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| << | < | > | >> |IndiceAtto A — Il Verbo 5 Prima scena — L'uomo 7 Seconda scena — Il personaggio 15 Terza scena — Il golem 25 Quarta scena — Victor Werker 61 Atto B — Il portavoce 85 Quinta scena — Prima lettera 87 Sesta scena — Seconda lettera 109 Settima scena — Terza lettera 137 Atto C — La conversazione 165 Ottava scena — Sera 167 Nona scena — Notte 183 Decima scena — Mattina 199 Undicesima scena — Pomeriggio 209 Dodicesima scena — L'appuntamento 227 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Sì, naturalmente potrei venire subito al dunque e cominciare con una frase come: «Il telefono squillò». Chi chiama chi? E perché? Dev'essere qualcosa di importante, se no il romanzo non comincerebbe così. Suspense! Azione! Ma questa volta non si può. Anzi. Prima che qui possa prendere forma qualcosa, è necessario che entrambi ci prepariamo raccogliendoci in preghiera. Chi si aspetta di essere immediatamente trascinato nella storia, per ammazzare il tempo, farà meglio a richiudere questo libro all'istante, accendere il televisore e sprofondare sul divano come in una bella vasca piena d'acqua calda con la schiuma. Prima di continuare a scrivere e a leggere, osserveremo un giorno di digiuno, poi faremo un bagno in acqua fresca e pura, quindi ci avvolgeremo in una veste del più fine lino bianco. Ho staccato il telefono e il campanello, ho capovolto l'orologio sulla mia scrivania; tutto nella mia stanza da lavoro è in attesa degli eventi futuri. Le prime parole luminose sono comparse sullo schermo blu del computer, mentre fuori nella piazza splende un accecante sole autunnale al tramonto. Dal cielo infuocato a occidente le rotaie del tram scorrono come oro fuso da un altoforno, tra gli alberi scuri le auto vanno e vengono nel traffico, i passanti camminano davanti a ombre lunghe diversi metri. Dalla luce del sole nella mia stanza vedo che ora è: i raggi cadono obliqui, sono le sei del pomeriggio, ora di punta, per gran parte della gente la giornata lavorativa è conclusa. La creazione dell'uomo è stata una questione complicata. Sul tema permane tuttora una certa confusione, in ambito non solo biologico, ma anche teologico. Nella Bibbia l'uomo viene addirittura creato due volte, e in un certo senso persino una terza. La Genesi 1:27 dice che nel sesto e ultimo giorno della Creazione accadde quanto segue: «Dio creò gli uomini a sua immagine e somiglianza; a somiglianza dell'immagine di Dio li creò; maschio e femmina li creò». Quindi in realtà erano due; subito dopo Dio dice: «Siate fecondi e moltiplicatevi». L'uomo dunque era Adamo, ma la donna non era Eva, perché la madre di noi tutti non vide la luce che più tardi, quando la settimana della Creazione era già bella e finita. Lei non fu creata separatamente, ma ebbe origine da una costola di Adamo. Nella Genesi 2:23 Adamo stesso dichiara: «Questa volta è osso delle mie ossa e carne della mia carne!» Questa volta! Anche da qui si deduce che Eva era la sua seconda moglie. Ma la prima, allora, chi era? Per fortuna gli esperti sono riusciti a stabilirlo: Lilith. Molto sicura di sé, in quanto creazione indipendente come Adamo, Lilith rifiutò di sottomettersi a lui. La frattura tra i due fu provocata dalla modalità di quel «moltiplicarsi»: lei non voleva essere la parte sottomessa. Forse al loro conflitto erotico-tecnico contribuì il fatto che a quel tempo Adamo aveva ancora dentro di sé Eva e in quella fase doveva quindi essere un tipo piuttosto effeminato. Comunque lo scontro raggiunse dimensioni tali che Lilith a un certo punto fece una cosa terribile: bestemmiò. Ovvero pronunciò il nome impronunciabile di settantadue lettere di JHVH, si trasformò all'istante in un demone, e volò via. Subito JHVH le mandò dietro gli angeli SNVJ, SNSNVJ e SMNGLPH, che la raggiunsero sopra il Mar Rosso. Ma non poterono eliminarla. Da allora lei va a caccia di uomini soli e strangola i neonati nella culla. Insomma, in tutti i sensi Lilith è il contrario di quella che sarà Eva, la madre primordiale, che nascendo rese Adamo un vero uomo. Ma Adamo nel frattempo – dopo la settimana della Creazione – era stato creato per la seconda volta. Chi possiede ancora una Bibbia (altrimenti dia un'occhiata nel comodino del primo albergo in cui gli capiterà di alloggiare) può leggere nella Genesi 2:7: «JHVH modellò l'uomo con la polvere del terreno e soffiò nelle sue narici un alito di vita; così l'uomo divenne un essere vivente». La differenza rispetto alla prima volta è che adesso apprendiamo dettagli un po' più concreti. Per fortuna ci sono anche altre fonti oltre alla Bibbia. Senza fare differenza tra la prima e la seconda creazione di Adamo, diversi studiosi nel corso dei secoli hanno ricostruito ora per ora il sesto e ultimo giorno della Creazione, giungendo tuttavia a risultati divergenti. Secondo uno di essi Adamo comparve nei pensieri di JHVH alla prima ora. La seconda ora JHVH discusse la sua idea con il consiglio degli arcangeli. Alcuni l'approvarono, altri erano contrari; ma mentre gli angeli dibattevano e bisticciavano, durante la terza ora JHVH si dedicò a raccogliere terra rossa, nera, bianca e bruna. Ovviamente non si trattava di polvere qualsiasi, ma della polvere più fine proveniente da tutti i punti cardinali, soprattutto dal punto in cui in seguito sarebbe sorto il Tempio di Salomone. La quarta ora amalgamò la terra con acqua purissima per ottenere dell'argilla. La quinta ora formò il corpo di Adamo. La sesta ora ne fece un golem, un «embrione di terra»: un'entità che non era più inorganica, ma non era nemmeno ancora un uomo. Sullo stesso monte del Tempio, su cui in seguito avrebbero avuto luogo tanti eventi memorabili, la settima ora insufflò l'anima in questa creatura embrionale, dopodiché, l'ottava ora, trasferì Adamo («Terra») nel Paradiso, dove questi dimostrò di saper parlare dando i nomi agli animali: «scimpanzé», «orangutan»... | << | < | > | >> |Pagina 25Tieniti forte! Borbottii sotterranei, scricchiolii, il mondo trema, all'improvviso un'ombra minacciosa si abbatte su questo foglio. Cos'è? In cosa mi sono imbarcato? A un tratto si è messo in moto qualcosa, è entrato in collisione, come placche continentali alla deriva: devo interrompere immediatamente la storia di Victor Werker, proprio ora che infine stava prendendo forma. Dal caos cosmogonico si leva una colossale formazione eruttiva. Tutte quelle torri e quei ponti! Quel Castello lì in lontananza sulla collina! Non è forse Praga? Lo Hradcany? E quel dedalo di stradine e tuguri da questo lato del fiume, dove forma quell'ansa quasi ad angolo retto, non è forse il ghetto? Ma non esiste più da tempo, ormai! In che anno siamo, allora? È il 3 Adar dell'anno 5352 dopo la creazione del Cielo e della Terra, e il rabbino esce nella neve gelata con i suoi alti stivali neri. «Non puoi presentarti all'imperatore vestito a quel modo, Jehudah!» esclama sua moglie davanti alla casetta sghimbescia. Con una mano si tiene lo scialle sulla testa e con l'altra indica le macchie di tuorlo d'uovo sui risvolti del caftano del marito. Lui le guarda brevemente e si stringe nelle spalle. «Deve accettarmi per quello che sono. Anch'io faccio lo stesso con lui.» «Ci mancherebbe altro. Stai un po' attento alla gente, lassù.» «Finora è sempre stato buono con noi, Perl.» Le parole escono dalle loro bocche sotto forma di vapore. Benché sia primo pomeriggio, nel ghetto sembra già calare la sera. C'è una nebbia fitta, il cielo è scuro come una cantina piena di carbone e l'unica luce pare venire dalla terra, dalla neve ghiacciata, in cui le impronte dei piedi e le scie dei carri sono conservate come fossili. La ressa e le grida nelle spelonche sono le stesse dei secoli precedenti e successivi, proprio come la puzza di fogna e di cipolle. Il fumo che esce dai camini forma una cappa, qua e là emerge qualche fiamma. Le botteghe dei rigattieri, seminterrate, sono piene di stracci, suppellettili rotte, ferri vecchi arrugginiti e oggetti di cui non si possono più ricostruire le origini. Più in alto, le cadenti capanne di legno dai muri marci e dalle scale rotte ondeggiano al canto voluttuoso delle prostitute nei bordelli e al salmodiare degli ortodossi, che si fondono in una cantata meravigliosa, udibile soltanto qui. A volte si vedono, all'interno delle case, le strette stanze divise con tratti di gesso in appartamenti, anch'essi pieni di mercanzia, gabbie di tortore, pentole e padelle, pagliericci con bambini addormentati, ammalati, moribondi. Le osterie con le loro lanterne fumose sono affollate; veggenti, chiromanti e cartomanti gridano lungo le strade per attirare l'attenzione; storpi e nani coperti di piaghe e bubboni si aggrappano alle gambe dei passanti e chiedono l'elemosina, ma vengono respinti a calci. Soltanto chi abita qui non si perde in questo labirinto di stradine tortuose, cortili interni e sottopassaggi. Quando appare in mezzo a tutta quella povera gente che spesso non porta le scarpe ma ha i piedi fasciati da stracci, il rabbino sembra un uomo ricco. Due occhi azzurro chiaro, nascosti da un grande cappello bordato di pelliccia e una lunga barba quasi bianca, osservano tutte quelle scene di un'Israele ormai dispersa in una Praga invernale. Tutti riconoscono il saggio studioso, fondatore e rettore della Scuola superiore di studi talmudici e, diversamente da come fanno con i sudici rabbini delle decine di sinagoghe presenti nel ghetto, che esercitano in parallelo anche il mestiere di macellaio o lattoniere, si inchinano e lo lasciano passare. Nella piazzetta dell'Altneuschul, la sinagoga più antica della città ebraica, c'è un gruppo di persone che guarda in alto, sorpreso. L'edificio è indipendente, e grazie a questo fin dal Medioevo è stato risparmiato dagli incendi che periodicamente ripuliscono il quartiere. Sopra i muri grigi, scrostati, si leva l'alta facciata gotica a gradini, dietro la quale si trovano soffitte in disuso. Ogni gradino della facciata è coronato da una punta di terracotta, e proprio qui è in atto un fenomeno sbalorditivo. Nella nebbia saltano su e giù dai gradini sette, otto fiammelle grandi come una mano, che si intrecciano, piroettano, si uniscono e tornano a dividersi. «Cos'è, rabbino?» domanda una giovane donna con sguardo spaventato. «Non dobbiamo spegnerlo?» Ma sul volto del rabbino è comparso un sorriso. «Non è un incendio, Mirjam. È una danza degli angeli.» Solleva le braccia e si mette a cantare saltellando da una gamba all'altra. È contagioso: poco dopo tutti saltano e ballano e cantano al ritmo delle fiammelle danzanti, e rapidamente il ballo si propaga per le strade, anche là dove le fiamme non sono visibili. Dopo mezzo minuto l'ondata di allegria ha invaso tutto il ghetto: anche lontano, fuori dalle mura e nel resto della città, si sente la confusione di quelle migliaia di persone. «Gli ebrei sono di nuovo impazziti» esclamano i cristiani. Ma poi, come se un'entità superiore avesse soffiato sui gradini, all'improvviso le fiamme si spengono. Il rabbino, che sta facendo un girotondo con Mirjam, le lascia le mani e riprende fiato ansimando, visibilmente accaldato. Anche intorno, adesso, si ristabilisce la calma. «Come stai, bambina mia?» domanda, posandole una mano sul capo. Mirjam gli prende la mano e la bacia. Qualche mese fa ha partorito un animale, un cane, che ha fatto tre giri della stanza di corsa, si è grattato dietro un orecchio ed è morto. | << | < | > | >> |Pagina 31In mezzo a una grande sala, dentro la quale sono accesi lateralmente due fuochi giganteschi, dodici o quattordici uomini stanno pranzando a una lunga tavola riccamente imbandita, serviti da altrettanti lacchè in livrea rossa con i ricami dorati. Ci sono grandi globi terrestri e celesti, le pareti sono coperte di quadri, carte geografiche e librerie. Il rabbino si ferma; l'ufficiale chiude la porta alle sue spalle. Tutti i volti si sono girati verso di lui. A capotavola ha riconosciuto subito Rodolfo II, sovrano d'Austria, Re di Boemia e Ungheria, Imperatore del Sacro Romano Impero, con il labbro inferiore sporgente, caratteristico degli Asburgo, e il viso rotondo. In piedi dietro di lui ci sono alcuni dignitari di corte; di lato, a un piccolo tavolo, un segretario è intento a scrivere.Il rabbino si toglie il cappello, si inchina e dice: «Sua Maestà Reale, Imperiale e Apostolica». L'imperatore fa un cenno con il capo. Ha quarant'anni circa, ma perde già i capelli ed è ingrassato. Sta masticando, nella sinistra ha un osso con della carne fumante, nella destra un bicchiere di vino rosso; osserva il suo nuovo ospite da capo a piedi per un momento, con uno sguardo malinconico negli occhi socchiusi. «Bene» dice infine, «eccolo qui in persona, il nostro famoso Maharal, Jehudah Löw ben Bezalel. Come tutti i rabbini lei somiglia a tutti i rabbini. Come mai?» «Perché in realtà c'è un solo rabbino.» Löw capisce subito che potrebbe seguire una domanda pericolosa sull'identità di quell'unico rabbino, ma a quanto pare l'imperatore ha deciso di risparmiarlo. «Come sta il popolo eletto a Praga?» Intorno alla tavola echeggiano delle risate. «Ritiene di non avere motivo di preoccuparsi sotto il vostro regno, maestà.» L'imperatore annuisce di nuovo, ma non va oltre. Con una manica si pulisce il mento unto. «Posso forse offrire qualcosa da mangiare al gran rabbino?» Il tono di quella domanda non piace molto a Löw, e benché il profumo di cervo arrosto gli faccia venire l'acquolina in bocca, rifiuta educatamente. A quanto pare qui vige la regola: chi non mangia non si siede, infatti non gli viene offerta una sedia, anche se sembra essere il più anziano del gruppo. A tavola l'interessamento nei suoi confronti comincia a diminuire, i volti si distolgono, le conversazioni riprendono. Non sa che fare, ma capisce di dover restare in piedi dov'è e aspettare che gli sia rivolta la parola. Anche lui qualche volta ha riservato lo stesso trattamento a un allievo; decide di non farlo mai più. Uno a uno osserva gli uomini seduti a tavola: non hanno volti lisci da cortigiani, ma facce caratteristiche, alcuni hanno un aspetto decisamente trasandato e sfatto. Il suo sguardo incontra quello dell'astronomo Tycho Brahe, un uomo robusto sulla cinquantina, con un naso artificiale d'oro; è l'unico che conosce qui. L'astronomo lancia un'occhiata interrogativa a Rodolfo, che annuisce brevemente; allora si alza e si avvicina a lui. «In presenza dei sovrani uno deve sempre aspettarsi di essere umiliato» sussurra. «Per non parlare del fatto che sono ebreo, ma ci siamo abituati. Ha organizzato lei questo incontro?» «Non me lo ricordo più» dice Brahe senza staccargli lo sguardo di dosso. «Capisco» annuisce Löw. «Il segreto del Castello. Chi sono quegli uomini?» «Il fior fiore dell'Europa, oltre a un paio di truffatori internazionali e altra gentaglia, ma questo spero che rimanga entre nous.» Percorre con lo sguardo le due file ai lati lunghi del tavolo e dice in fretta a Löw chi è chi. «Quel monaco alla destra dell'imperatore è Giordano Bruno, un interessante scrittore e filosofo. Secondo lui l'universo è infinito, non ha confini, il centro è dappertutto.» «Anche qui, allora» dice Löw. «Anche qui. Soprattutto qui, forse. Quello accanto a lui è molto meno valido, Sendivogius, un avventuriero e alchimista polacco, ma l'imperatore va matto per lui. Non ha idea dei ciarlatani e imbroglioni che riescono a infiltrarsi qui dentro, solo perché l'imperatore vive nel terrore di morire. Poi c'è Cornelius Drebbel, quel ragazzo biondo. Viene da Haarlem, pare che abbia inventato un sommergibile; probabilmente in Olanda ci vuole, visto che lì piove sempre. Inoltre è un incisore non privo di merito e naturalmente anche un alchimista. Accanto a lui c'è un altro mangiaformaggio olandese, Adriaen de Vries, competente architetto e scultore che ha ricevuto il titolo nobiliare dall'imperatore. Poi abbiamo due inglesi. Quello con la barbetta a punta è John Dee, un favorito della regina Elisabetta, mago, alchimista, astrologo, matematico, geografo e non so cos'altro ancora. Sostiene di saper parlare la lingua di Adamo.» «Però» commenta Löw. «È certamente un tipo interessante. Quel tizio vicino a lui, quello con il naso aquilino e le orecchie tagliate, è in ogni caso un vero imbroglione e un isterico. Tale Edward Kelley, una sorta di veggente in contatto con l'aldilà; dice di poter parlare con gli angeli. Eh sì, reverendissimo, a volte mi sembra proprio di essere finito in un manicomio, l'imperatore ha trasformato la sua corte in un riflesso della sua povera mente confusa. E questa è soltanto la sua collezione di uomini, cioè una piccola parte; dovrebbe vedere le altre collezioni. Al mondo non esiste niente del genere, l'intero palazzo è una collezione di rarità, i tesori che contiene sono indescrivibili. I suoi agenti girano tutta l'Europa per comprare tutto ciò che trovano, dai Cranach e Dürer più preziosi fino alle più squallide cianfrusaglie immaginabili, come museruole o noci di cocco dipinte. Alla sua sinistra siede il suo pittore preferito, Arcimboldo, che è arrivato a ottenere il titolo di conte palatino. Lì ci sono un paio di suoi ritratti.» Con il suo naso d'oro brillante Brahe indica la parete. Scuotendo la testa Löw guarda i volti fantastici, composti ora da pesci, ora da frutta o utensili da cucina o da ogni genere di animali. Cosa non viene in mente ai goyim, anziché approfondire la dottrina di JHVH! «Del giovane accanto a lui» continua Brahe, «quello con quegli occhi infiammati, che sembra litigare con Sendivogius, sentiremo ancora parlare a lungo. E il mio assistente copernicano Johannes Kepler, sta usando i risultati delle mie osservazioni per una teoria nuovissima sulle orbite dei pianeti che però non mi piace affatto. Ma non è facile frenare la gioventù, soprattutto quando è piena di idee, come lui. Al momento però ha qualche difficoltà, sua madre è stata accusata di stregoneria. Di fianco a lui siede Michael Maier, il medico personale dell'imperatore, un seguace iatrochimico di Paracelso; ho letto un bel libro che ha scritto, Atalanta fugiens, e di tutti gli occultisti qui presenti è senza dubbio il più interessante. Abbiamo nominato quasi tutti. Quello è Roelant Savery, pittore dei Paesi Bassi meridionali, e infine c'è ancora uno stregone italiano, si chiama Angelo Ripellino, credo. Già, Maharal, e adesso c'è anche lei, sembra adatto a questa compagnia bizzarra.» | << | < | > | >> |Pagina 115La mia relazione questa mattina è stata accolta bene, ma durante la discussione si è parlato di nuovo prevalentemente dell'eobionte. Forse dovrò rassegnarmi al fatto che per il resto della mia vita sarà così. Io sono lo scopritore dell'eobionte come Fleming lo è della penicillina e Watson della molecola di DNA. Molto meglio della sorte di Brock, che per il resto della sua vita è destinato a non essere lo scopritore dell'eobionte. Tuttavia, non è proprio entusiasmante sapere che dopo i quarant'anni il futuro è ormai dietro le spalle, e che potrò continuare a vivere solamente di gloria. Comunque cerco di sfruttare la situazione al meglio.Tra l'altro, a ben pensarci, Watson non è soltanto l'uomo della doppia elica, per cui ha ricevuto il premio Nobel, ma è anche autore di quello straordinario libro sulla scoperta. Non che per questo meritasse anche il Nobel per la Letteratura, un doppio onore del genere era riservato al suo grande rivale Linus Pauling che, oltre al Nobel per la Chimica, ottenne anche quello per la Pace. Per quanto... se Watson e Crick non avessero svelato la struttura del DNA, nel giro di due o tre anni l'avrebbe fatto qualcun altro, probabilmente lo stesso Pauling, ma in tal caso Watson non avrebbe scritto il libro. Lo stesso vale per il mio eobionte. Se Kafka non avesse scritto Il processo, quel romanzo non sarebbe mai stato scritto. Insomma, ci piace la modestia. Mi viene in mente adesso perché due mesi fa la Cambridge University Press mi ha chiesto di scrivere un libro a carattere divulgativo di un centinaio di pagine sull'eobionte. Il mio articolo iniziale su «Science», Creation of Life from Inorganic Building Blocks, non più di cinque fogli formato A4, era molto tecnico; e qualsiasi editore sa che se un libro contiene anche solo una formula matematica perde metà dei potenziali lettori, se ne contiene due ne perde un altro quarto, con tre ancora un ottavo... insomma, fa' un po' i conti. Comunque ho accettato. Anche perché è una buona occasione per dare — mio malgrado — a Brock il riconoscimento che merita, o forse anche un po' di più: sarà un unguento sulla sua ferita, che spero freni un poco la sua aggressività. Non sono però riuscito a capire in che forma debba essere scritto questo libro e a che pubblico sia destinato. Per un buono scrittore di romanzi il problema probabilmente non si pone: non lo so di preciso, ma credo che l'autore scriva un libro così come il libro vuole essere scritto. È una macchina che costruisce se stessa e il lettore deve arrangiarsi. In effetti anche il mio eobionte è una macchina che si costruisce da sola, è un organismo, ma non posso scriverne allo stesso modo, perché nella saggistica non funziona così. Avevo due esempi da seguire: il libretto del mio ispiratore Cairns-Smith, Sette indizi sull'origine della vita, e Gradini verso la vita di Eigen, scritti negli anni Ottanta, dopo la pubblicazione dei loro articoli originali sulle riviste specializzate e le loro opere tecnico-scientifiche. Poi ovviamente La doppia elica di Jim Watson, che più di venticinque anni fa fu determinante per la mia vita scientifica. Ma i primi due, che pure furono scritti per un pubblico più ampio, sono abbastanza difficili, soprattutto quello di Eigen, mentre il terzo è anche un'interessante autobiografia, genere per il quale mi manca il talento. Per giunta l'ha già fatto Watson. Io cercavo una forma intermedia, ma non sono riuscito a trovarla. Ora però ho capito come devo affrontare il problema. La mia lettera precedente, quella in cui ti scrivevo del DNA, mi ha messo sulla buona strada: mi rivolgerò a te. Ti attribuisco l'età di Alice nel Paese delle meraviglie (così siamo già nel XXI secolo) e ci saranno una serie di dialoghi, per esempio durante una vacanza al Lido di Venezia, al bordo della piscina, sulla spiaggia, in città. Ad Amsterdam, nel laboratorio, ti faccio vedere la lunga fila di robot in funzione, che nell'ambito del Progetto Genoma lavorano giorno e notte al servizio di un'équipe internazionale per descrivere il genoma umano completo. Poi ti presento le mie tre assistenti con i loro occhi fiammeggianti e, come è ovvio, anche il mio collaboratore, il dottor Barend Brock, un uomo straordinariamente simpatico con un tesoro di moglie, senza il cui appoggio scientifico e personale forse non avrei mai raggiunto i miei risultati. Non è che voglia cominciare a scrivere il libro qui adesso, sotto questa tettoia sgocciolante, ma forse riesco a buttare giù almeno una prima traccia. | << | < | > | >> |Pagina 120La conseguenza può essere che nasci con il palato aperto, o che a una certa età ti viene il cancro allo stomaco, come è successo a tuo nonno. Adesso comprendi come, a forza di tagliare e incollare quelle lettere, possiamo fare le cose più assurde. Per esempio tra poco potremo far sì che una persona abbia un odorato fino come un cane da caccia o la vista acuta come un falco. O che un bambino al posto dei padiglioni auricolari abbia in testa due ali di gallina. Se avremo voglia, potremo produrre un panopticum di creature fiabesche un tempo relegate al mondo della fantasia: chimere, basilischi, unicorni, draghi, grifoni, centauri, sfingi e tutte le creature che l'uomo abbia mai sognato.«O una donna con dei serpenti al posto dei capelli!» «Si può fare.» «O un topo con un orecchio umano sulla schiena!» «Te lo faccio domani.» Bene, di tutte queste cose, che puoi leggere anche altrove, parlerà la prima parte del mio libro. La seconda racconterà di me. Il meccanismo genetico indicibilmente complicato non è sempre stato così com'è adesso: è diventato quello che è per evoluzione, e prima non esisteva affatto. All'inizio dev'essere stato qualcosa di molto semplice, formatosi circa quattro miliardi di anni fa dalla materia inorganica. Ma come? Sono stati immaginati molti meccanismi diversi, per esempio da Eigen e Cairns-Smith e dagli altri ospiti dell'Hotel des Bains, ma io non faccio parte di quel gruppetto. Con i mezzi più moderni io ho fabbricato un organismo primitivo partendo dalla materia inorganica. Naturalmente questo organismo primitivo è diverso, non ha niente a che vedere con i cloni, perché quelli derivano sempre da qualcosa di vivo. Forse allora andò più o meno così come ho fatto io, o forse no; in ogni caso io non c'ero per poterlo stabilire. Può essere che la prima vita quel primo martedì sia stata creata da Dio, ma io ho dimostrato che in principio è possibile anche senza Dio. I credenti naturalmente erano costretti a non credere nemmeno a questo e a catalogare la mia perversa opera sotto il titolo «ibridi». A dire il vero per me è tuttora difficile spiegare un'impresa così altamente tecnica in modo non tecnico. Si tratta in primo luogo di sintetizzare un portatore d'informazione primitivo, da cui eventualmente potrebbe derivare il DNA, o meglio, l'RNA, che è precedente. La strada me l'ha indicata Alexander Cairns. Secondo lui la vita deriva dall'argilla. L'argilla è composta di piccoli cristalli, anche se non si direbbe. Per cristallo immagina l'ametista viola dell'anello che ho regalato una volta alla mamma per il suo compleanno, oppure i cristalli di zucchero, quelli che lascio cadere a centinaia in ogni tazza di tè; ma anche cristalli di un millesimo di millimetro di diametro - piccoli come un microbo - sono pur sempre cristalli. L'idea centrale di Alexander è che i cristalli possono crescere in una soluzione insatura: se si spezzano e i frammenti continuano a crescere, riproducono irregolarità specifiche. (Nemmeno due granelli di sabbia sono mai uguali.) Parla anche del mio esperimento preferito, quello di cui ti scrissi in gennaio, e ipotizza che forse proprio da quell'esempio derivò la soluzione ipersatura che è presente anche nelle mie stesse teorie. Forse le radici di ogni prestazione importante affondano nella faglia acquifera sotterranea. Comunque sia, questo meccanismo inorganico estremamente primitivo, che dunque veicola informazioni, è il primissimo inizio del DNA. Questo significa che tu e io e la mamma deriviamo da microscopici cristalli di argilla. Con grande coerenza, Alexander chiamò suo figlio Adamo. «Ma allora tu mi avresti dovuto chiamare Eva.» «No, Eva non fu fatta di argilla, ma fu creata a partire da una costola di Adamo. Adamo era sua madre, si potrebbe dire. No, il nome giusto sarebbe stato Lilith, ma lo trovavo troppo lugubre. Ho pensato a un'altra cosa. Il nome "eobionte" deriva dal vocabolo greco heoos, "aurora", da cui deriva anche la dea greca Eos. I Romani chiamavano quella dea Aurora.» Come poi Alex immagina siano andate le cose — cioè in modo molto preciso — dovresti andartelo a leggere da sola: il processo ha inizio in cavità costantemente ipersature all'interno della pietra arenaria porosa, in seguito si sviluppa una primitiva sintesi proteica con cui comincia la vera vita organica. L'intero processo è un caso di quella che viene definita generazione spontanea. Un tempo si pensava che le mosche e i topi nascessero dalla sporcizia fermentata, e le rane da pozze putride; non è così, ma nemmeno l'idea che una creatura vivente possa derivare esclusivamente da un'altra creatura vivente è corretta. Inoltre, secondo Alex, non è vero che la nascita della vita sia stata un evento unico avvenuto quattro miliardi di anni fa, forse accade tuttora ininterrottamente in miriadi di luoghi su tutta la Terra, solo che non si verifica più l'intero processo: il risultato ora è divorato all'istante dai batteri o, se è un po' più grande, dagli insetti. Comunque sia, mi ero messo in testa di riprodurre un essere vivente a partire dalla materia inorganica. Naturalmente tutti dicevano che ero matto, ma non mi importava. Il mio esempio era Friedrich Wöhler, un chimico e mineralogista tedesco che nel 1828 sintetizzò per primo un collegamento organico di sostanze inorganiche: l'urea, che è contenuta nella tua pipì. Fino a quel momento tutti erano convinti che le sostanze organiche potessero avere origine solo per mezzo di una speciale «forza vitale». Lui invece scrisse: «Posso preparare l'urea senza un rene. Sono testimone della grande rappresentazione tragica delle scienze: l'assassinio di una bella teoria attraverso una brutta realtà». Fino all'ultimo, in verità, nemmeno Brock vide molto nel mio programma, ma questo non lo divulgherò; mi limiterò a sottolineare la sua abilità e la sua angelica pazienza. L'eobionte, cui miravo, doveva essere la forma di vita più semplice e indipendente possibile. Le creature più piccole che al momento conosciamo appartengono all'estremofila Archaea, di cui so qualcosa, perché come ti dicevo ho scritto la mia tesi su questo argomento. Il loro DNA consiste tuttora di circa seicentomila lettere, divise in circa cinquecento geni, che sintetizzano le proteine. Resta pur sempre un romanzo di trecento pagine, mentre io avevo in mente piuttosto una novella, qualcosa delle dimensioni di un virus, ma i virus sono parassiti, hanno bisogno di altre cellule per moltiplicarsi: ovvero sono creature posteriori. [...] Si trattò di risolvere una serie di problemi semantici assurdamente complessi, creare circoli paradossali per cui non ci voleva soltanto un inizio per la fine, ma anche una fine per l'inizio. Per farla breve, dopo un'enorme quantità di lavoro, molta fortuna e con la disponibilità delle attrezzature più moderne, dopo ricerche lunghissime dell'argilla giusta (mullite), dopo avere più volte perso e ritrovato la strada, un bel giorno nel laboratorio stappammo le bottiglie di champagne. Il mio piccolo eobionte aveva visto la luce: un cristallo di argilla molto complesso, organico, molto arricchito chimicamente, con il carattere di un proto-RNA, una specie di proto-ribosoma, che produsse un paio di proteine brevi, in modo che la mia creaturina, che prendeva l'energia dalla luce del sole, si riproducesse e avesse un metabolismo. «We are the champions!» cantammo noi, gli assistenti, gli aiutanti. Solo Brock non cantò. Non riusciva a credere che ci fosse riuscita quella specie di quadratura del cerchio, ma ormai non c'era più niente da fare. Avevamo fatto nascere dalla morte una creatura vivente. «Una specie di Lazzaro, dunque.» «Ma senza che prima fosse vissuta.» «Però lo stesso un miracolo!» «No, cara Aurora, non fu affatto un miracolo. Anzi, così ho sconfitto il miracolo con la mia "brutta realtà", per dirla con Wöhler. Come lui, cancellando il confine tra chimica organica e inorganica, pose fine alla bella teoria della forza vitale, così io, cancellando il confine tra chimica e biologia, ho cancellato un confine metafisico. E questo ovviamente in seguito dev'essere negato o minimizzato in tutta una serie di modi. Se la mia presunzione demoniaca era vera, scrisse l'"Osservatore Romano" — il giornale del Papa — allora erano state abbattute le basi del sacro rispetto della vita in modo ancora più definitivo se confrontate con pratiche sacrileghe quali l'aborto e l'eutanasia. Allora, dissero, si sarebbe entrati nel tunnel della follia: anche l'omicidio vero e proprio avrebbe perso la sua negatività assoluta. Ma non era vero. La mia entità microscopica, il cosiddetto eobionte, non era affatto una dimostrazione di generazione spontanea: il risultato del mio lavoro dilettantesco in fondo non era molto più del noto esperimento che si fa alle scuole superiori con il silicato di potassio e il solfato di rame. Quei preti vaticani non sapevano nemmeno che gioia mi procurasse quel paragone. In un'altra epoca sarei finito irrimediabilmente al rogo, ma anche allora vi furono reazioni pericolose. Un fanatico religioso cercò di incendiare il laboratorio nel quale l'eobionte si replica senza sosta nella sua incubatrice. Io continuo a ricevere lettere minatorie: se non c'è differenza tra la vita e la morte, devo provarlo sulla mia pelle! Strane telefonate silenziose nel cuore della notte. Da tutte le parti mi spiano nel nome di Dio o Allah (Dio è un dio che si chiama Dio).» «I miracoli allora non esistono più, papà?» «Sì, ce n'è uno solo. Il fatto che tu e io siamo qui. Che esista qualcosa. La creazione dal nulla dello spazio e del tempo. Non vedo come questo potrebbe mai essere riprodotto in laboratorio, perché quel laboratorio in un dato momento esiste già.» È notte fonda, vado a dormire. Già due volte è comparso un uomo del servizio di sicurezza dell'albergo per vedere se sono ancora qui. Io mi sono fatto indicare l'interruttore della luce e gli ho detto che voglio cancellare da solo le mie tracce. Se riuscirò mai a scrivere questo libro, cosa di cui peraltro non sono affatto sicuro, lo intitolerò: Aurora's Key to Life. | << | < | > | >> |Pagina 128Ma poiché da una cosa ne viene un'altra, nel frattempo cominciai a nutrire un certo interesse nei confronti di questa Mary Wollstonecraft Shelley. Aveva diciannove anni quando, nel 1816, scrisse un romanzo il cui titolo è divenuto un concetto da cui ancora — più di un secolo e mezzo dopo — continuano a scaturire nuovi romanzi, film e spettacoli teatrali: ha creato un genere tutto nuovo! Diciannove anni! Che tipo di ragazza era? Volevo scoprire di più su di lei, per questo mi chiusi in quella sala di lettura polverosa e venerabile a prendere appunti, mentre fuori il maltempo sembrava deciso a non smettere più. Fortuna che nessuno conosceva quel luogo ideale in cui nascondersi.Un paio di giorni dopo averla messa al mondo, sua madre morì. Nel 1814, diciassettenne, conobbe Percy Bysshe Shelley, il poeta, che allora aveva ventidue anni ed era già sposato. Un anno dopo ebbe da lui una figlia, che nel giro di undici giorni morì. Nel 1816 partorì un figlio e sposò Shelley dopo il suicidio di sua moglie. Nel 1817 ebbe un'altra figlia, che l'anno dopo morì mentre erano in viaggio per Venezia. E nel 1819 morì anche il figlio, a tre anni, ma lei ne ebbe un secondo. Nel 1822 ebbe un aborto e Shelley annegò in mare. Destino crudele. Ma intanto nel 1816 scrisse il suo romanzo Frankenstein, o il Prometeo moderno. In compagnia di Lord Byron, Shelley e lei erano in vacanza in Svizzera. Era un'estate piovosa, e si leggevano a vicenda racconti dell'orrore, al che Byron propose: «Scriviamo ognuno un racconto dell'orrore». Soltanto quello di Mary fu completato, il soggetto le era apparso in un sogno. Mi sembra di vederle, quelle tre persone geniali sulla loro montagna incantata in Svizzera. Perché sto scrivendo tutto ciò qui, sul mio balcone (proprio come nella Pastorale di Beethoven la tempesta nel corso della sera ha lasciato il posto a una chiara, fresca notte stellata)? Perché su Internet ho fatto un'ulteriore scoperta. In quello stesso 1816, anche Lord Byron divorziò dalla moglie poco dopo la nascita della figlia Ada. A causa di uno scandalo incestuoso non poté tornare in Inghilterra e otto anni dopo morì in Grecia durante la guerra d'indipendenza contro i turchi, e non la rivide mai più. Ma proprio come Mary Wollstonecraft Shelley, la ragazza divenne una creatura molto particolare: fu la prima programmatrice di tutti i tempi. Il linguaggio dei computer del ministero della Difesa americano porta il suo nome, Ada. Quattordicenne, Ada fu colpita da una paralisi che per tre anni le impedì di camminare; durante quel periodo studiò Matematica. Aveva diciott'anni quando conobbe Charles Babbage, che aveva inventato un precursore del computer; i contributi teorici della ragazza a quell'apparecchio erano visionari e innovatori, in anticipo sulla teoria dell'intelligenza artificiale. Tuttavia a ventinove anni, quando ormai si chiamava Lady Lovelace, crollò fisicamente e spiritualmente, per anni fu curata in modo sbagliato con brandy, oppio e morfina, tanto che si mise in testa di essere la profetessa di Dio in Terra, in grado di penetrare tutti i segreti dell'universo. Perse ogni suo avere al gioco, e morì di cancro a trentasei anni, un anno dopo Mary Shelley, che senza dubbio doveva conoscere, perché nelle élite del mondo tutti conoscono tutti.
Interruppi il collegamento a Internet, intrecciai le braccia e mi misi a
pensare. Che fantastica tela di ragno! Qui tutto si congiungeva: il dottor
Frankenstein,
Alan Turing,
computer, robot, e anch'io, io stesso ero prigioniero di quella rete fatale.
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