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| << | < | > | >> |Indice7 Prefazione 11 1. Attrazioni attorno al Mount St. Helens 27 2. Ancora in attesa con Apollo 17 47 3. Vicinati neurali e altri astratti concreti 69 4. Immaginare un campo di crescita: scienza al centro, azione a distanza 85 5. 11 settembre: emersioni 114 6. Sette libri Sigfried Giedion, Space, Time and Architecture; Italo Calvino, Le città invisibili; Uwe Johnson, Das dritte Buch über Achim; Samuel Beckett, Le Dépeupleur; Joseph M. Coetzee, Disgrace; Alistair Graham, Eyelids of Morning. The Mingled Destinies of Crocodiles and Men. Fotografie di Peter Beard; Joy Williams, Ill Nature: Rants and Rellections on Humanity and Other Animals 148 7. Socrate sulla spiaggia: pensiero e cosa 169 8. Pianeta singolare, immaginazione plurale |
| << | < | > | >> |Pagina 694.Immaginare un campo di crescita: scienza al centro, azione a distanza
1994
I Geni e la Terra, se mi è lecito esprimermi personalmente. Il molto piccolo e il molto grande. Parlando di entrambi questi aspetti nella sua autobiografia, Nabokov scopre «nella scala dimensionale del mondo un delicato luogo d'incontro tra immaginazione e conoscenza, un punto cui si arriva riducendo le cose grandi e ampliando le piccole, che è per essenza artistico» (Speak, Memory, 1966).2 Ammettendo la differenza, ho cercato di afferrarla e di andare oltre. Il vuoto davanti a noi che preme dietro di noi. Perciò cerco aiuto nel racconto di Italo Calvino (in T con zero, 1968) su di una cellula che cresce e si divide; su come potrebbe essere sentire questo; oppure, in questo proiettarsi nell'espansione e nella divisione che procede dentro di noi con strana regolarità (mitosi, meiosi), anche su quel che accade tra amanti: così l'ironica equazione del racconto potrebbe essere una semplice metafora destinata a durare non più di uno spermatozoo nell'aria. Se passo al romanzo di Primo Levi Il sistema periodico, trovo una metafora che si allarga fino a collegare l'attività professionale dello scrittore come chimico alla sua dolorosa storia di sopravvissuto-discendente. L'incertezza dell'ipotesi... l'efficace chiarezza rappresentata dalla tavola degli elementi... che con pacata discontinuità diventa la tavola dei contenuti presenti nella mente del narratore, filosofo per disposizione naturale. Egli ci racconta che i chimici sono come gli altri adulti di fronte al successo o al fallimento - «uccidere la balena bianca o sfasciare la nave» (p. 79), dice Levi - e l'analisi della struttura dell'amianto, per esempio, trasforma, tra l'altro, il chimico-scrittore in quell'immaginifico di Altamira «che dipingeva l'antilope sulla parete di pietra affinché la caccia dell'indomani fosse fortunata» (p. 80). Dei due narratori italiani, mi sono ben presenti tratti singolarmente paralleli, la valenza libera e il gioco combinatorio, e anche la solidità del giudizio e della conoscenza scientifica. Della qual cosa sono loro grato, perché le nostre menti sono un'infinita filza (non sempre circolare) di frammenti e fantasie, tropismi indulgenti e sbilanciati. Eppure il nostro grande romanziere William James difendeva le mere suggestioni come una parte vitale di quel che conosciamo, vaghe all'apparenza, ma preliminari, segnalatrici, impellenti. Una delle mie è spaziale: che la mia esperienza, o cosa c'è in me, o «cos'ho la disposizione per fare», in qualche modo sia assimilabile a entità isolate curiosamente vicine l'una all'altra. Potete esprimere questa discontinuità come volete. Io penso che si estenda verso l'esterno e verso l'interno come una crescita imprevista, ma a cui si tende. I miei libri concernono la vita della comunità e le sue solitudini germinali, uomini e donne che discordemente crescono insieme e si estraniano. Non sono «sulla scienza» - neanche il romanzo Plus ( 1977, poi 1987), che in un qualche senso che spiegherò è una sorta di scienza brancolante, ma non è veramente fantascienza. Eppure si sono percepiti i miei romanzi come influenzati, nei loro linguaggi e nei loro orizzonti, dalla scienza e dalla tecnologia - e li si sono costretti in una forma intelligibile in un'epoca in cui questi sistemi singolari e talvolta remoti incombono su di noi con l'autoconoscenza. La scienza è parte della vita, ma alla stregua di altre attività esplicitamente consce è spesso lavoro che si affanna a diventare consapevole di come sia parte della vita. È criticamente astratta e plasmaticamente particolare, e nei luoghi comuni delle mie fantasie più intime unisce l'astratto e il concreto in una tensione chiara e distinta (per adattare Mendel). Ha una storia faticata e fortuita di interrogazione, eroismo e resistenza. Nella generazione passata forse per il carico di complessità che questo tema avrebbe imposto (sul piano dell'argomentazione) a una narrazione estesa, i poeti si sono rivelati più inclini dei romanzieri a utilizzarlo, sebbene, ultimamente, alcuni nostri buoni romanzi tradizionali vi alludano in titoli metaforici come Magnetic Fields e Continental Drift. Trent'anni fa un amico mi mostrò una sua poesia sul radiotelescopio. Un po' come un telescopio, esatte e ben scandite, le parole dell'artefice spiegavano il congegno e il campo in cui i suoi poteri potevano effettivamente applicarsi. Una poesia del genere era allora del tutto insolita. Penso che l'argomento fosse ritenuto eccessivamente intellettuale (sebbene dire questo fosse senza dubbio fare una distinzione intellettuale) - difficile, scoraggiante, non sulla vita reale, «astratto», «intimidente» (questa parola cifrata parente prossima di «sperimentale») - forse riscattabile mediante qualche metafora casalinga e forse da rintuzzare con la satira - comunque legato a quella che chiamiamo fantascienza. [...] Scienza e arte hanno scopi totalmente differenti - o qualcosa del genere, sosteneva Proust. Eppure egli studiò epistemologia con Darlu al liceo Condorcet e trovò la sua via personale alla conversione dello spazio in tempo e del tempo in spazio e, se ricordate la scogliera di Balbec, del verticale in orizzontale; per non dire poi delle leggi generali della nostra vita mentale decentralizzante dovute alle ineccepibili recherches di Marcel su insetti e piante. [...] In un saggio degli anni cinquanta, il romanziere C. P. Snow sosteneva che nel corso della precedente generazione si erano sviluppate «due culture» e che la vera scienza faceva uso di linguaggi che gli altri non potevano pretendere di capire. In pieno dibattito sulla questione - in un periodo in cui si stavano introducendo nei curricula dei colleges corsi non sperimentali di storia e metodologia della scienza come opzioni per soddisfare i requisiti di ammissione alle facoltà scientifiche - fu ripubblicato un romanzo di Snow del 1934, The Search. Snow non era Calvino, ancor meno un Lucrezio che ricava poesia dalla materia, ma aveva scritto un romanzo professionale sull'aspetto competitivo della scienza, e sapeva di cosa stava parlando: come gli scienziati convivono con il potere politico e come lavorano. E, cosa più importante, aveva dimessamente descritto, con verità minuziosa e con levità di tocco, come un cristallografo riflette sulle cose. [...] Ora, se la differenza tra la vera scienza e ciò di cui potrebbero dilettarsi i maestri della metafora e i narratori di storie può risultare vaga in qualche confraternita dell'immaginario, una versione davvero proterva dell'atteggiamento divisorio delle «due culture» era lì ad aspettare gli scrittori alla fine della seconda guerra mondiale. Scienza (scoperta) e tecnologia (invenzione) - codici e veleni (che ora sappiamo essere anch'essi dei codici) magicamente astrusi e proliferanti - parvero infatti diventare un unico congegno composito e un solo sistema calcolante in tanta narrativa americana. Mi viene in mente tutto un ventaglio di risposte all'essere dentro questi sistemi, ma cercando di starne fuori. Kurt Vonnegut fu capace di giocare con la teoria ondulatoria e con la luce, qua e là, in The Sirens of Titan, romanzo che però riduceva a bonaria scemenza alcuni diffusi modelli della fantascienza. Ultimamente, così ho interpretato la cosiddetta narrativa cyberpunk: «Non puoi combatterli, unisciti a loro e/o poi combattili». Nel frantoio della cultura pop, la cultura va in pezzi, le parole vengono assunte come significassero qualcosa o come non significassero proprio un bel niente: un linguaggio scientifico-tecnologico entra nella parlata e, prima che lo si comprenda, i termini di energia, spazio, FORZA (come esso si esprime nei graffiti della metropolitana) si trasformano in un metagergospazzatura vagamente allusivo di una conoscenza di queste parole e della loro provenienza. Uno stato di eccitazione dell'animo filosoficamente banale. | << | < | > | >> |Pagina 855.11 settembre: emersioni
2002
Altri se la vedono peggio, o se la sono vista peggio, o se la vedranno sempre peggio di noi. «Noi», comunque, abbiamo il record del più spaventoso crollo di edifici. Lo si potrebbe chiamare un doppio. Altri, molto lontano, muoiono (e vivono) nell'incombere quotidiano di autobombe, di autobus bomba, di persone che esplodono nelle vicinanze; conoscono bombe dal cielo e dalla terra, e sono sfiniti e senza un tetto, e vedono i loro figli consunti dalla fame, mutilati, smarriti; e non possono tenersi in contatto con gli amici per chiedere aiuto, unire le forze o piangere insieme. A stento possono avere un pensiero che non sia rivolto alla sopravvivenza del giorno. A stento possono avere una pausa di riflessione. Se la storia è ciò che fa male, pensare deve apparire un'attività oziosa a coloro la cui sopravvivenza è in dubbio. E allora, tenuto lontano dal mio loft di Lower Manhattan per tre settimane dalla qualità dell'aria e dalle inevitabili restrizioni e dallo choc, che valore ha la mia esperienza? Posso solo dire cos'è stata. Forse posso fare di più. Un'esperienza il cui ricordo mi trasporta fuori di me forse un'ora e mezza oltre quella prima stupefatta visione dal parcheggio di fronte al nostro vecchio edificio in mattoni a sei piani, a otto isolati dall'astrattamente, palpabilmente fiammeggiante, rilucente torre nord del World Trade Center e qualche minuto dopo il coinvolgimento della torre sud, che dalla mia angolatura sembrava prendere fuoco da quella nord; e mi porta oltre le azioni di prudenza che feci subito dopo nel corso di un esteso momento di dimensisoi insolite (quasi fossi avvolto nella rete di un progetto esterno e interno a me) come chiudere le finestre spalancate del quarto e del quinto piano dei miei vicini assenti, che avevo notate dal luogo in cui ero cinque minuti dopo le nove, dall'altra parte della strada - pensando piani, altezza, cielo, fuoco, distanza, vicinanza, passeggeri e il «pensiero» che il primo aeroplano, che non avevo visto, fosse precipitato dentro il buco che aveva fatto (che io potevo vedere) formato per sottrazione -; strada dove intanto parlavano meravigliosamente tre eccellenti osservatori (e genitori): il mio coinquilino del pianterreno, Phil, architetto; il mio amico Steve, divulgatore scientifico, che comparve all'improvviso, sicuro fin dal momento in cui aveva visto il primo aereo passare su Greenwich Street che si trattava di un attacco, il quale usò il nostro telefono, su a casa nostra, e ci lasciò per andare a riprendere la figlioletta di sei anni che aveva appena portato a scuola; e, terza, e in qualche modo sempre con me, all'inizio dentro il nostro alloggio (dove aveva sentito, come fosse uno scontro di auto, il suono del primo 747 che colpiva la torre nord), poi fuori, in strada (da dove vedemmo frammenti che volteggiavano leggeri dalla torre nord, pallide carte, oggetti), prima che tornasse di nuovo su, mia moglie Barbara, pittrice. La prima esperienza (così la chiamo) dopo questo allarme - vivo minuti di incanto sospeso (molti) - è stata, di nuovo sopra nel nostro loft del terzo piano, di tirare su il pannello della finestra e guardare fuori verso destra e vedere nel punto in cui Hudson Street confluisce in West Broadway qualcosa che mi toglie il respiro una nuvola alta ormai cinque piani o una parete o un'impenetrabile onda avanzante (questo sembrava) di detriti grigi del primo crollo: come il cedimento di una diga e noi nella corrente vorticosa senza potere nuotare né sulla sua scia né contro; nel mio petto e nel mio sé pulsante ebbi la sensazione che nel giro di quindici minuti non saremmo più stati in grado di respirare. Dentro,fuori, dentro. Avevo letto di Paicheng, Cina, oscurata quasi fino al nero pece una mattina di aprile da una tempesta di sabbia proveniente dal deserto del Gobi, un migliaio di chilometri a ovest della città. Chiusi la finestra. Mi ricordai che mio figlio, vicino a compiere dodici anni, era a scuola a Upper Manhattan. Mi ricordai della mia prima immersione nel Mediterraneo con una bombola di aria compressa sul dorso, della mia incertezza fisica nell'affrontare trenta minuti di respirazione non normale o magari di totale mancanza di respiro, poi della sensazione, col boccaglio inserito, di risonanza cavernosa del mio respiro fuori-dentro mentre scendevo, il suono del respiro di una persona in un anfratto dove ha riparo. Pensai al controllo delle avarie, a una nave guardacoste del servizio meteorologico su cui avevo prestato servizio mezzo secolo fa, a quante paratie a tenuta stagna hanno perdite potenzialmente catastrofiche tra compartimento e compartimento: respingo tutto ciò. Che scelta hai quando respiri? Non trattenere il respiro. Respirare profondamente. (Tornare su questo). Barbara sigillò con rotoli di asciugamani e tovaglie le nostre sconnesse finestre a ghigliottina e demmo un'occhiata in giro. Uscimmo e ci mettemmo a camminare verso nord senza nessuna idea precisa se non quella di andare a prendere Boone alla Lab School sulla Diciassettesima Strada tra la Settima e l'Ottava Avenue. Un'emergenza che non minaccia la nostra vita; una scossa, una strana fuoriuscita dalla responsabilità normale. Fare praticamente nulla poteva sembrare una delle tante possibilità, come se si fosse dimenticato quello che avevamo visto in fondo alla strada. Dimentico di respirare, o così penso. Un insieme di accadimenti incontestabilmente nuovi, ma ci sono domande non pronte per essere pronunciate. Le torri in fiamme? Niente a che vedere col cinema, almeno per quanto mi riguarda. O con ciò che disinvoltamente si definisce «surreale», cosa che per me non era. Piuttosto, per me, un esperimento, di cui cogliere gli effetti e la relativa riuscita. Sirene con un significato inedito nel cuore di una metropoli assolutamente straordinaria, di una metropoli sperimentale, e tutti questi elementi incogniti producono qualcosa, escono dal solco, agiscono - come certe parole che posso mettere in corsivo, verbi, promesse da sviluppare. L'emergenza palese e ancora sconosciuta ha riunito queste tre persone, la vedo così: eguali, amici, individui che pensano, individui che creano, e gente del vicinato; non fa eccezione Steve che sta a Brooklyn, che deve andare a prendere la figlia Micaela di sei anni all'Early Childood Center (un altro centro) più o meno a due isolati di distanza andando verso Greenwich e deve tornare a casa a Brooklyn, adesso più lontano, cosa che lo rende in qualche modo ancor più un nostro vicino, anche se ora forse (cosi pareva) senza metropolitana - le linee funzionavano? - e col traffico dei taxi bloccato; e il dover probabilmente andar a casa a piedi attraverso il ponte di Brooklyn o quello di Manhattan, all'improvviso completamente vulnerabili, sull'East River produce una mescolanza di necessità e di paura, una paura sensibile al tempo e radicata in una trama di incertezze senza centro. Intenzione, distanza, paura, edificio, intelligenza, bambini. Ci aiutiamo reciprocamente a pensare. Ma a cosa? Il custode di un parcheggio chiamò incidente il primo urto. Lui l'ha chiamato cosi. Io lo sapevo che non era un caso (senza saperlo, senza sperare, solo dando uno sguardo alla mattinata in cui le persone sull'aereo vivevano ancora). Phil aveva detto che le torri, se avessero ceduto - se avessero cosa? - non si sarebbero inclinate, non avrebbero vacillato come un albero, ma sarebbero sprofondate (come un dispositivo telescopico, pensai, ma andando in briciole). Una struttura a manicotti esterni e interni. Una struttura destinata ormai a restare ignota. Phil non lo avrebbe escluso. Stavamo ormai guardando il secondo incendio, come se la torre sud avesse preso fuoco dalla torre nord. L'undici settembre non mi venne affatto in mente l'incidente aereo che nei primi anni cinquanta coinvolse l'Empire State Building. Desidero però subito aggiungere che, come effetto di questo nuovo statuto di verosimiglianza, pur senza centro cartografabile, dell'attacco terroristico che ora «esiste», o come effetto di una qualche complicità in me e di un interesse e di una vanità ben confezionati insieme alla compassione, l'undici settembre mi ha sommerso con un intero inventario di punti di vista da esplorare, anche se in quel momento sottovalutati - eppure ne ho paura, come se prestarvi ascolto fosse una minaccia e ignorarli un pericolo, e il tempo intanto si consuma. (Tornare su incidente). Era un po' come contare i morti. I punti di vista cominciano a casa. Niente sarà più come prima. È questo il nodo? Ci mettiamo a parlare tutti e tre. Tre angolature, magari non sulla stessa cosa. Non penso che l'attacco e il crollo siano stati per Boone pura televisione, anche se li ha visti sul video, o come un film. L'immaginazione è produttiva. Ricompone le cose per te, magari senza riuscirci, è azione. So che per lui l'evento era accaduto. (Con Barbara parlo della prossima volta; delle nostre difese porose da ogni parte lungo la costa, di risistemarci sulle sierre californiane). Boone e io finiamo con lo sfiorare l'argomento dei morti, della gente lassù. Chiedeva senza chiedere. Non parlammo molto di membra, e tanto meno degli arti trovati in Murray Street o sui tetti vicino a noi. Certe persone non esistevano più nemmeno come corpi, dissi. Abbiamo cercato di spiegarcelo come potevamo. Tenendoci alla larga dal problema della disintegrazione. Ho sentito questa cosa davanti a me percorrendo Hudson Street il mattino dell'undici settembre e l'ho sentita dietro di me e mi sono voltato per vedere chi parlava con la testa china sul cellulare. Che niente sarebbe più stato come prima. Che tutto era cambiato. Se è cosi, cosa ne consegue? Come sfruttare questo cambiamento? Ampliare, circondare, comprendere, afferrare, tagliare. Contrapponendo l'undici settembre (ma implicitamente assimilandolo) alla morte di Diana, il critico francese Jean Baudrillard dichiara finita «la lunga stagnazione degli anni novanta». «Gli eventi hanno smesso di scioperare. E ci troviamo anzi di fronte, con gli attentati di New York e del World Trade Center, all'evento assoluto, alla "madre" di tutti gli eventi, all'evento puro che racchiude in sé tutti gli eventi che non hanno mai avuto luogo». L'inevitabilità della storia come arte collettivamente scelta o, in ogni caso, sottoscritta. | << | < | > | >> |Pagina 1487.Socrate sulla spiaggia: pensiero e cosa
2001
La filosofia: attento (sentivo dire quando ero un aspirante scrittore), è astratta e analitica mentre la vita non lo è. La filosofia ha dimora nel generale, la narrativa abita nell'individuale e il narratore esprime, suggerisce e drammatizza e ci seduce con una «conoscenza del mondo che si radica più in profondità ed è meno soggetta all'alterazione e al cambiamento di tutte le regole bell'e pronte dell'etica», come sosteneva Glenway Wescott quasi mezzo secolo fa; «che ci sia una più precisa... verità nella narrazione che nella filosofia» è cognizione rassicurante e familiare, come che vi sia in essa un'emozione «più corroborante per i nostri cuori tempestosi che in qualsiasi predica o insegnamento». E tanto basti per la filosofia (e per l'impartire insegnamenti in proposito). I grandi drammaturghi tragici della Grecia erano artisti, non filosofi, sentiamo affermare da un eminente studioso, H. D. F. Kitto. Più vicino a noi, «non sono un complicato filosofo», faceva notare John O'Hara. E ancor più vicino a noi, ormai molto tempo fa, degli amici dotati che conoscevano la consolazione e l'intossicazione delle investigazioni più estreme, cui erano ben noti il garbuglio corpo-mente, l'interrogarsi sull' a priori e sull' a posteriori di ogni cosa, la dialettica, la conoscenza, il mondo, mi dicevano: non imbarcarti in queste cose, non c'è punto d'arrivo. «La vita non è dialettica», scriveva Emerson in Experience. Ma cos'è l'esperienza se non opposizione? replica una voce simile alla mia nel traffico e nel silenzio - come di un personaggio, o di Nietzsche, la cui voce non sempre mi giunge con la chiarezza che vorrei - e al quale dedicai una poesia a diciannove anni - afferrando solo nebulosamente, come una sorta di inedito effetto di benessere, la reinterpretazione di me stesso che egli sollecita. Dialettica, lotta per la sopravvivenza, dubbio permanente, la vita della filosofia è stata quella di criticare: Hume, i miracoli; Platone, l'amministrazione della giustizia. Come un brillante oratore che parla incontenibilmente per tutto il giorno e per tutta la notte, la filosofia è insaziabile nel suo bisogno di porre problemi, anche quando Wittgenstein (che smise di «farla» e comunque non credeva nello studiarla, per quanto ne sappiamo) traccia dei limiti a ciò che possiamo dire; o anche quando Spinoza, audace psicologo, finisce come inizia le sue definizioni della necessità e delle emozioni, sempre trovando singolare conforto nella geometria delle cose come debbono essere. La narrativa, invece, modella la vita in un'immagine, una scena, una voce, non in una sequenza di proposizioni, e una supposta verità più ampia vi si insinuerebbe solo come un'ombra lunga, o vi verrebbe svelata senza intenzione.
Eppure, viviamo per pensare a qual è il discrimine tra sapere e non
sapere, tra amore e crudeltà, tra la sfumatura di una voce e la storia di quella
certa persona; tra un modo di governo e un altro, tra le diverse censure. È un
abito della mente, ci piaccia o no, non staccarsi da queste opposizioni. Un
abito e un legame tra ciò che avrei potuto essere e ciò che sono. Tra ciò che
sono e ciò che faccio.
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