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| << | < | > | >> |IndiceTEORIA 1. La contestazione del testo ovvero 7 La nozione di avanguardia e il Gruppo '63 2. Margini dell'utopia 31 3. Sanguineti teorico della letteratura 49 POESIA 4. Undici testi sperimentali 61 5. La modernità radicale di Pagliarani 105 6. Spatola di ritorno dall'America 121 NARRATIVA 7. L'orizzonte di Carla Vasio 131 8. Un Arbasino in vena, 143 tra avanguardia e postmodernismo 9. Germano Lombardi e l'antiromanzo 157 10. Malerba, i salti mortali della scrittura 173 11. Forma e deformazione nelle tendenze narrative 187 della nuova avanguardia CRITICA 12. Critica e criticità nel Gruppo '63 197 Nota 215 Cronologia 216 Bibliografia 221 |
| << | < | > | >> |Pagina 71. Al di là del nuovo La prima cosa da fare, per ragionare in modo non pregiudicato sulla nozione di avanguardia, è di strapparla al mito nel Nuovo, in cui viene di solito incasellata e ridotta. Secondo tale versione essa consisterebbe nella scoperta di un ritrovato affatto originale, mai visto prima, di volta in volta nel corso del tempo destinato a essere riassorbito e a diventare normale. Il Nuovo dovrebbe essere tale da determinare uno stacco epocale (il Futurismo: «Le parole in libertà spaccano in due la storia del pensiero e della poesia umana, da Omero all'ultimo fiato lirico della terra»); ma nello stesso tempo la sua durata è fatalmente breve destinata a una rapida obsolescenza. Lo stesso Futurismo, che può essere considerato a ragione la matrice dell'equazione tra l'avanguardia e il Nuovo a tutti i costi, tuttavia già all'atto della sua fondazione, nel manifesto del 1909, prevede l'avvento dei successori: Verranno contro di noi, i nostri successori; verranno di lontano, da ogni parte, danzando su la cadenza alata dei loro primi canti, protendendo dita adunche di predatori, e fiutando caninamente, alle porte delle accademie, il buon odore delle nostre menti in putrefazione, già promesse alle catacombe delle biblioteche. Chi di Nuovo ferisce, di Nuovo perisce. Che poi le avanguardie innovative (e il Futurismo in primis) non si arrendano facilmente alla loro stessa logica e abbiano spesso stanchi strascichi, è altro discorso. Di fatto, la vicenda novecentesca può essere descritta come una serie di sorpassi: il Futurismo sorpassa il simbolismo, ma è superato dal Dadaismo che in poco tempo è superato a sua volta dal Surrealismo; il Gruppo '47 e il Gruppo '63 superano le avanguardie storiche, ma esaurita la loro fase propulsiva, arriva sul traguardo il postmoderno che supera tutte le avanguardie in blocco, superando la nozione di superamento. Sarebbe un po' come il destino dei record sportivi. È però uno schema di comodo che, se pure è servito ai rispettivi movimenti per confezionare qualche sgargiante bandiera, oggi fa comodo soprattutto ai detrattori, al senso comune avverso all'avanguardia; in quanto: 1) se l'avanguardia consiste nella sua novità, è facile dimostrare che la novità è sempre relativa (quanti residui carducciani e dannunziani nei futuristi!); e comunque è facile dimostrare che i procedimenti di rottura, anche a prenderli per buoni, arriverebbero quasi subito "al termine della parola" (rotta la frase, rotta l'unità verbale, rotta la lettera cosa resta da rompere?), e a quel punto non resterebbe altro che ricostruire e recuperare; 2) se l'avanguardia consiste nell'invenzione del Nuovo, essa sarà momentanea, strettamente legata alla sua evenienza storica, non produrrà opere durevoli, ma si brucerà nel tempo, né potrà ripetersi se non scadendo a epigonismo di se stessa. Inoltre, il mito del Nuovo schiaccia l'avanguardia su un meccanismo che sappiamo bene essere quello della moda; allora, però, non si capisce perché, mentre alla moda concediamo benissimo il ritorno ciclico e la ripresa del revival, questo non sia consentito all'avanguardia. Capisco che l'applicazione matematica del principio del ritorno darebbe un esito eccessivamente semplicistico e un tantino consolatorio (1909, Futurismo – 1963 Neoavanguardia: una analoga distanza darebbe la prossima scadenza nel 2017...). In realtà il fatto è che l'avanguardia e la moda si diversificano su un punto decisivo e drastico, e cioè l'istanza contestativa. Vedremo più avanti la cosa con maggiore attenzione, ma già si può anticipare che, mentre nella moda si ha una serie di scelte concorrenziali in un sistema sostanzialmente omogeneo, l'istanza contestativa impone all'avanguardia di scartare rispetto all'evoluzione, perché non aggiunge o cambia qualcosa, ma spinge a spiazzare l'intero campo a partire da una diversa logica costitutiva. C'è un punto importante da precisare. Le diverse avanguardie non hanno lo stesso rapporto con il tempo. Mentre il Futurismo ufficiale marinettiano impone una taglio netto con il passato (la distruzione di musei e biblioteche come indice eclatante), già non è così per l'"altro Futurismo", quello dei russi o, da noi, di Palazzeschi e Lucini. Senza complimenti, il Dadaismo si occupa di buttare giù nello sberleffo la retorica trionfalistica dell'innovazione, attraverso l'uso di una autoironia che non promette alcuna "promozione" vittoriosa (esemplare il mago di Entr'acte, che alla fine fa scomparire se stesso). I surrealisti, poi, non tagliano i ponti con l'eredità, più di quanto non ritrovino passaggi segreti verso la tradizione alternativa degli autori messi all'indice e costretti al silenzio (Sade, Lautréamont, ecc.). Nel Gruppo '63 - anche questo sarà oggetto del mio libro - la collaborazione della critica servirà a tracciare le linee e le coordinate di una mappa di posizioni anomale che si prolungano e si allacciano a diversi livelli storici. Insomma, la questione non si può risolvere con il semplice battere degli orologi, c'è sempre una "simultaneità del non contemporaneo", per dirla con Bloch, che chiama in causa scelte culturali e in senso lato politiche, ad esempio il recupero di forze dimenticate, giocate contro le egemonie costituite. Per altro l'originalità assoluta viene smentita proprio da quella avanguardia iniziale che è il Futurismo, e proprio dal suo prorompente "zar" Marinetti. Perché se è vero che il Futurismo opera diversamente dalla letteratura che trova sul campo, tuttavia il suo Nuovo non nasce dal nulla, niente affatto, deve essere trovato dove già esiste, non nelle parole, ma nelle cose, ovvero nelle meraviglie tecnologiche delle macchine, nei prodigi straordinari della modernità. In pratica, si tratterebbe di aggiornare una letteratura rimasta indietro e il mito della velocità, checché se ne dica, è legato a un inseguimento del presente, ben più che del futuro. Di qui, di conseguenza, tutto il residuo mimetico (cioè di imitazione di una realtà data) che è stato notato nella prassi delle parole che si volevano "in libertà". Se correre è sempre un correre dietro alla lepre dell'attualità, forse la stessa metafora militare, che il termine avanguardia contiene, va riveduta e corretta. L'"avanti", così posto, si addice molto di più all'ambito agonistico-sportivo. Stando all'ambito militare, infatti, il drappello di avanguardia è quello che precede il grosso dell'esercito: ma l'esercito che lo segue è precisamente il suo, stando il nemico dalla parte opposta. Invece, spostandoci al modello della gara sportiva, il nemico è il grosso (il "gruppone") che si avvicina minacciosamente ai fuggitivi. | << | < | > | >> |Pagina 163. Sperimentalismo, perchéCon la metafora scientifica è peggio che andar di notte. Con l'avanzare degli heideggerismi vari, la scienza si fa invisa pratica di un intelletto freddo, inadatta allo sprizzare degli "arrischianti", ancora più detestata, se si può, della aggressività militante. Negli anni del nuovo divaricarsi delle scienze dell'uomo dalle scienze della natura e di arrembante revanchismo dei fautori della creatività artistica, di intuizione contrapposta all'intelligenza, di anima messa contro il "senza cuore" delle cifre, per lo sperimentalismo la cancellazione dall'ordine del giorno è segnata, con sorte non dissimile dalla "politicizzazione" (e tale sorte comune la dice lunga sulla loro parentela). Ma ragioniamo con calma. Intanto dovrebbe essere chiaro che nell'esperimento di scrittura non si tratta di verificabile esattezza, né di calcolo matematico, e neppure di un controllato percorso da ipotesi a risultati oggettivi. Anche se certamente vi è in gioco la progettualità della scrittura in dosi più massicce che nella ordinaria poetica, per sperimentalismo si intende spirito di ricerca e quindi l'apertura ad una molteplicità di soluzioni non garantite, proprio perché devianti rispetto alle plausibili previsioni. L'idea di una meccanicità di procedimenti decisi a tavolino può essere in taluni casi giustificata, e però non è mai fine a se stessa. Anche nel caso delle contraintes dell' Oulipo , siano esse pure assunte a priori, si deve sempre tener presente che regolamentazioni apparentemente neutre (per esempio il lipogramma) servono nella sostanza come strumenti per scansare il banale e non abbandonarsi alle formule ovvie che per prime venissero in mente. In realtà lo sperimentalismo, così come si sviluppa negli anni Sessanta e come vedremo dalle analisi del capitolo 4, non si serve mai di un unico procedimento, semmai si muove in una rete, in una serie di relazioni intrecciate. Non si tratta di mero formalismo, ma della contestazione, appunto, del rapporto equilibrato (medio, moderato, mediocre) tra forma e contenuto, contro il presupposto idealista che l'arte consista nel dare al contenuto la sua propria forma, quella che gli è destinata ab origine e che naturalmente e spontaneamente gli compete. Ma come potrebbe essere equilibrata l'arte nel mondo della contraddizione costitutiva? Lo sperimentalismo dunque è lo scavo delle discrepanze tra forme e contenuti, moltiplicandone le possibilità di connessione, ma anche di attrito. Da questo, sebbene distanziamento in effetti vi sia, non deriva tanto un iter di tipo strettamente consequenziale, quanto piuttosto ci si concentra sul problema della tecnica. La tecnica come ben sapeva Benjamin – è la cartina di tornasole, la domanda è: "cosa succede alla tecnica"? Ecco, sperimentare significa che ogni preventivo "saper fare" viene tenuto in sospeso. Ci si muove nell'ambito di una patafisica, di una scienza delle soluzioni immaginarie, assurde e inverosimili, "fuori sistema". Le attuali scuole di scrittura non saprebbero insegnarla neanche volessero. | << | < | > | >> |Pagina 214. Il linguaggio come lavoroEsperimento sulle parole, quindi, e cioè sul linguaggio. Le avanguardie del primo Novecento avevano sottolineato la questione del linguaggio, ma per così dire anche troppo, troppo assolutamente e fideisticamente. Le parole in libertà e ancor più la lingua transmentale (zaum) dei futuristi russi, completamente inventata, si illudevano di un facile abbandono del codice; lo stesso la pretesa di un certo surrealismo che lasciandolo parlare automaticamente senza sorveglianza (Breton diceva: «après vous mon beau langage») il linguaggio dischiudesse le porte dell'altrove. Nella seconda Ondata appare con maggiore chiarezza che il linguaggio contiene sia la liberazione che l'alienazione, è il soggetto e insieme l'oggetto del conflitto, è il campo di lotta in cui avanzare le contromosse sperimentali. Si dirà che questa impostazione è tipica degli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento, di quella svolta linguistica, impressa in quel periodo a tutto l'ambito culturale e scientifico. Tuttavia, un confronto con lo strutturalismo e la semiotica da una parte, e le nuove avanguardie dall'altra, porta in evidenza diametrali divergenze. Mentre lo strutturalismo considera il codice, a monte, come la matrice di tutti i messaggi e la storia semplicemente come una combinatoria cangiante ma sempre dipendente da quelle possibilità apriori, l'avanguardia vede nel codice una convenzione sociale, come tale trasformabile e trasgredibile. L'equazione posta da Sanguineti tra linguaggio e ideologia appare in sintonia, più che con Lévi-Strauss o Greimas, con la semiotica materialista di Rossi-Landi che sviluppa le proprie riflessioni sul capitale linguistico e il lavoro linguistico proprio in quegli stessi anni: una semiotica che traduce le merci in messaggi e viceversa, e quindi apre la prospettiva di una critica del testo verbale in chiave economico-politica. Al di là della superficie emotiva o referenziale, il testo si presenta allora esattamente come un "tessuto", ovvero come un prodotto di un lavoro — ed eccoci spostati dalla sfera del privato a quella del pubblico. Ma il passo ulteriore dell'avanguardia è che il lavoro non deve riprodurre il capitale (simbolico) morto, ma deve contenere un risalto critico e autocritico, di critica del lavoro stesso. Per questo l'ordine, la norma, il codice non sono felicemente bypassati (come se la libertà fosse già possibile), ma messi in questione in un duro e difficile processo di liberazione. Si tratta di uno scavo dall'interno. Brecht diceva: "segare il ramo in cui si sta seduti"; Sanguineti ha parlato di "sabotaggio del poetese". Il lavoro sul linguaggio basta a terremotare l'idea consueta e consunta che l'arte letteraria sia il luogo ideale cui una persona-autore affida la propria esperienza personale vissuta per comunicarla ad altri ed esservi riconosciuto. Propenda più per l'interiorità dello stato d'animo (poesia) oppure per l'esteriorità degli avvenimenti (narrativa), la cosa non cambia: entrambi i casi si risolvono nel contatto empatico sia nella confessione intima vera e propria, sia e non meno nella fiction (mediante l'immedesimazione nell'eroe/ina) perfino nell'assolutamente irreale del fantasy. Questo aggancio antropomorfo, che riporta la scrittura all'autore e al suo alter ego, viene interrotto dall'avanguardia che comunica, ossia "mette in comune" (comunicare dovrebbe voler dire "mettere in comune", no?) piuttosto un oggetto spaesente, defunzionalizzato, enigmatico. Non che l'autore venga eliminato, anzi, tutt'altro. Il soggetto rimane fondamentale, ma è il soggetto dell'enunciazione a sottrarre le prerogative al soggetto dell'enunciato o, per meglio dire, a riprendersi le sue, per solito nascoste. Non per nulla, l'autore può anche essere plurale e corrispondere a più persone. | << | < | > | >> |Pagina 28Tutto questo cavillare per arrivare al punto: la rilettura degli anni Sessanta e adiacenze sarà compiuta, in questo libro, con una prospettiva attualizzante. Attualità dell'avanguardia? Ma questa oggi risulta essere davvero il non plus ultra della provocazione, oppure una boutade. Tanto è progredito l'imbarbarimento della cultura e l'abbassamento di livello che io chiamo "postletterario", che ormai anche i classici della tradizione risultano praticamente "illeggibili", figuriamoci le scritture anomale, per le quali il cosiddetto pubblico ha perduto il minimo parametro, sembreranno messaggi provenienti da Marte.Eppure, proviamo a identificare alcune elementari esigenze attribuibili a chi voglia semplicemente riemergere a respirare un pochino dall'immaginario collettivo in cui si trova immerso. Direi: 1) poter capire che i valori vantati dal mercato non esistono e che l' emozione solitamente connessavi tanto più è strombazzata, tanto più è immessa a comando pigiando su corde stantie; 2) scrollarsi di dosso le maschere identitarie vecchie e nuove e i loro miti e simboli di appartenenza, comprese tutte le tentazioni neocomunitarie; 3) smentire con rigore la "scelta obbligata" calata dall'alto, per immaginare un diverso assetto di condivisione della penuria. Se partiamo da queste tre esigenze elementari, possiamo poi verificare quali scritture ci aiutino a soddisfarle. Allora, nessuna opzione può dirsi "superata" o "datata" e del resto varie ipotesi che si spacciano per alternative sono a ben pensarci antichissime (quelle del tipo: "la bellezza ci salverà", per esempio). Certo, ogni ripresa dovrà essere filtrata con atteggiamento critico, non si tratterà di imitare — può darsi che oscurità gratuite o atomizzazioni confuse non si rivelino utili — ma di seguire, ossia fare altrettanto altrimenti, nel senso che le avanguardie, mostrando che si può scrivere diversamente, ci allenano alla agilità mentale e ci invitano alla dinamica testuale. Quali programmi operativi del '63 hanno ancora qualcosa da dirci? Ecco la domanda. Magari saranno le istanze più contestative e magari proprio quelle che all'epoca non furono compiutamente espresse, perché sono esse - a essere fino in fondo benjaminiani - che continuano a parlare per chiedere adempimento. Ma, poi, cosa servono tante argomentazioni arzigogolate? Basti questo: l'avanguardia è un valore, se non altro perché è l'unica cosa che i cinesi non sono ancora riusciti a rifare! | << | < | > | >> |Pagina 49Un "aspirante materialista storico" ha voluto definirsi Sanguineti, in uno dei suoi lapidari epifonemi, in rigorosa "riduzione dell'io". Ma noi gli riconosciamo il diritto a un ruolo di "maestro": un punto di riferimento, in molte occasioni il principale, e una fonte continua di indicazioni, prospettive - e perché no? – conforti, per noi "apprendisti" materialisti. Si dirà che non ce n'erano molti altri: è vero, il materialismo non era frequente incontrarlo, dalle nostre parti, in una cultura - la dicano pure egemonizzata a sinistra gli epuratori odierni – che ha preferito imbottirsi di umanesimo, di esistenzialismo, di strutturalismo, di sociologismo, poi di moralismo debolista, ora di blando liberal-buonismo, piuttosto che frequentare le "materie" (le "economie" psichiche e sociali) fino a conseguenze radicali. Ma tanto più ci è stato prezioso Sanguineti. E tanto più perché il suo materialismo è stato aperto, in tutti i sensi: sia in quanto è stato enunciato apertamente a chiare lettere, attraverso più di mezzo secolo, scontrandosi sempre con le dominanti culturali e le mode che si sono succedute al centro della scena. Di qui la posizione scomoda degli interventi sanguinetiani, disposti come essi sono sempre stati ad assumere la parte del superato che non si lascia rimuovere, della voce fuori del coro, pervicacemente controcorrente rispetto alle seduzioni intellettuali del momento. Una "diabolica" capacità di rifiuto; magari da "Diabolus Vetus", come egli si è denominato, invertendo la forse troppo "celeste" versione dell' Angelus novus di Benjamin. E sia in quanto è stato sempre un materialismo aperto, e cioè di specie critica. Sempre in ricerca e mai soddisfatto di approdi o soluzioni raggiunte, sarà anche un materialismo pronto a combinarsi in congiunzioni inedite e sorprendenti, a buon bisogno: non solo quelle "tradizionali" con la storia e la dialettica, ma anche per quante scintille avesse fatto sprizzare il contatto nel corso del Novecento con l'anarchia, ad esempio, o con il nichilismo, nonché, sul piano più strettamente letterario, con l'avanguardia (che l'ortodossia marxista non ebbe a digerire, di solito) o con l'allegoria (il "realismo allegorico": un ossimoro dei migliori). In ciò non è soltanto l'opera di una ragione antidogmatica; sulla teoria influisce l'istanza di una prassi altrettanto antidogmatica, ossia sperimentale. La teoria di Sanguineti non può essere separata dalla sua attività di critico e di scrittore. C'è, ogni volta, un problema "militante" che la teoria è chiamata ad affrontare. Le idee si lasciano toccare dalla prassi. Tanto che - in anni in cui il discorso teorico si affermava di contro alla storia (al massimo, come in de Man, dopo essersi annessa la storia, la teoria si mordeva la coda facendo "resistenza" a se stessa, ma non mollava la presa, anzi volgeva a maggior gloria le proprie difficoltà) - Sanguineti propone di fare perno sulla storia, secondo lo "storicismo assoluto" della linea Vico-Marx-Gramsci (ancora chiamata in causa nella raccolta di saggi Il chierico organico). Non posso, quindi, parlarne qui come un teorico senza precisare subito che si tratta di un teorico della «critica della teoria», così come, in poesia, è il poeta dell'anti-poesia, della "lotta al poetese". | << | < | > | >> |Pagina 61NANNI BALESTRINI Il motivo consueto per cui lo sperimentalismo viene "guardato di traverso" e oggi quasi cancellato dal vocabolario letterario è l'addebito di eccessiva meccanicità, di un progetto apriori che annullerebbe l'aspetto creativo. Un autore che potrebbe rientrare in questo schema è certamente Balestrini: infatti, non è possibile negare che la sua operazione si affidi ad un procedimento prestabilito "a tavolino" e meccanico al punto da disinteressarsi della sorte del messaggio e addirittura da consegnarsi - nelle pionieristiche poesie scritte con il computer - alla macchina stessa. Tuttavia, una volta ammesso questo, occorre specificare subito che tale atteggiamento è solo in apparenza neutro, ma rimanda a discorsi molto seri e per nulla giocosi, e addirittura che, alla fine dei conti, è un metodo per raggiungere una creatività ancora maggiore dei lirici di stampo emotivo. Che la poesia abbia qualcosa del meccanismo è evidente da sempre e in questo non ci sarebbe nulla di nuovo e basterebbe pensare alla tradizione e alla sua norma letteraria, fondata su regole presupposte, principalmente metriche, schemi vuoti che fanno del testo poetico una scrittura diversa dalla lingua d'uso. Di recente, dopo l'affermazione novecentesca del verso libero, l'assunzione delle regole è cambiata di segno, non è più stata una ovvietà insita nella stessa parola poesia, ma una deliberata e volontaria autoprescrizione di contraintes, una restrizione del campo linguistico in cui mostrare la propria abilità tecnica. Vedi il caso dell' Oulipo , per esempio quando scrive lipogrammi, escludendo l'uso delle parole contenenti una determinata vocale. Per i francesi si tratta di un condizionamento, di un ostacolo da superare, in altre parole la scommessa di esprimersi con la contrainte. Per Balestrini, invece, in particolare nei testi composti nella temperie della neoavanguardia, si tratta di esprimere la contrainte. La regola non viene fissata per mostrare l'abilità di riuscire ad esprimersi lo stesso, ma viene messa in evidenza come la vera e principale sostanza del testo. Il significato è secondario rispetto all'organizzazione del significante, il contenuto diventa mero materiale, come volevano i formalisti. Di più: il silenzio della parole (poiché la scrittura non dice nulla a proposito dell'individuo che scrive) serve a far emergere la langue, nella sua specificità strutturale. Questa "indifferenza" si fa evidente con il procedimento del taglio della frase: se la frase può essere troncata in qualsiasi momento, il disinteresse per il significato è palese. Nella fase calda della fine degli anni Sessanta, con Ma noi facciamone un'altra (1968) il taglio (il cosiddetto cut-up) si farà indiscriminato e senz'argini, l'azione convulsa di una macchina impazzita sfuggita al controllo che non guarda più alla sostanza del discorso, ma va a capo con la massima noncuranza, anche a dispetto della divisione in sillabe. Una pratica crudele, una delusione ironicamente sistematica della convenzione "iperprotetta" per cui il lettore si accosta a una poesia sforzandosi sempre di comprendere cosa dice. Ma la cosa, se non un significato, ha però un senso, come del resto perfino il ready-made di Duchamp. È richiesta non meno, ma più riflessione. Infatti, la poetica dell'interruzione e della frammentarietà costituisce una modalità nello stesso tempo di contestazione e di mimesi. Contestazione della logosfera e del linguaggio dominante, perché ne prende a casaccio dei brandelli verbali e ne fa a pezzi la presunta valenza comunicativa. E mimesi però anche, perché si tratta di indicare, nella tecnica del montaggio, la condizione precipua della modernità, le nuove dimensioni della percezione, la realtà franta che è possibile registrare solo in un flusso frenetico, desultorio e discontinuo. Non solo, ma per Balestrini il montaggio come corrispettivo della catena di montaggio, l'autore divenuto operaio del testo. | << | < | > | >> |Pagina 173A proposito di Luigi Malerba uno dei ritornelli critici più frequenti è quello della sua appartenenza o meno all'area delle nuove avanguardie e del romanzo sperimentale. Affiliarlo o affrancarlo? Questo è il problema, ovviamente dipendente dalle simpatie o meno di ciascun critico per quella tendenza letteraria. Ed è chiaro che, così posta, la questione non si risolve altro che relativamente, e potremmo starcene contenti con l'esito di Maria Corti, con il suo qui «si deforma, ma si racconta», che ha il merito di fornire all'autore un lasciapassare nell'epoca in cui si esige per prima cosa il racconto, conservandogli al contempo un quanto di deformazione. Il tentativo che vorrei fare, tuttavia, è di rovesciare le proporzioni, magari allargando un po' la prospettiva. Il modo invalso di vedere l'evoluzione narrativa del secondo Novecento è quello di considerare il romanzo sperimentale come una patologia momentanea (qualcuno ebbe a dire "una glaciazione"), da cui ci si è poi ripresi con gloria e vittoria della scrittura scorrevole fino ai recenti fasti della fiction. In questo quadro, Malerba, magari un po' infettato di influenza giovanile, se ne uscirebbe anche lui verso il suo periodo maturo di narratore autentico, anche se con qualche traccia di paradossismo rimasta sparsa qua e là. Ma, se le cose andassero diversamente? Se provassimo a comprendere il romanzo sperimentale in una tradizione più larga? Una tradizione dove, io dico, l'antitesi — con buona pace dell'uso dialettico consueto — precede la tesi? Proviamo a pensare che lo sperimentare narrativo corrisponda fin dall'origine all'uso libero della prosa, anarchico, anormale e mostruoso; e che su questo fondo caotico e ribelle si venga a stabilire poi l'ordine del romanzo, come riduzione alla realtà, obbligo di verosimiglianza e di omogeneità, controllo delle trasgressioni e via dicendo. Se ripassiamo le indicazioni di Bachtin sulla nascita del romanzo «nell'alveo delle forze centrifughe decentralizzanti» e sulla sua natura di ibrido, «interamente stilizzato, meditato, soppesato, distanziato»; o se pensiamo anche solo a quel "quarto genere" che Frye separa dal romanzo vero e proprio per definirlo con il termine di anatomia, in cui «la struttura intellettuale che emerge dalla storia raccontata provoca violente alterazioni nella normale logica narrativa», oppure chiamiamola la linea-Yorick dei «linguaggi deformati e funambolici», per dirla con un titolo del nostro Mazzacurati; comunque la si voglia mettere, abbiamo di fronte una tendenza alla anomalia prosastica che emerge soprattutto nei periodi di tensioni antagoniste e utopiche, una tendenza il cui carattere affermativo (positivo) è realizzato in forme parodistiche (negative) proprio allo scopo di rompere la crosta di omologazione che si è solidificata sul pasticcio letterario; la crosta, direi, antropomorfa: quella che deve trasformare la scatenata avventura delle parole nella simil-vita di un simil-uomo. I capisaldi di questa emergenza sono fin troppo facili da trovare, da Rabelais a Cervantes, da Sterne fino a Joyce, Kafka e Beckett (in Italia, l'umorismo con Bini, Dossi, Pirandello, Savinio e compagni). La linea, per definirla ancora, del rapsodico, dell' arabesco e del capriccio. Come punti di interferenza sulla norma o normalità narrativa le potremmo riconoscere diverse procedure: a) la formazione di un non-luogo o ambiente libero da obblighi mimetici, un mondo impossibile, per lo meno un mondo imprecisato; b) la mescolanza dei fili e degli stili o generi di scrittura, volta all'eterogeneo, per saturazione o montaggio, oggettivante i suoi lacerti, che finisce per mettere in primo piano il linguaggio e la composizione, protagonisti al posto dei personaggi; c) il narratore sulla scena, ovvero l'evidenza critica della finzione. Questa logica, per la quale si tratta non di cementare i modelli né di assumere il senso comune, bensì di recuperare disinvoltura e indipendenza, è presente in Malerba fin dall'inizio, tanto che già in una delle sue prime interviste egli parla di «modelli di libertà»: la formula è messa tra parentesi, ma il suo tendenziale "anarchismo" è chiarissimo nel rapporto tra forma narrativa e esemplarità sociale, finendo dritta nella "lotta di classe": «Lo scrittore consapevole afferma Malerba, rispondendo a Paolo Mauri nel 1977 si trova quindi nella necessità di operare con strumenti che deve inventare di volta in volta, creando modelli linguistici e perciò di pensiero e di comportamento (modelli di libertà) che spezzino il processo di standardizzazione imposto dalle classi dominanti». Il punto di aggancio di Malerba con quella linea di tendenza che ho rapidamente indicato non sta tanto nel non-luogo (i suoi luoghi sono identificabili, almeno in apparenza) e neppure nel protagonismo del linguaggio (sebbene non se ne stia certo a far da lente trasparente), quanto nella esibizione del narratore, che definirei come un narratore diviso o, per usare un termine dell'autore stesso, "sdoppiato". Questo si riscontrerà in modo particolarmente radicale in Salto mortale, un testo che partecipa - come indica la stessa data, 1968 - a un periodo alquanto radicale della storia e della cultura non solo in Italia, un momento in cui le stesse neoavanguardie incontravano stimoli concorrenziali nei movimenti contestativi, che le spingevano a osare di più (vedi anche i testi coevi di Sanguineti, Leonetti, Di Marco, ecc.). Ma il procedimento non è isolato a quel solo libro. C'è anche prima: possiamo risalire al racconto de La scoperta dell'alfabeto intitolato Le ruote della civiltà. Il narratore qui viene messo in scena di fronte ai suoi narratari, ma questi non ne vogliono sapere di essere semplicemente evocati come astanti silenziosi (con le locuzioni, ad hoc, del tipo: "il lettore si starà chiedendo", "il lettore obietterà", e simili). I narratari malerbiani prendono apertamente la parola e interrompono con le loro proteste il filo del racconto, che procede in modo asmatico e poco convincente per loro («Questa è una storia per modo di dire», protesta uno del pubblico). L'aspetto interessante è che questa crisi del narrato non viene affatto ambientata in una situazione di modernità avanzata, ma esplode nello stesso mondo contadino, nella situazione enunciativa di un raccontatore orale, che dovrebbe essere del tutto omogeneo alla sua comunità. Ciò dimostra che non c'è originario che tenga, se non piuttosto che la problematicità della narrazione è, proprio lei, l'origine più profonda. Dopodiché, l'operazione sull'io narrante inizia con Il serpente, romanzo del narratore screditato, che scava nell'identità-differenza tra finzione e falsità. Il narratore confessa di aver mentito e alla fine lo troviamo ricoverato in preda alle allucinazioni: si è dunque inventato tutto dalla prima all'ultima riga? Il lettore dovrebbe buttare via il libro perché non c'è niente di vero? Notiamo innanzitutto che Malerba colpisce proprio la sede a cui noi demandiamo la credulità del "come se". In realtà il "narratore inattendibile" è tutt'altro che un fallimento o un errore estetico; come ha spiegato Chatman sulla scia di Booth, la narrazione inattendibile è un modo con cui il narratore implicito ci rivela la sua presenza, altrimenti dissimulata: in altre parole, se colui che racconta risulta menzognero, dovrò domandarmi per forza chi ha costruito un narratore menzognero e perché, invece di cullarmi nella illusione del simil-vissuto. La narrazione inattendibile assume una significazione al quadrato, diventa una sorta di allegoria. Inoltre Il serpente interessa qui anche per un altro aspetto, il dialogo del narratore con se stesso. Il personaggio malerbiano è uno che vive isolato nelle proprie fantasie. Mentre la sua voce della coscienza si fa sempre più patologica, i personaggi che lo attorniano si rivelano immaginari. I tratti dei continui "mi dicevo" sono dunque la traccia di tale chiusura endogena, in cui appunto falsità e finzione si danno il cambio di continuo. Sarà un personaggio delirante, però è altresì la prova di una dialogicità della coscienza che non sarebbe dispiaciuta a Bachtin. E che tra l'altro ritroveremo, dopo l' exploit di Salto mortale, ancora nel Pianeta azzurro. | << | < | > | >> |Pagina 184Quell'epoca, dunque, sì, il Sessantotto, gli anni della contestazione. Gli anni in cui vigeva tra gli studenti il Ma-Ma-Ma (Marx, Mao, Marcuse). Io mi aggiravo nel movimento sempre un po' per conto mio, sfidando i rimproveri dei "duri e puri", con un quarto Ma, Malerba. Devo dire, a distanza di anni, che spero di essere rimasto fedele a questo valore aggiunto. Cioè al tentativo di affiancare la critica dell'economia politica e la critica della cultura egemone con l'ipotesi di una scrittura libera e liberante, capace di continui "salti mortali".| << | < | > | >> |Pagina 187Nell'epoca in cui non solo siamo immersi nella fiction delle comunicazioni di massa, ma, anche a non voler mai premere il tasto di accensione di alcun video, c'è un senso comune diffuso che sembra aver ormai accettato come accesso all'identità la formula "narro dunque sono" e la cui punta-di-iceberg sono le frequenti "ontologia della narrazione" provenienti da posizioni perfino opposte, dallo strutturalismo all'ermeneutica, dal femminismo al postmoderno. Dappertutto si dà per scontato che raccontare sia un'attività naturale e propria dell'uomo. Per un verso, il romanzo si afferma di fatto come unico genere letterario superstite – basta dare uno sguardo agli scaffali di una libreria, dove la poesia sta in un angolino e la saggistica è praticamente introvabile. Per un altro verso, la teoria predica la centralità del raccontare. Valga per tutti questo brano di Jonathan Culler, nella sua riassuntiva Teoria della letteratura: La teoria della letteratura e quella della cultura hanno progressivamente reclamato una centralità culturale per la narrativa. Le storie, dice l'argomentazione, sono il modo principale con cui diamo senso alle cose, sia col pensare alle nostre vite come una progressione che porta da qualche parte, sia col raccontarci cosa sta succedendo nel mondo. La spiegazione scientifica dà senso alle cose collocandole sotto alcune leggi — dati a e b ne seguirà c ma la vita in genere non funziona così. La vita non segue la logica scientifica di causa-effetto ma quella della storia, dove capire significa immaginare in che modo da una cosa si arrivi a un'altra, (...). Noi diamo senso agli avvenimenti per mezzo di storie possibili; (...). Ma se le cose stessero semplicemente così, allora una narrazione vale l'altra. O meglio: ogni "racconto di vita" sarebbe accettabile perché ci metterebbe in comunicazione con l'essenza dell'altro. La critica sarebbe impossibile. E che fine farebbe quella problematicità che ha caratterizzato il moderno? Uno studioso del romanzo che ha il pregio di operare in base a una comparatistica "internazionale", come Wladimir Krysinski, ha recentemente esplorato la ricchezza di proposte e di prospettive delle (plurale) "modernità" del romanzo, dimostrando ampiamente come, nelle diverse aree linguistiche e - ormai - nei diversi continenti letterari, non vinca affatto la fluidità e la scorrevolezza (oggi tanto esaltate dal mercato e dal consumo di narrativa), bensì la complicazione: con gradi diversi, ma con ben radicate istanze, i narratori delle modernità si basano sulla discontinuità e sulla tensione strutturale, sull'ironia e sull'ibridazione, sulla plurivocità e sulla metadiscorsività, nonché sulla decostruzione del ruolo del narratore. In fondo, anche un critico come Franco Moretti, più incline all'idea di "compromesso" della letteratura come riduzione e controllo delle «tensioni simboliche», pure, nel suo lavoro attorno alla categoria di «epica moderna» (Opere mondo), doveva constatare il continuo insorgere di ostacoli, soprattutto dovuto all'incrociarsi della narrazione con la rappresentazione allegorica due estremizzazioni possibili: quella della proliferazione dei significanti (Joyce) e quella della proliferazione dei significati (Kafka). Insomma, la complessità della scrittura narrativa, dei suoi vari livelli e dei suoi anche contorti paradossi, non è facilmente risolvibile nei termini della semplicistica concezione del racconto come espressione elementare dell'identità. E sarà perciò istruttivo ritornare a visitare quel periodo pionieristico degli anni Sessanta e in esso l'area teorica e pratica delle nuove avanguardie raccolte attorno al Gruppo '63. Se è vero che la ripresa italiana dell'avanguardia è nata dal piccolo nucleo di poeti Novissimi, va notato che nella formazione più larga del gruppo comparivano numerosi narratori; e che, in particolare, i critici che presiedevano alle operazioni, Barilli e Angelo Guglielmi, si occupavano prevalentemente di narrativa. Sono proprio "quei due" ad aprire il convegno dedicato nel 1965 a Palermo, al Romanzo sperimentale. Sebbene, è vero, l'attenzione dell'avanguardia al romanzo fosse precisamente un problema. L'avanguardia storica aveva preferito, per le sue attività di incursione, le scritture brevi e sintetiche, magari fuori del libro. In particolare, con il surrealismo francese, l'ostracismo alla finzione era diventato esplicito: Breton, nel suo primo manifesto, ci dava dentro con la polemica contro i romanzi, quei luoghi scontati dove «l'autore se la prende con un personaggio e, dato questo, fa peregrinare il suo eroe attraverso il mondo». La surrealtà non è attingibile da un carattere come «tipo umano, formato»; l'unica narrazione surrealista accettabile sarà quindi quella autobiografica dell'esperienza altra compiuta di persona dall'autore. Dopo la seconda Guerra Mondiale, però, la ripresa dell'avanguardia - che trova in Italia un terreno più favorevole che in ogni altro paese - non si pone tanto l'obiettivo della provocazione: non si tratta più, dirà Guglielmi, dell'assalto frontale, quanto della paziente e attenta esplorazione di un "terreno minato". E tale atteggiamento sperimentale, consente, anzi esige, l'attraversamento dei generi. La défense de toucher bretoniana nei confronti della finzione, viene sostituita non già da concessioni o recuperi retrogradi (né realismi, né psicologismi: nessun rientro nel personaggio a-tutto-tondo), ma dai modi della conduzione all'estremo, della deformazione e dello stravolgimento.
La formula dell'antiromanzo potrebbe far pensare a forme di negatività a
priori. Ma ritenere le prove narrative della neoavanguardia soltanto
un racconto volutamente rovinato, sarebbe ridurle alla caricatura. In realtà il
"romanzo sperimentale" degli anni Sessanta oltre a costituire un
potente influsso un po' su tutti i narratori dell'epoca (da Moravia a Calvino, a
Volponi, forse perfino Pasolini...) che si sentiranno inevitabilmente
attratti ad osare di più, può anche vantare al suo interno un ampio ventaglio di
ricerche. Schematicamente, mi pare che si possano riconoscere
tre forme o linee principali: 1) quella del romanzo per frammenti e della
associazione narrativa; 2) la narrativa dello sguardo e della percezione;
3) l'iperromanzo della parodia e del
pastiche,
da cui nel corso del decennio si andrà sviluppando la linea del comico.
Vediamole in ordine.
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