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| << | < | > | >> |IndicePrefazione. Storie sulla creazione di ricchezza XI Introduzione. Chi fa e chi prende 3 - Critiche diffuse contro l'estrazione di valore, p. 6 - Che cos'è il valore?, p. 9 - Il confine della produzione, p. 11 - Perché la teoria del valore è importante, p. 15 - La struttura del libro, p. 18 1. Breve storia del valore 24 - I mercantilisti: commercio e tesoro, p. 26 - I fisiocratici: la risposta è nella terra, p. 31 - Economia Classica: il valore nel lavoro, p. 37 2. Il valore negli occhi di chi osserva: l'ascesa dei marginalisti 63 - Tempi nuovi, nuove teorie, p. 64 - L'eclissi dei Classici, p. 65 - Da oggettivo a soggettivo: una nuova teoria del valore basata sulle preferenze, p. 66 - L'ascesa dei "Neoclassici", p. 69 - La scomparsa della rendita e ciò che ne consegue, p. 78 3. Misurare la ricchezza delle nazioni 82 - Il PIL: una convenzione sociale, p. 83 - Nasce il sistema di contabilità nazionale, p. 90 - Il PIL nel valore aggiunto statale, p. 93 - Qualcosa di strano nella contabilità nazionale: il PIL facit saltus!, p. 98 - Rattoppare la contabilità nazionale non è sufficiente, p. 107 4. Finanza: la nascita di un colosso 110 - Le banche e i mercati finanziari diventano alleati, p. 112 - Il problema bancario, p. 114 - La deregolamentazione e i semi della crisi, p. 121 - I signori della creazione (monetaria), p. 126 - La finanza e l'economia "reale", p. 128 - Dai diritti sul profitto ai diritti sui diritti, p. 134 - Un debito in famiglia, p. 139 - Conclusione, p. 146 5. Il capitalismo diventa un casinò 148 - Prometeo scatenato (con una patente di pilota), p. 150 - I nuovi protagonisti dell'economia, p. 156 - Come la finanza estrae valore, p. 160 - Conclusione, p. 174 6. La finanziarizzazione dell'economia reale 176 - Le conseguenze economiche del riacquisto di azioni proprie, p. 178 - Massimizzare il valore per gli azionisti, p. 180 - La sconfitta del capitale "paziente", p. 186 - Breve termine e investimento improduttivo, p. 189 - Finanziarizzazione e diseguaglianza, p. 192 - Dalla massimizzazione del valore per gli azionisti al valore per gli stakeholders, p. 200 - Conclusione, p. 203 7. Estrarre valore attraverso l'economia dell'innovazione 205 - Storie sulla creazione di valore, p. 205 - Da dove viene l'innovazione?, p. 207 - Finanziare l'innovazione, p. 211 - Estrazione di valore con i brevetti, p. 218 - Imprenditorialità improduttiva, p. 222 - Il prezzo giusto delle medicine, p. 224 - Effetti della rete e vantaggi degli innovatori, p. 230 - Creare ed estrarre valore digitale, p. 236 - Condividere i rischi e i compensi, p. 239 - Conclusione, p. 243 8. La sottovalutazione del settore pubblico 247 - I miti dell'austerità, p. 251 - Il valore pubblico nella storia del pensiero economico, p. 257 - Keynes e la spesa anticiclica, p. 260 - La spesa pubblica nella contabilità nazionale, p. 263 - La teoria della Scelta Pubblica: giustificare le privatizzazioni, p. 268 - Riconquistare la fiducia e fissare una missione, p. 278 - Socializzare sia rischi che ricavi, p. 282 - Dai beni pubblici al valore pubblico, p. 283 9. L'economia della speranza 289 - I mercati come esito, p. 294 - Dare una missione all'economia, p. 297 - Un futuro migliore per tutti, p. 299 Note 301 Bibliografia 327 Ringraziamenti 341 Indice analitico 343 |
| << | < | > | >> |Pagina XIFra il 1975 e il 2017 il PIL reale degli Stati Uniti - la dimensione dell'economia aggiustata per l'inflazione - è grosso modo triplicato da $5.490 miliardi a $17.290 miliardi. Nello stesso periodo, la produttività è cresciuta di circa il 60%. Eppure, dal 1979 in poi, i salari reali orari di gran parte dei lavoratori americani sono rimasti invariati o sono addirittura diminuiti. In altre parole, per quasi quattro decenni una minuscola élite si è accaparrata quasi tutti i guadagni derivanti dalla crescita economica. Sarà perché si tratta di membri particolarmente produttivi della società? Il filosofo greco Platone affermò una volta che i creatori di favole governano il mondo. La sua opera principale, La Repubblica, era in parte una guida per l'educazione del leader del suo stato ideale, il Guardiano. Il presente libro mette in discussione le storie che ci vengono raccontate su chi sono i creatori di ricchezza nel capitalismo contemporaneo e da dove viene la creazione del valore. Mette in discussione gli effetti che tali storie hanno sulla capacità dei pochi di estrarre di più dall'economia nel nome della creazione di ricchezza. Questo genere di storie sono ovunque. I contesti possono essere differenti - finanza, grande industria farmaceutica o piccole start-up - ma i racconti sono simili. Sono un membro dell'economia particolarmente produttivo, le mie attività producono ricchezza, affronto grossi rischi, e quindi merito un reddito più alto di quello delle persone che traggono semplicemente beneficio dagli effetti di questa attività. E se, alla fine, queste descrizioni fossero semplicemente delle storie? Racconti creati in modo da giustificare disuguaglianze di ricchezza e di reddito che remunerano in misura esorbitante quei pochi che sono capaci di convincere i governi e la società che essi meritano alte remunerazioni, mentre il resto di noi si arrangia con gli avanzi. Nel 2009 Lloyd Blankfein, amministratore delegato di Goldman Sachs, dichiarò che "i dipendenti di Goldman Sachs sono fra i più produttivi al mondo". Però giusto un anno prima, Goldman aveva dato un importante contributo alla peggiore crisi economica e finanziaria dal 1930. I contribuenti americani dovettero pagare 125 miliardi di dollari per salvarla. Alla luce del terribile risultato della banca d'investimento solo un anno prima, tale dichiarazione del capo di Goldman Sachs era sorprendente. La banca ha licenziato 3000 impiegati tra il novembre 2007 e il dicembre 2009, e i profitti sono precipitati. La banca e qualche suo concorrente sono stati multati anche se gli importi sono piccoli in confronto ai profitti che essi avrebbero realizzato in seguito: multe di $550 milioni per Goldman Sachs e $297 milioni per J.P. Morgan, per esempio. Nonostante tutto Goldman, insieme ad altre banche e hedge funds, andò avanti a scommettere proprio contro quegli strumenti che avevano creato e che avevano portato a tale turbolenza. Anche se si è molto parlato di punire le banche che avevano contribuito alla crisi, nessun banchiere è andato in prigione, e i cambiamenti non hanno impedito alle banche di fare profitti speculativi: tra il 2009 e il 2016 Goldman ha realizzato utili di $63 miliardi su $250 miliardi di ricavi netti. Solo nel 2009 ha avuto utili record di $13,4 miliardi. E sebbene il governo americano abbia salvato il sistema bancario con i soldi dei contribuenti, il governo non ha avuto il coraggio di chiedere alle banche una commissione per tale attività ad alto rischio. Si è solo accontentato alla fine di recuperare i suoi soldi. Le crisi finanziarie, naturalmente, non sono una cosa nuova. Ma la spavalda fiducia di Blankfein nella sua banca sarebbe stata meno comune mezzo secolo fa. Fino agli anni Sessanta la finanza non era generalmente considerata una parte "produttiva" dell'economia. Era considerata importante per trasferire la ricchezza esistente, non per crearne di nuova. Gli economisti, infatti, erano così convinti del ruolo puramente strumentale della finanza che non includevano gran parte dei servizi forniti dalle banche, come i depositi e i prestiti, nel calcolo dei beni e servizi prodotti dall'economia. La finanza era inclusa nei calcoli del Prodotto Interno Lordo (PIL) solo come un "input intermedio", ossia come un servizio che contribuiva al funzionamento di altre industrie che erano le vere creatrici di valore. Intorno al 1970, tuttavia, le cose cominciarono a cambiare. La contabilità nazionale - che fornisce un quadro statistico della grandezza, della composizione e della direzione dell'economia - cominciò a includere il settore finanziario nel calcolo del PIL, il valore totale dei beni e servizi prodotti dall'economia. Questo cambiamento nei calcoli coincise con la deregolamentazione del settore finanziario che, tra le altre cose, ridusse i controlli sui prestiti delle banche, sui tassi d'interesse che potevano praticare e sui prodotti che potevano vendere. Nel loro insieme tali cambiamenti alterarono profondamente il comportamento del settore finanziario ed aumentarono la sua influenza sull'economia "reale". La finanza non era più considerata come una carriera tranquilla. Divenne, invece, una corsia preferenziale per persone brillanti per fare un sacco di soldi. In effetti, dopo la caduta del muro di Berlino del 1989, alcuni dei migliori scienziati dell'Europa dell'Est finirono per lavorare a Wall Street. L'industria si espanse, divenne più fiduciosa. Esercitò apertamente pressioni sui politici per promuovere i suoi interessi, rivendicando che la finanza era fondamentale per la creazione di valore. Oggi la questione non è solo la dimensione del settore finanziario, e il fatto che esso abbia superato il tasso di crescita dell'economia non finanziaria (per esempio, l'industria), ma i suoi effetti sul comportamento del resto dell'economia, larga parte della quale è stata "finanziarizzata". Le operazioni finanziarie e la mentalità che esse comportano pervadono l'industria come può essere osservato quando i manager scelgono di spendere una grande quota dei profitti per comprare azioni proprie (facendo, in tal modo, aumentare i prezzi delle azioni, le stock options e i compensi degli alti dirigenti) anziché investire nel futuro a lungo termine dell'azienda. La chiamano creazione di valore ma, come nel settore finanziario stesso, la realtà è spesso l'opposto: estrazione di valore. Ma queste storie sulla creazione di valore non sono limitate alla finanza. Nel 2014 il gigante farmaceutico Gilead fissò il prezzo della nuova terapia contro il virus letale dell'epatite C, denominata Harvoni, a $94.500 per un trattamento di 3 mesi. Gilead motivò tale prezzo insistendo che rappresentava il "valore" del farmaco per il sistema sanitario. John LaMattina, ex presidente della ricerca e sviluppo presso la compagnia Pfizer, sostenne che l'alto prezzo delle specialità medicinali è giustificato dal beneficio che essi portano ai pazienti e alla società in generale. In pratica questo significa rapportare il prezzo di un medicinale ai costi che la malattia causerebbe alla società se non fosse trattata o se fosse trattata con una terapia di secondo livello. L'industria lo chiama "value-based pricing" (fissazione del prezzo basata sul valore). È un argomento contestato dai critici i quali citano studi che dimostrano che non c'è correlazione tra il prezzo di una medicina per il cancro e i benefici che essa fornisce. Un calcolatore interattivo (www.drugabacus.org), che consente di stabilire il corretto prezzo di un farmaco per il cancro sulla base delle sue caratteristiche misurabili (l'incremento di aspettativa di vita che fornisce ai pazienti, i suoi effetti collaterali, e così via), mostra che per gran parte delle medicine questo prezzo basato sul valore è inferiore al prezzo di mercato corrente. Invece il prezzo delle medicine non sta scendendo. Sembra che gli argomenti a favore della creazione di valore dell'industria abbiano neutralizzato con successo le critiche. In effetti, l'alto costo della salute nel mondo occidentale non ha niente a che fare con la salute stessa: tali costi sono semplicemente il valore che l'industria farmaceutica ne estrae. Oppure consideriamo l'industria tecnologica. Nel nome della promozione dell'imprenditorialità e dell'innovazione, le imprese dell'industria informatica hanno spesso fatto lobbying per una regolamentazione più leggera e per trattamenti fiscali favorevoli. All'insegna della "innovazione" come nuova forza del moderno capitalismo, la Silicon Valley si è presentata con successo come la forza imprenditoriale alla base della creazione di ricchezza, capace di scatenare la "distruzione creatrice" dalla quale vengono i posti di lavori del futuro. Questa storia seducente della creazione di valore ha portato alla riduzione delle aliquote fiscali sui guadagni in conto capitale dei venture capitalists che finanziano le imprese tecnologiche, nonché a discutibili politiche fiscali, quali, per esempio, la politica dei brevetti che riduce le tasse sui profitti derivanti dalle vendite di prodotti le cui componenti sono brevettate ('Patent Box'), nella presunzione che ciò possa incentivare l'innovazione premiando la creazione di proprietà intellettuale. È una politica che non ha molto senso poiché i brevetti sono già strumenti che consentono profitti di monopolio per vent'anni, e che generano perciò alti rendimenti. Gli obiettivi dei governanti non dovrebbero essere di incrementare i profitti dei monopoli, ma di favorire il reinvestimento di quei profitti in aree come la ricerca. Molti dei cosiddetti creatori di valore nell'industria tecnologica come il co-fondatore di Pay Pal, Peter Thiel, spesso attaccano il governo considerandolo un puro impedimento alla creazione di valore. Thiel arrivò perfino a costituire un "movimento secessionista" in California in modo che i creatori di valore potessero essere il più possibile indipendenti dalla mano pesante del governo. E Eric Schmidt, amministratore delegato di Google, ha ripetutamente affermato che i dati dei cittadini sono più sicuri con Google che con il governo. Tale affermazione riflette un luogo comune dei giorni nostri: imprenditori buoni, governo cattivo - o quantomeno inetto. Tuttavia, nel presentarsi come moderni eroi, e nel giustificare i profitti record e le montagne di denaro, Apple e le altre società ignorano il ruolo pionieristico svolto dallo stato nello sviluppo di nuove tecnologie. Apple ha dichiarato senza vergogna che non si dovrebbe pretendere un suo contributo alla società attraverso la tassazione, ma si dovrebbe riconoscere che ha già dato il suo contributo con i suoi apparecchi mirabolanti. Ma da dove è mai venuta la tecnologia all'avanguardia che sta alla base di quegli apparecchi? Dai fondi pubblici. Internet, il GPS, il touchscreen, SIRI e l'algoritmo di Google sono stati tutti finanziati da istituzioni pubbliche. Il contribuente non merita dunque di ricevere qualcosa in cambio, oltre a una serie di apparecchi indubbiamente brillanti? Questa semplice domanda, peraltro, sottolinea come abbiamo bisogno di un pensiero radicalmente diverso su chi originariamente crea la ricchezza - e chi poi la estrae. Ma qual è il ruolo che va riconosciuto al governo in queste storie sulla creazione di ricchezza? Se nell'industria vi sono tanti creatori di ricchezza, la conclusione inevitabile è che dal lato opposto rispetto a quello in cui siedono banchieri agili e scaltri, imprenditori farmaceutici pieni di scienza e geni imprenditoriali, si trovano inerti impiegati statali e burocrati governativi che estraggono valore. In questa visione, se l'industria privata è un veloce ghepardo che porta innovazione nel mondo, il governo è una tartaruga che arranca e impedisce il progresso - o, per usare una diversa metafora, un burocrate kafkiano, sepolto dalle carte, ingombrante e inefficiente. Lo stato è descritto come un freno alla società, finanziato dall'imposizione fiscale che grava su cittadini che la subiscono da lungo tempo. In questa storia c'è sempre una sola conclusione: abbiamo bisogno di più mercato e meno stato. Quanto più la macchina statale è piccola, sottile ed efficiente, tanto meglio è. In tutti questi casi, dalla finanza all'industria farmaceutica e all'informatica, i governi si fanno in quattro per attrarre questi individui e queste imprese, nell'ipotesi che essi creino valore, offrendo loro riduzioni fiscali ed esenzioni da pratiche burocratiche che si pensa limitino le loro energie di creatori di ricchezza. I media fanno un sacco di lodi ai creatori di ricchezza, i politici li corteggiano, e per molti sono persone di rango da ammirare ed emulare. Ma chi ha detto che essi creano valore? Quale definizione di valore viene usata per distinguere la creazione di valore dalla estrazione di valore, o anche dalla distruzione di valore? Perché abbiamo così facilmente creduto a questo racconto del bene contro il male? Come è misurato il valore prodotto dal settore pubblico e perché quest'ultimo è spesso considerato una versione meno efficiente del settore privato? E se queste storie non avessero in realtà alcun fondamento? Se derivassero puramente da una serie di idee profondamente radicate? Quali altre storie potremmo raccontare? Platone riconosceva che i racconti formano il carattere, la cultura e il comportamento: "Dobbiamo innanzitutto sorvegliare i creatori di favole, scegliendo quelle composte bene e scartando quelle composte male. Poi convinceremo le balie e le madri a raccontare ai bambini le favole che abbiamo approvato e a plasmare le loro anime con le favole molto più di quanto plasmino i loro corpi con le mani; ma bisogna rigettare la maggior parte delle favole che si narrano ai giorni nostri". A Platone non piacevano i miti sulle divinità scostumate. Questo libro si occupa di un mito più moderno, quello della creazione di valore nell'economia. La mia tesi è che la nascita di questo mito abbia consentito una immensa estrazione di valore, permettendo ad alcuni individui di diventare molto ricchi e, così facendo, di sottrarre ricchezza alla società. Lo scopo del presente libro è di cambiare questo stato di cose, e, per raggiungere tale scopo, di ravvivare il dibattito sul valore che era - e che a mio avviso dovrebbe essere tuttora - al cuore del pensiero economico. Se il valore è definito dal prezzo - fissato dalle presunte forze della domanda e dell'offerta - allora ogni attività che ha (legalmente) un prezzo è vista come creatrice di valore. Quindi se guadagni un tot devi essere un creatore di valore. Sosterrò che il modo in cui la parola "valore" è usata nella moderna economia ha reso più facile a un'attività di estrazione di valore mascherarsi come attività di creazione di valore. Di conseguenza, le rendite (reddito non guadagnato) sono confuse con i profitti (reddito guadagnato); la disuguaglianza aumenta e gli investimenti nell'economia reale diminuiscono. Ma c'è di più: se non riusciamo a vedere la differenza tra la creazione di valore e l'estrazione di valore diventa quasi impossibile remunerare la prima più della seconda. Se l'obiettivo è di promuovere una crescita che sia più innovativa (più smart), più inclusiva e più sostenibile, abbiamo bisogno di una maggior comprensione del valore. In altri termini, non si tratta di un dibattito astratto. Esso ha conseguenze importanti - tanto economiche, quanto sociali e politiche - per tutti. Il modo in cui parliamo del valore influisce sul modo in cui tutti noi, dalle più grandi imprese al più modesto negoziante, ci comportiamo come attori nell'economia e il modo in cui ne misuriamo la performance. È ciò che i filosofi chiamano la "performatività": il modo in cui parliamo delle cose influenza il nostro comportamento e quest'ultimo, a sua volta, influenza il nostro modo di pensare. In altre parole, è una profezia che si autoavvera. Oscar Wilde colse appieno la questione del valore quando affermò notoriamente che il cinico è colui che conosce il prezzo di ogni cosa, ma non conosce il valore di niente. Aveva ragione. In effetti, l'economia è nota come la scienza cinica. Ma proprio per questa ragione, se vogliamo cambiare il nostro sistema economico, dobbiamo riportare il valore al centro del nostro pensiero, occorre recuperare la capacità di mettere in discussione il modo in cui è usata la parola valore, ravvivare il dibattito e non permettere a storie semplicistiche di influire sul nostro discernimento fra chi è produttivo e chi non lo è. Come nascono quelle storie - e nell'interesse di chi? Se non siamo in grado di definire il valore, non possiamo essere sicuri di produrlo, né di distribuirlo in modo giusto, né di sostenere la crescita economica. La comprensione del valore, dunque, è decisiva rispetto a tutte le altre questioni che dobbiamo affrontare riguardo a dove la nostra economia sta andando e come possiamo cambiarla. | << | < | > | >> |Pagina 6La distinzione cruciale ancorché sfumata fra estrazione di valore e creazione di valore ha conseguenze che vanno ben oltre il destino delle aziende e dei loro dipendenti, o anche di interi paesi. L'impatto sociale, economico e politico dell'estrazione di valore è immenso. Prima della crisi finanziaria del 2007, la quota di reddito dell'1% più ricco della popolazione degli Stati Uniti crebbe dal 9,4% nel 1980 a uno sconcertante 22,6% nel 2007. E la situazione continua a peggiorare. Dal 2009 le disuguaglianze sono cresciute ancor più rapidamente di prima del crollo finanziario del 2008. Nel 2015 è stato stimato che la ricchezza complessiva dei 62 individui più ricchi del mondo fosse quasi equivalente a quella della metà più povera della popolazione mondiale - 3,5 miliardi di persone. Come è, dunque, che si perpetua l'alchimia? Una critica diffusa al capitalismo contemporaneo sostiene che esso ricompensi i "cacciatori di rendite» piuttosto che i veri "creatori di ricchezza". La "caccia alla rendita" in questo contesto si riferisce al tentativo di generare reddito senza produrre niente di nuovo, ma facendosi pagare al di sopra del "prezzo di mercato", e tagliando fuori la competizione, attraverso lo sfruttamento di particolari vantaggi (inclusa la manodopera), o, nel caso di un'industria caratterizzata dalla presenza di grandi imprese, attraverso l'abilità di queste ultime di impedire ad altre imprese di entrare sul mercato, ottenendo così un vantaggio monopolistico. L'attività di caccia alla rendita è spesso descritta in altri modi, come la prevaricazione di "quelli che prendono" (the takers) su "quelli che fanno" (the makers), o come il prevalere del capitalismo "predatorio" sul capitalismo "produttivo". La rendita è considerata un modo - forse il modo - tramite il quale l'1% più ricco ha acquisito potere sul restante 99%. I bersagli di tali critiche sono solitamente le banche e altre istituzioni finanziarie, accusate di trarre profitto da attività speculative, che consistono semplicemente nell'acquistare a basso prezzo e rivendere a un prezzo più alto, o nel comprare imprese produttive soltanto per rivenderle a pezzi senza un reale valore aggiunto. Analisi più sofisticate hanno collegato le crescenti disuguaglianze al modo particolare in cui "chi prende" ha aumentato la propria ricchezza. L'influente libro dell'economista francese Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, si concentra sulle disuguaglianze create da un'industria finanziaria predatoria che viene insufficientemente tassata, e dal modo in cui la ricchezza viene ereditata attraverso le generazioni, che dà ai più ricchi un punto di partenza privilegiato per diventare ancora più ricchi. L'analisi di Piketty è cruciale per capire come mai il tasso di rendimento delle attività finanziarie (che lui chiama capitale) è stato più alto della crescita dell'economia, e propone di aumentare le imposte sulla ricchezza che ne deriva e le tasse di successione al fine di fermare il circolo vizioso. Idealmente dal suo punto di vista, tasse del genere dovrebbero essere applicate globalmente, in modo da evitare che un paese faccia concorrenza all'altro. Un altro pensatore di spicco, l'economista statunitense Joseph Stiglitz , ha analizzato come una debole regolamentazione e pratiche monopolistiche abbiano permesso quella che gli economisti chiamano "estrazione di rendita", che lui vede come la spinta maggiore alla crescente ricchezza dell'1% più ricco degli Stati Uniti. Per Stiglitz, questa rendita è il reddito ottenuto creando impedimenti ad altri concorrenti, ad esempio barriere per evitare che nuove società entrino in un settore, o la deregolamentazione che ha permesso alla finanza di crescere in maniera sproporzionata rispetto al resto dell'economia. La sua conclusione è che, eliminando gli ostacoli alla concorrenza economica, ci sarà una più equa distribuzione dei redditi. Penso che possiamo anche spingerci oltre con questa analisi di "chi fa" e "chi prende", per chiederci come mai la nostra economia, con le sue lampanti disuguaglianze fra redditi e ricchezze, sia andata così storta. Per capire come alcuni siano percepiti quali "estrattori di valore", che succhiano la ricchezza dall'economia di un paese, mentre altri sono "creatori di ricchezza" ma non beneficiano di tale ricchezza, non basta guardare agli ostacoli che si frappongono a una forma idealizzata di concorrenza perfetta. Eppure le teorie dominanti a proposito della rendita non si interrogano su come l'estrazione di valore accada - ed è il motivo per cui essa persiste. Per affrontare tali problemi alla radice, dobbiamo chiederci innanzi tutto da dove viene il valore. Che cos'è esattamente che viene estratto? Quali condizioni sociali, economiche e organizzative devono sussistere perché sia prodotto valore? Anche l'uso del termine "rendita" da parte di Stiglitz e di Piketty per analizzare le disuguaglianze sarà influenzato dalla loro idea di che cosa sia il valore e di che cosa rappresenti. La rendita è semplicemente un ostacolo agli scambi sul "libero mercato"? O è grazie alle loro posizioni di potere che alcuni possono avere "redditi non guadagnati" - cioè introiti derivati dallo spostamento di ricchezza esistente anziché dalla creazione di ricchezza nuova? Si tratta di una questione cruciale della quale ci occuperemo nel capitolo 2. | << | < | > | >> |Pagina 9Il valore può essere definito in molti modi, ma sostanzialmente consiste nella produzione di nuovi beni e servizi. Come queste merci vengano prodotte (produzione), come vengano distribuite all'interno dell'economia (distribuzione) e cosa si faccia del profitto che viene creato dalla loro produzione (reinvestimento) sono questioni chiave per definire il valore economico. Un altro punto cruciale è se ciò che viene prodotto sia utile o meno: i beni e i servizi che vengono prodotti aumentano o diminuiscono la resilienza del sistema produttivo? Per esempio, potrebbe darsi il caso di una nuova fabbrica che produce valore sul piano economico, ma che, se inquina tanto da distruggere il sistema circostante, potrebbe non essere considerata affatto produttiva di valore. Con "creazione di valore" intendo i modi in cui tipologie diverse di risorse (umane, fisiche e intangibili) vengono impiegate e interagiscono per produrre nuove merci e servizi. Con "estrazione di valore" intendo le attività che si concentrano sul trasferimento di risorse e prodotti esistenti, e su come guadagnare in maniera sproporzionata dalla loro commercializzazione. Una nota di cautela è importante. Nel libro uso le parole "ricchezza" e "valore" quasi in maniera intercambiabile. Qualcuno, intendendo la ricchezza come un concetto più monetario e il valore come un concetto potenzialmente più sociale, potrebbe obiettare contro questa mia scelta che ad essere qui implicati sono non solo il valore ma i valori. Voglio essere chiara a proposito di come queste due parole vengano usate. Uso "valore" per designare il "processo" attraverso il quale la ricchezza viene creata: si tratta di un flusso. Tale flusso produce inevitabilmente oggetti reali, siano essi tangibili (una pagnotta) o intangibili (nuove conoscenze). La "ricchezza" designa invece uno stock cumulativo del valore già creato. Il libro si concentra sul valore e sulle forze che lo producono, ossia sul processo. Ma riguarda anche i contributi a tale processo, che sono spesso espressi in termini di "chi" sono i creatori di ricchezza. In tal senso le due parole sono utilizzate in modo intercambiabile. | << | < | > | >> |Pagina 18Nei capitoli 1 e 2 mi occupo di come gli economisti, dal diciassettesimo secolo in avanti, abbiano pensato di indirizzare la crescita incrementando le attività produttive e riducendo quelle improduttive, cosa che concettualizzarono a partire da un confine della produzione teorico. Il dibattito sul confine della produzione, e il suo stretto legame con le idee di valore, ha influenzato per secoli le misure della crescita economica da parte dei governi; il confine stesso è mutato, influenzato da condizioni sociali, economiche e politiche mutevoli. Il capitolo 2 considera il cambiamento più grande di tutti. Dalla seconda metà del diciannovesimo secolo in poi, il valore passò da categoria oggettiva a categoria più soggettiva, legata alle preferenze individuali. Le implicazioni di tale rivoluzione furono cataclismatiche. Il confine della produzione in sé ne risultò sfumato, perché quasi tutto quello che poteva avere un prezzo o affermava con successo di creare valore - per esempio la finanza - fu improvvisamente considerato produttivo. Ciò spianò la strada ad una crescente disuguaglianza, indotta dalla capacità di particolari attori economici di rivendicare la loro straordinaria "produttività". Come vedremo nel capitolo 3, che indaga sullo sviluppo della contabilità nazionale, l'idea di confine della produzione continua a influenzare il concetto di prodotto. C'è però una distinzione fondamentale fra questo nuovo confine e i precedenti. Oggi le decisioni su cosa costituisca valore nella contabilità nazionale sono effettuate tenendo conto di diversi elementi: tutto ciò che può essere legalmente prezzato e scambiato; decisioni politiche pragmatiche, ad esempio assecondare la rivoluzione tecnologica nelle industrie di computer o le dimensioni spropositate del settore finanziario; e la necessità pratica di mantenere la contabilità gestibile nel contesto dell'economia moderna, molto vasta e complessa. Tutto questo va bene, ma il fatto che il dibattito sul confine della produzione non sia più esplicito, né apertamente connesso alle idee sul valore, significa che gli operatori economici possono - attraverso insistenti azioni di lobbying - insinuarsi silenziosamente all'interno del confine. Le aziende che estraggono valore vengono poi incluse nel PIL - e pochi se ne accorgono. I capitoli 4, 5 e 6 esaminano il fenomeno della finanziarizzazione: la crescita del settore finanziario e la diffusione di pratiche e attitudini finanziarie all'interno dell'economia reale. Nel capitolo 4 considero l'emergere della finanza come uno dei settori economici principali e il fatto che sia passata dall'essere ritenuta sostanzialmente improduttiva all'essere accettata come largamente produttiva. Ancora negli anni Sessanta, la contabilità nazionale riteneva che l'attività finanziaria non generasse valore ma si limitasse a trasferire valore già esistente, cosa che la collocava al di fuori del confine della produzione. Oggi la concezione è radicalmente mutata. Nella sua configurazione attuale si ritiene che la finanza guadagni profitti dall'offerta di servizi riclassificati come produttivi. Indago come e perché sia avvenuta tale straordinaria ridefinizione, e mi interrogo su come l'intermediazione finanziaria si sia effettivamente trasformata in un'attività intrinsecamente produttiva. Nel capitolo 5 esploro lo sviluppo del "capitalismo dei gestori di patrimoni" (asset manager capitalism): come il settore finanziario si sia espanso oltre le banche per incorporare un numero sempre crescente di intermediari dedicati alla gestione di fondi (il settore di risparmio gestito), e mi chiedo se il ruolo di tali intermediari, e i rischi effettivi che corrono, giustifichino i compensi che ricevono. Così facendo, indago fino a che punto la gestione dei fondi e il private equity abbiano effettivamente contribuito all'economia produttiva. Mi chiedo anche se la riforma del sistema finanziario possa essere affrontata oggi senza un dibattito serio a proposito del fatto che le attività del settore siano classificate correttamente: sono rendite o profitti? come possiamo fare tale distinzione? Se i nostri sistemi di contabilità nazionale stanno davvero considerando l'estrazione di valore come se fosse creazione di valore, allora forse è più facile capire le dinamiche di distruzione di valore che hanno caratterizzato la crisi finanziaria. Basandosi sull'accettazione della finanza come attività produttiva, il capitolo 6 esamina la finanziarizzazione dell'intera economia. Nel cercare un guadagno immediato, la finanza a breve termine ha influenzato l'industria: le aziende sono gestite nel nome della massimizzazione del valore per gli azionisti (MSV, maximizing shareholder value). L'MSV emerse negli anni Settanta come un tentativo di rivitalizzare la performance aziendale, facendo leva su quello che veniva definito il principale scopo dell'azienda: creare valore per gli azionisti. Sosterrò tuttavia che l'MSV è stato dannoso per una crescita economica sostenibile, non da ultimo perché incoraggia il guadagno a breve termine per gli azionisti alle spese di un guadagno a lungo termine per l'impresa - uno sviluppo strettamente connesso alla crescente influenza dei gestori di fondi, che cercano un rendimento per i loro clienti e per sé stessi. Alla base dell'MSV è la teoria secondo la quale gli azionisti sono quelli che prendono maggiori rischi, e che pertanto meritano le cospicue remunerazioni che spesso ottengono. L'assunzione di rischio è spesso la giustificazione per le remunerazioni che gli investitori ricevono, e il capitolo 7 prosegue volgendo l'attenzione ad altri tipi di estrazione di valore, portati avanti nel nome di tale rischio. In tale capitolo considero il tipo di assunzione di rischio necessaria affinché avvenga una radicale innovazione tecnologica. L'innovazione è senza dubbio una delle attività più rischiose e incerte del capitalismo: la maggior parte dei tentativi fallisce. Ma chi si assume il rischio? E quale,sorta di incentivi deve essere creata? Esamino la visione distorta delle narrazioni dominanti in materia di innovazione: come il rischio preso dal settore pubblico sia ignorato, e lo stato sia visto come un soggetto che si limita a facilitare e ridurre il rischio del settore privato. L'esito è stato l'adozione di politiche, fra cui la riforma al sistema dei diritti di proprietà intellettuale (IPR, Intellectual Property Rights), che hanno rafforzato il potere di chi era già sul mercato, limitando l'innovazione e creando una "imprenditorialità improduttiva". Basandomi sul mio libro precedente, Lo Stato innovatore , mostrerò come imprenditori e venture capitalists siano stati elevati ad esempio della parte più dinamica del moderno capitalismo - l'innovazione - e si siano presentati come "creatori di ricchezza". Considererò il mito della creazione di ricchezza per mostrare come, in sostanza, sia falso. Il valore imputato all'innovazione, come accaduto recentemente nel caso delle "piattaforme informatiche" e della "sharing economy", non ha tanto a che fare con l'innovazione in senso genuino quanto con la facilitazione dell'estrazione di valore tramite l'accaparramento di rendite. Riprendendo il mito della falsa innovazione, il capitolo 8 indagherà perché il settore pubblico sia sempre descritto come lento, noioso, burocratico e improduttivo. Da dove viene tale rappresentazione e chi ne trae beneficio? Sosterrò che, nello stesso modo e nello stesso momento in cui la finanza fu resa produttiva, il settore pubblico fu presentato come improduttivo. Il pensiero economico moderno ha relegato il governo a rimediare semplicemente ai fallimenti del mercato piuttosto che creare e regolare attivamente í mercati. Il ruolo di creatore di valore del settore pubblico - è la mia tesi - è stato sottovalutato. L'opinione predominante, che ha avuto origine con la reazione contro lo stato negli anni Ottanta, influenza in maniera decisiva la visione che lo stato ha di sé: esitante, cauto nello "scegliere i vincitori", attento a non eccedere per non essere accusato di togliere spazio all'innovazione, o di favoritismi. Nel mettere in discussione il fatto che le attività del settore pubblico siano escluse dal calcolo del PIL, mi chiedo perché ciò sia rilevante, e indago su come potrebbe essere una diversa visione del valore pubblico. È solo con un dibattito aperto sul valore, sulle sue origini e sulle condizioni che lo favoriscono, concludo nel capitolo 9, che possiamo aiutare a guidare le nostre economie in una direzione che produrrà un'innovazione più genuina e meno diseguaglianza, e che trasformerà altresì la finanza in un settore che sia davvero impegnato nella promozione della creazione di valore nell'economia reale. Non è sufficiente criticare la speculazione e l'estrazione di valore a breve termine, e sostenere un sistema di tasse più progressivo, che colpisca la ricchezza. Dobbiamo iscrivere tali critiche in un differente discorso sulla creazione di valore, altrimenti i programmi di riforma continueranno ad avere effetti minimi e saranno facilmente osteggiati dalle lobby dei cosiddetti "creatori di ricchezza". Questo libro non cerca di sostenere una corretta teoria del valore. Vuole piuttosto riportare in auge la teoria del valore come tema di dibattito scottante, rilevante per i tempi turbolenti dell'economia in cui ci troviamo. Il valore non è qualcosa di determinato, inequivocabilmente all'interno o all'esterno del confine della produzione; esso viene modellato e creato. Oggi, a mio parere, la finanza non promuove l'industria della quale dovrebbe "oliare" gli ingranaggi del commercio, ma piuttosto altre parti del settore finanziario stesso. Si trova dunque al di fuori del confine della produzione, anche se formalmente si ritiene che stia al suo interno. Ma non deve essere così per forza: possiamo modellare mercati finanziari in modo che rientrino a tutti gli effetti all'interno del confine. Ciò implicherebbe sia nuove istituzioni finanziarie dedicate a dare credito alle organizzazioni interessate a investimenti a lungo termine che possono aiutare a sostenere un'economia più innovativa, sia un cambiamento nel regime fiscale che ricompensi investimenti a lungo termine rispetto a quelli a breve termine. Allo stesso modo, come sostengo nel capitolo 7, un cambiamento nell'uso dei brevetti, attualmente inutile, potrebbe aiutarli a stimolare l'innovazione, anziché reprimerla. Per creare un'economia più equa, una in cui la prosperità è condivisa in maniera più diffusa ed è perciò più sostenibile, dobbiamo riaccendere una discussione seria sulla natura e l'origine del valore. Dobbiamo riconsiderare il modo in cui raccontiamo chi sono i creatori di valore, e come distinguiamo le aziende fra economicamente produttive o improduttive. Non possiamo limitare la politica progressista alla tassazione della ricchezza, ma abbiamo bisogno di riattivare il dibattito per giungere a una nuova comprensione della creazione di valore, in modo che sia soggetta a una competizione più aperta e più serrata. Le parole sono importanti: abbiamo bisogno di un nuovo vocabolario politico. Fare politica non significa semplicemente "intervenire". Significa dare forma a un futuro diverso: co-creare mercati e valore, non semplicemente "aggiustare" mercati e ridistribuire valore. Significa correre rischi in proprio, non semplicemente ridurre i rischi degli altri. E non richiede di appianare il terreno di gioco, ma di inclinarlo verso il tipo di economia che vogliamo. L'idea di poter modellare il mercato ha conseguenze importanti. Possiamo creare un'economia migliore se capiamo che i mercati sono il prodotto delle decisioni che prendiamo - nell'attività d'impresa, nelle organizzazioni pubbliche e nella società civile. La giornata lavorativa di otto ore ha dato una forma al mercato; ed è stata il risultato di una lotta portata avanti dalle organizzazioni sindacali. E forse il motivo per cui c'è tanta disperazione nel mondo - una disperazione che ora sta portando a una politica populista - è che l'economia ci viene presentata semplicemente come "fatta" da regole commerciali, tecnocrati e forze neoliberali. Infatti, come dimostrerà il libro, la teoria del "valore" stessa viene presentata come una sorta di forza oggettiva determinata da domanda e offerta, piuttosto che come l'esito di un modo particolare di vedere il mondo. L'economia può certo essere costruita e modellata - ma tutto ciò può essere fatto nella paura o nella speranza. La sfida particolare che io lancio è quella di andare oltre il cinico di Oscar Wilde, che conosce il prezzo di tutto e il valore di niente, verso un'economia della speranza, dove siamo meglio preparati a mettere in discussione le assunzioni della teoria economica e il modo in cui ci vengono presentate. E a scegliere un cammino diverso fra i molti disponibili. | << | < | > | >> |Pagina 153Dagli anni Ottanta in avanti il settore finanziario si lanciò nella missione di convincere i governi della sua produttività. Nella mentalità dei politici, la finanza era diventata un'industria sempre più produttiva, un'idea che essi erano desiderosi di trasmettere al pubblico.Per quanto strano possa sembrare adesso, i politici ignorarono in gran parte i pericoli delle turbolenze finanziarie. Solo pochi anni dopo il suo discorso alla Mansion House nel 2004, nel quale aveva fatto uno stupendo elogio alla produttività della élite finanziaria della City of London, il laburista Gordon Brown, all'epoca Cancelliere dello Scacchiere, diede voce alla hybris che finanzieri, regolatori, politici e molti economisti condividevano quando l'economia era ancora apparentemente sana. Nel budget 2007, pochi mesi prima che i segni dell'imminente crollo apparissero all'orizzonte, egli dichiarò solennemente (e non per la prima volta): "Non ritorneremo al solito ciclo di boom e crisi". Come poté Brown - al pari di molti altri - sbagliarsi tanto clamorosamente? Il motivo del catastrofico errore di valutazione sta nell'aver trascurato un fattore cruciale: la distinzione tra "prezzo e valore" che nei decenni precedenti era stata persa di vista. La rivoluzione marginalista che aveva scambiato la teoria del valore vecchia di secoli per una teoria del prezzo aveva rivelato l'intrinseca tautologia del marginalismo: la finanza ha valore perché ha un prezzo, e i suoi straordinari profitti sono la prova di quel valore. Perciò, quando arrivò la crisi finanziaria globale del 2007, essa spazzò via l'ideologia che aveva sostenuto la finanziarizzazione sopra ogni cosa. Tuttavia, la crisi non cambiò in maniera sostanziale il modo in cui il settore è valutato: due anni dopo il capo di Goldman Sachs aveva la faccia tosta di dichiarare che i suoi banchieri erano i più produttivi del mondo. Il fatto che ex dirigenti di Goldman Sachs abbondino sia nell'amministrazione di Obama sia in quella di Trump dimostra il potere di cui gode il "mito" a proposito del valore creato da Goldman Sachs presso tutto il mondo politico a prescindere dal partito. | << | < | > | >> |Pagina 174La gestione dei patrimoni è diventata una delle caratteristiche distintive del moderno capitalismo. Se non altro, le sue dimensioni e la sua importanza cruciale per la sicurezza finanziaria di molti milioni di persone, hanno dato alla gestione finanziaria questo potere. Ma è altrettanto importante che molte delle sue attività estraggano valore invece di crearlo. I mercati finanziari distribuiscono semplicemente i redditi creati altrove e non contribuiscono a crearlo. La ricerca dell'alpha - selezionando e dando maggiore o minor peso alle azioni in modo da battere l'indice - è essenzialmente un gioco che produrrà tanti vincitori quanti perdenti. Questa è la ragione per cui i fondi attivi spesso hanno risultati inferiori ai fondi passivi. Gran parte della gestione dei fondi è una massiccia ricerca di rendite che avrebbe fatto alzare le sopracciglia agli economisti classici. Una riforma non è impossibile. La regolamentazione finanziaria può essere usata per premiare l'investimento a lungo termine e anche portare la finanza a servire l'economia reale, anziché nutrire sé stessa. Infatti, lo scopo della tassa sulle transazioni finanziarie - che attende ancora di essere implementata - è precisamente quello di premiare gli investimenti a lungo termine rispetto alle transazioni effettuate in un millisecondo. Inoltre, le commissioni dei gestori di fondi dovrebbero riflettere la reale creazione di valore, e non la strategia "buy, strip, and flip" ("comprare, frazionare e rivendere"), comune nel PE, o il modello di commissioni "2 più 20" comune al PE, VC e hedge funds. Se le commissioni riflettessero più accuratamente i rischi assunti (o non assunti, come i grandi investimenti fatti con soldi pubblici che spesso precedono l'ingresso dei venture capitalists), la percentuale dei profitti realizzati e non realizzati sarebbe inferiore alla normale commissione del 20%. Non sostengo che gli operatori finanziari non dovrebbero essere remunerati o che non creino valore: ma che gli sforzi collettivi nel meccanismo della creazione di valore dovrebbero riflettersi in una più giusta ripartizione degli utili. Questo concetto è legato all'idea di Keynes della "socializzazione dell'investimento". Egli sosteneva che l'economia poteva crescere ed essere più stabile, e quindi garantire pieno impiego, se s'incrementava la quantità e la qualità dell'investimento pubblico. Egli intendeva che finanziare investimenti in infrastrutture e innovazione (ossia nello sviluppo del capitale) dovrebbe essere fatto da enti pubblici, banche pubbliche o cooperative che indirizzano i fondi pubblici verso lo sviluppo a medio-lungo termine piuttosto che verso rendimenti a breve termine. Ma la ricerca di rendite non è limitata al settore finanziario. Ha contagiato anche industrie non finanziarie - a causa delle pressioni che la redditività del settore finanziario, ampliata dal potere monopolistico e dalle garanzie pubbliche implicite, esercitano sulla gestione delle imprese non finanziarie. Se gli investitori possono aspettarsi un certo rendimento mettendo i loro soldi in un fondo, dividendo i rischi in un ampio ventaglio di strumenti, essi investiranno i loro soldi in un singolo progetto industriale solo se può offrire un rendimento molto più alto. Il rendimento sugli investimenti del settore finanziario fissa un tasso minimo per i rendimenti degli investimenti fissi "reali», un minimo che aumenta via via che le operazioni finanziarie diventano più redditizie. Le società non finanziarie che non riescono a battere i rendimenti degli investitori finanziari sono costrette a imitarli, con la "finanziarizzazione" delle loro attività di produzione e distribuzione. | << | < | > | >> |Pagina 203Remunerazioni alle stelle per pochi fortunati hanno ampliato le divisioni sociali e aumentato le diseguaglianze in gran parte del mondo occidentale, specie negli Stati Uniti, la patria della finanziarizzazione. Questo stato di cose può essere - ed è - contestato per motivi morali. Le diseguaglianze rivelano quello che pensiamo di milioni di nostri simili. Tuttavia la questione economica dell'estrazione di valore non è la regola. Come abbiamo visto, in un'economia capitalista qualche tipo di rendita è necessaria; c'è un prezzo inevitabile da pagare per mantenere la circolazione del capitale nel sistema economico. Ma le dimensioni del settore finanziario e della finanziarizzazione in generale hanno aumentato l'estrazione di valore a un punto che ci spinge a chiederci: dove viene creato il valore e dove viene estratto e perfino distrutto? E come possiamo reindirizzare l'economia da un'eccessiva finanziarizzaziong verso una vera creazione di valore? Proposte come tassare i redditi più alti e le ingenti ricchezze possono curare alcuni sintomi dell'eccesso di finanza. Ma non ne curano le cause, che si trovano in profondità in un sistema di estrazione di valore che è cresciuto negli ultimi quarant'anni. Se l'obiettivo è la crescita a lungo termine, il settore privato deve essere premiato quando prende decisioni che puntano al lungo termine anziché al breve termine. Mentre alcune società si concentrano sull'aumento del prezzo delle azioni attraverso il riacquisto di azioni proprie, mirato ad accrescere il prezzo delle azioni e quindi delle opzioni (con le quali vengono pagati gli alti dirigenti), altre fanno la scelta difficile di aumentare la formazione dei lavoratori, introdurre nuove e rischiose tecnologie, fare investimenti in ricerca e sviluppo che possono portare, con un po' di fortuna, a nuove tecnologie, ma più probabilmente a niente. Le imprese dovrebbero essere premiate quando vanno in quest'ultima direzione più che nella precedente. Le retribuzioni dei dirigenti dovrebbero essere controllate con l'intesa che ci sono molti altri portatori d'interessi che sono importanti per la creazione di valore, dai lavoratori allo stato, ai movimenti della società civile. Reinvestire gli utili nell'economia reale - anziché accumularli o impiegarli in riacquisto di azioni - dovrebbe essere una condizione per qualsiasi tipo di aiuto pubblico, sia tramite sussidi sia tramite contributi o prestiti dello stato. La studiosa britannico-venezuelana Carlota Perez ha sostenuto che la scollatura della finanza dall'economia reale non è "naturale" ma un artefatto della deregolamentazione e dell'eccesso di fiducia nel potere del libero mercato. Il suo lavoro pionieristico ha identificato un modello d'intensa finanziarizzazione seguita dal suo contrario in ciascuna rivoluzione tecnologica. Essa dimostra che i primi decenni di ciascuna delle cinque rivoluzioni avvenute finora (dalla macchina a vapore alla rivoluzione informatica) sono stati tempi di euforia finanziaria e diseguaglianza crescente. Ma dopo lo scoppio della bolla finanziaria, e la conseguente recessione e turbolenza sociale, i governi hanno avuto la tendenza a contenere la finanza e a promuovere l'espansione della produzione, beneficiando la società nel suo complesso e facendo sì che la finanza serva il suo vero scopo. Però se i governi non intervengono e non fanno la loro parte, la finanziarizzazione può non avere fine. | << | < | > | >> |Pagina 243È difficile immaginare la crescita economica senza l'innovazione. Ma l'innovazione deve essere adeguatamente governata per far sì che il prodotto e il modo di produrre portino alla creazione di valore e non a espedienti per l'appropriazione di valore. Perciò occorre fare attenzione sia alla velocità sia alla direzione dell'innovazione (che cosa si produce), nonché agli accordi che sono stipulati tra i diversi creatori di quel nuovo valore. In primo luogo, è fondamentale capire che l'innovazione non è un concetto neutro. Può essere usata per diversi scopi, nello stesso modo in cui un martello può essere usato per costruire una casa o come un'arma. La stessa rivoluzione dei big data può andare in entrambi i sensi. Può essere un modo per cui i dati pubblici (sulla salute, sull'uso dell'energia, sulle preferenze di acquisto) servono a profitti privati, o può essere usata per migliorare i servizi per i consumatori e i cittadini. In questo processo la cittadinanza non dovrebbe essere confusa con il fatto di essere clienti. Come cittadini, abbiamo il diritto di beneficiare delle opportunità che l'innovazione ci presenta, di fare uso dello spazio pubblico, di poter contestare l'autorità, e condividere esperienze e gusti senza che essi finiscano in un sito web o in una banca dati. In questo senso sono importanti i movimenti per un'innovazione "inclusiva", perché si concentrano su chi è coinvolto nel prevedere il cambiamento e trarne profitto. In secondo luogo, l'innovazione ha sia una velocità sia una direzione. Un dibattito democratico sulla direzione è importante quanto quelli sul tasso di crescita - ed è cruciale per capire le molte strade che l'innovazione può prendere, e come la politica la possa influenzare. L'ipotesi è che la politica dovrebbe "livellare il campo di gioco". Ma per raggiungere una crescita guidata dall'innovazione o un'innovazione di un tipo particolare (innovazione verde) non si richiede di livellare il campo ma di ribaltarlo. Inoltre, ciò richiede non solo una differente politica ma anche una differente struttura organizzativa: la capacità di esplorare, sperimentare e prendere decisioni strategiche nel settore pubblico. Questa capacità è stata centrale per le organizzazioni che hanno favorito alcune delle più radicali innovazioni del nostro tempo, da internet al GPS al fracking. Si deve discutere ancora di più su come usare l'innovazione orientata a una missione per affrontare le grandi sfide sociali e tecnologiche, come il cambiamento climatico o l'assistenza sociale. Come la rivoluzione informatica è stata scelta e guidata, possiamo scegliere e guidare il verde e l'assistenza come nuove strade per l'innovazione. Ciò non significa dettare dall'alto che cosa debba essere prodotto, e quali attori siano "produttivi" e come ognuno si debba comportare. Richiede, invece, nuovi tipi di contratto tra attori pubblici e privati (e anche tra il terzo settore e la società civile) in modo da favorire relazioni simbiotiche, condividendo gli investimenti necessari per riconvertire l'economia in una direzione che non implichi un alto contenuto di materiale ed energia basata sui combustibili fossili. C'è molto da imparare da investimenti "orientati a una missione", come andare sulla luna. Fare in modo che la terra rimanga abitabile richiede la stessa ambizione, organizzazione, pianificazione, sperimentazione dal basso verso l'alto, condivisione del rischio tra pubblico e privato, e senso di scopo e di urgenza come nel progetto Apollo. Ma è anche vero che siccome questi investimenti sono trasformazionali, ci dovrebbe essere più dibattito sul perché alcune tecnologie siano perseguite, e come siano utilizzate. È curioso, ad esempio, che ci sia stato così poco dibattito sul fracking - che è stato finanziato dal governo - finché non è stato messo in atto. In terzo luogo, come abbiamo rilevato nel paragrafo precedente, l'innovazione è prodotta in modo collettivo, e quindi i benefici dovrebbero essere divisi in modo collettivo. Il ragionamento profondamente sbagliato sui prezzi dei farmaci, sui brevetti e sulle dinamiche dei big data è un buon esempio di come un approccio confuso e fuorviante al concetto di valore può essere costoso, permettendo a grandi monopoli di ottenere enormi rendite a spese della società. Ma non deve essere così se ragioniamo in modo radicale. I brevetti stessi non dovrebbero essere visti come "diritti" di proprietà intellettuale, ma piuttosto come uno strumento con il quale promuovere l'innovazione nei settori dove sono rilevanti, e tuttavia in modo che anche il settore pubblico ottenga il suo ritorno; i prezzi dei farmaci potrebbero diventare "più equi", così da riflettere il contributo collettivo di diversi attori e rendere il sistema sanitario sostenibile. La sharing economy non sarebbe basata sulla capacità di poche società di usare gratis l'infrastruttura pubblica e le dinamiche delle economie della rete per monopolizzare il mercato. Una vera economia condivisa deve per definizione rispettare i guadagni duramente conquistati di tutti i lavoratori, indipendentemente dalla razza, dal genere e dalla capacità. La giornata di lavoro di otto ore, il week-end, le vacanze pagate e il congedo per malattia per cui si sono battuti i movimenti dei lavoratori e i sindacati non erano innovazioni economiche meno importanti degli antibiotici, dei microchip e di internet. In un tempo in cui gli utili sono accumulati a livelli record, è importante capire perché vi sono stati accordi affinché il business reinvestisse gli utili invece di accumularli. La risposta è un governo fiducioso e capace, che ha realizzato la sua capacità di investire in opportunità tecnologiche e, cosa altrettanto importante, di definire il paesaggio da esse creato. I monopoli come i brevetti sono contratti che devono essere negoziati. Una parte (l'impresa) riceve una protezione per i propri utili, l'altra parte (il governo) riceve dei benefici per il pubblico, tramite costi e prezzi minori (per le economie di scala), la diffusione dell'innovazione (per il modo in cui i brevetti divulgano l'informazione), o tramite il reinvestimento degli utili in specifiche aree che sono considerate benefiche per la crescita, in questo caso l'innovazione. I paesi in via di sviluppo sono usi fare tali accordi per gli investimenti esteri: vieni e utilizza le nostre risorse a patto che tu reinvesta in questo luogo in modo che ne abbiamo un beneficio. Ma negoziazioni di questo tipo sono ampiamente assenti nel moderno capitalismo occidentale. Come i governi hanno permesso alle società di usare i brevetti per imprese improduttive anziché produttive, hanno anche permesso alle società di sospendere il reinvestimento degli utili. Questo sarebbe giusto (forse) se quegli utili fossero dovuti alla loro attività, indipendentemente dai fondi pubblici. Ma, come ho dimostrato in tutto questo capitolo, la tecnologia e le reti sottostanti sono state prodotte in modo collettivo. Dovrebbero essere quindi negoziate in modo collettivo. Un argomento decisivo dietro tutte queste considerazioni è il contributo del governo alla crescita economica: il valore pubblico. Perché nessun economista nella storia vi ha mai fatto riferimento? E, cosa ancor più importante, perché i governi hanno ora perso fiducia nel lottare per il valore pubblico, mentre prima limitavano l'ampiezza dei brevetti o facevano pressioni sui monopoli per il reinvestimento degli utili? Ci occuperemo di questi problemi nel prossimo capitolo. | << | < | > | >> |Pagina 282Una volta riconosciuto che lo stato non è solo una fonte di spese ma uno che investe e assume rischi, diventa del tutto ragionevole assicurarsi che la politica porti alla socializzazione non solo dei rischi ma anche delle ricompense. Un miglior riallineamento tra rischi e ricompense, tra pubblico e privato, può trasformare una crescita brillante e innovativa in una crescita inclusiva. Come abbiamo visto, la teoria neoclassica del valore per lo più non comprende il valore creato dallo stato, come la manodopera qualificata, il capitale umano e la tecnologia che finisce nei nostri prodotti intelligenti. Nella microeconomia - lo studio della produzione - lo stato viene ignorato eccetto che per la sua funzione di regolazione dei prezzi degli input e degli output. Ha un ruolo più grande nella macroeconomia, che si occupa dell'economia nel suo complesso, ma nel migliore dei casi per redistribuire la ricchezza creata dalle società e per creare le condizioni favorevoli di cui le aziende hanno bisogno - infrastrutture, educazione, competenze e così via. La teoria marginalista ha favorito l'idea che il valore prodotto in modo collettivo derivi da contributi individuali. Tuttavia, come disse l'economista americano George Akerlof, che vinse il premio Nobel per l'economia nel 2001: "I nostri prodotti marginali non sono solo nostri" - sono il frutto di un processo cumulativo di apprendimento e d'investimento. La creazione di valore collettivo comporta un settore pubblico che prende rischi - e tuttavia l'usuale rapporto tra rischi e ricompense, come insegnato nelle classi di economia, non sembra applicarsi. Quindi la questione cruciale non è solo di tenere conto del valore dello stato ma di retribuirlo: come dovrebbero essere divisi tra pubblico e privato i ritorni sugli investimenti? Come ha dimostrato Robert Solow, gran parte degli aumenti di produttività della prima metà del ventesimo secolo può essere attribuita non al lavoro e al capitale ma al progresso tecnico. E questo è dovuto non solo alla migliorata istruzione e infrastruttura, ma anche, come abbiamo discusso nel capitolo precedente, agli sforzi collettivi dietro ad alcuni dei più radicali progressi tecnici in cui il settore pubblico ha storicamente avuto un ruolo da protagonista - "lo stato imprenditore". Ma la socializzazione dei rischi non è stata accompagnata dalla socializzazione delle ricompense. La questione, allora, è come lo stato può ottenere utili dai suoi investimenti di successo (i "vantaggi") per coprire le inevitabile perdite (gli "svantaggi") - non ultimo, per finanziare la prossima fase d'investimenti. Questo può essere fatto in diversi modi, come abbiamo visto nel capitolo 7, tramite il possesso del capitale, l'imposizione di condizioni sul reinvestimento, di limiti sui prezzi o la riduzione della durata dei brevetti. | << | < | > | >> |Pagina 283In questo capitolo abbiamo esaminato il modo sbagliato in cui è vista l'attività pubblica in economia. Il ruolo dello stato è spesso limitato a "sistemare i problemi"; non deve allargarsi, i fallimenti dello stato sono considerati peggiori dei fallimenti del mercato. Dovrebbe avere un tocco leggero sulla guida dell'economia e stabilire le basi investendo in aree come la formazione, l'istruzione e la ricerca, ma non spingersi a produrre niente. E anche se lo stato fosse produttivo, come lo sono le imprese statali, nel nostro modo di contabilizzare il PIL non è riconosciuto come produzione pubblica. In realtà, quasi nulla di ciò che realizza lo stato è considerato interno ai confini della produzione. La spesa statale è vista puramente come spesa e non come investimento produttivo. Mentre tale spesa può essere considerata da alcuni come socialmente necessaria e da altri come inutile e meglio se fatta dal settore privato, nessuno ha sostenuto con forza che l'attività statale potesse essere produttiva e essenziale per creare una dinamica economica capitalistica. Troppo spesso l'ideologia ha vinto sull'esperienza. Keynes fu decisivo nel mostrare il ruolo dinamico della spesa pubblica nel creare un effetto moltiplicatore che può portare a una crescita più alta. Tuttavia è ancora aperto il dibattito se il moltiplicatore esista davvero, e i sostenitori di uno stimolo economico da parte dello stato sono spesso sulla difensiva. Una parte del problema è che gli argomenti in favore della spesa fiscale rimangono legati principalmente al controllo del ciclo economico (attraverso misure anti-cicliche), con scarso pensiero creativo su come dirigere a lungo termine l'economia. È importante specialmente ripensare la terminologia con la quale parliamo dello stato. Dipingere lo stato come un più attivo creatore di valore - che investe, non solo spende, e che ha il diritto di ottenere un tasso di rendimento - può insomma modificare l'opinione e il comportamento. Troppo spesso gli stati si vedono solo come "facilitatori" di un sistema di mercato, invece di co-creatori della ricchezza e dei mercati. E, ironicamente, questo produce esattamente íl tipo di stato che i critici amano colpire: debole e apparentemente "business-friendly" (ossia favorevole all'impresa), ma aperto alla rapina e alla corruzione, che privatizza parti dell'economia che dovrebbero creare beni pubblici e collettivi. Un nuovo discorso sul valore, quindi, non dovrebbe semplicemente invertire la preferenza per il settore privato rispetto a quello pubblico. Ciò che serve è una nuova e profonda comprensione del valore pubblico, un'espressione che si trova in filosofia ma è quasi scomparsa dal pensiero economico odierno. Questo valore non è creato esclusivamente all'interno o all'esterno del mercato del settore privato, ma piuttosto da una società intera; è anche un obiettivo che può essere utilizzato per dare forma ai mercati. Una volta che la nozione di valore pubblico è compresa e accettata, è urgente una rivalutazione - dell'idea di pubblico e di privato e della natura stessa del valore. "I valori pubblici sono quelli che forniscono un consenso normativo su 1) i diritti, i benefici e le prerogative che dovrebbero essere (o non essere) riconosciuti ai cittadini; 2) gli obblighi dei cittadini verso la società, verso lo stato e l'uno verso l'altro; 3) e i principi sui quali gli stati e le politiche dovrebbero basarsi". L'idea del valore pubblico è più ampia del popolare termine corrente "bene pubblico". Quest'ultima espressione tende a essere usata in modo negativo, per limitare il concetto di quello che gli stati possono fare, anziché per stimolare l'immaginazione a trovare i modi migliori per affrontare le sfide del futuro. Così, per esempio, si pensa che la TV statale BBC serva il bene pubblico quando trasmette documentari sulle giraffe in Africa, ma è messa in discussione se fa soap opera o talk show. Le agenzie di stato possono spesso finanziare la scienza di base per le "esternalità positive", ma non le sue relative applicazioni. Le banche pubbliche possono fare prestiti anti-ciclici, ma non possono indirizzare la loro attività a settori socialmente validi come l'economia verde. Queste distinzioni arbitrarie riflettono una visione ristretta dell'economia che spesso fa sì che il pubblico sia accusato di "spiazzare" il privato - o, ancora peggio, di addentrarsi nelle acque pericolose della "scelta dei vincitori": lo stato deve fare solo quello che il settore privato non vuole fare, anziché avere una sua visione di un futuro desiderabile e realizzabile. Le istituzioni pubbliche possono pretendere il loro giusto ruolo di servitori del bene comune. | << | < | > | >> |Pagina 286Il lavoro di Elinor Ostrom (1933-2012), un'economista della Indiana University che ricevette il premio Nobel nel 2009, aiuta a chiarire la ricchezza del modo in cui nuovi metri di valutazione possono influenzare il comportamento e viceversa, disinnescando il conflitto tra lo stato e il mercato. La Ostrom mostra come la divisione netta pubblico-privato che domina il pensiero attuale non riesce a descrivere la complessità di strutture e relazioni istituzionali - dalle agenzie di regolamentazione alle università statali ai progetti di ricerca promossi dallo stato - che attraversano questa divisione. Ella sottolinea, invece, le risorse messe in comune e la formazione di sistemi che tengono conto del collettivo. Il lavoro della Ostrom rafforza la storica conclusione di Polanyi nella Grande trasformazione: il governo, assieme a molte istituzioni e tradizioni della società, è la culla in cui vengono nutriti i mercati, e poi il genitore che li aiuta a servire il bene comune. Una responsabilità vitale dello stato nell'economia moderna - che la Ostrom trova anche in ricche economie preindustriali - è di limitare l'ammontare della rendita che emerge da ogni approccio non collettivo alla creazione di valore. Questo ci riporta alla definizione di Adam Smith del "libero mercato" come mercato libero dalla rendita. Oggi, questo modo di pensare può notevolmente giovare a molte importanti istituzioni che non sono né interamente pubbliche né interamente private. Le università potrebbero promuovere la ricerca del sapere, senza preoccuparsi di generare immediatamente brevetti redditizi e spin-off imprenditoriali. Istituti di ricerche mediche potrebbero ricevere forti finanziamenti, con molta meno pressione di attirare l'attenzione. I think tank potrebbero ignorare l'influenza delle lobby, una volta che il loro lavoro fosse visto come portatore di valori comuni. E le cooperative, le società mutualistiche e le organizzazioni non profit potrebbero prosperare senza dover decidere da che parte stare nella grande divisione tra pubblico e privato. In questo nuovo discorso, non si parlerebbe certamente più del settore pubblico che interferisce o salva quello privato. Sarebbe invece ampiamente accettato che i due settori, e tutte le istituzioni, si sostengano e si rafforzino reciprocamente nella ricerca dell'obiettivo comune della creazione di valore economico. L'influenza reciproca dei settori sarebbe meno segnata dall'ostilità e più infusa di mutuo rispetto. Una volta raddrizzata la storia sulla creazione di valore, i cambiamenti possono incoraggiare le istituzioni private come i loro partner pubblici. Il settore privato può essere trasformato grazie al semplice ma profondo accorgimento di rimpiazzare il valore per gli azionisti (shareholder value) con il valore per i portatori di interessi (stakeholder value). Quest'idea è circolata per decenni, gran parte dei paesi continua ad avere società guidate dal valore per gli azionisti, concentrate sulla massimizzazione degli utili trimestrali. Il valore per i portatori di interessi riconosce che le società non sono realmente l'esclusiva proprietà privata di un gruppo di capitalisti. Come enti sociali, le società devono tenere conto del bene degli impiegati, dei clienti e dei fornitori. Esse traggono beneficio dalla comune eredità culturale e intellettuale delle società in cui sono inserite e dagli ordinamenti dello stato di diritto, per non parlare della formazione, pagata dallo stato, di manodopera qualificata e di ricerca preziosa; in cambio, esse dovrebbero fornire benefici a tutti questi gruppi. Naturalmente non vi sono facili equilibri, ma una vivace discussione è preferibile alla pratica corrente di massimizzare gli utili per gli azionisti. Infatti, la presenza di cooperative gestite secondo un approccio di creazione di valore per i portatori di interessi, come John Lewis nel Regno Unito o Mondragon in Spagna, dovrebbe fornire l'evidenza che c'è più di un modo di gestire una società. E gli stati che vogliono raggiungere una crescita guidata dall'innovazione dovrebbero chiedersi se gli impiegati siano più disposti a condividere una grande idea in un'impresa in cui sono valorizzati, o in quelle in cui sono semplici appendici di una macchina che produce utili che vengono poi dirottati verso pochi azionisti. Non è un compito facile, ma non si comincerà nemmeno senza un nuovo approccio che ponga tutti gli attori al centro del processo collettivo della creazione di valore. In conclusione, è solo pensando in grande e in modo differente che lo stato può creare valore - e speranza. | << | < | > | >> |Pagina 289La crisi finanziaria globale, che è iniziata nel 2008 e continuerà ad avere ripercussioni in tutto il mondo ancora per anni, ha scatenato una miriade di critiche del moderno sistema capitalistico: è troppo "speculativo"; ricompensa i "cercatori di rendite" anziché í "creatori di ricchezza"; e ha consentito la rapida crescita della finanza, permettendo che gli scambi speculativi di attività finanziarie fossero retribuiti più degli investimenti che portano a nuove attività reali e alla creazione di posti di lavoro. I dibattiti su una crescita non sostenibile sono diventati più forti, con preoccupazioni non solo sul tasso di crescita ma anche sulla sua direzione. Una riforma seria di questo sistema "disfunzionale" include una varietà di rimedi, come rendere il settore finanziario più concentrato su investimenti a lungo termine; cambiare la struttura di governo delle imprese in modo che esse siano meno attente al prezzo delle azioni e ai risultati trimestrali; tassare più pesantemente veloci operazioni speculative; limitare gli eccessi nelle retribuzioni degli alti dirigenti. In questo libro, ho sostenuto che tali critiche sono importanti ma rimarranno impotenti - nel portare a una riforma reale del sistema economico - finché non saranno saldamente inserite in un dibattito sui processi tramite i quali viene creato il valore economico. Non è abbastanza discutere di una minore estrazione di valore e di una maggior creazione di valore. Prima di tutto il "valore", un termine che un tempo era al cuore del pensiero economico, deve essere rivisitato e meglio compreso. Il valore è passato dall'essere una categoria centrale della teoria economica, legata alle dinamiche della produzione (la divisione del lavoro, i costi variabili della produzione), a una categoria "soggettiva" legata alle "preferenze" di agenti economici. Molti mali, come gli stipendi reali stagnanti, sono interpretati in termini delle "scelte" fatte da particolari agenti del sistema, per esempio la disoccupazione è vista come esito della scelta dei lavoratori tra lavoro e tempo libero. E lo spirito imprenditoriale - il motore apprezzato del capitalismo - è visto come il risultato di scelte individuali anziché del sistema produttivo che circonda gli imprenditori - o, per dirla in altro modo, il frutto di uno sforzo collettivo. Allo, stesso tempo, il prezzo è diventato l'indicatore del valore: se una merce è comprata e venduta sul mercato, deve avere un valore. Così, invece di una teoria del valore che determina il prezzo, abbiamo una teoria del prezzo che determina il valore. Insieme a questo cambiamento fondamentale nell'idea del valore, ha preso piede una differente storia. Focalizzata sui creatori di ricchezza, sull'assunzione di rischi e sull'imprenditorialità, questa storia è penetrata nel discorso politico e in quello pubblico. È talmente dominante oggi che perfino "i progressisti" che criticano il sistema a volte la condividono involontariamente. Quando il Partito Laburista del Regno Unito perse le elezioni nel 2015, i capi del partito dichiararono di aver perso perché non avevano accolto i "creatori di ricchezza". E chi pensavano fossero i creatori di ricchezza? Le imprese e gli imprenditori che le guidavano. Alimentando l'idea che il valore è creato nel settore privato e redistribuito dal settore pubblico. Ma come può un partito che nel suo nome ha la parola "lavoro" non vedere che i lavoratori e lo stato sono egualmente parti vitali del processo di creazione di valore? Tali ipotesi sull'origine della ricchezza sono diventate radicate, e sono rimaste incontrastate. Di conseguenza, quelli che pretendono di essere creatori di ricchezza hanno monopolizzato l'attenzione degli stati con l'usurato mantra: dateci meno tasse, meno regole, meno stato e più mercato. Perdendo la capacità di riconoscere la differenza tra creazione di valore e estrazione di valore, abbiamo reso più facile ad alcuni di chiamarsi creatori di valore quando invece estraggono valore. Capire come i miti della creazione di valore sono intorno a noi dappertutto - anche se non lo è l'effettiva creazione di valore - è una delle principali preoccupazioni di questo libro, ed è essenziale per la possibilità futura di sopravvivenza del capitalismo.
Per un reale cambiamento dobbiamo andare oltre i singoli problemi e
sviluppare uno scenario che ci permetta di plasmare un nuovo
tipo di economia: una che lavorerà per il bene comune. Il cambiamento deve
essere profondo. Non è abbastanza ridefinire il PIL per
comprendere indicatori della qualità della vita, incluse misure della
felicità, il valore implicito del lavoro non pagato per la cura del prossimo, e
l'informazione, l'istruzione, la comunicazione gratuite via internet. Non è
neppure abbastanza tassare la ricchezza. Mentre tali
misure sono importanti, non affrontano la sfida più grande: definire e
misurare il contributo collettivo alla creazione di ricchezza, in modo
che sia meno facile per l'estrazione di valore passare per creazione di
valore. Come abbiamo visto, l'idea che il prezzo determini il valore e
che i mercati siano i più bravi a determinare i prezzi ha ogni specie di
nefaste conseguenze.
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