Autore Lina Meruane
Titolo Contro i figli
EdizioneLa Nuova Frontiera, Roma, 2019, liberamente , pag. 128, cop.fle., dim. 13,8x21x1 cm , Isbn 978-88-8373-347-5
OriginaleContra los hijos
TraduttoreFrancesca Bianchi
LettoreMargherita Cena, 2022
Classe femminismo , sociologia












 

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Indice


    La macchina sforna figli            11

    Rivoluzioni decapitate              27

    Un ricorrente batter d'ali          36

    Sul canone in-fecondo               58

    Tipi di madre                       81

    Mani invisibili                    103

    L'impero dei figli                 113


 

 

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Pagina 11

La macchina sforna figli



La macchina riproduttiva segue il suo ritmo incessante: sforna figli a bizzeffe. E di persone anche ne muoiono a bizzeffe, ma per ogni morto, per ogni persona con un piede nella fossa, ci sono due punto tre corpi vivi che vengono scaraventati nel mondo a tentare la sorte. Ovunque si vocifera che la pulsione che ci spinge a fare figli sia una risposta istintiva alla minaccia dell'estinzione. L'appello a far crescere il numero dei bambini, che saranno ragazzi, che un giorno diventeranno adulti, sarebbe ciò che mantiene viva la specie. I figli però, lungi dal rappresentare degli scudi biologici per il genere umano, sono parte degli eccessi consumistici e inquinanti che stanno distruggendo il pianeta.

Ecco qui un paradosso, e non è l'unico.

L'angoscia per la presunta "crisi di fertilità" non ha alcun senso. L'Europa potrà anche affliggersi per l'invecchiamento della sua popolazione, potrà sognare l'avvento di un esercito di futuri europei che facciano ripartire il settore industriale, che sostengano con i loro salari l'iperattivismo dei mercati e che mantengano, con i loro contributi, un numero spropositato di vecchi sempre più longevi di cui gli Stati post-capitalisti si rifiutano o non sono più in grado di occuparsi. Ma l'Europa, se la osserviamo bene, se la guardiamo attraverso una lente di ingrandimento e con occhi ben aperti, non è che un pezzetto di terra con una manciata di persone sopra. Una porzione minuscola del globo che, se solo volesse, se davvero credesse alla sua stessa narrazione apocalittica e aprisse le sue frontiere blindate, potrebbe risolvere il problema facendo spazio alle tante persone ammassate e in pericolo di vita in altre zone geografiche. Ecco un altro paradosso.

Sono così tante le persone condannate dalle guerre a scappare in cerca di rifugio! Tante quelle che cercano lavoro fuori dal proprio Paese. Tanti gli uomini e le donne della bomba demografica! Soprattutto in India e in Cina dove dopo quarant'anni di controversa politica del figlio unico adesso le coppie possono averne due. E sono indubbiamente tanti quelli che fanno salire il tasso di fecondità delle nazioni meno industrializzate. Difficile non menzionare alcuni popoli dell'America Latina. Impossibile non pensare all'Africa come a un enorme Paese partoriente (pur considerando, analogamente, il suo alto tasso di mortalità). E il sovrannumero di figli in quelle zone è parte delle loro difficoltà: questo è un altro assurdo.

La macchina sforna figli è la nostra condanna.


Tuttavia, voglio essere chiara. Non difenderò, in queste pagine, la dismissione totale dell'industria dei figli. Non condivido la sconfortante tesi malthusiana né l'idea che solo le calamità e l'astinenza potrebbero porre freno all'aumento della natalità. Non credo nel darwinismo demografico né auspico nelle pagine seguenti alcun sistema eugenetico. Soluzioni finali? Niente affatto!

Il proposito di questa arringa non è neanche quello di difendere l'impeto brutale di un certo Erode o il figlicidio vendicativo di una certa Medea che, come dicono le malelingue del canone, avrebbe ucciso i suoi rampolli così come, allo stesso modo, hanno fatto, al di fuori del mito e fin dall'Antichità, tante madri in preda ai penosi deliri del post parto e tante altre nel pieno possesso delle proprie facoltà.

Non scrivo in favore dell'infanticidio, sebbene il neonato qui a fianco interrompa il mio sonno, sebbene i ragazzini del piano di sopra ballino il tip tap sul mio soffitto e sul mio lavoro diurno.

Non difendo la soppressione di alcuna vita, sebbene sia a favore di tutte le forme possibili e immaginabili di contraccezione che non mettano in pericolo la salute delle donne. E sono contraria alla violenza che tanti bambini e tante bambine subiscono oggigiorno. Non sono contraria ai bambini.

Scritto in altro modo:

È contro i figli che scrivo queste pagine. Contro la posizione che i figli hanno pian piano occupato nel nostro immaginario collettivo da quando hanno "ufficialmente" abbandonato i loro posti di lavoro nelle città e nelle campagne e hanno inaugurato un'infanzia in pieno stile XX secolo vestita di innocenza ma investita di pieni poteri nello spazio domestico.

Sono contraria al potere occulto dei figli tiranni dei tempi che corrono, veloci e sfrenati proprio come loro. Sopra la mia testa e nel corridoio. A squarciagola! Silenzio, imploro, cercando di nascondere la mia irritazione: è impossibile lavorare in mezzo a un tale baccano. E non è soltanto contro questi figli prepotenti che scrivo ma anche contro i loro progenitori. Contro gli indolenti complici del patriarcato che non si sono fatti carico della loro equa metà nell'eroica impresa della procreazione. Contro la nuova specie di padri disposti a collaborare dentro e fuori casa ma che sembrano incapaci di apostrofare con un educativo "stop!", un risoluto "basta!" i propri figli ribelli; senza fare una piega gli permettono di calpestare la tranquillità dei loro esasperati vicini.

E perché non aggiungere in questo mio sermone che sono contro molte madri? Non tutte. Soltanto contro quelle che hanno tirato i remi in barca e che hanno angelicamente rinunciato a tutte le proprie aspirazioni, contro quelle che hanno accettato di procreare senza chiedere niente in cambio, senza pretendere l'aiuto del marito-padre o dello Stato. Contro quelle madri che sono rimaste incinte credendo di aver accalappiato uno sprovveduto e che poi si sono ritrovate loro intrappolate dal proprio figlio, da sole con lui. Contro quelle che, in una rivisitazione moderna della madre-serva, sono diventate madri-totali e super-madri disposte ad accollarsi casa, lavoro e figli senza poter dire una parola. Per tacere di quelle madri prepotenti che oltre a riprodursi (e a mettersi in mostra spingendo il loro passeggino sopra i nostri piedi) ci obbligano a considerare i loro figli come nostri.

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Pagina 19

Per questo è fondamentale importunare le donne-senza-figli. Per questo bisogna additarle, giudicarle, interrogarle, censurarle. Per questo rimproverarle, scuotere la testa e ripetere le ormai logore accuse con in più un sorrisetto di sufficienza.

Te ne pentirai quando sarà troppo tardi, cara mia.

E forse è per questo che la nostra lingua non ha ancora adottato una parola che descriva in modo conciso il loro desiderio anticonformista. Non che il termine non esista in assoluto: childfree è apparso negli anni Settanta nel mondo anglo-sassone dove fino a quel momento le poche donne-senza-figli dicevano "non posso" invece di dire, come avrebbero fatto a partire da quel momento, più numerose, più libere, più legittimamente: "non voglio, né adesso né mai." La sfumatura di senso era cambiata, childfree (libera-dai-figli) distingueva una non maternità scelta o accettata rispetto all'altra situazione, sofferta, carente, stigmatizzata, quella di non avere figli perché non si poteva: childless.

[...]

Ecco cosa strombazzano ai quattro venti, tutte insieme, quelle voci. Intonatissime.

Figli! Il vetusto ma ancora potente precetto religioso (qualunque sia il credo, l'evangelo della procreazione è sempre lo stesso) che, come un ventriloquo di una qualche divinità maschile, ci ordina di crescere, moltiplicarci, riempire la terra di successori e seguaci e proibisce, in latino o nelle lingue ritenute necessarie, e in modo del tutto irrazionale, qualsiasi metodo sicuro di contraccezione.

Figli, figli! Il sistema capitalista mette in scena un'altra crisi produttiva ed enfatizza un sospiro soffocato imponendo sui corpi femminili una gestione privata, privatizzata, e priva di assistenza mentre lo Stato dà segni di un imminente collasso.

Figli! Ripetono sconsideratamente i portavoce delle ideologie reazionarie. Vogliono figli che non esiteranno a far rinchiudere se vengono su ribelli, e ovviamente vogliono figlie poco volitive ed estremamente fertili che portino avanti "la tradizione della vita a qualunque costo", compreso, ricordiamolo, a costo della loro stessa vita.

[...]

A peggiorare la situazione, quello che non si aspettavano di scoprire le donne che avevano risposto alla stridente chiamata alla maternità era che, senza alcun preavviso, i requisiti della buona-madre erano aumentati. A loro oggi si raccomanda di tornare al parto senza anestesia, all'allattamento prolungato, ai pannolini di stoffa, allo scarrozzamento perpetuo dei figli per accompagnarli ai loro numerosi appuntamenti medici, pedagogici e sociali (perché da soli non possono andare da nessuna parte); a cui va aggiunto il nuovo tempo di qualità che riduce l'indipendenza delle madri.

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Pagina 27

Rivoluzioni decapitate



Riavvolgiamo il nastro del tempo, anche se non sarà necessario andare molto a ritroso nella gestione e gestazione dell'idea di figlio. Anche senza guardare al passato do per assodato o solo per ipotizzato il seguente paradosso. Tutte le rivoluzioni libertarie, di qualunque segno fossero (le guerre di indipendenza, le rivolte sociali, le mobilitazioni che si sono succedute nella storia), hanno risvegliato nelle donne la coscienza della loro misera condizione. Le donne hanno sempre fatto proprio l'urlo libertario, si sono riversate nelle piazze e nei campi di battaglia per lottare in nome della signora Uguaglianza e per loro stesse. Eppure, il fatto che restassero a fianco degli uomini offrendo anima e corpo sulla linea di fuoco non è bastato a fargli ottenere nessun diritto. In tutto il mondo e in tutte le epoche, con impressionante simmetria, una volta finiti gli scontri le donne venivano rimandate a casa senza che avessero conquistato alcun tipo di libertà.

Il sempiterno richiamo ai ruoli inoffensivi imposti dalle convenzioni si è sempre servito della retorica della maternità.

La procreazione per compensare le perdite.

Crescere figli per assicurare il rinnovamento del corpo sociale.

La leva materna obbligatoria come unico contributo civico della donna.

La maternità: uno slogan a prova di rivoluzioni, un dogma controrivoluzionario.

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Pagina 36

Un ricorrente batter d'ali



A questo punto facciamo un salto in avanti di un centinaio d'anni senza arrivare ai giorni nostri. Atterriamo direttamente nel secolo scorso. Buttiamo un occhio intorno mentre ci aggiustiamo le gonne e i pantaloni e ci tiriamo su i calzini o ci allacciamo le scarpe.

Vi chiederete quale sia la ragione di tutto questo andare avanti e indietro, e la ragione è la seguente. Procedere in maniera discontinua attraverso il tempo e lo spazio ci consentirà di farci un'idea su un determinato stato della situazione e sull'andamento oscillatorio e recidivo della questione della maternità. È indispensabile osservare come questa storia si muova avanti e indietro e poi avanti e poi di nuovo indietro e, nel frattempo, accorciare le distanze dove possibile per arrivare velocemente al presente.

[...]


Una messa in discussione permanente delle strutture all'interno delle quali si percepisce il batter d'ali di quel mandato angelicale che torna continuamente ad appestare col suo alito conservatore le condizioni economiche, legali, politiche e culturali di tutte le donne.

Delle donne-professioniste.

Delle donne-operaie.

Delle donne-intellettuali, delle donne-artiste.

Delle donne-madri.

Queste diverse prospettive, non dimentichiamolo, a volte si sovrappongono. Tutte queste donne sono sempre tornate, la sera o la notte, nelle proprie case per continuare a lavorare e per mettersi al servizio dei figli a volte con, ma soprattutto senza l'aiuto del partner né di nessun altro. Senza il sostegno di leggi che collettivizzino la pratica di crescere dei figli ridistribuendo le responsabilità e non soltanto i proclami che esaltano, in modo spudorato e pubblico, la procreazione come questione sempre più privata.

Questi discorsi ideologicamente forti, ma inconsistenti dal punto di vista economico e legale, stendono un tenue velo sulla difficile realtà che vogliono nascondere: l'enorme solitudine della madre che rimane in casa e la sempre maggiore colpevolizzazione di quella che riesce a uscirne. E la frustrazione di entrambe per non riuscire a trasformare l'esasperazione, l'infelicità, la rabbia, l'angoscia, in forme di azione politica in grado di collettivizzare il compito di crescere i figli.

Per stanchezza.

Per sovraccarico di compiti e preoccupazioni anche più urgenti.

Per vergogna.

Per comodità o convenienza (l'errore, diffuso soprattutto tra le donne di classe media, di pensare che fosse più giusto non alzare la voce, chiedere aiuto per favore e ovviamente ringraziare).

Gravissimo errore, ci ricordano le scrittrici più lucide: avevamo il dovere di tenere gli occhi aperti dinanzi alle ricorrenti apparizioni del malefico angelo, era necessario continuare a scendere in piazza per pretendere dei cambiamenti e lottare per condizioni più giuste per tutte le donne, incluse, ovviamente, le donne madri.

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Pagina 64

La giornalista Leila Guerriero che non ha figli "né propri né in prestito, né di altri o in custodia" mi manda un testo recente dove mi assicura - lei, la più audace tra tutte le senza-figli che conosco - che non ha mai voluto averne. "L'idea di partorire non mi ha mai emozionato. Ancora oggi mi diverte lo sgomento che le parole non ne voglio provocano nelle persone. C'è chi elabora delle rassicurazioni ("Be', prima o poi ti verrà voglia"), chi insinua sospetti ("Non potrà averne e dice che non ne vuole"), o chi si infastidisce ("Non puoi andare contro l'istinto materno"). Il mio caso è più semplice. Non ne voglio. Non ne ho mai voluti. Non ne sento il bisogno. E nemmeno ci penso tutti i giorni. Direi che non ci penso nemmeno tutti gli anni."

Quanto più è semplice la risposta alla domanda sul perché non si vogliano avere figli tanti più dubbi sembra suscitare negli interlocutori, mi dicono, o scrivono anche altre scrittrici-senza-figli confermando l'esperienza di Guerriero. Io credo che il fatto di non voler procreare o di non vedersi nel ruolo di madre dovrebbe essere considerato al pari di non aver mai sognato di diventare un'atleta olimpionica (o di aver respinto l'idea di passare tutta la vita sui campi di allenamento, per quanto talento sportivo si possa avere). Da quando avere un talento o un'inclinazione ci obbliga a svilupparla?

Noi creative-senza-figli, quasi senza eccezioni, continuiamo a essere assillate da questa richiesta, continuiamo a dover difendere all'infinito il diritto al "non voglio" e al "no perché no".

Molto semplicemente.

Ma non altrettanto facilmente.

Per niente facilmente.

Perché forse, dico forse - non sono del tutto convinta di questo, come invece alcune donne sostengono - forse è vero che l'accusa di egoismo o di individualismo ha perso vigore, ma che una donna oggi proclami il suo totale disinteresse continua a suscitare un sospetto altrettanto colpevolizzante: quello di avere un problema. Una patologia oltretutto molto in linea con il linguaggio della nostra epoca nella quale il rifiuto della maternità sarebbe causato da un difetto genetico. Studi scientifici di dubbia serietà affermano che il non volere figli di alcune donne si spiegherebbe con la mancanza del gene dell'istinto materno. Questa assurda argomentazione viene usata per spiegare l'esistenza di donne-senza-istinto-materno e al contempo serve a riciclare dal punto di vista medico la vecchia nozione della "donna incompleta" o "donna anormale", della "donna malata": senza figli o senza desiderio o senza istinto e privata per sempre dell'impareggiabile esperienza di partorire. A questa donna manca quel gene che una scrittrice - anonima per sua volontà - ha ribattezzato SusanitaBGHU78, in onore al personaggio del fumetto Mafalda che sognava di sposarsi e avere una famiglia. L'idea di un frammento mancante nel cromosoma enfatizza una mancanza o un errore, una vera e propria patologia che fino ad ora non era stata classificata e che viene presentata per sottolineare che l'unica normalità è volere dei figli.

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Pagina 76

Si capisce qual è l'obiettivo di questo elenco?

Forse non ho saputo essere eloquente nel riepilogare i casi di conflitto tra maternità e scrittura. Queste storie sono la riprova che mi permette di convalidare le cinque tesi che abbozzo di seguito.

Uno. La fertilità della letteratura femminile è sempre stata in rotta con gli obblighi della riproduzione. Si diceva che le donne dovevano partorire esclusivamente figli in carne e ossa mentre gli uomini davano alla luce figli libri usciti dal "ventre della loro immaginazione" dopo averli nutriti "per anni e anni [...] nella loro mente e nella loro memoria." La citazione è di James Joyce , un portabandiera del pensiero patriarcale del suo tempo, ma un secolo più tardi la misteriosa Elena Ferrante - che si dichiara scrittrice italiana e madre militante - conferma, con un po' di malizia e molto spirito di rivalsa materna che "gli uomini sono sempre stati invidiosi di questa che è un'esperienza esclusivamente femminile, e spesso hanno immaginato [...] forme di gravidanza al maschile. E non solo: si sono metaforicamente appropriati delle espressioni concepire e partorire. Concepiscono idee, partoriscono libri. E dal momento che noi abbiamo il potere animale di dare la vita, loro eserciteranno il potere umano di dare forma al mondo attraverso opere sublimi." Gelosi o no, invidiosi o, al contrario, liberati, gli scrittori hanno capito che conciliare scrittura e figli era praticamente impossibile. Riporto la citazione di Joyce solo perché dalle sue parole si deduce che tanto il crescere figli quanto lo scrivere libri sono imprese ardue, "di anni e anni", e che potrebbero arrivare a escludersi l'una con l'altra nel caso in cui ci si debba guadagnare da vivere ogni giorno.

Due. Le donne che hanno fatto le scrittrici e che sono riuscite a emergere lo hanno potuto fare perché hanno rinunciato ai figli o perché hanno abortito o perché, quando i figli sono capitati, e hanno iniziato a intralciarle, hanno deciso di abbandonarli seguendo l'esempio dei loro colleghi uomini. È il caso della scrittrice e spia britannica Muriel Spark che abbandonò il marito in Rhodesia e il suo unico figlio in Scozia con la nonna per potersi dedicare, nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale, a occupazioni più eroiche. È il caso di Doris Lessing che prima di compiere trent'anni si era sposata, aveva generato due figli, divorziato, si era risposata, aveva dato alla luce il terzo figlio, aveva divorziato di nuovo ed era partita per Londra con uno solo dei suoi rampolli per avere la possibilità di scrivere; fu in quella città dove si formò come lettrice e dove iniziò a scrivere i sessanta libri che avrebbe pubblicato prima di ricevere il Premio Nobel per la Letteratura. Ed è anche il caso di Susan Sontag che, siamo ormai ai giorni nostri, lascia il figlio col padre per dedicarsi ad attività intellettuali. Se la scrittura le ha ripagate, la vita non è stata giusta con loro: anche nel caso in cui abbiano abbandonato i figli perché costrette all'esilio (il caso della già citata Galvão), sono state duramente criticate per essersi svincolate dalla responsabilità materna mentre non è mai stato giudicato negativamente il fatto che Rilke o Bloy o José Mattí o Pablo Neruda o Carlos Fuentes o Ernesto Sábato si disinteressassero della gestione dei figli per portare avanti le loro carriere politiche e letterarie, o le loro crisi esistenziali, anche quando i figli di questi scrittori ebbero vite tragiche e morirono prima dei genitori.

Tre. Le donne che sono riuscite a destreggiarsi tra pannolini e biberon in una mano, mentre con l'altra intingevano la penna nell'inchiostro, hanno continuato a scrivere perché avevano qualcuno che le aiutava o delle risorse per poter pagare qualcuno per farlo. Una qualche forma di collaborazione è sempre stata indispensabile e persino donne-senza-uomini e senza-figli vi hanno fatto ricorso. Donne-con-donne come Yourcenar o Mistral o Stein avevano capito l'utilità del modello e lo hanno replicato: si sono appoggiate alle compagne che per loro hanno fatto le veci di domestica o di assistente o di segretaria oltre che di musa e amante. Non a caso la celebre saggista-senza-figli, Rebecca Solnit , nel 1972 scrisse un ironico articolo intitolato Why I want a wife. Solnit parlava "dell'allarmante elenco di cose che una donna può fare per suo marito e per i figli" seguendo il modello di "una schiava autogestita". Non è quindi raro che una donna finisca per desiderare di essere un uomo.

Quattro. Le donne che hanno avuto dei figli e non avevano mezzi sufficienti hanno messo da parte la scrittura per un prolungato e doloroso periodo riprendendola soltanto molto dopo, perché negli anni della crescita "non c'era tempo, e quando c'era la concentrazione durava pochi minuti, o mi addormentavo", ricorda Elena Ferrante. Alcune semplicemente ci hanno rinunciato: non hanno sopportato la frustrazione dell'attesa come invece è riuscita a fare Natalia Ginzburg , anche se lei per prima si è chiesta, con non poca angoscia, "come si facesse a scrivere avendo dei figli". Piena di una "feroce nostalgia" per la scrittura, Ginzburg confesserà in un saggio scritto a posteriori che "mi sforzavo di disprezzare e deridere il mio mestiere per occuparmi solo dei bambini".

Cinque. Le donne che hanno procreato e tirato su da sole i propri figli e nel frattempo hanno continuato a scrivere e a lavorare senza alcun aiuto sono delle eccezioni. Tra queste Lucia Berlin , la scrittrice statunitense, da poco riscoperta, che ha cresciuto da sola quattro figli mentre lavorava in una lavanderia, faceva la domestica, insegnava, cambiava città e beveva più del dovuto per sopportare il peso di quella vita che ha saputo magnificamente trasporre sulla pagina. L'unica cosa certa è che intorno a tutte queste donne volteggia il perturbante angelo che le obbliga a scegliere. Quando la domanda venne rivolta a Clarice Lispector , la grande scrittrice brasiliana del secolo scorso, modello per le generazioni future, lei rispose senza il minimo dubbio che non avrebbe avuto difficoltà a scegliere: "Rinuncerei alla letteratura. Non ho alcun dubbio che come madre sono più importante che come scrittrice."

E così si torna alla minaccia della posticipazione e della rinuncia, si ritorna alla possibilità di sublimare la vocazione letteraria attraverso la superiorità angelica o mistica o maledetta dell'essere madre.

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Pagina 81

Tipi di madre



Immagino che siate sul punto di gridarmi contro: "Accidenti a te, femminista incallita!"

[...]


Ve la presento anche se è ben nota a tutti.

È la super-madre instancabile e votata al sacrificio.

È la sposa-amante. (Perché si sarebbe sposata se non per avere una meravigliosa relazione di coppia in cui lei si occupa persino di sbarazzarsi della concorrenza?)

È la madre-indefessa-e-responsabile. (Perché avrebbe fatto dei figli se non per prendersene cura e fare di loro gli uomini e le donne migliori dell'universo?)

È la madre disposta ad allattare al seno mentre lavora e viceversa in un'ostentazione di energia.

È la donna-di-successo con vari figli a carico. (Perché mai avrebbe studiato per avviarsi a mestieri o professioni se non per esercitarli e perché mai avrebbe dovuto reprimere la sua voglia di maternità?) È questa la madre-macchina dalla vita cronometrata che esce di casa al mattino presto in auto, preferibilmente un'utilitaria multifunzionale come lei. Un po' spettinata ma accuratamente vestita. Lascia i figli a scuola e poi prosegue. Se è in ritardo o deve assentarsi qualche ora dal lavoro per l'irrinunciabile incontro con gli insegnanti non usa mai i figli come scusa: recupera le ore perdute e accetta qualsiasi sfida lavorativa per dimostrare - è questo il suo verbo preferito - che essere madre non è uno svantaggio. Al contrario, direbbe la super-madre sudando adrenalina: i miei figli sono il mio capitale. È però evidente il fatto che tema, pur non ammettendolo, che la sua condizione di madre non venga compresa dai suoi colleghi e dal capo (solo le segretarie potrebbero capirla, ma lei non si fida neanche delle segretarie, le segretarie ambiziose sono sempre state una minaccia). Pensa che se ha scelto di lavorare deve adattarsi, non chiedere mai favori. È il prezzo della sua indipendenza professionale ed economica. Un prezzo che implica riuscire a fare in modo che il marito non alzi un dito e che non si lamenti mai di nulla. Di conseguenza, di ritorno a casa dopo otto o dieci o dodici ore di lavoro serrato (preceduto, se ha fatto in tempo, da una capatina in palestra all'alba), accelera per rispettare quel tempo di qualità che la scuola si è inventata per sovraccaricarla ulteriormente. Perché non si tratta soltanto di arrivare a casa e chiacchierare con i figli, chiedere com'è andata la loro giornata e interessarsi a quello che stanno studiando. Consiste, questo tempo, nel partecipare all'opera educativa degli insegnanti controllando o peggio, iniziando e completando compiti sempre più difficili (sempre meno adatti all'età dei bambini) che la scuola assegna ai figli; consiste inoltre nello spiegare al figlio quello che non ha capito in classe, ripassare la lezione finché non l'ha imparata, fornire assistenza concettuale per il progetto di arte e addirittura realizzare i lavoretti manuali.

Un numero inesauribile di incombenze straordinarie: che sono fuori dall'ordinario e, al tempo stesso, estremamente ordinarie.

La super-donna ha dimenticato come andavano le cose prima, cosa faceva sua madre o la sua matrigna o sua nonna o sua zia quando lei da bambina arrivava a casa con i compiti da fare. Lei non mette in discussione come vanno oggi le cose. Lei vive nel presente della sua disperazione e perciò, invece di pensare al lavoro extra di cui si sta facendo carico, si distrae pensando che mancano i lucidi colorati, il cartoncino e la colla e in più i pennelli che servono il giorno dopo a scuola. Poi si ricorda che sono finiti i cereali preferiti del figlio più grande, le barrette energetiche della figlia adolescente, il latte al cioccolato del più piccolo, la carne per la cena di sabato. Il frigorifero si svuota alla stessa velocità con cui lei lo riempie. Fa quindi una deviazione per comprare queste cosette. Guarda l'orologio: la lavanderia è a due passi, se si sbriga ce la fa. Non rinuncerebbe mai a essere la più elegante tra le donne eleganti. La più moderna tra le donne moderne. Quella meglio truccata (persino quando si ritocca il trucco mentre è ferma al semaforo). La più sportiva. La più colta. Quella che non si è persa neanche uno dei film che andranno agli Oscar. Ancora non conosce il significato della parola esaurimento, arriva sempre fresca alla fine della settimana e non perde mai il sonno; non appena mette la testa sul cuscino più che addormentarsi, sviene. E comunque ha sempre un orecchio teso, nel caso i figli avessero bisogno di lei anche quando crede che dormano.

Questa è una versione estrema della super-madre, ma ci sono versioni attenuate altrettanto preoccupanti che mettono il dinamismo al di sopra del meritato riposo, il sacrificio al di sopra di una parità in cui tutti facciano la propria parte. E questa situazione esiste sia tra le madri-professioniste sia tra le madri-operaie che tra le madri-scrittrici.

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Pagina 107

Considerate, dunque, quanta poca importanza reale venga attribuita all'instancabile e decisiva opera di queste madri che diventano oggetto di arringhe piene di elogi ogni volta che qualcuno si ricorda che sono loro a sostenere la famiglia. Fateci caso, l'aiuto che lo Stato fornisce, in misura inadeguata, alle famiglie è di solito normativo. Perché, come segnala un'altra esperta in materia (la sociologa e madre-unica Maxine Molyneux) a partire dagli anni '70, ovvero con l'avvento del sistema neoliberale, il modello è cambiato ma a doverlo mettere in pratica è sempre la madre. Con l'intenzione di non ricadere nell'assistenzialismo delle politiche sociali precedenti - ritenute paternalistiche e populiste e aspramente criticate perché l'elargizione degli aiuti non produceva i risultati sperati e trasformava i beneficiari in dipendenti dello Stato - i programmi di taglio liberale o neoliberale pretendono che la "cittadinanza" (parola chiave) si renda "partecipe" (idem) "della gestione" o "cogestione" di quei fondi.

Con una chiarezza che ferisce gli occhi di questa sua entusiasta lettrice, Molyneux punta il dito su queste parole e dimostra che l'attuazione di queste politiche di sostegno sociale richiede che sia la progenitrice dei settori sociali più poveri ad assumersi la responsabilità di produrre quei risultati nel campo della nutrizione, della salute, dell'istruzione. A lei e solo a lei è richiesto di assumersi ancora una volta il ruolo tradizionale di madre-casalinga, cosa che spesso non è perché, sia o meno una madre-sola, deve lavorare anche fuori casa. Nessuno però si ricorda di questo e le si chiede di partecipare alle riunioni in orario di lavoro, di essere lei a ricevere i sussidi, di rendere conto del loro utilizzo e di un lungo eccetera. Ed è sempre lei a essere punita in caso di assenza anche se dovuta a motivi di lavoro. Ma no: lo Stato ha bisogno di lei per far funzionare il sistema dei sussidi. E così la madre si mette al servizio dello Stato che prima lavorava per aiutarla.

Lo Stato con queste sue politiche reitera involontariamente - ma che dico? Perché faccio la gnorri? Sparisci angelo! Fammelo dire a chiare lettere: volontariamente! - la storica asimmetria tra i generi focalizzandosi sul bene dei figli, dando la responsabilità di tutto, tutto, tutto, alle madri e facendo regredire - ancora una volta, in pieno XXI secolo! - facendo regredire, ripeto, la donna al ruolo tradizionale di madre all'interno del quale si annidano tutte le istanze già citate. Per questo non bisogna fidarsi quando il suo lavoro viene elogiato pubblicamente, è un'arma a doppio taglio. Invece di offrirle delle vie d'uscita la si ricaccia nello spazio domestico. Perché, fateci caso, ovunque intorno a noi continua a palpitare l'idea che il lavoro produttivo è maschile e il ri-produttivo un servizio obbligatorio della madre. In altre parole, le donne producono e si ri-producono senza che gli venga riconosciuta alcuna produzione.


E l'idea che le cose siano sempre andate in questo modo non ha fatto che consolidarsi grazie alle prerogative "libertarie" delle cosiddette "democrazie liberali" che nei confronti delle donne sono ben poco democratiche. È in queste democrazie che troviamo il vero nodo delle attuali contraddizioni, perché il sistema di produzione capitalista di queste democrazie ha bisogno del lavoro sottopagato delle donne e del loro sacrificio di madri per funzionare. Il sistema capitalista di fatto conta sullo sfruttamento delle donne per il proprio sostentamento, conta sul fatto che una parte importante della loro produzione sia gratuita. Per dirla con un linguaggio ormai passato di moda che il genere panflettistico sicuramente stimola, la donna-che-lavora, sia o meno madre, è un membro invisibile della classe lavoratrice; l'unica cosa che possiede per creare valore è il proprio corpo (mani, gambe, organi interni, cervello). La capacità di svolgere del lavoro fisico fa di lei una proletaria. Una donna a cui vengono espropriati i mezzi di produzione.

Non posso né voglio evitare questi concetti usati dall'audace Karl Marx che nel 1844, ispirandosi al suo omonimo Fourier , sostenne che la situazione delle donne era "la misura dell'evoluzione di una società" e che un modo per sottrarsi alle relazioni sociali imposte dal sistema capitalista doveva prevedere il pensare a nuove forme di relazione sociale che non si basassero esclusivamente sulla mera creazione di valore.

Ma che volete farci, la previsione del signor Karl circa l'avvento di un sistema più giusto ed egualitario non si è avverata.

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Pagina 111

Che ciascuno paghi per sé.

E se non può permetterselo, che rinunci all'istruzione.

Che si arrangi da solo o che vada a lavorare.

In una situazione di crescente diseguaglianza economica quello che lo Stato capitalista nega ai suoi cittadini è la garanzia della mobilità sociale un tempo resa possibile dall'istruzione pubblica. Questa opportunità su cui hanno potuto contare i bambini delle generazioni precedenti - senza andare troppo indietro, la generazione dei miei genitori - si è esaurita da tempo. E con la fine di questa opportunità è arrivata la paura del baratro sociale a cui i genitori, ma soprattutto le madri, sono chiamati a far fronte oltre a dover sostenere il pagamento delle tasse e delle rate altissime delle scuole. E dopo la scuola ci sono le attività extracurricolari che ricadono anch'esse sul bilancio familiare, oltre a doversi occupare del trasporto e della sicurezza dei propri figli in strade sempre meno sicure, meno illuminate, e poi una volta dentro casa c'è l'aiuto per i compiti e lo stimolo costante: il "tempo di qualità" che si esige dalle madri serve a formare un "figlio di qualità". Perché la spinta dell'energia neoliberale è duplice: ha diminuito i fondi e al tempo stesso ha accollato ai genitori la responsabilità dello sviluppo qualitativo dei figli in un mondo che valorizza la produzione, l'accumulo e il consumo.

Il figlio quindi non è più solo un figlio o una figlia, è una proiezione di successo o di fallimento per la famiglia; è, esso stesso, un progetto.

Non è un mistero che, venendo a mancare i valori della solidarietà e a fronte di una situazione priva di qualsiasi supporto, le classi privilegiate si siano specializzate nel fare in modo che i propri figli riuscissero a primeggiare a scapito di chi ha bisogno del sostegno dello Stato. La classe media che aspira a diventare alta e a mantenere la posizione ha fatto grandi sforzi per investire sui propri figli e per assicurarsi che l'ascesa riguardi soltanto loro, e per farlo bisogna impedire che anche gli altri abbiano le stesse opportunità.

Questo trattamento diversificato, questa valorizzazione della concorrenza sleale, questa celebrazione dell'individualismo e del narcisismo sono i modelli che stiamo dando ai figli di oggi, ai padri e alle madri di domani, o peggio, ai futuri leader. E se nessuno se ne è reso conto è perché la teleologica immaginazione liberale ci ha convinto del fatto che la storia abbia uno sviluppo lineare, progressista. Ma non è vero. Questa storia sta andando in un'altra direzione e sarebbe necessaria una volontà politica che la incanalasse, una mano invisibile che assicurasse un futuro degno per tutti.

Sarebbe necessario che le donne scendessero in piazza coi loro striscioni.

Silenzio, sussurra l'angelo capitalista da dietro.

Io, sentendolo vicino, inizio a tremare.

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