro nei decenni a venire.

La Parte terza, intitolata La struttura delle disuguaglianze, si compone di sei capitoli. Il capitolo 7 si propone, all'inizio, di familiarizzare il lettore con gli ordini di grandezza praticamente raggiunti dal processo di disuguaglianza nella distribuzione da una parte dei redditi da lavoro dall'altra del capitale e dei proventi dello stesso. Il capitolo 8 analizza la dinamica storica delle disuguaglianze individuate, cominciando a mettere a confronto il caso della Francia con quello degli Stati Uniti. I capitoli 9 e 10 estendono le analisi all'insieme dei paesi per i quali disponiamo di dati storici (in particolare nel quadro della WTID), esaminando separatamente le disuguaglianze in rapporto al lavoro da un lato e al capitale dall'altro. Il capitolo 11 studia la progressiva importanza dell'eredità sul lungo periodo. Il capitolo 12 analizza le prospettive di sviluppo della distribuzione mondiale dei patrimoni nel corso dei primi decenni del XXI secolo.

La Parte quarta, infine, intitolata Regolamentare il capitale nel XXI secolo, si compone di quattro capitoli. L'obiettivo è trarre indicazioni politiche e normative dalle parti precedenti, quindi l'oggetto è innanzitutto quello di stabilire i fatti e di comprendere le ragioni dei cicli osservati. Il capitolo 13 cerca di tracciare i contorni di quello che potrebbe essere uno Stato sociale adeguato al secolo che si è aperto da poco. Il capitolo 14 propone un ripensamento dell'imposta progressiva sul reddito alla luce delle esperienze passate e delle tendenze recenti. Il capitolo 15 descrive a che cosa potrebbe somigliare un'imposta progressiva sul capitale adeguata al capitalismo patrimoniale del XXI secolo, e paragona questo strumento ideale agli altri modelli di regolamentazione che potrebbero presentarsi, dall'imposta europea sulla ricchezza al controllo dei capitali come in Cina, passando per le politiche sull'immigrazione all'americana o al ritorno generalizzato al protezionismo. Il capitolo 16 tratta la questione scottante del debito pubblico e quella – collegata – dell'accumulazione ottimale del capitale pubblico, in un contesto di possibile degrado del capitale naturale.

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Pagina 77

Che cos'è il capitale?

Ricapitoliamo. A livello di bilancio — di un'impresa, di un paese considerato nel suo insieme o dell'intero pianeta —, il prodotto e i redditi che ne derivano possono scomporsi come la somma di redditi da capitale e redditi da lavoro:

Reddito nazionale = redditi da capitale + redditi da lavoro

Ma che cos'è il capitale? Quali sono esattamente i suoi limiti e le sue forme, e com'è andata trasformandosi nel corso del tempo la sua composizione? La domanda, cruciale per la nostra ricerca, verrà considerata in dettaglio nei prossimi capitoli. Ma è utile precisare fin d'ora i seguenti punti.

Tanto per cominciare, nel corso di tutto il libro, quando parliamo di "capitale", senza altra precisazione, escludiamo sempre quello che gli economisti chiamano spesso – secondo noi abbastanza impropriamente – "capitale umano", ossia la forza lavoro, le competenze, la formazione, le capacità individuali. Nel quadro di questo libro, il capitale è, per definizione, l'insieme degli attivi non umani che possono essere posseduti o scambiati sul mercato. Il capitale comprende in particolare l'insieme del capitale immobiliare (immobili, abitazioni) impiegato per l'alloggio privato e del capitale finanziario e professionale (edifici, infrastrutture, macchinari, brevetti ecc.) impiegato dalle imprese e dalle amministrazioni.

Esistono molte ragioni per escludere il capitale umano dalla nostra definizione di capitale. La più evidente è che il capitale umano non può essere posseduto da un'altra persona, né scambiato sul mercato, o comunque non su base permanente. Il che costituisce una differenza essenziale rispetto alle altre forme di capitale. Nel quadro di un contratto di lavoro, si possono certo affittare i servizi assicurati dal proprio lavoro. Ma, in tutti i sistemi legali moderni, la cosa può avvenire solo su base temporanea e limitata nel tempo e nell'uso. Salvo che, evidentemente, nelle società schiaviste, in cui è consentito possedere in maniera piena e completa il capitale umano di un'altra persona, e anche dei suoi eventuali discendenti. In società del genere, è possibile vendere schiavi su un mercato e trasmetterli per successione, ed è ordinaria amministrazione sommare il valore degli schiavi agli altri elementi che compongono il patrimonio. Lo vedremo quando studieremo la composizione del capitale privato nel Sud degli Stati Uniti prima del 1865. Ma, al di fuori di questi casi particolari e risolti in se stessi, non ha molto senso tentare di sommare il valore del capitale non umano con quello del capitale umano. Le due forme di ricchezza hanno svolto, nel corso della storia, ruoli fondamentali e complementari nel processo di crescita e di sviluppo economico, e continueranno a svolgerlo anche nel XXI secolo. Ma, per capire bene il processo e la struttura delle disuguaglianze che esso produce, conviene distinguerle e trattarle separatamente.

Il capitale non umano, che nel contesto del volume chiameremo "capitale" tout court, raggruppa dunque tutte le forme di ricchezza che possono essere possedute in sé e per sé dagli individui (o da gruppi di individui) e trasmessi o scambiati sul mercato su base permanente. In pratica, il capitale può essere posseduto sia da privati (nel qual caso parliamo di capitale privato) sia dallo Stato o dalle pubbliche amministrazioni (nel qual caso parliamo di capitale pubblico). Esistono anche forme intermedie di proprietà collettiva a beneficio di enti morali che perseguono obiettivi specifici (fondazioni, chiese ecc.), forme sulle quali torneremo. Va da sé che il confine tra ciò che può essere posseduto da soggetti privati e ciò che non può esserlo evolve notevolmente nel tempo e nello spazio, com'è appunto dimostrato dal fenomeno estremo della schiavitù. La stessa cosa vale per l'aria, il mare, le montagne, i monumenti storici, le conoscenze. Determinati gruppi d'interesse privato vorrebbero poterli possedere, magari non solo a proprio vantaggio, avanzando a volte propositi di maggiore efficienza. Ma non è affatto sicuro che il loro interesse coincida con l'interesse generale. Il capitale non è un concetto immutabile: rispecchia lo stato di sviluppo e i rapporti sociali che reggono una determinata società.

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Pagina 87

La prima legge fondamentale del capitalismo: α = r x β

Possiamo ora enunciare la prima legge fondamentale del capitalismo, che permette di vincolare lo stock di capitale al flusso di reddito da capitale. Il rapporto capitale/reddito β è in effetti collegato molto semplicemente alla quota dei redditi da capitale nella composizione del reddito nazionale, quota che chiameremo α, ottenendo la seguente formula:

α = r x β

Dove r è il tasso di rendimento medio del capitale.

Per esempio, se β = 600% e r = 5%, avremo α = r x β = 30%.


In altri termini, se in una data società il patrimonio equivale a sei annualità di reddito nazionale, e se il tasso di rendimento medio da capitale è del 5% annuo, la quota di capitale nel reddito nazionale è del 30%.

La formula α = r x β è una pura uguaglianza contabile. Viene applicata in tutte le società e in tutte le epoche, per definizione. Per quanto sia tautologica, essa deve comunque essere considerata la prima legge fondamentale del capitalismo, in quanto consente di collegare in modo semplice e trasparente i tre concetti più importanti per l'analisi del sistema capitalista: il rapporto capitale/reddito, la quota di capitale nel reddito e il tasso di rendimento del capitale.

Il tasso di rendimento del capitale è un concetto basilare in molte teorie economiche, in particolare nell'analisi marxista, insieme alla tesi del calo tendenziale del saggio di profitto – previsione storica che vedremo essersi rivelata del tutto erronea, anche se contiene un'intuizione interessante. Il concetto svolge un ruolo cruciale anche nelle altre teorie economiche. In ogni caso, il tasso di rendimento del capitale misura quanto rende un capitale nel corso di un anno, quale che sia la forma giuridica assunta dai redditi che lo compongono (profitti, affitti, dividendi, cedole, bonus, plusvalenze ecc.), espresso in percentuale del valore di capitale investito. Si tratta dunque di una nozione più ampia di quella di "tasso di profitto" e molto più ampia di quella di "tasso d'interesse", anche se le ingloba entrambe.

È chiaro che il tasso di rendimento può variare enormemente a seconda dei tipi d'investimento e di collocazione delle ricchezze. Determinate imprese possono produrre tassi di rendimento superiori al 10% annuo, o anche più, mentre altre possono accusare perdite (tasso di rendimento negativo). In molti paesi, il tasso di rendimento medio delle azioni raggiunge il 7-8% sul lungo periodo. Gli investimenti immobiliari e obbligazionari non superano spesso il 3-4%, e il tasso d'interesse reale sul debito pubblico è a volte ancora più basso. La formula α = r x β non dà certo conto di tali sottigliezze. Ma ci segnala come le tre nozioni siano collegate l'una all'altra, il che favorisce un utile inquadramento del dibattito.

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Pagina 105

La disuguaglianza mondiale: da 150 euro mensili a 3000 euro mensili

Riassumendo, la disuguaglianza a livello mondiale crea situazioni in cui ci sono paesi il cui reddito medio pro capite si aggira sui 150-200 euro mensili (Africa subsahariana, India) e altri il cui reddito medio pro capite raggiunge i 2500-3000 euro mensili (Europa occidentale, America del Nord, Giappone), ovvero dieci-venti volte tanto. La media mondiale, che corrisponde più o meno al livello della Cina, si aggira attorno ai 600-800 euro mensili.

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Pagina 113

Quali fattori aiutano la convergenza tra paesi?

In linea di principio, il meccanismo grazie al quale i paesi ricchi possiedono una parte dei paesi poveri può avere, in termini di convergenza, effetti virtuosi. Se i paesi ricchi abbondano di risparmio e di capitali, al punto che non serve più a nulla costruire un immobile supplementare o installare un macchinario in più nelle loro fabbriche (nel qual caso si dice che la "produttività marginale" del capitale – vale a dire il prodotto supplementare assicurato da una nuova unità di capitale, "a margine" – è pressoché irrilevante), può essere collettivamente vantaggioso che investano una parte del loro risparmio nei paesi poveri. In questo modo, i paesi ricchi — o quantomeno quelli che detengono più capitale — otterranno un tasso di rendimento migliore per il loro investimento, e i paesi poveri potranno recuperare in parte il loro ritardo di produttività. Secondo l'economia classica, il meccanismo, fondato sulla libera circolazione dei capitali e il livellamento della produttività marginale del capitale a livello mondiale, è presumibilmente, in virtù delle forze del mercato e della concorrenza, alla base del processo di convergenza tra paese e paese e di riduzione tendenziale delle disuguaglianze nel corso della storia.

Si tratta in realtà di una teoria ottimistica che ha due importanti difetti. In primo luogo, da un punto di vista strettamente logico, il meccanismo non garantisce in alcun modo la convergenza dei redditi pro capite a livello mondiale. Tutt'al più, può promuovere una convergenza del prodotto pro capite – a condizione, però, di una presunta perfetta mobilità del capitale, e soprattutto di un'equalizzazione completa dei livelli di qualificazione della manodopera e del capitale umano tra paese e paese, il che non è cosa da poco. In ogni caso, l'eventuale convergenza dei prodotti non implica in alcun modo quella dei redditi. Una volta realizzati gli investimenti, è possibilissimo che i paesi ricchi continuino a possedere i paesi poveri in misura permanente, anche in proporzioni massicce, per cui il reddito nazionale dei primi sarà eternamente più elevato rispetto a quello dei secondi, i quali continueranno a versare in perpetuo ai loro proprietari una quota importante di ciò che producono (come sta facendo l'Africa da decenni). Per determinare con quale ampiezza questo tipo di situazione possa prodursi, vedremo come vanno comparati, in particolare, il tasso di rendimento del capitale che i paesi poveri devono rimborsare ai paesi ricchi e il tasso di crescita degli uni e degli altri. E, per procedere oltre, dovremo innanzitutto capire bene la dinamica del rapporto capitale/reddito a livello di ogni singolo paese.

In secondo luogo, da un punto di vista storico, il meccanismo basato sulla mobilità del capitale non sembra il più adeguato, o quantomeno il più accreditato, a promuovere la convergenza tra paese e paese. Nessuno dei paesi asiatici che hanno in qualche misura agganciato i paesi più sviluppati, ieri il Giappone o la Corea o Taiwan, oggi la Cina, ha beneficiato di massicci investimenti stranieri. In sostanza, questi paesi si sono finanziati da soli gli investimenti in capitale fisico di cui avevano bisogno, e soprattutto gli investimenti in capitale umano – la crescita del livello di cultura e di formazione –, grazie ai quali, come dimostrano tutte le attuali ricerche, si spiega di fatto la crescita economica a lungo termine. Al contrario, i paesi posseduti da altri, come nel caso dell'epoca coloniale o dell'Africa di oggi, sono stati più penalizzati, in particolare da competenze ben poco sviluppate e da un'instabilità politica cronica.

Non è vietato pensare che tale instabilità sia in parte spiegabile con la seguente ragione: quando un paese è perlopiù in mano a proprietari stranieri, la richiesta di un loro esproprio da parte della comunità è ricorrente, quasi irrefrenabile. Altri attori della scena politica rispondono che la protezione incondizionata dei diritti di proprietà iniziali è l'unica risorsa per l'investimento e lo sviluppo. Il paese si trova così preso nella morsa di un'interminabile alternanza di governi rivoluzionari (dall'efficacia spesso ridotta per quanto riguarda il miglioramento effettivo delle condizioni di vita della popolazione) e di governi che proteggono i proprietari in campo e aprono così la strada a nuove rivoluzioni o colpi di Stato successivi. La disuguaglianza della proprietà da capitale è già una cosa difficile da accettare e da organizzare in modo pacifico nel quadro di una comunità nazionale. Su scala internazionale, diventa praticamente una cosa impossibile (salvo appunto immaginare un rapporto di dominio politico di tipo coloniale).

Di fatto, l'introduzione di capitale internazionale non ha in sé nulla di negativo: l'autarchia non è mai stata fonte di prosperità. I paesi asiatici hanno con tutta evidenza beneficiato dell'apertura ai capitali mondiali per colmare parte del loro ritardo. Ma hanno tratto soprattutto vantaggio dall'apertura dei mercati di beni e servizi e dall'ingresso ad alto livello nel commercio internazionale; molto meno dalla libera circolazione dei capitali. La Cina, per esempio, continua a praticare il controllo dei capitali – non è possibile investirvi liberamente –, ma l'intervento non frena in alcun modo l'accumulazione di capitale, perché è più che sufficiente il risparmio interno. Il Giappone, la Corea e Taiwan hanno finanziato gli investimenti con il loro stesso risparmio. Gli studi disponibili mostrano inoltre che la stragrande maggioranza dei guadagni prodotti dall'apertura degli scambi commerciali proviene dalla diffusione delle conoscenze e dai vantaggi di produttività dinamica procurati dall'apertura stessa, non dai guadagni statici legati alle competenze, i quali appaiono relativamente modesti.

Riassumendo, l'esperienza storica suggerisce che il principale meccanismo di convergenza tra paese e paese è la diffusione delle conoscenze, a livello internazionale e a livello nazionale. In altri termini, i più poveri recuperano sui più ricchi nella misura in cui attingono il medesimo livello di sapere tecnologico, di qualificazioni, di cultura, evitando di diventare proprietà dei paesi più ricchi. Questo processo di diffusione delle conoscenze non cade dal cielo: viene spesso accelerato dall'apertura internazionale e commerciale (l'autarchia non favorisce la diffusione tecnologica) e dipende soprattutto dalla capacità di ciascun paese di mobilitare finanziamenti e istituzioni che permettano di investire in misura massiccia nella formazione delle persone, sempre garantendo un quadro legale condivisibile per i diversi attori. Ciò è dunque intimamente legato al processo di costruzione di un potere pubblico legittimo ed efficiente. È questa, in rapida sintesi, la lezione di fondo che scaturisce dall'esame dell'evoluzione storica della crescita mondiale e delle disuguaglianze tra paese e paese.

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Pagina 135

Viceversa, la stagnazione della popolazione – e ancor più la sua diminuzione – accresce il peso del capitale accumulato dalle generazioni precedenti. E lo stesso vale per la stagnazione economica. Con una crescita debole, è abbastanza plausibile che il tasso di rendimento da capitale superi nettamente il tasso di crescita, condizione prima e determinante – lo abbiamo notato nell'Introduzione – per una gravissima disuguaglianza nella distribuzione delle ricchezze a lungo termine. Vedremo come le società patrimoniali osservate nel passato, fortemente strutturate dal patrimonio e dall'eredità – che si trattasse di società rurali tradizionali o di società europee del XIX secolo – possano emergere e durare solo in mondi connotati da una crescita debole. Esamineremo più avanti in quale misura il probabile ritorno di una crescita debole possa avere, se così sarà, conseguenze importanti per la dinamica dell'accumulazione del capitale e della struttura delle disuguaglianze. Ciò riguarda in particolare il possibile ritorno del fenomeno a lungo termine dell'eredità, i cui effetti si stanno già facendo sentire in Europa, e che, nel caso, potrebbe estendersi ad altre parti del mondo. Ecco perché è così importante, nel quadro della nostra ricerca, familiarizzare fin d'ora con la storia della crescita demografica ed economica.

Voglio ricordare anche un altro meccanismo – potenzialmente complementare, anche se meno importante e più ambiguo del primo – per effetto del quale la crescita può sviluppare una riduzione delle disuguaglianze, o quantomeno un rinnovamento più rapido delle élite. Quando la crescita è nulla, o molto debole, le diverse funzioni economiche e sociali, nonché i vari tipi di attività professionali, si riproducono in modo quasi identico da una generazione all'altra. Una crescita continua, anche solo dello 0,5%, dell'1% o dell'1,5% annuo, significa invece che a ogni nuova generazione si creano, in permanenza, nuove funzioni socioeconomiche, che si rendono necessarie nuove competenze. È sufficiente che interessi e capacità umane si trasmettano anche solo in parte da una generazione all'altra – o quantomeno in modo meno automatico e meccanico rispetto alla trasmissione ereditaria del capitale terriero, immobiliare o finanziario – perché la crescita possa favorire l'ascesa sociale di persone i cui genitori non hanno mai fatto parte dell'élite. Questo possibile aumento della mobilità sociale non implica necessariamente una diminuzione delle disuguaglianze di reddito, però limita in linea di principio la riproduzione e la moltiplicazione nel tempo delle disuguaglianze patrimoniali, dunque in certa misura l'ampiezza a lungo termine delle disuguaglianze di reddito.

Dobbiamo comunque diffidare dell'idea – quasi un luogo comune – secondo cui la crescita moderna agirebbe da infallibile rivelatore di talenti e di attitudini individuali. È un argomento che ha una parte di verità, ma che dall'inizio del XIX secolo viene fin troppo utilizzato per giustificare qualsiasi tipo di disuguaglianza, quale ne sia l'ampiezza e l'origine, e per attribuire le più eccelse virtù ai dominatori del nuovo sistema industriale. Charles Dunoyer, economista liberale e prefetto del regno durante la Monarchia di luglio, ebbe occasione di scrivere, in un libro del 1845 intitolato De la liberté du travail (nel quale si oppone naturalmente a ogni legislazione sociale vincolante): "L'effetto del sistema industriale è distruggere le disuguaglianze fittizie; ma per far emergere meglio le disuguaglianze naturali." Per Dunoyer, le disuguaglianze naturali comprendono le differenti capacità fisiche, intellettuali e morali, e si annidano in quella nuova economia della crescita e dell'innovazione che l'economista vede un po' ovunque attorno a sé, e che gli fa rifiutare qualsiasi intervento dello Stato: "Le eccellenze sono la fonte di quanto vi sia di più grande e di più utile. Riducete tutto all'uguaglianza e ridurrete tutto all'inazione." In questi primi anni del XXI secolo abbiamo sentito a volte circolare un'idea analoga, secondo la quale la nuova economia dell'informazione permetterebbe ai più talentuosi di moltiplicare la loro produttività. Ma è giocoforza constatare che un argomento del genere viene sovente utilizzato per legittimare disuguaglianze anche estreme e per difendere situazioni di privilegio, senza una grande considerazione per i non privilegiati, e nemmeno per i fatti, e senza realmente cercare di verificare se il principio – un principio di comodo – consenta o meno di spiegare i progressi osservati. Torneremo sull'argomento più avanti.

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Pagina 152

Con l'1% dí crescita annua una società si rinnova profondamente

Il punto, per me ben più importante e ben più significativo del dettaglio sulla previsione di crescita (come abbiamo già visto in precedenza, sintetizzare la crescita a lungo termine di una società in un unico dato numerico è perlopiù un'illusione statistica), e sul quale dobbiamo adesso insistere, è che un ritmo di crescita del prodotto pro capite dell'ordine dell'1% annuo è in realtà un ritmo estremamente rapido, molto più rapido di quanto spesso si immagini.

Il modo migliore per valutare il problema è anche qui quello di considerarlo da un punto di vista generazionale. Nell'arco di trent'anni, una crescita dell'1% annuo corrisponde a una crescita cumulata di più del 35%. Una crescita dell'1,5% annuo corrisponde a una crescita cumulata di più del 50%. Il che implica, in pratica, trasformazioni notevoli dei modelli di vita e degli impieghi. In concreto, nel corso degli ultimi trent'anni in Europa, in America del Nord e in Giappone, la crescita del prodotto pro capite è stata appena dell'1-1,5% annuo. Attualmente, però, le nostre vite hanno subito una trasformazione profonda: nei primi anni ottanta non esistevano né Internet né il telefono cellulare, i trasporti aerei erano inaccessibili alla maggioranza della popolazione, la maggior parte delle tecnologie mediche di punta oggi disponibili non esisteva e la possibilità di continuare a studiare fino all'università riguardava soltanto una minima parte della popolazione. Nel campo delle comunicazioni, dei trasporti, della sanità e della scuola i cambiamenti sono stati profondi. E queste trasformazioni hanno radicalmente modificato anche la struttura degli impieghi: quando il prodotto pro capite cresce di circa il 35-50% nell'arco di trent'anni, vuol dire che una porzione molto ampia del prodotto realizzato oggi – tra un quarto e un terzo – trent'anni fa non esisteva, e quindi che trent'anni fa non esistevano, in una misura che va da un quarto a un terzo, mestieri e attività oggi assai produttive.

Si tratta di una differenza considerevole rispetto alle società del passato, in cui la crescita era quasi nulla, o di appena lo 0,1% annuo, come nel XVIII secolo. Una società la cui crescita è dello 0,1% o 0,2% annuo si riproduce in modo pressoché identico di generazione in generazione: la struttura dei mestieri è la medesima, la struttura della proprietà anche. Una società la cui crescita è dell'1% annuo, come accade dall'inizio del XIX secolo nei paesi più avanzati, è una società che si rinnova profondamente e in permanenza. Vedremo come tutto ciò comporti differenze rilevanti per la struttura delle disuguaglianze sociali e la dinamica della distribuzione delle ricchezze. La crescita, da un lato, può creare nuove forme di disuguaglianza – per esempio i nuovi settori di attività possono alimentare in brevissimo tempo ricchezze inaspettate –, ma dall'altro può rendere meno determinanti le disuguaglianze patrimoniali e il fattore ereditario. Le trasformazioni indotte da una crescita dell'1% annuo sono certo meno rilevanti di quelle che comporterebbe una crescita del 3 o 4% annuo. Da qui, un alto margine di disillusione, in particolare rispetto alla grande speranza riposta, dopo il secolo dei Lumi, in un ordine sociale più giusto. La sola crescita economica, purtroppo, non è assolutamente in grado di soddisfare la speranza democratica e meritocratica, che deve trovare sostegno in istituzioni specifiche, e non soltanto nelle forze del progresso tecnologico e del mercato.

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7.
DISUGUAGLIANZE E CONCENTRAZIONE:
PRIMI RISCONTRI



Nella Parte seconda del libro abbiamo studiato la dinamica del rapporto capitale/reddito in rapporto ai paesi considerati nel loro complesso e la dinamica della distribuzione globale del reddito nazionale tra redditi da capitale e redditi da lavoro, senza occuparci direttamente della disuguaglianza dei redditi e della proprietà dei patrimoni a livello individuale. In particolare, per comprendere le dinamiche del rapporto capitale/reddito e della divisione capitale-lavoro nel corso del XX secolo, abbiamo analizzato le gravi catastrofi economiche legate al periodo 1914-45, dalle quali tanto l'Europa quanto il mondo intero si sono ripresi da poco. Da qui, l'impressione diffusa che il capitalismo patrimoniale – così prospero in questo inizio di XXI secolo – sia una cosa tutta nuova, mentre si tratta in realtà e in larga misura di una replica del passato, tipica di un mondo caratterizzato da una crescita lenta, esattamente come il mondo del XIX secolo.

È ora nostro compito introdurre direttamente, nella Parte terza del volume, lo studio delle disuguaglianze e delle ripartizioni a livello individuale. Nei prossimi capitoli, vedremo che le guerre mondiali e le politiche pubbliche che ne sono derivate hanno svolto in ugual misura un ruolo fondamentale nel processo di riduzione delle disuguaglianze nel XX secolo – un processo che non ha niente di naturale e di spontaneo, contrariamente alle previsioni ottimistiche della teoria di Kuznets. Vedremo anche che le disuguaglianze sono ricresciute con forza dopo gli anni settanta-ottanta del Novecento, anche se con sensibili variazioni tra paese e paese, il che conferma ancora una volta il ruolo cruciale svolto dalle diverse istituzioni e dalle diverse politiche. Analizzeremo pure la crescente importanza sia dell'eredità sia del reddito da lavoro sul lunghissimo periodo, da un punto di vista insieme storico e teorico: da dove nasce la diffusa convinzione secondo cui la crescita moderna favorirebbe naturalmente il lavoro rispetto all'eredità, o la competenza rispetto alla nascita? Ne siamo poi così sicuri? Infine, nell'ultimo capitolo della Parte terza, studieremo le prospettive d'evoluzione della distribuzione dei patrimoni a livello mondiale nei decenni a venire: il XXI secolo conoscerà un grado di disuguaglianza ancora superiore a quello del XIX, sempre che non lo stia già conoscendo? In che cosa la struttura delle disuguaglianze nel mondo di oggi è realmente diversa da quella prevalente durante la Rivoluzione industriale o nelle società rurali tradizionali? La Parte seconda del libro ci ha già segnalato alcune piste, ma solo l'analisi della struttura delle disuguaglianze a livello individuale ci permetterà di rispondere alla domanda chiave.

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13.
UNO STATO SOCIALE PER IL XXI SECOLO



Nelle prime tre parti del volume abbiamo analizzato la linea della distribuzione delle ricchezze e della struttura delle disuguaglianze a partire dal XVIII secolo. Ora dobbiamo trarne tutte le lezioni possibili per il futuro. In particolare, uno dei principali insegnamenti della nostra ricerca è il seguente: sono state le guerre, in larga misura, ad aver fatto tabula rasa del passato e ad aver concorso a una trasformazione della struttura delle disuguaglianze nel XX secolo. E oggi, all'inizio del XXI secolo, certe disuguaglianze patrimoniali che si credeva appartenessero al passato sembrano nuovamente ripetere i propri record storici, o addirittura superarli, nel quadro della nuova economia-mondo, latrice di immense speranze (la fine della povertà) e di altrettanto immensi squilibri (tra individui anche ricchi come tra paesi). È possibile pensare, per il XXI secolo, a un superamento del capitalismo che sia al tempo stesso più pacifico e più duraturo, o dobbiamo solo aspettarci altre crisi, altre guerre, questa volta davvero mondiali? Sulla base delle trasformazioni e delle esperienze storiche che abbiamo messo in luce, quali istituzioni e quali politiche pubbliche potrebbero contribuire a una regolazione insieme più giusta e più efficace del capitalismo patrimoniale globalizzato del secolo che si è aperto da poco?

Come abbiamo già notato, lo strumento ideale per evitare una spirale di disuguaglianza senza fine e per riprendere il controllo della dinamica in corso sarebbe un'imposta mondiale progressiva sul capitale: uno strumento che avrebbe anche il merito di produrre trasparenza democratica e finanziaria sui patrimoni, condizione necessaria per una regolazione efficace del sistema bancario e dei flussi finanziari internazionali. L'imposta sul capitale aiuterebbe a far prevalere l'interesse generale sugli interessi privati, salvaguardando l'apertura economica e le forze della concorrenza. Non si può dire la stessa cosa delle differenti forme di risposta, a livello nazionale o di identità specifiche, che rischiano di determinare un ripiego a questa soluzione ideale. Un'imposta sul capitale così definita a livello mondiale è senza dubbio un'utopia. Nondimeno una soluzione del genere potrebbe essere applicata con profitto a livello regionale o continentale, soprattutto europeo, a partire dai paesi che la vedrebbero con favore. Tuttavia, prima di arrivare a trattare questo punto, è bene contestualizzare l'imposta sul capitale (destinata comunque a rimanere solo uno degli elementi di un sistema fiscale e sociale ideale) in un quadro più ampio, quello del ruolo del potere pubblico nella produzione e nella distribuzione delle ricchezze, e della costruzione di uno Stato sociale adeguato al XXI secolo.

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La crisi del 2008 e il problema del ritorno dello Stato

La crisi finanziaria mondiale che si è aperta tra il 2007 e il 2008 viene in genere presentata come la crisi più grave che abbia investito il capitalismo mondiale dopo quella del 1929. Il confronto è in parte giustificato, ma non deve farci dimenticare che tra le due crisi esistono non poche differenze di fondo. La più evidente è che la crisi recente non ha dato luogo a una depressione devastante come la precedente. Tra il 1929 e il 1935, il livello della produzione dei grandi paesi sviluppati è sceso di un quarto, la disoccupazione è aumentata di altrettanto e il pianeta è uscito del tutto dalla "grande depressione" solo per entrare nella seconda guerra mondiale. La crisi attuale, per fortuna, è stata molto meno catastrofica. Ecco perché, spesso, la si contrappone a quella degli anni trenta definendola in modo più rassicurante "grande recessione". Le principali economie dei paesi sviluppati hanno recuperato a fatica, nel 2013, il livello di produzione del 2007, le finanze pubbliche sono ancora in difficoltà, e le prospettive di crescita appaiono ancora incerte sul lungo periodo, soprattutto in Europa, invischiata in un'interminabile crisi del debito pubblico (situazione che pare un'ironia della sorte, poiché si tratta di un continente in cui il rapporto patrimonio/reddito è il più alto del mondo). In ogni caso la caduta della produzione, nel momento culminante della recessione, il 2009, non ha superato, nella maggioranza dei paesi ricchi, il 5%: un dato che è sì sufficiente per parlare della più grave recessione mondiale del secondo dopoguerra ma che è ben lontano dai dati che hanno causato il crollo massiccio e i fallimenti in serie verificatisi negli anni trenta. Inoltre la crescita dei paesi emergenti ha recuperato molto in fretta i ritmi precedenti alla crisi e sta trainando la crescita mondiale degli anni dieci del XXI secolo.

La principale ragione per cui la crisi del 2008 non ha dato luogo a una depressione grave come quella del 1929 consiste nel fatto che, questa volta, i governi e le banche centrali dei paesi ricchi non hanno lasciato affondare il sistema finanziario e si sono adoperati a creare le liquidità necessarie per evitare i fallimenti bancari a catena, quelli che negli anni trenta hanno condotto il mondo sull'orlo del precipizio. Questa politica monetaria e finanziaria di tipo pragmatico, agli antipodi dell'ortodossia "liquidatoria" che è prevalsa un po' ovunque dopo il crac del 1929 (il presidente americano Hoover, in particolare, pensava che si dovessero "liquidare" le anatre zoppe, prima di essere sostituito da Roosevelt nei primi mesi del 1933), ha consentito di evitare il peggio. E ha anche ricordato al mondo che le banche centrali non sono lì per guardare passare i treni e limitarsi a mantenere bassa l'inflazione. In situazioni di totale panico finanziario, svolgono un ruolo indispensabile di prestatori di ultima istanza, e sono anche l'unica istituzione pubblica capace di evitare, in stato s'urgenza, il crollo completo dell'economia e della società.

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RIPENSARE
L'IMPOSTA PROGRESSIVA SUL REDDITO



Nel capitolo precedente il nostro interesse si è concentrato sulla costruzione e sullo sviluppo dello Stato sociale, sul contenuto dei bisogni sociali e delle spese pubbliche corrispondenti (istruzione, sanità, pensioni ecc.), assumendo come parametro il livello globale dei prelievi fiscali e la sua variazione nel tempo. Ora, nel presente capitolo e in quello successivo, studieremo più da vicino la struttura delle imposte, delle tasse e dei prelievi fiscali che hanno contribuito alla trasformazione dello Stato sociale stesso, e tenteremo di ricavarne una lezione per il futuro. Vedremo che l'innovazione più importante del XX secolo in materia fiscale è stata la creazione e lo sviluppo dell'imposta progressiva sul reddito. Questa istituzione ha svolto un ruolo fondamentale nella riduzione delle disuguaglianze durante il secolo scorso, ma è oggi gravemente minacciata dalle forze della concorrenza fiscale tra paese e paese — anche perché è stata varata in stato d'urgenza, senza essere valutata appieno nelle sue fondamenta. Lo stesso sta accadendo per l'imposta progressiva sulle successioni, che è la seconda importante innovazione del XX secolo e che è stata a sua volta rimessa in discussione nel corso degli ultimi decenni. Ma, prima di arrivare al nocciolo della questione, sarà bene inquadrare le due iniziative fiscali nella dimensione più generale della progressività dell'imposizione fiscale e del suo ruolo nella redistribuzione moderna.


La redistribuzione moderna: il problema della progressività fiscale

L'imposta non è un problema tecnico. Si tratta di una questione eminentemente politica e filosofica, di certo innanzitutto politica. Senza imposte, non può esistere destino comune né capacità collettiva ad agire. È stato sempre così. La rivoluzione fiscale è connaturata a ogni cambiamento politico importante. L'ancien régime scompare quando le assemblee rivoluzionarie votano l'abolizione dei privilegi fiscali della nobiltà e del clero, e adottano un regime fiscale universale e moderno. La Rivoluzione americana nasce dalla volontà dei sudditi delle colonie britanniche di prendere in mano il proprio destino e gestire le proprie imposte ("No taxation without representation"). In due secoli il contesto è cambiato, ma l'obiettivo essenziale rimane lo stesso. Si tratta di far sì che i cittadini possano scegliere in modo sovrano e democratico quali risorse destinare ai propri progetti comuni: formazione, salute, pensioni, disuguaglianze, lavoro, sviluppo sostenibile ecc. Tanto che, in tutte le società, la forma concreta che le imposte possono assumere è al centro del confronto politico. Si tratta di mettersi d'accordo su chi deve pagare che cosa e in nome di quali principi: impresa non da poco, tant'è vero che le opinioni differiscono su molti punti, a cominciare naturalmente dal reddito e dal capitale. In particolare, esistono in tutte le società delle persone che hanno un alto reddito da lavoro e un ridotto capitale ereditato, e viceversa: e il legame tra queste due forme di ricchezza non è fortunatamente quasi mai perfetto. Per cui le visioni del sistema fiscale ideale possono essere diverse.

Si distinguono abitualmente le imposte sul reddito, le imposte sul capitale e le imposte sui consumi. Si possono ritrovare dei prelievi fiscali di queste tre categorie praticamente in tutte le epoche, in proporzioni diverse. Queste categorie, peraltro, non sono esenti da ambiguità, e i confini tra l'una e l'altra non sono sempre delineati con chiarezza. Per esempio, l'imposta sul reddito riguarda in linea di principio tanto i redditi da capitale quanto i redditi da lavoro: si tratta dunque, almeno in parte, di un'imposta sul capitale. E in genere si includono tra le imposte sul capitale sia i prelievi che gravano sul flusso dei redditi da capitale (per esempio sugli utili delle società) sia quelli che incidono sul valore dello stock del capitale (per esempio la tassa fondiaria, l'imposta sulle successioni o l'imposta sui patrimoni). Le imposte sui consumi comprendono in età moderna la tassa sul valore aggiunto e le varie tasse sugli scambi commerciali, sulle bevande, sui profumi, sul tabacco e su qualunque altro bene e servizio specifico. Sono tasse che esistono da sempre, spesso le più odiate di tutte e le più insopportabili per le classi popolari, non diversamente dalle famigerate gabelle (per esempio la tassa sul sale) dell'ancien régime. Sono imposte spesso definite "indirette", nel senso che non dipendono direttamente dal reddito o dal capitale del singolo contribuente: vengono pagate indirettamente, attraverso il prezzo di vendita, quando si fanno gli acquisti. In assoluto, si potrebbe immaginare un'imposta diretta sul consumo, dipendente dall'importo consumato da ciascuno, ma è una cosa che non è mai esistita.

Nel XX secolo è comparsa una quarta categoria di prelievi fiscali, quella dei contributi sociali. Si tratta di una forma di prelievo particolare che grava sui redditi, in genere solo sui redditi da lavoro (salari, stipendi e redditi da lavoro non dipendente), e destinata alle casse della previdenza sociale, soprattutto per finanziare i redditi di inattività (pensioni di vecchiaia, indennità di disoccupazione), un prelievo che può a volte servire a far luce sulla struttura e l'organizzazione dello Stato sociale.

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Progetto di un'imposta europea sulla ricchezza

Considerati tutti questi elementi, quale potrebbe essere il livello ideale dell'imposta sul capitale, e quanto si potrebbe ricavare da un'imposta del genere? Precisiamo che stiamo parlando, qui, di un'imposta annua sul capitale, applicata in modo permanente, dunque i tassi dovranno essere relativamente contenuti. Nel caso di imposte prelevate una tantum nel corso di una generazione, come l'imposta sulle successioni, è possibile ipotizzare tassi anche molto alti: un terzo, la metà, anche più di due terzi del patrimonio trasmesso, per le successioni più cospicue negli Stati Uniti e nel Regno Unito dagli anni trenta agli anni ottanta del Novecento. Lo stesso vale per le imposte straordinarie sul capitale prelevate una sola volta, in circostanze eccezionali. Abbiamo per esempio già ricordato il caso dell'imposta sul capitale prelevata in Francia nel 1945, con tassi che arrivavano fino al 25% o al 100%, sugli arricchimenti più importanti avvenuti tra il 1940 e il 1945. È evidente che imposte simili non possono essere applicate a lungo: se si preleva un quarto del patrimonio ogni anno, nel giro di pochi anni, per definizione, non ci sarà più niente da prelevare. Ecco perché i tassi d'imposta annui sul capitale sono sempre molto più ridotti, dell'ordine di qualche punto percentuale: un fatto che può sorprendere, ma che è in realtà fondamentale, trattandosi di un'imposta prelevata ogni anno sullo stock del capitale. Per esempio, la tassa fondiaria (o property tax) equivale spesso a un valore tra lo 0,5% e l'1% del valore dei beni immobiliari, quindi un valore compreso tra un decimo e un quarto di quello di locazione dell'immobile (supponendo un rendimento locativo medio del 4% annuo).

Il punto importante sul quale vogliamo insistere è il seguente. Considerato l'altissimo livello raggiunto dai patrimoni privati europei all'inizio del XXI secolo, un'imposta annuale e progressiva prelevata a tassi relativamente contenuti sui patrimoni più cospicui potrebbe procurare entrate non trascurabili. Mettiamo il caso di un'imposta sulla ricchezza prelevata al tasso dello 0% sui patrimoni inferiori a 1 milione di euro, dell'1% sulla frazione di patrimoni compresi tra 1 milione e 5 milioni di euro e del 2% sulla frazione di patrimoni superiori ai 5 milioni di euro. Applicata all'insieme dei paesi dell'Unione Europea, un'imposta del genere riguarderebbe circa il 2,5% della popolazione e frutterebbe ogni anno l'equivalente del 2% del P1L europeo. Questo rendimento alto, non deve stupire: deriverebbe semplicemente dal fatto che i patrimoni privati equivalgono a più di cinque annualità di PIL e che i centili superiori detengono una quota considerevole di questo totale. È dunque evidente che un'imposta sul capitale non sarebbe sufficiente da sola a finanziare lo Stato sociale, ma è altrettanto evidente che il complemento in fatto di risorse che l'imposta potrebbe procurare non va totalmente trascurato.

In teoria, ogni paese dell'Unione Europea potrebbe ottenere entrate dello stesso ordine applicando solo un tale sistema. In mancanza di trasmissione automatica delle informazioni bancarie tra paese e paese e con i paesi fuori dall'Unione (a cominciare dalla Svizzera), i rischi d'evasione sono però rilevanti. Il che spiega in parte perché i paesi che applicano l'imposta sulla ricchezza (come la Francia, che adotta un tasso relativamente vicino alla media) introducono in genere parecchie esenzioni, in particolare per i "capitali di investimento", e in pratica per la quasi totalità delle maggiori partecipazioni nelle società quotate e non quotate. Questa scelta finisce così per svuotare l'imposta progressiva sul capitale di buona parte del suo contenuto, e spiega anche perché gli introiti ottenuti sono molto inferiori a quelli qui citati. Un esempio particolarmente estremo che illustra le difficoltà alle quali vanno incontro i paesi europei quando tentano di prelevare da soli un'imposta sul capitale ci viene fornito dall'Italia. Nel 2012, a fronte di un debito pubblico considerevole (il più alto d'Europa) e di un livello eccezionalmente elevato di patrimoni privati (anch'esso uno dei più alti d'Europa, assieme alla Spagna), il governo italiano ha deciso di varare una nuova imposta sul patrimonio. Ma, temendo di vedere gli attivi finanziari prendere la fuga per rifugiarsi nelle banche svizzere, austriache o francesi, ha fissato un tasso dello 0,8% sui beni immobiliari e di appena lo 0,1% sui depositi bancari e altri attivi finanziari (con esenzioni totali per i titoli azionari), senza introdurre alcun elemento di progressività. A parte il fatto che è difficile immaginare un principio economico che spieghi perché certi attivi dovrebbero essere tassati otto volte meno degli altri, un sistema del genere ha prodotto una conseguenza singolare: si è trattato, di fatto, di un'imposta regressiva sul patrimonio, poiché i patrimoni più elevati sono in genere prevalentemente costituiti da attivi finanziari (e soprattutto azioni): il che non ha favorito la buona accoglienza sociale di questa imposta, che è stata al centro delle elezioni italiane del 2013, in cui, non a caso, il candidato che l'ha realizzata, con il consenso delle autorità europee e internazionali, è stato nettamente sconfitto. Il problema di fondo è che senza una trasmissione automatica delle informazioni bancarie tra paesi europei che consenta a ciascuno di essi di fruire di dichiarazioni precompilate contenenti il totale degli attivi detenuti dai propri cittadini, quale che sia il paese in cui questi siano collocati, è molto difficile, oggi, per un singolo paese applicare un'imposta progressiva sul capitale globale. E il fatto è tanto più dannoso in quanto si tratta di uno strumento particolarmente adatto alla situazione economica del continente.

Supponiamo ora che siano in vigore le trasmissioni automatiche e le dichiarazioni precompilate, cosa che forse un giorno finirà per verificarsi. Quale potrebbe essere il tasso ideale? Come sempre, non esiste una formula matematica in grado di dare una risposta, la quale non può che discendere dalla dialettica democratica. Per quanto riguarda i patrimoni inferiori a 1 milione di euro, sarebbe coerente integrarli nella medesima imposta progressiva sul capitale, per esempio con un tasso dell'ordine dello 0,1% al di sotto dei 200.000 euro di patrimonio netto e un tasso dell'ordine dello 0,5 % per la frazione compresa tra 200.000 euro e 1 milione di euro. Il provvedimento sostituirebbe così la tassa fondiaria (o property tax), la quale, nella maggioranza dei paesi, funge, per la classe media patrimoniale, da imposta sul patrimonio. Il nuovo sistema sarebbe insieme equo e più efficace, perché riguarderebbe il patrimonio globale (e non solo quello immobiliare) e si baserebbe sulla dichiarazione precompilata, sui valori di mercato e sulla deduzione dei mutui. In larga parte potrebbe essere applicato fin d'ora, in tutti i paesi.

Si può anche notare come non vi sia motivo di limitare l'imposta a un tasso del 2% sui patrimoni superiori a 5 milioni di euro. Dato che i rendimenti reali osservati per la maggiori ricchezze europee e mondiali raggiungono o superano il 6-7% annuo, non sarebbe affatto stravagante se i tassi applicati oltre la soglia di 100 milioni o di 1 miliardo di euro di patrimonio superassero il 2%. Il modo di procedere più semplice e obiettivo sarebbe quello di adeguare i tassi d'imposta a seconda dei rendimenti medi effettivamente osservati in seno a ciascuna classe di patrimonio nel corso degli anni precedenti, il che garantirebbe di regolare il grado di progressività in funzione dell'evoluzione dei rendimenti medi e con l'obiettivo desiderato in termini di concentrazione patrimoniale. Per evitare la divergenza della distribuzione, ossia un aumento tendenziale della quota delle maggiori ricchezze nel patrimonio totale – a priori, l'obiettivo minimo del provvedimento – sarebbe probabilmente necessario applicare tassi superiori al 5% sui patrimoni più importanti. Se ci si prefigge un obiettivo più ambizioso, per esempio ridurre le disuguaglianze patrimoniali portandole a livelli più contenuti di quelli oggi osservati (ed è dimostrato dall'esperienza storica che gli alti livelli non sono in alcun modo indispensabili per la crescita), si potrebbe pensare a tassi che, per i miliardari, raggiungano o superino il 10%. Non è di mia competenza fornire qui una definizione conclusiva concludendo questa discussione. Quel che è certo è che, per arrivarci, non ha molto senso assumere come punto di riferimento il rendimento del debito pubblico, come talvolta viene suggerito nei pubblici dibattiti. Con tutta evidenza, i maggiori patrimoni non sono certo investiti dal problema.

È realistica un'imposta europea di questo tipo sulla ricchezza? Non vi si oppone alcun vincolo tecnico. Si tratta dello strumento più adatto alle sfide economiche dell'inizio del XXI secolo, in particolare nel Vecchio Continente, dove i patrimoni privati hanno raggiunto una prosperità mai vista dai tempi della belle époque.

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16.
LA QUESTIONE DEL DEBITO PUBBLICO



Per uno Stato esistono soprattutto due modi per finanziare le proprie spese: con l'imposta o con il debito. In generale, l'imposta è la soluzione di gran lunga preferibile, sia in termini di giustizia che in termini di efficacia. Il problema del debito consiste nel fatto che il più delle volte deve essere ripagato, per cui va generalmente incontro agli interessi di chi disponeva di mezzi finanziari per prestare soldi allo Stato, a cui sarebbe stato meglio far pagare le imposte. Esistono tuttavia molte ragioni, buone e cattive, per cui i governi si trovano a volte a ricorrere al prestito e ad accumulare debiti, oppure a ereditare un debito pesante dai governi precedenti. Oggi i paesi più ricchi sembrano stretti nella morsa di un'interminabile crisi del debito. È certo possibile trovare nella storia – lo abbiamo visto nella Parte seconda del volume – livelli d'indebitamento pubblico anche più elevati, come nel caso del Regno Unito, in cui il debito pubblico ha superato in due casi due annualità di reddito nazionale, una prima volta dopo le guerre napoleoniche e una seconda volta dopo la seconda guerra mondiale. Ma resta il fatto che, con un debito pubblico che nei paesi ricchi si avvicina mediamente a un'annualità di reddito nazionale (circa il 90% del PIL), il mondo sviluppato finisce oggi per registrare un livello d'indebitamento mai visto dopo il 1945. Il mondo emergente, che è più povero del mondo ricco, per reddito e per capitale, ha un debito pubblico molto più contenuto (in media attorno al 30% del PIL). Il che dimostra fino a che punto la questione del debito pubblico sia una questione di distribuzione della ricchezza, in particolare tra attori pubblici e attori privati, e non una questione di livello assoluto della ricchezza stessa. Il mondo ricco è ricco: sono i suoi Stati a essere poveri. Il caso più estremo è quello dell'Europa, che è insieme il continente in cui i patrimoni privati sono i più alti del mondo e il continente che incontra più difficoltà a risolvere la crisi del debito pubblico. Strano paradosso.

Cominceremo dunque con l'esaminare le diverse modalità per uscire da un livello così elevato di debito pubblico. Questo ci porterà poi ad analizzare í diversi ruoli esercitati in pratica dalle banche centrali per regolamentare e redistribuire il capitale, nonché le impasse alle quali conduce un'unificazione europea troppo incentrata sulla moneta, che ignora apertamente l'imposta e il debito. Infine studieremo la questione dell'accumulo ottimale di capitale pubblico e della sua articolazione con il capitale privato nel XXI secolo, in un contesto caratterizzato da una crescita debole e da un possibile degrado del capitale naturale.


Ridurre il debito pubblico: imposta sul capitale, inflazione o austerità

Come fare per ridurre in modo significativo un debito pubblico rilevante, qual è il debito europeo attuale? Esistono soprattutto tre metodi principali, coniugabili in proporzioni diverse: l'imposta sul capitale, l'inflazione e l'austerità. L'imposta eccezionale sul capitale privato è la soluzione più equa ed efficace. Al suo posto, può svolgere un ruolo utile l'inflazione: che è poi il modo in cui, nel corso della storia, è stata assorbita la gran parte dei debiti pubblici più importanti. La soluzione peggiore, in termini di giustizia come in termini di efficacia, è una cura prolungata di austerità. Eppure è proprio la soluzione che si sta applicando oggi in Europa.

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CONCLUSIONI



In quest'opera ho tentato di presentare lo stato attuale delle nostre conoscenze storiche sulla dinamica della distribuzione dei redditi e dei patrimoni a partire dal XVIII secolo, e di verificare quali insegnamenti sia possibile trarne per il secolo che si è aperto da poco.

Ripetiamolo: le fonti rese disponibili nell'insieme del volume sono più ampie rispetto a quelle raccolte dagli autori che mi hanno preceduto, ma rimangono ancora imperfette e incomplete. Tutte le conclusioni alle quali sono giunto sono per loro natura fragili, e meritano di essere ridiscusse e riesaminate. Nell'ambito delle scienze sociali, la ricerca non ha lo scopo di produrre certezze matematiche precostituite, né di sostituirsi al pubblico dibattito, che si nutre di democrazia e di confronto dialettico.


La contraddizione di fondo del capitalismo: r > g

Le lezione complessiva della mia ricerca è che il processo dinamico di un'economia di mercato e di proprietà privata, se abbandonato a se stesso, alimenta importanti fattori di convergenza, legati in particolare alla diffusione delle conoscenze e delle competenze, ma anche potenti fattori di divergenza, potenzialmente minacciosi per le nostre società democratiche e per i valori di giustizia sociale sui quali esse si fondano.

Il principale fattore destabilizzante è legato al fatto che il tasso di rendimento privato del capitale r può essere molto e per molto tempo superiore al tasso di crescita del reddito e del prodotto g.

La disuguaglianza r > g significa che i patrimoni ereditati dal passato si ricapitalizzano a un ritmo più rapido del ritmo di crescita della produzione e dei salari. Questa disuguaglianza esprime una contraddizione logica di fondo. L'imprenditore tende inevitabilmente a trasformarsi in rentier, e a prevaricare sempre di più chi non possiede nient'altro che il proprio lavoro. Una volta costituito, il capitale si riproduce da solo e cresce molto più in fretta di quanto cresca il prodotto. Il passato divora il futuro.

Le conseguenze possono essere preoccupanti per la dinamica a lungo termine della distribuzione delle ricchezze, soprattutto se viene sommata alla disuguaglianza relativa al volume del capitale iniziale, e se il processo di divergenza delle disuguaglianze patrimoniali si verifica a livello mondiale.

Non è un problema di semplice soluzione. Si può certo incoraggiare la crescita investendo nella formazione, nella conoscenza e nelle tecnologie non inquinanti, ma il tutto non può fare aumentare la crescita al 4% o al 5% annui. L'esperienza storica insegna che solo paesi in forte recupero sui paesi ricchi, come l'Europa durante i Trente glorieuses o la Cina e i paesi emergenti oggi, possono crescere a ritmi simili. Per quanto riguarda i paesi che hanno già conosciuto la rivoluzione tecnologica mondiale, e dunque prima o poi per quanto riguarderà l'intero pianeta, tutto lascia pensare che il tasso di crescita non possa superare di molto l'1-1,5% annuo a lungo termine, a prescindere dalle politiche seguite.

Con un rendimento medio da capitale dell'ordine del 4-5% è pertanto probabile che la disuguaglianza r > g torni a essere la regola del XXI secolo, come lo è sempre stata nel corso della storia e, in tempi recenti, dal XIX secolo alla vigilia della prima guerra mondiale. Nel XX secolo, come si è visto, sono state le guerre a fare tabula rasa del passato e a ridurre fortemente il rendimento da capitale, dando così l'illusione di un superamento strutturale del capitalismo e della sua contraddizione di fondo.

È vero che si potrebbe tassare pesantemente il rendimento da capitale in modo da far scendere il rendimento privato sotto il tasso di crescita. Ma è anche vero che, se lo si fa in modo troppo massiccio e uniforme, si rischia di spegnere il motore dell'accumulazione e di abbassare ancora di più il tasso di crescita. Gli imprenditori non avranno neanche più il tempo di trasformarsi in rentiers, perché non avranno più niente.

La soluzione giusta è l'imposta progressiva annua sul capitale. Solo in questo modo diventa possibile evitare la spirale della disuguaglianza senza fine, salvaguardando al tempo stesso le forze della concorrenza e gli incentivi alla produzione di nuove accumulazioni primarie. Abbiamo ricordato l'eventualità di una soglia d'imposta con tassi limitati allo 0,1% o allo 0,5% annuo per i patrimoni inferiori al milione di euro, all'1% per quelli compresi tra 1 e 5 milioni di euro, al 2% per quelli compresi tra 5 e 10 milioni di euro, con la possibilità di salire fino al 5% annuo per le ricchezze di parecchie centinaia di milioni o di parecchi miliardi di euro. Tutto ciò aiuterebbe a contenere la crescita illimitata delle disuguaglianze, le quali, oggi, aumentano a un ritmo che diverrebbe insostenibile sul lungo periodo: un pericolo di cui i ferventi difensori del mercato autoregolamentato farebbero bene a preoccuparsi. L'esperienza storica insegna anche che disuguaglianze tanto smisurate tra i patrimoni non hanno molto a che vedere con lo spirito d'impresa e che non sono di alcuna utilità per la crescita. Non sono di alcuna "utilità comune", per riprendere la bella espressione dell'articolo 1 della Dichiarazione del 1789, con il quale abbiamo aperto il libro.

La difficoltà sta nel fatto che la soluzione da noi proposta, l'imposta progressiva sul capitale, esige un altissimo grado di collaborazione internazionale e di integrazione politica regionale; non è insomma alla portata degli Stati-nazione artefici dei tanti compromessi sociali precedenti. E l'allarme di molti sta nel fatto che, procedendo in tal senso, per esempio all'interno dell'Unione Europea, non si faccia altro che rendere più fragili gli equilibri fin qui raggiunti (a cominciare dallo Stato sociale, pazientemente costruito nei paesi europei dopo le catastrofi del XX secolo), senza riuscire ad approdare ad altro se non a un grande mercato, segnato da una concorrenza sempre più pura e sempre più perfetta. Ecco, dicono costoro: la concorrenza pura e perfetta non potrà recare alcun cambiamento alla disuguaglianza r > g, la quale non deriva in alcun modo da un'"imperfezione" del mercato o dalla concorrenza, se mai dal contrario. È vero, il rischio c'è. Ma, a mio avviso, se si vuole riprendere davvero il controllo del capitalismo, non esiste altra scelta se non quella di scommettere fino in fondo sulla democrazia, soprattutto su scala europea. Altre comunità politiche di maggiori dimensioni, come gli Stati Uniti o la Cina, si trovano di fronte a opzioni un po' più diversificate. Ma nel caso dei piccoli paesi europei, che diventeranno sempre più piccoli con il progressivo sviluppo dell'economia-mondo, la via del protezionismo può comportare solo frustrazioni, e delusioni ancora più forti di quelle che potrebbero derivare dalla scelta europea. Lo Stato-nazione resta il campione ideale per modernizzare a fondo molte politiche sociali e fiscali e, in certa misura, per sviluppare nuove forme di governance e di proprietà condivisa, a metà tra proprietà pubblica e proprietà privata – il che resta uno dei grandi obiettivi dell'avvenire. Solo l'integrazione politica regionale ci dà però la possibilità di pensare a una regolamentazione efficace del capitalismo patrimoniale globalizzato del XXI secolo.

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