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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione, di Edoardo Sanguineti 5 Prolegomeni a una logomachia, di Raffaele Aragona 7 Stand by, di Brunella Eruli 15 L'OpLePo e i plagiari per anticipazione, di Paolo Albani 21 Ruggero Campagnoli, Edulcoranti [sintesi illustrativa], (1, 1990) 29 Aldo Spinelli, L'uso delle istruzioni, Rigrafia, (2, 1991) 31 Giuseppe Varaldo, Canto tenero, Mitografemi, (3, 1992) 47 Ruggero Campagnoli, Deliri edipici, Sonetti palindromici [sintesi illustrativa], (4, 1992) 65 Piero Falchetta, Frammenti in vita, Combinazioni monorime con commento, (5, 1993) 67 Ruggero Campagnoli, Vocalizzi Zulu, Sonetti monovocalici latenti [sintesi illustrativa], (6, 1994) 97 Elena Addòmine, Forme For me. Traduzioni omografiche, (7, 1994) 99 Raffaele Aragona, La viola del bardo, Piccolo Omonimario Illustrato, (8, 1994) 113 Aldo Spinelli, Le ripartite, Rimbalzo statistico, (9, 1994) 135 [...] Piergiorgio Odifreddi, Riflessi in uno zaffiro orientale, Diari minimi di viaggi effimeri, (23, 2005) 579 Sal Kierkia, Preludi, Tempo obbligato, (24, 2005) 615 Cenni sugli autori dei testi 639 Piccola Cronologia Oplepiana 645 Per una biblioteca di letteratura potenziale 655 |
| << | < | > | >> |Pagina 5IntroduzioneAlla domanda "cosa è la poesia?", la mia tesi può riassumersi molto brevemente in questa formula: la poesia è una mnemotecnica, una tecnica del ricordo, un'arte della memoria. Alla domanda: "allora, perché la contrainte?", "perché la contrainte poetica in particolare?", può rispondersi che questa ha una finalità precisa: si usano delle contraintes per meglio memorizzare. Naturalmente le diverse culture producono, nei diversi tempi, differenti modalità, perché la memoria umana non esiste come tale in assoluto, ma vi sono varie mnemotecniche che si adattano plasticamente nello spazio e nel tempo e producono, quindi, nozioni e pratiche molto diverse da quello che potrei chiamare in modo generico "verso" e, ancora, categorie metriche accompagnate da differenti prescrizioni; in comune c'è precisamente una contrainte. Tutto ciò può riguardare il numero, la lunghezza, la durata sillabica, i modi ritmici, l'impiego di allitterazioni o l'organizzazione strofica, l'omoteleuto, la rima, la costituzione di un lessico politico, radicalmente altro da un lessico quotidiano. La memoria di vita è socialmente definibile con tratti storico-culturali. Per qualcuno, per una cultura (non parlo di elementi individuali), qualcosa può essere agevolmente memorizzabile e altre cose impossibili a ricordarsi; passando da una cultura all'altra, i criteri, i modi e le forme della memorabilità, dunque le contraintes che ne possono nascere, sono totalmente diverse. Cosa vale tutto ciò nel momento in cui si genera la scrittura? quando, potrebbe dirsi, "la musa impara a scrivere". Evidentemente tutte queste contraintes mnemotecniche diventano superflue. Io scrivo un testo, non ho più bisogno di memorizzarlo. La scrittura, tra l'altro, è un caso di notazione molto imperfetto; come devo leggere una poesia di Leopardi? La notazione scrittoria è infinitamente più vaga rispetto al tipo di sistemazione che noi abbiamo acquisito: bene o male, io so come si deve eseguire Chopin, naturalmente in un vasto àmbito di interpretazione, ma entro limiti contenuti. «Sempre caro mi fu quest'ermo colle», può invece essere letto in mille modi diversi perché, oltre tutto, non si dispone della registrazione della voce di Leopardi il quale, per altro, una volta lesse in pubblico (si esibì a Bologna in una riunione diciamo arcadica o accademica): insomma, si tratta di partiture molto imperfette. Le contraintes sono sopravvissute e il carattere mnemotecnico della poesia rimane intatto; la poesia è fatta per essere memorizzata e, anche se ce l'ho li scritta sulla carta, il corretto uso della poesia è quello: "io me la devo ricantare dentro..., altrimenti non funziona". Oggi si vive in un'età che aspira alla dissoluzione della contrainte e fenomeni come quelli dell'OULIPO e dell'OPLEPO si spiegano come fenomeni di reazione di fronte al per così dire "fa quel che vuoi", che è molto bello, rabelaisiano, secondo me, ma contemporaneamente genera il terrore della libertà. "Cosa fare?" È la grande domanda che si pone, non solo ai politici, ma a chiunque perché, se la tradizione non offre più delle contraintes moralizzanti, salvo che minacciose, la responsabilità dell'invenzione dei comportamenti (e quindi anche sul terreno dell'arte), il "che fare?" diventa spaventevole, bisogna rifugiarsi nella contrainte. Il passaggio dell'Oulipo e dell'Oplepo lo interpreto nel senso che l'invenzione non è più nel testo, ma nella regola; io devo inventare la regola, il testo vale solo come sua esplicazione, laddove prima la regola, la contrainte, era il punto di partenza, ma essa naturalmente esisteva e aveva senso perché produceva testi, qui accade il contrario: ciò che è importante è la regola, il testo è relativamente indifferente. La cultura moderna è davvero una cultura dell'anarchia, nel senso forte della parola, cioè del rifiuto delle regole, salvo quelle che si autoelaborano: nascono così delle autocostrizioni e, quanto alle forme del passato, possono scriversi sonetti a patto di considerarli assolutamente innaturali. È chiaro che, quando Carducci scriveva un sonetto, ci si calava tutto dentro; ma, se un poeta d'oggi scrive un sonetto, sa benissimo che è assolutamente innaturale e artificiale e, pur senza pensare tutte le cose che ho detto fin qui e che fanno parte della mia perversione soggettiva, deve sentire come non naturale questa forma, deve prendere le distanze, in qualche modo deve essere parodista. E la parodia è lo stato più avanzato del discorso sulla contrainte che oggi, mi pare, si possa individuare. Edoardo Sanguineti | << | < | > | >> |Pagina 7Prolegomeni a una logomachiaL'Oulipo e l'Oplepo
Nel novembre 1960, a Parigi, si ritrovarono sette amici dagli interessi
complementari, matematici che avevano a cuore la letteratura, uomini di lettere
con l'amore per le scienze esatte: nacque l'OULIPO (l'
Ouvroir de Littérature Potentielle),
il matematico-scacchista François Le Lionnais l'aveva fondato, lo scrittore
Raymond Queneau, autore ancora soltanto di cinque o sei sonetti dei suoi
Cent mille milliards de poèmes,
aveva immediatamente aderito e con lui gli altri: Jacques Bens, Claude Berge,
Jacques Ducheteau, Jean Lescure e Jean Queval.
Nel gruppo dell'Oulipo si continua ancora oggi a esplorare sistematicamente la potenzialità della lingua con il continuo obiettivo di produrre nuovi procedimenti, nuove forme e strutture letterarie suscettibili di generare poesie, romanzi, testi rispondenti a prefissate contraintes (costrizioni), prescindendo quindi, almeno in parte, dal tradizionale concetto di ispirazione. L'ispirazione di un'opera letteraria si adatta, in ogni caso, a una serie di procedure e costrizioni: grammaticali, lessicali, di struttura. L'obiettivo dell' Ouvroir è quello di modificare ed estendere tali limitazioni ormai codificate e consolidate, crearne altre, mostrare come esse siano propizie, generose, dando per ciascuna di esse, significativi esempi di esecuzione. Contraintes come l'acrostico, il lipogramma, il palindromo, l'olorima, ritenute generalmente sterili esercitazioni, vengono così difese e sostenute dagli oulipiani: il solo fatto di concludere un'operazione tanto restrittiva può essere una giustificazione sufficiente dell'opera. Quando Raymond Queneau cercava di spiegare cosa fosse l'Oulipo, egli precisava che alcuni suoi lavori potevano pur sembrare semplici jeux d'esprit, ma ricordava che anche la topologia o la teoria dei numeri vennero fuori, almeno in parte, da quella che una volta si chiamava la "matematica divertente". «Si può pure ritenere» – dice Queneau – «che i Carolingi, il giorno in cui hanno incominciato a contare sulle dita 6, 8, 12 per fare versi, abbiano compiuto un lavoro oulipiano». I suoi Cent mille milliards de poèmes costituiscono il passaggio dalla matematica alla sua "letteralizzazione". Un'altra opera di Queneau, Exercises de style, nasce invece dall'idea di realizzare in campo letterario quella libertà di variazioni su tema possibile nella musica: un semplice e insignificante episodio di vita quotidiana viene così ripetuto 99 volte in 99 stili differenti. Gli oulipiani hanno sempre avuto a cuore la lezione originaria consistente nel suscitare l'immaginazione o l'ispirazione sottomettendosi a nuove rigide regole e liberandosi – così – da antiche forme ed espressioni. Essi partono dall'idea che la scrittura necessiti di impalcature rigorose, anche se non sempre visibili né decifrabili. Si tratta di strutture scelte volontariamente dall'autore dell'opera ma che, una volta assunte, diventano obbligatorie; né si pensi, essi sostengono, che ciò debba costituire un legaccio, uno scomodo impedimento a quella che tradizionalmente viene detta libertà dell'autore o alla sua ispirazione. L'esempio de La disparition di Perec è illuminante: l'oggetto sparito è la lettera e, mai usata nel corso del romanzo. La regola nascosta, ma pure sotto gli occhi di tutti, era sfuggita ai critici, che lessero La disparition come un romanzo "normale". In realtà si trattava di un testo che faceva totalmente a meno di una vocale, che pure nella lingua francese è frequente come in italiano. Nel metodo dell'Oulipo in primo luogo conta la qualità delle regole, la loro ingegnosità ed eleganza; se ad esse corrisponderà sùbito la qualità dei risultati ottenuti, tanto meglio; in ogni caso l'opera sarà un esempio delle potenzialità raggiungibili attraverso la strettoia di quelle regole. Nessun oulipiano naturalmente pretende di sostenere che le proprie esercitazioni costituiscano compiute opere letterarie: si tratta, in ogni caso, di esercizi che, in prospettiva, possono produrre nuove, originali strutture compositive. Potrebbe sembrare, infatti, che queste performances non abbiano alcuna giustificazione, siano fini a sé stesse; ma, al di là di un tentativo di riabilitazione dell'artificio letterario, delle sue deformazioni o costrizioni strutturali, vi si può anche leggere il tentativo – quasi sempre riuscito – di liberazione dagli schemi e dalle forme abituali del comporre. | << | < | > | >> |Pagina 135Dopo l'inopinata scomparsa della 'e' [Georges Perec, La disparition, 1969] e la sua fantasmatica quanto effervescente, eccedente ed escrescente riapparizione [Georges Perec, Les revenentes, 1972] sembrava opportuno ristabilirne il giusto valore riequilibrandola in un contesto statistico. In un qualsiasi testo scritto in un'altrettanto qualsiasi lingua le varie lettere dell'alfabeto compaiono con frequenze differenti. È facile intuire che in italiano (e non solo) quasi tutte le vocali (a eccezione della "u") sono molto più diffuse delle consonanti. Naturalmente l'esatta frequenza delle varie lettere dipende dal testo (o dall'insieme dei testi) preso in esame e si fa tanto più precisa quanto più grande è il campione. Secondo una ricerca pubblicata qualche anno fa [*], la lettera più ricorrente in italiano è la 'a' (11,4%) seguita dalla 'e' (11,1%). Ciò significa che in un testo composto da 1000 lettere ci sono, in media, 111 'e'. Cioè una lettera ogni nove è una 'e'.
Da questi presupposti è nata l'idea di scrivere un racconto [**] con la
seguente restrizione: il testo non solo rispetta rigidamente la sopra detta
frequenza delle 'e' ma anche il loro posizionamento costante: nell'arco di tutto
il testo dopo ogni 'e' ci sono infatti otto lettere e poi ancora una 'e' e così
via in un più che regolare rimbalzo statistico.
Eh già. Potrei iniziare così, in questo modo lento o anche un poco spento: una anemica maniera di concentrarmi per produrre qualcosa. E abbozzare, dopo, un preciso intreccio in questa facile quanto preoccupante forma di regola, una restrizione strana che io mi vanterò di usare. Allora credo di non penalizzare di più la persona già educata che continua e si ostina e di sicuro è convinta e vuol stare a guardare fino a dove son capace di portare avanti questa storiella... Oh! Care divinità, elisir rarefatti... datemi fiato per iniziare la trama del vibrante racconto... Era la notte più lunare di tutto l'estatico periodo di lei; un raro tempo di splendidi, mutevoli oggi e di altri segni di un festoso, immediato, libero domani. Era una superlativa sera ricca d'emozioni, le più vivide di un impreciso pianeta vagante tra nuvole, spazi siderali, nuove mitologie astrali nell'abisso empirico della luna. Lei, la pioniera di tante notti, si sentiva ora eccitata per tali impensabili sensazioni e stava là, seduta sulle radici di euforbia separandone il lattice, dal sapore aspro, ma cercando un edificante motivo che riuscisse a far sì che la pianta eliminasse ogni parvenza caramellosa di vetusta avversità... Non è chiaro questo accidentato proemio? Non premia la lacera stanchezza? L'ovvietà di frase dopo frase non porta e avvalora embrioni della più scevra, trita e consunta esibizione di loquace svogliatezza, priva e vuota di certa forza edificante? Insomma, devo struggermi oppure arrancare di nuovo verso una precisa procedura? Boh! Devo "avvincer", "convincer" o parlare con calma e lucida preparazione? Mi trovo nel dubbio, nel cornuto e falso dilemma: una poetica frase o la pura regola? Non c'è scampo dietro simile domanda. Devo sviarne l'abituale risposta. E scivolare di nuovo nell'inutile prova di tentativo tentato. Ma se mi accontenta... [...] | << | < | > | >> |Pagina 407Elogio te, Ombra, negativo del mondo, simulacro di tutto ciò che non soggiace al dominio della luce e che anzi, con resistenza passiva, a lei si oppone. Ombra e luce: come peccato e grazia, follia e ragione... Ma con una fondamentale differenza: che la luce è per te non solo avversaria antitetica, ma anche, da sempre, genitrice e sorella. Sì, da sempre: perché, allorquando "la luce fu", in quello stesso preciso momento anche tu fosti. E rendo omaggio alla tua ambiguità: nel senso nobile e positivo del termine, nel senso cioè che, libera e sfuggente come sei, riesci anche a sottrarti a qualsiasi incasellamento, a qualsivoglia riduttiva classificazione. Se il tuo naturale ambito di appartenenza sembra infatti essere, a lume — oh, scusami — di logica, la categoria buio-notte-tenebre, tu, Ombra, puoi tuttavia rientrare pure, a pari titolo e con uguale dignità, nella categoria che è propria della luce (luminosità-giorno-chiarore), dal momento che, per manifestarti e riproiettarti, ti è ogni volta necessario, e sufficiente, un barlume di luce. A me piace però pensare il contrario: che sia la luce ad aver continuamente bisogno di un filo d'ombra per palesarsi nel mondo... E approvo la tua discrezione: mentre tutti cercano costantemente la ribalta, il primo piano, tu te ne stai sempre dietro e sotto, sullo sfondo... verrebbe da dire "nell'ombra". Sei d'altronde consapevole che ciò che davvero conta, ciò che realmente muove la storia e i cuori degli uomini avviene lì, in quella zona semibuia dove non arriva la luce del proscenio, e dove lo spettatore ignaro non sa vedere tensioni e drammi, passioni e sofferenze. E celebro il tuo spirito trasgressivo, quel tuo non sottostare alle altrui regole, quella tua capacità di essere te stessa a dispetto di ogni legge di natura: continuamente ti allunghi, ti accorci, risali sui muri, torni ad appiattirti, scompari e ricompari... A volte, in questa tua sfida alla fisica e al buon senso, credo anche di cogliere un non so che di sarcastico e di dissacrante: quasi uno sberleffo al sapere ufficiale. E in fondo non è già di per sé dissacrante quel tuo ridurre tutto e tutti a un'unica striscia grigia proiettata sul pavimento? Così facendo, sembri dire a noi mortali: ecco come, tolti i fronzoli e gli orpelli, voi siete realmente. O anche, parafrasando il noto motto latino: "Memento homo quia umbra es et,in umbram reverteris". Non è certo casuale, al riguardo, il fatto che in molte passate culture l'anima venisse praticamente equiparata alla propria ombra: cito soltanto il Regno delle Ombre di Greci e Latini e l'antica credenza secondo cui chi vende l'anima al Diavolo cessa di proiettare la propria ombra. E lodo la tua labilità, quella stessa labilità che spesso, ritenendola a torto espressione di ingannevolezza, scarsa serietà o quanto meno semplice apparenza, ti è stata imputata come una colpa; basti pensare alle numerose frasi idiomatiche in cui, con una superficialità quasi blasfema, vieni nominata a sproposito: "Dare corpo alle ombre" (come se tu avessi bisogno, per rendere più concreta la tua esistenza, di un volgare corpo mortale), "Aver paura della propria ombra" (come se la tua pretesa inconsistenza dovesse ispirare a noi uomini nulla più di una neutra indifferenza), "Correre dietro alle ombre" (come se tu, in realtà serissima pur nella trasgressione, potessi prestarti a questi giochetti infantili) e simili. Quale fraintendimento! Quale, e quanto insipiente, cecità! Apparenza? Ingannevolezza? Ma se sei tu la sostanza delle cose! tu la vera sola intima realtà! E la tua bistrattata labilità è poi anche la tua forza, o almeno un segno della tua superiorità – lasciamelo dire – intellettuale: il presenzialismo, indice invece di meschinità e insicurezza, ti è del tutto estraneo, e per affermare il tuo carisma non hai in fondo nessun bisogno, oltre che nessuna voglia, di mostrarti continuamente. Inoltre questa labilità, a ben guardare, è, essa sì, soltanto apparente: in realtà tu non ti dilegui mai del tutto, e in ogni caso mai definitivamente. Tutt'al più possono attenuarsi, indebolirsi, finanche sparire le singole ombre: ma non tu, l'Ombra! Sulla tua presenza, che è l'esatto opposto del presenzialismo, sappiamo anzi di poter contare sempre e ovunque, come su un angelo custode laico, o meglio svincolato dalla religione. Soltanto nell'assoluta oscurità, nel buio più completo e più totale, allora sì, Ombra, spariresti per davvero; ma in tal caso sparirebbe anche la luce: eppure nessuno osa tacciare di labilità la tua eterna rivale! | << | < | > | >> |Pagina 563Maria Sebregondi
Kamasutre
Un tre s'arriccia davanti allo specchio, le estremità si strusciano sul vetro, il tre s'accende di riflessi al neon. Ora si bacia incollandosi al doppio: la punta al centro preme l'altra punta, ombelico estroflesso, punta sesso. Nel folle amplesso il tre genera un otto: il palindromo è un attimo di fuoco, ottimo attimo steso all'infinito. Trentatrèros è il gioco del tre doppio, il tantra numerotico stremante, intermittente come un sogno strano. La e del tre si spegne all'improvviso: tr-tr, tr-tr è un eros che rosicchia e mentre prende, perde posizione tr-tr, tr-tr, in una nicchia scura il mantra della lucciola si sgrana in kamasutre d'odorosa trama. | << | < | > | >> |Pagina 568Piergiorgio Odifreddi
Teoremi e assiomi
TEOREMA DI PASCAL (1639)
un esagono e' inscrivibile in una conica se e solo se
le tre coppie di rette che estendono lati opposti si
incontrano in tre punti che stanno su una stessa retta.
TEOREMA DI BRIANCHON (1810)
un esagono e' circoscrivibile a una conica se e solo se le tre rette che
congiungono coppie di vertici opposti si incontrano in uno stesso punto che sta
sulle tre rette.
LA GEOMETRIA SECONDO DAVID HILBERT (da I Fondamenti della Geometria, 1899) nozioni indefinite: punto, retta, piano assiomi: 1) [incidenza] una retta contiene almeno due punti, e due punti determinano un'unica retta 2) [ordine] tra due punti di una retta, ne esistono infiniti altri
3) [parallele] data una retta e un punto fuori di essa,
esiste un'unica retta parallela a quella data, e passante per il punto dato
LA LETTERATURA SECONDO RAYMOND QUENEAU (da I Fondamenti della Letteratura, 1974) nozioni indefinite: parola, frase, paragrafo assiomi: 1) [incidenza] una frase contiene almeno due parole, e due parole determinano un'unica frase 2) [ordine] tra due parole di una frase, ne esistono infinite altre 3) [parallele] data una frase e una parola non contenuta in essa esiste un'unica frase che non ha parole in comune con la frase data, e contiene la parola data | << | < | > | >> |Pagina 584Piergiorgio OdifreddiMoleskine in Indocina A Natale del 2002 mi fu regalata una Moleskine per il 2003. Non avevo mai tenuto un diario ma, sull'impulso della gratitudine per il dono, decisi di emulare Quintiliano: per un anno, nulla dies sine linea. E così ho fatto: per 365 lunghi giorni ho doverosamente riempito ogni sera una paginetta, a matita, annotando pensieri, parole, opere e omissioni della giornata. Una paginetta per registrare nella memoria esterna cartacea il lavorio interno del software mentale, e quello esterno dell'hardware corporale. Una paginetta per fissare le prime idee di articoli, i piani di libri o corsi, i percorsi di viaggio, i momenti che venivano e se ne andavano, e che si sarebbero persi nel nulla (senza danno) se non avessi cercato di fermarli sul foglio.
Alla fine di quell'anno turbolento, passato per metà
negli Stati Uniti, ho riposto il diario, perché sedimentasse
insieme ai cruciali avvenimenti che avevano radicalmente
cambiato la mia vita. L'ho riesumato momentaneamente
ora, per estrarne le innocue pagine relative a un viaggio
in Cambogia e Laos: pagine più descrittive che introspettive,
per (s)fortuna del lettore.
La stirpe di Kambu Francoforte, 9 gennaio 2003 Partire è un po' morire, dice il detto. Ed effettivamente, ogni volta che parto, sono combattuto fra il desiderio di andare e quello di restare. Una volta la notte, o addirittura le notti precedenti la partenza, erano insonni o quasi. Oggi ho scoperto l'antidoto di non pensare al viaggio fino all'ultimo momento, e di fare le valigie (o meglio, lo zaino) solo un paio d'ore prima di andare all'aeroporto. Ma è pur sempre una rimozione, tanto più necessaria quando parto per un viaggio lungo come questo (sei settimane) e da solo: la solitudine totale è tanto più difficile, quanto più si coniuga allo straniamento culturale. Ma ora sono in ballo, ed è tardi per tirarsi indietro: dunque, balliamo. Bangkok, 10 gennaio 2003 L'Oriente fa il suo primo impatto sui sensi: e non solo l'odore, come nel libro di Pasolini sull'India, ma anche la vista, l'udito, il gusto. Ti assalgono i profumi delle magnolie, i rumori del traffico, i colori dorati dei templi, i sapori speziati dei cibi. Il viaggio, dunque, è la porta delle percezioni, per dirla con Blake e Huxley, un riappropriarsi dei sensi assopiti, del corpo rimosso che la nostra vita asettica, tecnologica e sedentaria ha addormentato e narcotizzato. Viaggiare, ora lo ricordo, è risvegliarsi alla vita intuitiva e far riposare quella razionale che per il resto dell'anno mi possiede, mi sovrasta, mi aliena, mi distrae da me stesso e dal mondo reale. Bangkok, 11 gennaio 2003 Il risveglio del corpo continua nel primo vero giorno di vacanza, che passo praticamente tutto a camminare per la città, a rivedere il Palazzo Reale col suo Buddha di smeraldo, e il Wat Pho col suo Buddha dormiente. E nel tempio mi affido a un massaggio, che per un'ora va a stimolare muscoli, tendini e nervi semi-dimenticati, facendo scrocchiare le ossa e tirando le membra in ogni direzione. Alla fine della giornata i piedi dolgono, le gambe sono indolenzite, la testa è pesante per il jet-lag e per il caldo, la gola è riarsa per l'arsura, ma io comincio a sentirmi rinascere: sono di nuovo carne e ossa, e non solo pensieri e parole. Bangkok, 12 gennaio 2003 Dall'alto del Monte d'Oro, dove non ero mai salito, si può vedere e immaginare la Bangkok di un tempo: quella delle case di tek e dei templi dai tetti arcuati e multipli, sommersi dai giardini profumati, colorati dai fiori e lussureggianti. La Bangkok che oggi, dal basso, si intravede soltanto, entrando nei mercati o nella città cinese. La Bangkok che oggi non è più una città di persone, ma un supermercato di negozi, di cui l'aeroporto è il santuario. Il cancro l'ha contagiata durante la guerra del Vietnam, quando i soldati statunitensi venivano a spargere il loro bianco seme e i loro verdi dollari per distrarsi dalla noia del genocidio che stavano compiendo nel resto dell'Indocina. Phnom Penh, 13 gennaio 2003 A volte è nei particolari che l'Oriente può stagliarsi contro l'Occidente. A Bangkok ho comprato un coltellino tascabile, pensando di spedirlo col bagaglio, ma dimenticandolo poi con me: temevo che me l'avrebbero fatto buttare, come mi era successo all'aeroporto di Roma, e invece l'hanno messo in una busta, che mi è stata restituita all'arrivo con un inchino. Subito dopo, una "catena di stampaggio" umana di una decina di funzionari ha rilasciato i visti a un centinaio di turisti, previa presentazione di moduli muniti di foto compilati all'istante, in qualche minuto: da confrontare con le procedure da lager di alcune ambasciate, come quella statunitense di Milano, dove il processo si svolge sul marciapiede e richiede un intero giorno. Phnom Penh, 14 gennaio 2003 Facce complementari di una citta. Il Palazzo Reale. con la sua pagoda dal pavimento d'argento e la statua del Buddha d'oro incastonata di 9584 diamanti. L'Ambasciata di Francia e l'Hotel Le Royal, simboli del colonialismo politico di ieri e di quello turistico di oggi. E, all'altro estremo della città e dello spettro, il lager S-21, dove i Khmer Rossi imprigionarono, torturarono e uccisero 14.000 cambogiani, prendendo loro le foto in "entrata" e in "uscita". Naturalmente, sui Khmer Rossi si addensa la propaganda occidentale, dimentica dei suoi lager (Guantanamo), e del fatto che il primo mezzo milione di vittime in Cambogia lo hanno fatto i bombardamenti statunitensi degli anni '70.
Phnom Penh, 15 gennaio 2003
Oggi ho visitato le fosse comuni a sud della città, dove si ammazzavano
i detenuti del lager, e ho letto
Voci da S-21,
nel quale si ammette l'unica possibilità sensata per la mostruosità umana: che
non abbia motivazioni ideologiche, ma psicologiche. E si citano gli esperimenti
di Stanford e Yale sull'obbedienza all'autorità, soprattutto dei giovani e degli
ignoranti. Solo con causalità universali si possono infatti "spiegare" fenomeni
che sono comuni a ogni rivoluzione, dalla francese alla russa,
e a ogni colore politico, dal nero al rosso: il male sta
non nell'individuo, ma nel sistema che lo deumanizza
e lo asservisce al potere, qualunque esso sia.
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