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| << | < | > | >> |IndiceHerman Melville: - la vita - profilo storico-critico dell'autore e dell'opera - guida bibliografica VII Prefazione XIX |
| << | < | > | >> |Pagina 31. Il piede nella staffaVia! La vela di maestra e la vela di gabbia sono spiegate, e l'ancora incrostata di corallo dondola a prua, e velacci e contro-velacci si gonfiano insieme sotto il vento che ci segue sul mare ululando come un cane da caccia. Le vele si gonfiano in basso, in alto si piegano di colpo da una parte e dall'altra, poi, come un falco ad ali spiegate, noi oscuriamo il mare con la loro ombra e, oscillando, fendiamo le onde. Ma da dove venite, marinai, dove andate? Siamo salpati da Ravavai, un'isola non molto lontana, a nord, dal Tropico del Capricorno, e, ad ovest, dall'isola di Pitcairn, dove si erano stabiliti gli ammutinati del Bounty. Io ero sceso a terra a Ravavai qualche mese prima; e adesso sono imbarcato per una caccia al capodoglio, la bestia dal cervello che illumina il mondo. E, da Ravavai, navighiamo verso le Galapagos, che chiamano anche le Isole Stregate per i gorghi e le impetuose correnti che le circondano: intorno a queste isole che Dampier ha esplorato per primo, e dove i bucanieri spagnoli hanno accumulato i loro tesori in certe stagioni abbonda il capodoglio. Ma da Ravavai a queste isole una nave non può puntare diritto, come fa il gabbiano al suo nido. Gli alisei soffiano costanti, e le navi che partono da Ravavai dirette a nord-est sono obbligate a compiere un giro; qualcosa come poche migliaia di miglia. Dapprima, alla ricerca di venti variabili, si affrettano verso sud, poi, dopo essere riuscite alla fine a trovare una brezza isolata, si dirigono verso il mare aperto: infine volgono il timone ad oriente e scendono lungo la costa, verso l'equatore. Questa fu la tortuosa strada che prese l'Arcturion. E, bisogna dirlo, fu un viaggio noioso. Mai prima di allora l'oceano mi era apparso tanto monotono; e, grazie a Dio, fu l'unica volta che mi apparve così. Ma, hurrà! Dopo due settimane, qualcosa accadde. Nel grigiore del mattino, proprio davanti a noi, si alzò sul mare un'ombra oscura, confusa, coronata da nuvole e circondata da candide onde spumeggianti. Virammo, e alla fine era già il tramonto oltrepassammo Massafuero. Guardammo col cannocchiale. Due o tre capre selvatiche scendevano verso il mare lungo una valle dirupata. E poi, un segnale: più sopra, in cima a una roccia, sventolava una lacera bandiera. Sapevamo che sull'isola poteva esserci soltanto qualche forzato fuggito dal Cile, e il nostro capitano decise di non approdare. Ma forse commise un errore, a non mandare una lancia. Qualche giorno ancora, e incontrammo gli alisei. Generosi e violenti, ci investirono, come fanno spesso, con una raffica improvvisa. Il colpo si portò via uno dei nostri alberi, e fece fare un gran volo al nostro cuoco, vecchio e grasso, mandandolo a finire contro il parapetto. Dopo aver raggiunto felicemente la longitudine desiderata, qualche lega a ovest dalle Galapagos, passammo parecchie settimane a navigare avanti e indietro lungo l'equatore in una vana ricerca di preda. Molti cacciatori sono convinti che le balene percorrano l'oceano lungo linee fisse, simili a filoni d'oro in una miniera. Così, giorno dopo giorno, ogni giorno, settimana dopo settimana, ogni settimana, percorremmo sempre la stessa rotta perpendicolare all'equatore fin quando avremmo potuto giurare di sentire un urto sulla chiglia ogni volta che la nave lo incrociava. Infine, vento in poppa, ci mettemmo a seguire la linea dell'equatore, e veleggiammo verso ovest, guardando sul mare da ogni lato, senza vedere niente. Fu in quelle tediose giornate che apparvero in me i primi sintomi di quell'amara intolleranza alla nostra monotona professione che finì per condurmi alle avventure che racconterò più avanti. Ma, badate! Non ho niente contro quella vecchia nave, o contro la sua ciurma. I marinai erano tutti bravi ragazzi, compresa quella decina di pagani che avevamo imbarcato alle isole. Anche se è vero che non erano proprio il mio ideale. Non eravamo fatti l'uno per gli altri; non c'era nessuno con cui andassi veramente d'accordo se non nel maledire le bonacce che ci sorprendevano di tanto in tanto, o nel salutare con gioia l'alzarsi del vento. Sotto altri e più vitali auspici, quegli indolenti furfanti avrebbero potuto rivelare qualità più apprezzabili. Se si fosse aperta una falla, se fossimo stati sfondati da una balena, se avessimo almeno avuto la benedizione di un capitano tirannico capace di provocare una bella rivolta, quegli uomini si sarebbero comortati in modo vivace e coraggioso. Ma così come stavano le cose, l'acciaio di cui erano fatti non poteva certo far scintille. C'erano poi altre cose che mi rendevano la vita difficile. Niente da dire, il capitano era una brava persona; non faceva pesare la sua autorità; e, per essere un marinaio, sapeva parlare. Lasciate anzi che gli renda completa giustizia: mi aveva preso in simpatia; quando era il mio turno al timone diventava socievole, addirittura loquace. E con questo? Era forse in grado di parlare di filosofia, o di sentimenti? Neanche un po'. La sua libreria era di venti centimetri per dieci: Bowdich e Hamilton Moore. E io che avevo bisogno di qualcuno che fosse in grado di citarmi un brano dall'«Anatomia della melanconia» di Burton! A che valevano quelle piatte ripetizioni di lunghi e noiosi racconti di marinai, e le interminabili strofe di «Susanna occhi neri» cantate dal coro del castello di prua al completo? Cose più stantie della birra vecchia. | << | < | > | >> |Pagina 3313. Strani mostri dei Mari del SudOgni tanto, nel corso del nostro solitario viaggio, accadeva qualcosa di nuovo. Era soprattutto quando la costellazione dei Pesci saliva nel nostro cielo. Dicono che le sterminate praterie dell'Arkansas siano l'ideale per gli studiosi di botanica; io raccomando agli studiosi di ittiologia di imbarcarsi su una lancia aperta e di battere le distese del Pacifico. Mentre la vostra barca avanza, strani mostri vi passano accanto. Nessuno mai ne ha visti di simili, altrove. E non li troverete sui libri dei naturalisti. L'America è stata scoperta, ma il Catai delle profondità è ancora sconosciuto. E coloro che hanno navigato sul Pacifico potrebbero dare delle lezioni a Buffon. Il serpente di mare non è una favola; e, nell'Oceano, quel serpente non è altro che un verme da giardino. Ci sono più meraviglie di tutte le meraviglie cui ci rifiutiamo di credere, più misteri di quanti ne abbiamo mai sognati. Soltanto le talpe e i pipistrelli hanno il diritto di essere scettici; e l'unica cosa cui veramente non si può credere è l'affermazione di un uomo vivo che dica di essere morto. Che il nostro esempio sia Sir Thomas Brown, lui, che mentre dimostrava l'infondatezza dei volgari errori accettò integralmente tutti i misteri del Pentateuco. Ma guardate giù, nel profondo! Dove avete mai visto uno spettro come questo? Un'enorme mezzaluna con corna di renna e un delta di bocche. Affonda lentamente, scompare. Il dottor Faust ha visto il diavolo; ma voi avete visto il pesce-diavolo. Guardate ancora! Ne arriva un altro. Jarl lo chiama lo squalo-scheletro. Grande come una balena e maculato come un leopardo; e zanne sporgono dalla sua mascella simile a quella di un tricheco. Per i marinai non c'è niente di più spaventoso di questa bestia. Grandi navi la sfuggono. E fanno bene; perché la Essex, e altre navi, sono state affondate da mostri marini come canoe dei Caraibi trapassate dal muso duro di un alligatore. Noi avevamo continuamente paura di qualche disastro provocato da quei pesci straordinari che incontravamo quasi ogni giorno. Quanto agli squali, non li vedevamo isolati e neanche a decine o a centinaia, ma a migliaia, a miriadi. Credetemi, ci sono più squali nel mare che uomini sulla terra. E di questo prolifico pesce ci sono tante razze quante ce ne sono di cani. Ma secondo i naturalisti tedeschi Mόller e Henle, che per battezzare gli squali hanno adoperato i nomi più barbari, essi sono classificati in una sola famiglia; la quale, secondo Mόller, un esperto in materia, è senza dubbio un ramo dell'antica razza dei cartilagopinnati. Tanto per incominciare, c'è il normale squalo bruno, l'avvocato del mare, come lo chiamano i marinai; un essere ignobile, avido e tenace, che cercava disperatamente di azzannare il remo con cui lo colpivamo. A volte questi signori nuotano in gruppo, specialmente attorno ai resti di qualche balena uccisa. Sono gli avvoltoi del mare. Poi incontravamo spesso l'elegante squalo azzurro, un tipo lungo e sottile come un cerino e dall'aspetto molto garbato, con la vita stretta come un dandy di Bond-Street e due file di denti bianchissimi. Gironzolava, delicato, muovendo le pinne e la coda con aria indolente. Ma sembrava un vero senza cuore. Questo squalo dal sangue freddo e dall'aria raffinata contrastava con la rozza spavalderia dello squalo-tigre, un mangione grasso e robusto dalla bocca dilatata, privo di scrupoli, sempre in cerca di qualcosa da divorare. Gli squali di questo genere sono gli spazzini delle flotte: seguendo le navi nei Mari del Sud inghiottono tutti i rifiuti, e, certe volte, un boccone prelibato qualche marinaio caduto in mare. E i marinai li odiano, naturalmente. Jarl, una volta, mi assicurò che nei momenti di cattivo umore la più dolce consolazione consisteva per lui nel ricordarsi di quando, ai suoi tempi, aveva assassinato non ucciso interi branchi di squali-tigre. Eppure non è giusto. Se si odiano gli squali, tanto vale odiare anche i serafini, perché gli uni e gli altri sono stati creati dalla medesima mano. E che gli squali possano essere soggetti all'amore lo testimoniano le loro tenerezze familiari. Non c'è Furia tanto feroce da non avere almeno un lato gentile. Nel cuore della giungla una madre leopardo accarezza il suo cucciolo come Hagar faceva con Ismaele o una regina di Francia con il Delfino. Noi non sappiamo quel che facciamo quando ci abbandoniamo all'odio. E per provarlo citerò le parole del mio generoso amico Stanhope: quel tale che ha dichiarato di stimare chi sa odiare con forza non era altro, nella migliore delle ipotesi, che una specie di ottentotto. E questo non era un epiteto molto gentile, benché venisse da un uomo tanto cortese. D'altra parte bisogna ammettere che Johnson, il glottologo, quando fece quella sua infelice dichiarazione, non si comportò certo da buon cristiano benché fosse difficile per un ipocondriaco come lui gustare il dolce latte del Vangelo. Eppure, con tutto il rispetto, io penso che il vecchio zio Johnson non credesse veramente a quello che diceva. Stimare chi odia! Chi mai si lecca i baffi dopo aver ingoiato del fiele? L'odio è cosa ingrata. E allora odiamo soltanto l'odio; e, una volta lasciato campo libero all'amore, potremo voler bene anche a un unicorno. Ah, la via più facile è la migliore, e per odiare si deve fare una gran fatica. Amare è una gioia, odiare è un tormento. E coloro che odiano torturano se stessi peggio di un inquisitore spagnolo. In poche parole: chi odia è un pazzo. Anzi, odiare e esser pazzi dovrebbero essere sinonimi. Per molti giorni il nostro Camoscio fu seguito da due squali-tigre, un paio di inseparabili amici che seguivano la nostra scia, uno vicino all'altro, come una coppia di banditi in attesa all'incrocio di una strada. Ma alla fine decisero probabilmente che era un lavoro inutile, e rimasero indietro, fino a scomparire con gran disappunto dell'Uomo del cielo, che era rimasto a lungo, a poppa, l'arpione in mano, pronto a colpire. Ma, tra tutti gli squali, Dio mi scampi dallo spaventoso squalo bianco. Θ vero che non dobbiamo odiare nessuno, ma certe antipatie vengono proprio dal cuore; e, del resto, provare un'antipatia non vuol dire odiare. Io non riuscirò mai ad amare uno squalo bianco, non riuscirò neanche a provare un po' d'amicizia per una bestia del genere. Non è il tipo che si conquista l'affetto della gente. Questo spettro di pesce lo si incontra di rado, e per lo più di notte. Come Timone, il misantropo, nuota sempre solo; scivola a pelo d'acqua rivelando una lunga, vaga forma lattiginosa, e di tanto in tanto fa baluginare i suoi bianchi denti nella bocca senza fondo. Non ha certo l'aria di aver bisogno di un dentista. Di notte, passando come un fantasma nell'acqua, con la sua terrificante serenità, lo squalo bianco ci fece rabbrividire più di una volta, noi del Camoscio. Di giorno, nella calma profonda, ci sorprendeva spesso il pesante sospiro di qualche orca, che si alzava pigra sull'acqua sbuffando lungamente dopo un sonnellino sul fondo. Di tanto in tanto vedevamo passare come un fulmine l'alalonga, il pesce dalle squame dorate simili ad una cotta di maglia, il Nimrod dei mari, cacciatore di pesci volanti. Cercando di sfuggirlo, molti di quei pesci finivano nella nostra lancia. Ma morivano sempre per il colpo. Non c'era modo di farli riprendere. Una volta staccai un'ala ad uno di quei pesci volanti, e la distesi ad asciugare sotto un peso. Dopo due giorni la sottile membrana, dalla trama simile a quella di una foglia, era trasparente come colla di pesce e aveva preso serici colori brillanti. Quasi ogni giorno vedevamo i pesci neri, scuri come carbone, lucenti. Pareva che nuotassero sempre in cerchio nell'acqua, come una ruota: e di tanto in tanto le loro pinne dorsali irraggiavano, rapide. Simili come razza, ma più piccoli, e con il muso lungo e affusolato, erano gli algerini chiamati così, probabilmente, per la loro inclinazione alla pirateria. Stavano in agguato di qualche pesce che se andava in giro tutto tranquillo e in un solo boccone lo depredavano del corpo e dell'anima. Turchi crudeli! Bisognerebbe indire una crociata, contro di loro. E poi incontravamo gli assassini e i martellatori, i più vivaci e coraggiosi di tutti i pesci. Sono poco più grandi di un porco di mare, ma, in branco, non esitano ad assalire persino le balene. Aizzano il mostro come fanno i cani con un toro. Poi gli assassini addentano la balena franca per il suo immenso e imbronciato labbro inferiore, e i martellatori le si attaccano alla schiena, e incominciano a percuoterla con le loro robuste code. E spesso ne escono vincitori, riuscendo a ferirla a morte. Θ inutile dire che se il leviatano li raggiunge con un sol colpo della sua terribile coda, li fa volare proprio come cani raggiunti dal corno di un toro. Questo, vedevamo. Se ci fosse stato il vecchio Wouverman, che una volta dipinse una corrida coi cani, quello sarebbe stato un ottimo soggetto, per lui. E Gudin o Isabey avrebbero potuto mettere nel quadro l'azzurro mare ondeggiante. E, per finire, uno dei tramonti estivi di Claude avrebbe esaltato tutto l'insieme. Oh, credetemi, queste creature di Dio, in lotta, pinna contro pinna, migliaia di miglia lontano dalla terra, con il curvo orizzonte come arena, sarebbero un soggetto ben degno di un capolavoro. Queste sono soltanto alcune delle scene cui si può assistere nel grande Mare del Sud. Ma non è possibile raccontare tutto. Il Pacifico è popoloso quanto la Cina. | << | < | > | >> |Pagina 4116. BonacciaL'ottavo giorno ci fu bonaccia. Cominciò durante la notte, e svegliandomi all'alba, le braccia appoggiate al parapetto, vidi qualcosa che è difficile descrivere. Il sole era ancora sotto all'orizzonte, forse illuminava ancora le estreme pianure del Paraguay. Ma quella prima luce era già troppo forte per le stelle, che ad una ad una si erano spente come lampade alla fine di un ballo. Come la superficie di uno specchio, vuota, disposta soltanto a ciò che vi si riflette, così, durante una bonaccia nei tropici, sotto un cielo senza colore, la superficie dell'oceano quasi non dà segno di vita. L'azzurro profondo scompare. L'acqua giace come vetro, quasi invisibile, come aria. Ma, quel mattino, i due grigi firmamenti del cielo e dell'acqua sembravano confondersi in una vaga ellissi, e sembrava che il Camoscio navigasse insieme nell'aria e nel mare. Cielo, aria, acqua, tutto si fondeva nella bonaccia. Non si vedeva un pesce. Il silenzio era il silenzio del nulla. Nessuna cosa viva si muoveva nell'aria. E questa inerte mescolanza e meditazione di tutte le cose sembrava il grigio caos del concepimento. Quella bonaccia durò quattro giorni e quattro notti, interrotta soltanto da qualche alito di vento debole come il respiro di un moribondo. Faceva molto caldo. Il cielo, a mezzogiorno, ardeva come una miniera di carbone in fiamme. La pelle ci si induriva come un pezzo di lino; la vista si offuscava; la mente era stordita. Poi, terrorizzati, ci accorgemmo che la nostra acqua stava diventando tiepida, salmastra, come se fosse sul punto di imputridire, nonostante avessimo ammucchiato sulla botte i nostri vestiti di scorta per ripararla dal sole. Infine Jarl aprì la botte, per farle prendere aria. Questa precauzione fu molto più utile di quanto non pensassimo. E decidemmo di ridurre la nostra razione d'acqua al minimo necessario per mantenerci in vita malgrado la nostra sete continua. E non era tutto. Le assi del fasciame di fondo incominciarono a incurvarsi, scricchiolavano, si scheggiavano. Benché le tenessimo bagnate con acqua di mare, a un certo punto una saltò. Quel rumore secco e improvviso ci fece balzare in piedi. Dalla falla entrava acqua. Ci demmo subito da fare per assicurare l'asse che si era smossa con una corda, dato che non avevamo chiodi; poi vuotammo la lancia, già quasi piena d'acqua a metà. Durante il secondo giorno di bonaccia smontammo l'albero per evitare che venisse sbalzato fuori bordo dal rollio delle ampie onde levigate che ora ci stavano raggiungendo. Da miglia e miglia di distanza, una tempesta, dopo aver infuriato, stava mandando fino a noi le sue ultime onde morenti. Gli anelli che si allargano su uno stagno, se ci si butta un sasso, arrivano fino ai bordi. Una tempesta produce gli stessi effetti di un asteroide caduto in mare allargando in tutte le direzioni onde alte come montagne, interminabilmente lunghe. Le grandi ondate di settembre che si infrangono ai piedi delle scogliere di Neversink portano il loro messaggio molto prima del più veloce battello pilota. E molte volte esse conoscono l'ultimo segreto di grandi navi delle quali nessuno ha più saputo nulla dal giorno in cui lasciarono il porto. In ogni onda io vedo un'anima. Era inutile stare al timone, e Jarl ed io ci riparammo alla meglio sotto la tenda. Per i primi due giorni, uno alla volta, ogni tre o quattro ore, ci calavamo in mare, tenendoci ai bordi della lancia e stando bene attenti che non ci fosse nelle vicinanze qualche squalo. Un piede o due sotto la superficie l'acqua era fresca, una delizia. Ma il terzo giorno le cose cambiarono. Rinunciammo al bagno, era troppo faticoso. Ci stendemmo cupamente, voltandoci la schiena. Non potevamo tollerare neppure di sfiorarci l'un l'altro. Che espressione avesse il mio viso, non lo so: ma odiavo guardare Jarl. Quando lo facevo, vedevo un'occhiata feroce, non uno sguardo. Diventai più taciturno di lui. Non so dire quel che provavo, ma avrei voluto essere solo. Sapevo che fino a quando fosse durata la bonaccia non c'era niente da fare: non potevamo aiutarci a vicenda, e, soprattutto, sapevo che l'acqua sarebbe durata più a lungo, per uno solo. Non sentivo il minimo rimorso per questi pensieri. Era l'istinto. Come un desperado agonizzante, io desideravo solo respirare. Che Dio mi scampi dal naufragare insieme a mio fratello! Passarono quattro giorni. E al mattino del quinto, grazie al cielo, si alzò il vento. Venne danzando, leggero, dapprima increspando appena il mare, finché incominciò a muovere le nostre vele, issate ai primi segni del suo arrivo. Poi fu più forte, e il nostro povero Camoscio parve resuscitare. Le parole non bastano a dire la gioia che ci invase. E sentimmo di nuovo il basso mormorio del mare sotto la prua, mentre la lancia, come un uccello, avanzava cantando. Come era tutto diverso, ora! In alto, una dolce nebbia azzurra distillava in gocce infinitesime la luce del sole. E lontano, su tutto il mondo, si agitava, scintillante di sole, azzurro, frusciante, il mantello dell'oceano, bordato da un ermellino di schiuma; il resto era un infinito azzurro. Ritmo, e musica! Le onde gorgoglianti che si inseguivano ridenti di schiuma, i pesci colorati che sommuovevano l'acqua, e, a quando a quando, il rumore delle ali di uccelli marini che volavano sopra di noi. Ah, oceano! Quando ti lasci andare, e sorridi, sei più bello di un prato, di un prato immenso coperto di fiori! | << | < | > | >> |Pagina 9836. Morte del ParkiPrima, una lunga bonaccia sulla lancia, e ora, che Dio ci aiuti, un'altra sul brigantino. Una bonaccia inerte, profonda. In quella torrida calma, ce ne stavamo fermi e rigidi come Parry al Polo. Un mare di vetro rifletteva come ghiaccio i raggi del sole. Dopo due giorni, alzando gli occhi, vedemmo una nuvola strisciare, bassa, paurosa, lungo tutto l'orizzonte verso est, come un esercito schierato. Jarl mi mise subito in guardia. Θ opportuno ricordare che nel Pacifico, nella zona dell'equatore, il bel tempo può durare per settimane e settimane, ma i temporali, quando scoppiano, sono terribilmente violenti, proprio perché sfogano tutta la loro rabbia in pochi, durissimi colpi. Vengono come Mammalucchi, caricano e scompaiono. Mancava un'ora buona al tramonto, ma il sole si era quasi abbuiato. Sembrava che stesse brancolando in fondo a un dirupo, fra cupe nebbie. Sopra la grossa nuvola dell'uragano piccole nubi svolazzavano sinistramente, avanzando, ritirandosi in fretta. Erano i guerriglieri che Attila mandava in avanscoperta davanti ai suoi Unni. E le loro ombre trascorrevano rapide sul mare. Guardavamo la nuvola: continuava ad avvicinarsi, sempre più in fretta. Ammainammo rapidamente le vele, che a causa della bonaccia pendevano vuote dalle antenne. E, aiutandoci anche con una lunga pertica manovrata dal ponte del castello di prua come un remo, cercammo di disporre il brigantino con la prua al nemico. L'uragano era ormai vicino. Non si sentiva neanche un alito di vento. La nuvola avanzava cautamente, in silenzio; la sua ombra incombente posava su un'alta cresta lattescente che correva sul mare. E quella gonfia linea di schiuma avanzò rotolando contro di noi come una bianca carica di cavalleria; in testa c'erano Hotspur, il pazzo, e Murat col suo cappello piumato; era un'ininterrotta cascata spumeggiante che si ergeva e ricadeva sopra un mare vitreo. Neanche un soffio d'aria, non ancora. Ma d'improvviso, come colpita da un pugno gigantesco, e prima che le nostre vele fossero tutte legate, la nave, intontita, si piegò a babordo e si abbatté sul suo fasciame; una marea ruggente le piombò sopra sulla fiancata esposta al vento, e sul ponte caddero gocce d'acqua pesanti come gocce di sangue. Fragore e nebbia, corde e antenne che scricchiolavano, schianti e visioni orribilmente mescolati. E, per un attimo, fummo nel cuore caldo della tempesta. Le sartie vibravano come le corde di un'arpa, sonore fra tutti i rumori dell'uragano. Gli alberi si ergevano, si inclinavano, sfioravano l'acqua con le antenne. E, come un bufalo ferito che si accascia a terra, il nero scafo del brigantino, irsuto di alghe, posò sulla schiuma il suo fianco palpitante. Ci tenevamo disperatamente al parapetto più alto. E in quel momento, più forte dello scrosciare delle onde, si udì d'improvviso un secco suono di legno spezzato, come se un boscaiolo norvegese stesse abbattendo un pino nella foresta. Era Jarl che, più rapido di tutti, aveva afferrato l'ascia appesa all'albero maestro. Tagliate le sartie sopravvento! gridò dando un altro colpo all'albero con l'ascia. Ci demmo subito da fare. Poi, mentre stavamo tagliando la terza delle cinque sartie, ci gridò di smettere. Lasciò cadere l'ascia, balzò vicino a noi. Mentre si afferrava al parapetto, l'albero ferito si spaccò in due con un rumore di cannonata. Dalla spaccatura si alzò un po' di fumo. Le altre sartie si spezzarono. Per la violenza del colpo le due corde frustarono follemente l'aria, e una delle grosse carrucole legate in fondo colpì Annatoo, sulla fronte. Lasciò la presa, scivolò sul ponte inclinato, scomparve nel gorgo. Samoa lanciò un urlo. Ma non era il momento di piangerla: nessuna mano poteva tendersi ad aiutarla. L'albero maestro si trascinò dietro l'albero di trinchetto, e la nave si raddrizzò di colpo. Eravamo salvi, per ora, e il nostro salvatore era il mio regale vichingo. Il primo impeto dell'uragano era passato. Ma lontano, sottovento, si vedeva la linea bianca della sua furia che trasformava in schiuma l'intero oceano. Intorno a noi il mare ribolliva come diecimila caldaie, e la nostra nave navigava a fatica sbattuta come un tronco dalle onde. Quei colpi mortali contro lo scafo risuonavano come martellate su una bara. Stavamo naufragando, ormai. Ogni volta che la nave beccheggiava, il nostro bompresso ciondolante si alzava in aria e i monconi degli alberi battevano sulle fiancate. Tagliammo in fretta le corde che ancora li trattenevano. Il peggio era passato, ma il mare era ancora in tumulto. Adesso il vortice oscuro della tempesta, quel turbine impazzito di schiuma, aveva lasciato il posto a onde enormi, lunghe, con creste candide come la neve delle Ande. A tratti eravamo sospesi, su in alto, e tutto l'oceano sconvolto intorno a noi era come un paesaggio visto dall'alto del Chimborazo. Dopo poche ore, la burrasca cessò. C'era un mare calmo, adesso, e il vento era tornato costante, e il cielo era limpido, pieno di stelle. Questa fu la tempesta che seguì la bonaccia. | << | < | > | >> |Pagina 10238. Il mare incendiatoLa notte dopo l'abbandono del Parki accadde qualcosa di straordinario. Mentre dormivamo sdraiati sul fondo della lancia Jarl ed io fummo improvvisamente svegliati da Samoa. Ci alzammo in piedi. L'oceano era colorato di pallido bianco, tra un infinito scintillare d'oro. E quel biancore dell'acqua rifletteva sulla barca una luce cadaverica, e noi sembravamo fantasmi. Per un lungo tratto la nostra scia era segnata da una linea di schiuma lucente, e sotto la superficie dell'acqua strisce verdi che si incrociavano in ogni direzione rivelavano i percorsi degli squali. Lontane e a gruppi fluttuavano sul mare, come costellazioni nel cielo, migliaia di meduse, quei piccoli pesci rotondi e fosforescenti che si trovano soltanto nei Mari del Sud o nell'Oceano Indiano. Poi, di colpo, mentre guardavamo, si levarono nell'aria folti spruzzi di luce, e si udì, inconfondibile, il profondo respiro della balena. Di lì a poco il mare intorno a noi fu tutto uno zampillare di fontane di fuoco, e bestie enormi, dai fianchi lucenti, sollevarono la testa sull'acqua mandando scintille. Un immenso branco di balene era salito dalle profondità per venire a giocare fra quelle onde fosforescenti. Quegli spruzzi brillavano più di ogni altra cosa, sul mare. Forse l'acqua diventava più luminosa passando attraverso gli sfiatatoi delle balene. Avevamo paura che quei leviatani, pur senza avere cattive intenzioni, potessero avvicinarsi troppo alla nostra barca, e demolirla. E non eravamo in grado di evitarli, perché ce n'erano da tutte le parti. Ma ci accorgemmo poi che la luce irradiante dalla nostra chiglia mentre solcava quel pallido mare sembrava avesse il potere di allontanarli. Quando ci vedevano, di colpo molte balene si tuffavano a capofitto, agitando nell'aria le loro code incandescenti, e in quel punto l'acqua in subbuglio si faceva ancora più luminosa. Andavano verso ovest, come noi. Per allontanarcene, alla fine, ci mettemmo ai remi, dirigendoci a nord. Ma una solitaria balena, che doveva aver scambiato il nostro Camoscio per una sua compagna, continuava a seguirci. E malgrado tutti i nostri sforzi si avvicinò fino a strisciare con il suo fianco fosforescente contro il fianco del Camoscio, lasciandosi dietro lunghe strisce di quella sostanza trasparente e lucida che, sottile come una garza, riveste il corpo del cachalot. Samoa tremava, terrorizzato. Ma cose del genere accadono spesso durante una caccia. E Jarl ed io, più adusati a un'intima conoscenza con le balene, continuammo a far forza sui remi per allontanarci. La vicinanza di quella balena risvegliò nell'Uomo del cielo tutto l'entusiasmo della sua pericolosa professione. Anche se è un tipo tranquillo, un esperto baleniere non sa nascondere la sua emozione alla vista della selvaggina. Dovetti faticare per trattenere Jarl dal lanciare il suo arpione: in quelle condizioni sarebbe stata una pura pazzia, e senza scopo, oltre a tutto. Ma il mio vichingo disse: Oh, per un colpo! e aggiunse, pieno di nostalgia: Dove sarà, adesso, la nostra vecchia nave? Alla fine, con mia grande gioia, il mostro si allontanò per riportarsi nel branco. Si vedevano, lontani sull'orizzonte, alti spruzzi fiammeggianti, simili alle vampate improvvise di una aurora boreale. Per circa tre ore il mare fu ancora luminoso. Poi l'acqua incominciò ad oscurarsi, e infine si vide soltanto qualche debole luce improvvisa, quando un pesce scattava sott'acqua, e tutto finì. Avevo già assistito a spettacoli del genere, sia nell'Atlantico che nel Pacifico. Ma erano niente in confronto a ciò che avevo visto quella notte. Nell'Atlantico accade di rado che intere estensioni dell'Oceano diventino luminose. La fosforescenza si limita di solito alla cresta delle onde, soprattutto quando piove ed è buio. E nel Pacifico avevo avuto occasione di vedere soltanto quelle strane macchie di luce verdastra, ma il mare non era così pallido. Tranne due volte, sulla costa del Perù, quando un grido di allarme mi aveva fatto balzare dalla mia amaca, a mezzanotte: Tutti sul ponte! Vira di bordo! , e precipitandomi in coperta avevo visto l'acqua bianca come un lenzuolo, come se davanti a noi si stendesse una secca. Ai marinai piacciono i prodigi, e gli piace parlarne. Così ho sentito molti vecchi marinai enunciare sapienti spiegazioni a proposito di quel fenomeno. Non prenderò in considerazione, come priva di ogni verosimiglianza scientifica, la stravagante teoria di uno dei miei amici fantasioso quanto il mio vichingo secondo la quale quella fosforescenza nel mare sarebbe causata da un agitato muoversi delle sirene, i cui capelli d'oro, sciolti e scarmigliati, irraggiano tra i flutti. Esaminerò quindi le teorie più ragionevoli. Faraday, forse, potrebbe far dipendere tutto da una particolare carica di elettricità nell'atmosfera. Ma il mio amico scienziato potrebbe essere contraddetto da molti marinai intelligenti che dicono che il fenomeno è dovuto, almeno in parte, alla presenza di una grande quantità di materia organica in putrefazione quella materia organica di cui, come si sa, il mare è tanto ricco. Θ una spiegazione piuttosto convincente. Se si prende infatti dal mare un secchio di quell'acqua fosforescente essa conserverà ancora quella luce. Dopo un po' che l'acqua è ferma, però, tornerà normale. Ma se rovesciate l'acqua sul ponte, sarà un ruscello di fuoco, suscitato dal movimento. Vuotate il secchio, e per un po' di tempo le sue pareti resteranno coperte di scintille, come se ardessero. Ma è anche vero che questa fosforescenza nell'acqua può essere prodotta anche da altri elementi. Ci sono molti pesci luminosi e, in certe condizioni, potrebbero contribuire anche loro a quel fenomeno. E la cosa vale anche per certe specie di squali, di seppie e di molti altri pesci. Ci sono poi miriadi di microscopici molluschi che potrebbero da soli accendere tutto quel fuoco nell'acqua. Ma queste sono soltanto supposizioni: ragionevoli, ma non certe. Dopo la scienza, il sentimento. Un naturalista francese sostiene che le radiazioni notturne delle lucciole hanno una precisa funzione di richiamo sessuale, che quell'ingegnoso insetto accende insomma il proprio corpo come un faro che mandi i suoi segnali all'amore. Così, posata su una foglia ad aspettare l'arrivo del suo Leandro che batte con le ali sui fiori per trarne profumo un'Ero degli insetti accende una lampada per guidare il suo innamorato. Ma ahimè, tre volte ahimè per la povera piccola lucciola del mare! La sua luce la scopre soltanto ai suoi nemici, e illumina la strada della sua distruzione. | << | < | > | >> |Pagina 13653. Il Camoscio a terraFino a quel momento Yillah era rimasta avvolta nei suoi veli, rannicchiata come un cerbiatto. Ma ora si mostrò. Che cosa videro in lei gli indigeni, che la contemplarono adorandola in silenzio? Alcuni si ritrassero, altri le si fecero vicino strisciando sulle ginocchia, le donne erano tutte agitate. La guardarono a lungo, poi, seguendo l'esempio di Samoa, stesero le braccia in segno di venerazione. E anche io venni fatto oggetto di quella adorazione. Da tutto il loro strano modo di comportarsi, del resto, avevo subito intuito che ci stavano accogliendo con onori straordinari. Cercai di parlare con i miei compagni. Ma la folla era tanto rumorosa che mi fu quasi impossibile. Jarl era ancora in aria, perché i suoi entusiasti portatori non si decidevano a farlo scendere. Samoa, invece, che era riuscito a evitare di farsi portare in trionfo, poté avvicinarsi al Camoscio. Mi consigliò di non scendere, per il momento, perché restando sul Camoscio eravamo assolutamente al sicuro, dato che gli indigeni lo consideravano sacro. L'upoluano, intanto, veniva osservato con grande curiosità. I suoi tatuaggi, infatti, assieme ad altre sue caratteristiche, avevano suscitato un tale interesse negli indigeni che gli stavano continuamente attorno, facendogli domande su domande e continuando a gridare. Ma nonostante tutto quel chiasso Samoa riuscì a dirmi che tra tutta quella folla non c'erano capi o altre autorità. Il re di quell'isola e quelli delle isole vicine erano infatti andati ad assistere ad una cerimonia in un'altra zona dell'arcipelago. Comunque, appena avvistato il Camoscio, gli indigeni avevano inviato dei messaggeri per informarli di quel sorprendente avvenimento. Finalmente la folla si calmò e tolse l'assedio a Samoa, ed io, approfittando di questa provvidenziale tregua, dissi al polinesiano e al vichingo di salire sul Camoscio per concentrare le nostre forze in vista di ogni eventualità. Samoa mi disse che, da quanto era riuscito a capire, gli indigeni mi consideravano un essere superiore. Gli avevano chiesto se non ero per caso un Taji bianco una specie di semidio che di tanto in tanto scendeva in mezzo a loro sotto spoglie diverse e che aveva un posto preciso tra le loro divinità inferiori. Lui aveva risposto di sì e aveva anzi cercato in tutti i modi di confermarli in quella convinzione. E ora voleva che io, alla prima occasione, proclamassi di essere un Taji, sostenendo che in tal modo saremmo stati sicuri di essere accolti con ospitalità generosissima e non avremmo più corso alcun pericolo. Una cosa incoraggiante. Ma era meglio andar cauti. Θ vero che i primi stranieri approdati su certe isole barbare erano stati presi molte volte per esseri superiori, e in molti luoghi si erano sentiti normalmente chiamare col nome di dei, ma è anche vero che tutto ciò non aveva salvato da gravi pericoli alcuni di quei celesti visitatori che si erano fatti troppe illusioni fidando su quella buona accoglienza. E gli indigeni, pur continuando a ritenerli semidei, si erano rivoltati improvvisamente e li avevano massacrati: come accadde a un famoso navigatore. Era con una certa ansietà, quindi, che aspettavamo l'arrivo di qualche autorità di Mardi tale infatti, ci avevano detto, era il nome di quel gruppo di isole.
Non ci volle molto. Di colpo, dalla parte del mare, si sentì
un grido acuto, e poi il suono di molte buccine di conchiglia.
Un confuso clamore si avvicinava. Guardammo da quella
parte, ansiosamente.
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