Autore Herman Melville
Titolo Bartleby lo scrivano
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2015 [1991], UE Classici 0205 , pag. XXVI+112, cop.fle., dim. 13x20x1 cm , Isbn 978-88-07-90205-5
OriginaleBarttleby the Scrivener. A Story of Wall Street [1853]
CuratoreGianni Celati
TraduttoreGianni Celati
LettoreRenato di Stefano, 2015
Classe classici statunitensi












 

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Indice


     VII   Introduzione a Bartleby lo scrivano
           di Gianni Celati


       1   Bartleby lo scrivano
           Una storia di Wall Street


      49   Da Moby Dick a Bartleby
           Lettere di Melville 1850-1852

      85   Interpretazioni di Bartleby
           1928-1990
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Pagina 1

Sono un uomo piuttosto anziano. La natura della mia professione, negli ultimi trent'anni, mi ha portato ad aver contatti fuor del comune con ciò che direbbesi un interessante ed alquanto singolare genere di individui, dei quali fino ad ora, ch'io sappia, nulla è stato scritto: mi riferisco ai copisti legali, ovvero scrivani. In gran numero ne ho conosciuti, sia per pratica di lavoro che a titolo personale, e, quando volessi, potrei narrare svariate storie, che forse farebbero sorridere le persone benevole, e forse farebbero piangere le anime sentimentali. Ma rinunzio alla biografia d'ogni altro scrivano per pochi momenti della vita di Bartleby, che fu scrivano, il più stravagante di quanti abbia mai veduto, o di cui abbia avuto notizia. Laddove, di altri scrivani, potrei scrivere l'intera vita, nulla del genere è possibile nel caso di Bartleby. Ritengo non esistano documenti per una completa e soddisfacente biografia di quest'uomo. Il che, per le lettere, è senz'altro una perdita irreparabile. Era Bartleby uno di quegli esseri, dei quali nulla è possibile accertare, salvo ricorrere a fonti originali, che, in tale caso, sono molto scarse. Quanto i miei occhi attoniti videro di Bartleby, questo è tutto ciò che so di lui, oltre, in effetti, ad una vaga notizia che verrà riferita in seguito.

Prima d'introdurre lo scrivano, com'egli apparve ai miei occhi per la prima volta, sarà opportuno accennare a me, ai miei impiegati, al mio lavoro, ai miei uffici, e all'ambiente in generale; poiché qualche descrizione al riguardo è indispensabile per un'adeguata comprensione del personaggio principale che verrà presentato. In primis: io sono un uomo che, fin dalla giovinezza, è stato sempre profondamente convinto che la via più facile sia la migliore. Quindi, benché svolga una professione proverbialmente inquieta, agitata, a volte persino turbolenta, tuttavia nulla del genere ho mai tollerato venisse a turbare la mia tranquillità. Sono uno di quegli avvocati privi di ambizioni, che mai fanno appello a una giuria, o tentano con ogni mezzo di strappare l'applauso del pubblico; che, invece, nella pacata atmosfera d'un tranquillo rifugio, tranquillamente trafficano con i titoli azionari di gente ricca, e ipoteche, e titoli di proprietà. Chiunque mi conosca, mi considera persona eminentemente cauta. Il fu John Jacob Astor, uomo poco incline agli entusiasmi poetici, non ebbe alcuna esitazione nel proclamare che la mia prima dote è la prudenza, la seconda il metodo. Non ne parlo per spirito di vanità, ma soltanto per annotare il fatto che, nella mia professione, mai venni trascurato dal fu John Jacob Astor: un nome che, debbo ammettere, mi è gradito ripetere, giacché esso echeggia con suono pieno e orbicolare, quasi provenisse da un lingotto d'oro. Senza remore aggiungerò che non ero insensibile alla buona opinione del fu John Jacob Astor.

Qualche tempo prima del periodo in cui ha inizio questa piccola storia, il mio lavoro era notevolmente aumentato. Mi era stato conferito quel buon vecchio incarico, ora abolito nello stato di New York, di Magistrato della Cancelleria. Non era incarico troppo arduo, bensì gradevolmente remunerativo. Raramente vado in collera, e ancor più raramente indulgo in pericolose indignazioni per torti e soprusi; ma, qui, mi sia consentito d'essere temerario, e di dichiarare ch'io considero l'improvvisa e violenta abrogazione della carica di Magistrato della Cancelleria, ad opera della nuova Costituzione, un... un atto prematuro: in quanto, avendo io fatto il conto di godere a vita di quei profitti, ne ebbi soltanto l'utile di pochi anni. Ma ciò sia detto di sfuggita.

Erano i miei uffici ad un piano rialzato, al numero... di Wall Street. Ad un'estremità, essi si affacciavano su un bianco muro all'interno d'un vasto pozzo d'aerazione, che penetrava nel palazzo da cima a fondo.

Tale veduta avrebbe potuto esser considerata senz'altro insipida, mancante di ciò che i pittori paesaggisti chiamano "vita". Ma, se così era, la veduta sull'altro lato dei miei uffici offriva, quanto meno, un buon contrasto. In quella direzione le mie finestre presentavano la libera vista d'un alto muro, annerito dagli anni e dall'ombra perenne: il quale muro non richiedeva l'uso d'alcun cannocchiale per rivelare le sue occulte bellezze, bensì, a beneficio d'ogni miope spettatore, ergevasi a soltanto dieci piedi dalle mie finestre. Grazie alla grande altezza dei fabbricati attorno, e al fatto che i miei uffici erano al secondo piano, lo spazio tra quel muro ed il mio somigliava non poco ad una enorme e quadrata cisterna.

Nel periodo che immediatamente precedette l'avvento di Bartleby, avevo alle mie dipendenze due persone, quali copisti, ed un fanciullo, quale fattorino. Il primo, Turkey, ovvero "Tacchino"; il secondo, Nippers, ovvero "Chele"; il terzo, Ginger Nut, ovvero "Zenzero". Si direbbero nomi, questi, non molto facili a trovarsi sulle pagine d'un annuario. In verità trattavasi di nomignoli che i miei impiegati s'erano mutuamente attribuiti, ed erano ritenuti esprimere le loro rispettive persone e caratteri.

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Ginger Nut, il terzo della lista, era un fanciullo di circa dodici anni. Suo padre era carrettiere, con l'ambizione di vedere, prima della morte, il proprio figliolo seduto su uno scranno piuttosto che su un carro. Perciò lo mise a lavorar nel mio ufficio, quale studente di legge, fattorino, addetto a spolverare e spazzare, per il prezzo d'un dollaro la settimana. Aveva egli un piccolo scrittoio, che tuttavia raramente usava. Se ispezionato, il cassetto avrebbe esibito una grande varietà di gusci di noce. Invero, agli occhi di questo sveglio giovine, l'intera nobile scienza giuridica doveva sembrare racchiusa in un guscio di noce. Non ultima tra le mansioni di Ginger Nut, nonché quella ch'egli svolgeva con la massima alacrità, era di provvedere al rifornimento di dolci e mele per Turkey e Nippers. Essendo la copiatura di carte legali proverbialmente lavoro secco e arido, i miei due scrivani usavano assai spesso inumidirsi la bocca con mele Spitzenberg, reperibili presso le numerose bancarelle in prossimità della dogana e dell'ufficio postale. Inoltre, assai spesso, spedivano Ginger Nut ad acquistare quegli speciali dolcetti rotondi, piatti e molto aromatizzati con quella spezia da cui egli prendeva il soprannome. In certe fredde mattine, quando il lavoro era null'altro che noia, Turkey trangugiava decine di quei biscotti, quasi fossero cialde (eran venduti, infatti, ad un penny la mezza dozzina), confondendo allora lo scricchiolio della penna col rumore di pezzi croccanti sgranocchiati nella sua bocca. Il più avventato, tra tutti gli sciatti errori pomeridiani e confuse avventatezze di Turkey, si verificò un giorno, allorché egli s'inumidì la bocca con un biscotto allo zenzero, per poi sbatterlo su un'ipoteca a mo' di sigillo. Fui ad un pelo dal licenziarlo. Ma egli riuscì a placarmi con un inchino orientale, e dicendo:

"Con rispetto, signore, è stato un gesto generoso da parte mia fornirvi di cancelleria a mie proprie spese."

Ora il mio lavoro iniziale, di legale commercialista, incettatore di titoli, redattore d'ogni sorta d'oscuri documenti, s'era notevolmente accresciuto per aver io ricevuto l'incarico di magistrato. V'era adesso molto lavoro per gli scrivani. Non solo dovevo sollecitare gli impiegati alle mie dipendenze, ma pure procurarmi altri aiuti.

In risposta ad un'inserzione, un immobile giovanotto comparve un bel mattino sulla soglia del mio ufficio, essendo la porta aperta perché s'era d'estate. Rivedo ancora quella figura, scialba nella sua dignità, pietosa nella sua rispettabilità, incurabilmente perduta!

Era Bartleby.

Dopo pochi cenni sulle sue qualifiche, lo assunsi, lieto d'aver nel mio corpo di copisti un uomo dall'aspetto così singolarmente composto, che, pensai, avrebbe potuto influire in modo benefico sull'indole caotica di Turkey, nonché su quella impetuosa di Nippers.

Avrei dovuto dire, prima, che porte pieghevoli di vetro molato dividevano i miei locali in due zone, una delle quali era occupata dai miei scrivani, l'altra da me medesimo. In conformità col mio umore, a volte spalancavo tali porte, oppure le richiudevo. Stabilii di assegnare a Bartleby un angolino presso i battenti pieghevoli, ma sul mio lato, così da aver quell'uomo tranquillo a portata di mano, nel caso si presentasse qualche necessità di minor conto. Collocai il suo scrittoio accanto ad una piccola finestra su quel lato della stanza, finestra che all'origine s'apriva su una veduta laterale di certi scuri cortili e muri in mattone, ma che, essendo stati eretti altri fabbricati, al momento attuale non permetteva alcuna veduta, benché lasciasse penetrare un po' di luce. A tre piedi dai vetri della finestra trovavasi un muro, e, da molto in alto scendeva la luce, filtrando tra due alti edifici, quasi come da una piccola apertura in una cupola. A rendere tale sistemazione vieppiù soddisfacente, procurai un alto e verde paravento, che poteva tutt'affatto riparare Bartleby dai miei sguardi, quantunque senza allontanarlo dalla mia voce. E così, in certo qual senso, la privatezza e lo stare assieme si davan la mano.

All'inizio Bartleby svolse una straordinaria quantità di lavoro scritturale. Quasi fosse da lungo tempo affamato d'alcunché da copiare, egli pareva pascersi con ingordigia dei miei documenti. Non si concedeva pausa per la digestione. Si dava da fare notte e dì, copiando sia con la luce del sole che al lume di candela. Mi sarei senz'altro compiaciuto di tanta solerzia, fosse egli stato allegramente operoso. Invece continuava a scrivere in silenzio, con moto scialbo e meccanico.

Parte inevitabile del lavoro d'uno scrivano è, ben s'intende, la verifica dell'accuratezza delle sue copie, parola per parola. Ove vi siano due o più scrivani in un ufficio, essi s'assistono l'un l'altro in tale esame, l'uno leggendo la copia, l'altro controllando l'originale. È questo un lavoro molto insipido, tedioso e letargico. Non ho difficoltà a immaginare che, per qualche indole sanguigna, esso sarebbe affatto intollerabile. Ad esempio, non riesco a credere che quel focoso poeta, il Byron, si sarebbe adattato di buon grado a sedere insieme a Bartleby onde esaminare un documento legale di, poniamo, cinquanta pagine fittamente vergate in minuta calligrafia.

Talora, nell'urgenza del lavoro, avevo l'abitudine di prestare il mio aiuto nell'esame di qualche breve documento, chiamando Turkey e Nippers allo scopo. Una tra le mie mire, nel collocare Bartleby a portata di mano dietro il paravento, era di ricorrere ai suoi servigi in simili banali evenienze. Credo fu il terzo giorno dacché egli era con me, il primo nel quale fosse sorta la necessità di fargli esaminare le sue scritture, che, avendo io premura di sbrigare una faccenda di poco conto che m'impegnava al momento, bruscamente detti una voce a Bartleby. Posta la fretta e la mia naturale attesa d'immediata obbedienza, sedevo col capo chino sul documento originale posto sul mio scrittoio, e la mano destra obliquamente protesa a porgere in modo un po' nervoso la copia, così che, appena emerso dal suo riparo, Bartleby potesse afferrarla e procedere all'opera senz'alcun indugio.

In tale esatta posizione sedevo, quando lo chiamai, spiegando in fretta cosa desiderassi da lui, ovvero, che esaminasse con me un breve documento. Immaginate la mia sorpresa, meglio, la mia costernazione, quando, senza muoversi dal suo privato, Bartleby con voce singolarmente mite, ma ferma, replicò: "Avrei preferenza di no."

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