Copertina
Autore Joseph O'Connor
Titolo Il maschio irlandese in patria e all'estero
EdizioneGuanda, Parma, 2001, Biblioteca della fenice , pag. 220, dim. 140x220x20 mm , Isbn 978-88-8246-193-5
OriginaleThe Secret World of the Irish Male [1994], The Irish Male at Home and Abroad [1996]
TraduttoreMassimo Birattari
LettoreRenato di Stefano, 2001
Classe narrativa irlandese , critica letteraria , scienze sociali , paesi: Irlanda
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Indice


La strada per Dio sa dove: diario
    irlandese di un Mondiale                  5

La faccenda dello scrivere: gli scrittori
    irlandesi e la scrittura
 l. Rispedito al mittente                    59
 2. Barrytown International: il mondo di
    Roddy Doyle                              63
 3. James Joyce e l'industria del turismo
    irlandese: riflessioni su una
    tradizione inventata                     69
 4. Lo scrittore irlandese moderno e
    l'Inghilterra                            81
 5. On a Dark Desert Highway: il ruolo
    del giro promozionale nella moderna
    narrativa irlandese                      85

Farfafle e cavoli: manuale per innamorati    89

Datemi una casa in cui scorrazzano gli
    scarafaggi
 l. Dividere la camera da letto con Dick    103
 2. Cow-boy e motori                        111
 3. Drastica plastica                       118
 4. L'uomo nuovo                            122
 5. Il vello di smeraldo                    125

Sodomiti e pure scambisti
 l. La banca a cui piace dire: «Ssssì!»     129
 2. This is a Man's Man's Man's Man's World 141

Il maschio irlandese in patria e all'estero
 l. Irlanda in esilio                       149
 2. Imparare ad amare gli inglesi -
    Parte prima                             156
    Imparare ad amare gli inglesi -
    Parte seconda                           159
    Imparare ad amare gli inglesi -
    Parte terza                             161
 3. Straniero a Managua                     164
 4. Linee di confine                        168

Il Natale avvelena anche te
 l. Il Natale andrebbe abolito?             173
 2. Babbo Natale                            180
 3. Pavlova di Natale                       185

Banana Republic: ricordi di un'adolescenza
    irlandese di periferia                  195

 

 

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Pagina 5

LA STRADA PER DIO SA DOVE:
DIARIO IRLANDESE DI UN MONDIALE



Mercoledì 15 giugno, ore 7,20. Aeroporto di Dublino. Sono a pezzi. Ho finito di fare le valigie alle tre di notte. Adesso sono qui, in coda per il check-in, così stanco che scambierei allegramente il biglietto aereo, le prenotazioni degli hotel e i tre biglietti categoria A per tutte e tre le partite del primo turno dei Mondiali con una stanza buia, lenzuola pulite e mezz'ora di sonno. La coda è immane. Sono circondato da un gruppo di sei o sette uomini di mezza età che indossano la maglia della nazionale irlandese, calzoni verdi, giacche di cotone verde, scarpe da tennis verdi, enormi sombreri verdi ricoperti di trifogli e arpe, cravattini a stelle e strisce. Hanno in mano bandiere tricolori e striscioni arrotolati. Uno di loro si sta dipingendo di verde, bianco e arancione le guance, strizzando gli occhi e facendo smorfie davanti a uno specchietto, con la sigaretta accesa incollata al labbro. «Non ti sembra un po'troppo?» chiede un tizio. «Al telegiornale continuano a dire che i tizi della dogana non ti fanno passare se hai quella roba in faccia.» Il tizio che si sta dipingendo si volta verso di lui: «Non fare il solito finocchio» dice.

7,40. Un uomo di mezza età con una maglietta dell'Irlanda è seduto al bar dell'aeroporto, divorandosi una colazione ipercalorica a base di sanguinaccio di maiale, salamella di grasso di rognone, fagioli, salsicce, pancetta e uova fritte. Sorseggia anche una pinta di Guinness. Lo fisso per un certo tempo, sbalordito al pensiero che possa mangiarsi una cosa del genere a quest'ora del mattino. Lui coglie il mio sguardo, si porta alla bocca una forchettata di fagioli, strizza l'occhio e inghiotte. «Per ricordarmi com'è una colazione irlandese» dice. Lo considero un invito a sedermi e parlare con lui. Viene da Mallow, nella contea di Cork, sta andando in America per i Mondiali, e si fermerà da suo fratello che abita a Queens. Non lo vede da sette anni. Laggiù c'è un nipote che non conosce ancora. «Sarà fantastico» dice. «Non che mi interessi poi tanto il calcio, ma non vedo l'ora di vederli.»

8,10. Saliamo sull'aereo e prendiamo posto. Osservo passare i tifosi. Ci sono molti uomini, naturalmente, di tutte le età, tutti con una maglietta verde, ma ci sono anche parecchie donne, e vagonate di ragazzi e bambini, alcuni veramente piccolissimi. Un uomo avanza pomposamente per il corridoio con un bambino di un paio d'anni in braccio, addormentato. Padre e figlio indossano identiche maglie verdi della nazionale. Avanza un ragazzo sui sedici anni, avvolto in un tricolore. Lo seguono il padre e la madre, anch'essi avvolti in un tricolore. Hanno tutti gli occhi spalancati per l'eccitazione.

8,30. Il capitano annuncia alla radio che ci sarà un ritardo di un'ora. «Lo so che avete bisogno di questa notizia come un topo di un attaccapanni dice, «ma una volta che saremo lassù, faremo del nostro meglio per pedalare un po' più forte del solito.» Si chiama Terry, ci dice, e possiamo chiedergli tutto quello che vogliamo. Per qualche ragione, non mi sento troppo sicuro all'idea di essere trasportato al di là dell'Atlantico da un uomo che si chiama Terry. Irrazionale, lo so. Ma è così.

9,20. L'aereo decolla per il breve volo fino a Shannon. Comincio a parlare con il tizio accanto a me. Lui, suo figlio di cinque anni, suo padre e suo suocero stanno andando tutti a vedere i Mondiali. «È costoso, ma è un'occasione che capita una volta nella vita» dice. «Sarà un ricordo speciale che avremo per sempre tutti insieme.» Atterriamo a Shannon, scendiamo a terra e ci trasciniamo nella sala transito. Altro ritardo. I tifosi convergono verso il bar. È molto presto ma i cori e i canti - «Oooh-Ahh, Paul McGrath» e «Nessuno batterà mai gli irlandesi» - sono già cominciati. «Di sicuro nessuno batterà mai gli irlandesi al bar, cazzo» dice uno.

11,30. Tornati tutti sani e salvi a bordo, il capitano Terry aumenta i giri, schiaccia sull'acceleratore e decolliamo. C'è un poderoso applauso quando l'aeroplano sbuca nel cielo limpido. Terry, che è inglese, parla alla radio ed esprime la speranza che l'Irlanda faccia strada ai Mondiali. Comincia un nuovo coro: «L'Inghilterra non c'è. L'Inghilterra non c'è».

12,00. Vado in fondo a fumare e mi trovo seduto accanto a un bambino di nove anni, il mio incubo peggiore in un lungo volo. Lui è anche molto sicuro di sé, e questo non fa che peggiorare la situazione. «Vado in America» dice. Considero l'idea di dirgli che ha sbagliato aereo, e che in realtà sta andando in Siberia, ma i suoi genitori sono seduti a fianco, oltre il corridoio. «L'Irlanda è forte» dice, «vero?» Sono d'accordo, l'Irlanda è forte. «Ho una fidanzata» dice, «e la sposerò quando sarò grande.» Gli presento le più calorose congratulazioni. «La bacio» dice, «la bacio e tutto.» Gli dico che mi sembra un po' troppo giovane per andare in giro a baciare le ragazze. «No che non lo sono» dice lui, «le metti la lingua in bocca ma non scambi la saliva.» Mi rendo conto all'improvviso che in questi anni ho sbagliato tutto. Dietro, i tifosi stanno cantando: «Ir-laanda, Ir-laanda, Ir-laanda». «Tu le baci le ragazze?» mi chiede il bambino. Io lo ignoro. «TU LE BACI LE RAGAZZE?» strilla lui. «Non tanto spesso come te» gli rispondo. «Ci scommetto» dice soffocando le risate, e la sua vocina ribolle di malevolo piacere. «Posso provare i tuoi occhiali, ciccio?» Sarà un viaggio molto lungo.

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Pagina 59

LA FACCENDA DELLO SCRIVERE:
GLI SCRITTORI IRLANDESI E LA SCRITTURA



l. Rispedito al mittente

Una delle cose interessanti del fatto di essere uno scrittore professionista è che uno finisce in un sacco di guai per le cose che scrive, cose che magari non pensava davvero, o sulle quali può aver cambiato opinione nell'intervallo di tempo compreso fra la stesura e la stampa. Ma ci sono anche cose in cui uno crede, e quando si viene sgridati per quelle, ci si ritrova sulla strada della pazzia e dell'alcol. Per esempio, ho ricevuto poco tempo fa una lettera che mi attaccava per qualcosa che avevo scritto sull'«Independent» di Londra. Avevo sostenuto che parte del problema dell'Irlanda del Nord era che molti irlandesi del Sud lo considerano a loro estraneo. Questo ha fatto dolorosamente attorcigliare le mutande al mio corrispondente. «La guerra nel Nord», mi ha informato, dal suo osservatorio privilegíato di Hackney, Grande Londra, «è la tragedia centrale dell'Irlanda.» Be', vada a dirlo a quei venti irlandesi su cento che non hanno un lavoro. O alle donne sole e spaventate che sono costrette ad attraversare il mare d'Irlanda per ottenere quell'interruzíone di gravidanza che è un evidente diritto morale. La guerra non è la tragedia centrale dell'Irlanda. La tragedia centrale dell'Irlanda è - e lo è sempre stato - il conflitto fra la vita privata e la fantasia pubblica.

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Pagina 63

Sono stato accusato dai miei corrispondenti di essere membro della CIA, dell'MI5, della Massoneria e una volta, cosa piuttosto bizzarra dato lo sfrenato paganesimo della mia rubrica, dei Cavalieri di san Colombano. Una volta, un lettore della contea di Mayo mi ha scritto : «Lei è la persona più brutta del mondo. Ha una faccia che fa fermare gli orologi». Un altro lebbroso sociale di Athenry diceva: «Tu e la tua prole di bastardi sarete tutti morti entro martedì». Be', la mia prole di bastardi pare che stia sempre bene, almeno così mi fanno sapere dall'orfanotrofio. Un'altra lettera da Sligo: «Sei una sciagura e morirai urlando con le gambe in aria». Be', c'è una sola cosa da dire: uno non riconosce mai la propria fortuna. Siamo una nazione di grande cultura letteraria. Roddy Doyle e John Banville devono stare attenti. C'è un'enorme quantità di talento in giro, e aspetta solo di essere scoperta.


2. Barrytown Internatíonal: il mondo di Roddy Doyle

Roddy Doyle non è solo uno dei più importanti scrittori irlandesi della sua generazione. È un fenomeno editoriale. Oltre ad aver vinto nel 1993 il prestigioso ed elitario Booker Prize, vende anche quantità di libri come di solito accade solo alla letteratura di consumo, ai Jeffrey Archer e alle Barbara Taylor Bradford di questo mondo. La .cor Trilogia di Barrytown, che contiene I Commitments, Due sulla strada e Bella famiglia!, non è praticamente uscita dalla lista dei best seller dal momento in cui è stata pubblicata. Paddy Clarke ah ah ah ha venduto alcune migliaia di copie solo nell'edizione rilegata. Uno della sua casa editrice mi ha detto poco tempo fa: «Abbiamo smesso di venderlo agli esseri umani. L'hanno comprato già tutti. Adesso dobbiamo provare con le pecore».

Ma a giudicare dalla spazzatura snob e classista che di quando in quando viene scritta su di lui, Roddy Doyle evidentemente mette a disagio alcuni giornalisti culturali o membri dell'intellighenzia di Dublino. Ciò che sembra renderli nervosi non è solo il suo successo commerciale, sorprendente e senza precedenti, ma anche il consenso critico che ha ricevuto allo stesso tempo. Un autore di best seller che può essere velocemente liquidato come privo di qualunque merito letterario è tollerabile. Ma un autore di best seller che vince il Booker Prize, scrivendo un libro su una famiglia proletaria di Dublino, è una strana e pericolosa creatura. In effetti, sembra che nelle pagine di alcuni nostri giornali sia Roddy Doyle a essere recensito, e non i libri che scrive. Come sull'lrlanda del Nord, il divorzio e la mucca pazza, Roddy Doyle è diventato una questione su cui è obbligatorio avere una posizione.

I più intelligenti detrattorí di Doyle se non altro adducono qualche argomentazione. Dicono che la sua opera è piena di cliché e stereotipi. Dicono che è infantile, stupida, sentimentale, troppo piena di dialogo, che è sdolcinata, che tende troppo pesantemente a un certo sorpassato approccio umoristico alla vita di Dublino. Dicono - con una certa forza - che se fosse stata scritta da un inglese, l'opera di Doyle sarebbe stata accusata di razzismo.

Ma il punto è che non è scritta da un autore inglese. E, di sicuro, Roddy Doyle ha diritto quanto ogni altro romanziere irlandese a mettere in evidenza quelli che gli appaiono come i difetti della nazione a modo suo, e con le sue parole. Chiunque abbia letto con attenzione i suoi libri vede benissimo che è un raffinato stilista. I libri possono sembrare facili e, naturalmente, si leggono con facilità. Ma tutti coloro che scrivono sanno soprattutto una cosa: più è facile da leggere, più difficile è stato scriverlo.

È importante capire che la relazione letteraria di Doyle con il suo essere irlandese è molto complessa. Ogni tanto, soprattutto sui giornali inglesi, la succosità del suo dialogo è stata paragonata a quella dei personaggi di Joyce. Ma non è un paragone molto azzeccato. Da molti importanti punti di vista Doyle è più saldamente ancorato alla tradizione del romanzo comico inglese. Ha più cose in comune con P. G. Wodehouse e Dickens che con Flann O'Brien o Brendan Behan, per esempio. Come questi grandi geni comici inglesi, prende personaggi banali - stereotipi, se volete - e rovescia le aspettative del lettore su di loro, giocandoci in modi che sono spesso estremamente sottili. Se proprio deve assomigliare a uno scrittore irlandese, sarà piuttosto a Sean O'Casey, e anche così, bisogna sottolineare che O'Casey, come Oscar Wilde, fu grandemente influenzato dalle tradizioni inglesi del music-hall e del melodramma vittoriano. Negli ultimi anni, l'opera di O'Casey è stata brillantemente reinterpretata da giovani registi, che hanno scavato in profondità nel testo per rivelare il dolore e la sofferenza sepolti in mezzo alle risate. Le generazioni future di lettori faranno lo stesso con Roddy Doyle. Ogni tanto, nei suoi libri, ciò che a prima vista sembra un cliché è esattamente il contrario.

La storia della narrativa irlandese del ventesimo secolo è stata in maniera predominante una storia dell'Irlanda rurale. Alcuni dei più interessanti fra i nostri prosatori contemporanei - John McGahern, Colm Tóibín, Evelyn Conlon, Patrick McCabe, Eugene McCabe - hanno documentato le sfumature dei paesi di campagna con precisione e verità. Ma, come Dermot Bolger, Roddy Doyle celebra un'altra Irlanda, anch'essa profondamente in contrasto con la sua stessa mitologia: l'Irlanda delle periferie, rimasta troppo a lungo assente dalle pagine della narrativa irlandese.

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Pagina 69

3. James Joyce e l'industria del turismo irlandese: riflessioni su una tradizione inventata

L'Irlanda è un'idea con molte storie. Perfino l'espressione «storia irlandese» è densa di possibilità decostruzioniste. Che cosa intendiamo con le parole «Irlanda» e «irlandese»? E cosa intendiamo con storía? La narrazione, retrospettivamente lineare, che conduce senza deviazioni all'indipendenza nazionale, o il più accurato ma poco maneggevole caos revisionista che suggerisce che ancora non sappiamo esattamente cosa siamo? Storia irlandese. Quali inclusioni e, ben più importante, quali esclusioni implica l'espressione? Dal punto di vista storico, geografico, sociale, che cos'è l'Irlanda?

E quando James Joyce scrisse che la storia irlandese era un incubo dal quale stava tentando di fuggire, che cosa intendeva? Quale storia? Quale Irlanda? Che genere di fuga? L'esilio è una questione di collocazione fisica o di indifferenza mentale? È qualcosa d'altro? E come rispondono i giovani scrittori irlandesi di oggi a queste domande, ammesso che abbiano qualche risposta? Non ce l'hanno, ho il sospetto. Ho il sospetto che gli scrittori irlandesi abbiano altre cose in mente. In ogni caso, proviamo a esaminare da vicino la posizione di James Joyce.

Ricordo che c'erano i libri di Joyce nella casa in cui ho vissuto da piccolo. Ricordo che frugavo gli scaffali dei miei genitori alla ricerca di qualcosa di vagamente pornografico o almeno erotico, e di essermi imbattuto invece in una copia di Ulisse, con i margini male allineati, e la vecchia copertina in brossura mezza strappata, le pagine ingiallite segnate da orecchie e con un vago odore di polvere e muffa.

Ricordo benissimo l'aspetto del libro, e il fatto che la parola «James» era esattamente della stessa misura della parola «Joyce» sulla copertina lacera. Le lettere di quel nome si profilavano minacciose, grandi, bianche e spesse. Il libro sembrava pesante e solido. Era spesso come la Bibbia e, come la Bibbia, sembrava irradiare un'energia quasi religiosa.

La mia famiglia abitava vicinissimo alla Joyce Tower di Sandycove, il monumento paffuto e imponente a Stephen Dedalus, Buck Mulligan e il povero vecchio Haines, il pauroso inglese di Oxford. Sono passato ogni giorno davanti alla torre per quattordici anni, andando e tornando da scuola. Ho sempre pensato a essa come alla torre di James Joyce. Mi sono reso conto solo da adolescente che la torre era stata eretta da una forza imperiale e conquistatrice, e per questo aveva anche altre storie.

Un giorno - avevo sette od otto anni - ero seduto sull'autobus numero 8, tornando da scuola, e l'autobus si fermò accanto alla torre di Joyce. Di fianco a me sedeva un uomo anziano. Guardò la torre e all'improvvíso fu investito da una terribile furia. Cominciò a sbraitare in modo delirante. Mi disse che James Joyce non era nient'altro che un lurido sfaticato che non aveva lavorato neanche un giorno in vita sua, un piccolo sporco foruncoloso che aveva denigrato l'Irlanda per un pugno di soldi; furono queste le parole che usò. James Joyce aveva «denigrato l'Irlanda per un pugno di soldi» disse il vecchio, «e aveva detto sporche bugie sulla storia irlandese».

Ero stupefatto. Chiesi al vecchio che cosa aveva detto esattamente Joyce dell'Irlanda e della storia irlandese. Mi chiedevo cosa uno potesse mai dire dell'Irlanda per meritarsi insulti simili, e dove avesse preso i soldi James Joyce, e di quanti soldi si trattasse esattamente, e alla fine come li avesse spesi.

Ricordo di averci pensato sopra. Cercavo disperatamente di immaginare che cosa mai avesse detto Joyce dell'Irlanda. Ogni notte consultavo il suo libro in cerca di una risposta, ma non capivo nemmeno una parola. Tuttavia, ero catturato dall'idea di James Joyce. Potevo quasi vederlo tutto solo nella sua torre come lo scienziato pazzo di un film dell'orrore, a far ribollire un denso intruglio di maledizioni e tradimenti, questo foruncoloso che aveva raccontato menzogne sulla storia irlandese e aveva denigrato l'Irlanda per un pugno di soldi. E decisi che da grande, se mai mi fosse capitata l'opportunità di non lavorare un solo giorno in vita mia e di denigrare l'Irlanda per un pugno di soldi, l'avrei afferrata con entrambe le mani e non me la sarei lasciata scappare. Mi sembrava un ottimo modo di occupare il tempo.

Passarono gli anni. Lessi per la prima volta i suoi libri all'università. Fui fortunato, perché trovai persone capaci di spiegarmeli. L'analogia con la Bibbia si sarebbe fatta strada altre volte nella mia mente, perché era chiaro che si poteva benissimo far dire a James Joyce qualunque cosa uno volesse fargli dire. Era la versione accademica del pupazzo da ventriloquo. A seconda della mano che lo reggeva, ciò che aveva da dire cambiava in maniera sostanziale. Per coloro che mi insegnavano la storia era una cosa, e per quelli che insegnavano letteratura angloirlandese - qualunque cosa essa sia - era qualcosa di completamente diverso. I suoi libri mi piacevano, immagino, anche se devo dire che quando ho cominciato a scrivere anch'io, del fatto che Joyce sia esistito - o Wilde o Yeats o Synge, se è per questo - non mi è mai importato più di tanto.

E allora dov'è finito adesso, quello strano ometto che si è impadronito della torre dei conquistatori storici e l'ha fatta propria? Dove potremmo metterci a cercare lo spirito di James Joyce? Non è per caso diventato un attore di quella storia irlandese dalla quale tentava di fuggire?

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Pagina 136

Il sesso ci circonda, che lo sappiamo o no. Perciò consentitemi di fornire ai lettori attivi alcuni consigli su ciò che è in e ciò che è out, per così dire. Va bene, d'accordo, finalmente avete avuto fortuna. Ieri sera avete fatto centro. Non sapete come mai, ma ce l'avete fatta. Yiuppiii! Guardate, adesso, sul letto accanto a voi. Eccolo/eccola lì (non, faccio discriminazioni di genere. Potrei dire anche «eccoli/eccole lì», ma difficilmente sarete stati così fortunati). La divina creatura che stanotte sembrava così amorevole, che vi ha fatto ridere, che vi ha eccitato fino alle profondità del vostro essere sessuale. Guardatela adesso: puzza di birra stantia, russa come un motocarro, ha i capelli unti, la lingua che pende dalla bocca. Stanotte sembrava un angelo del paradiso. Stamattina Garth di Fusi di testa. Mentre la guardate e sbadigliate e cercate di sentirvi teneri, la creatura scoreggia, si infila il pollice in bocca e si arrotola dall'altra parte, tirandosi dietro il piumone. Con uno sconvolgente moto di orrore e disgusto vi rendete conto di una cosa: oh, mio Dio, ha ancora indosso i calzini. Cosa diavolo succede adesso?

Si, la moderna etichetta sessuale è un gioco buffo e complicato, ma è davvero importante padroneggiarne le regole, i codici e le consuetudini. Perciò, ecco alcuni consigli base:

Corteggiamento. È fondamentale imparare come corteggiare con efficacia. Il corteggiarnento è una questione di tatto e di suggestione piuttosto che di proposte dirette. Non dovete, in altre parole, saltar fuori a dire: «Senti, bellezza, non è che vorresti metterti tutta nuda e scopare?» La sottigliezza è il migliore degli approcci. Fare complimenti. Guardare negli occhi. Offrire da bere. Fare conversazione. Citare qualche poesia. Offrire ancora da bere. Poi dire: «Senti, bellezza, non è che vorresti metterti tutta nuda e scopare?»

Evitare glí stereotipí. Le donne hanno talvolta la convinzione che gli uomini vogliano solo portarle a letto. Questo, naturalmente, è un terribile errore. Data l'appropriata quantità di alcol, la maggior parte degli uomini si adatterebbe perfettamente al sedile posteriore di una macchina o, in mancanza di questa, a un vicolo buio.

Bacio. Molti banchetti di mutuo soddisfacimento carnale, potenzialmente squassanti, sono stati abbandonati a metà degli antipasti a causa di un'incapacità di praticare come si deve l'hockey delle tonsille. Ma è importante anche non lasciarsi trasportare. È considerato scortese baciare il partner come se si volesse sentire il gusto di quello che ha mangiato a colazione il giorno prima. Gli esperti convengono che oggi il modo socialmente corretto di baciare consiste nel mettere la lingua nella bocca dell'altra persona; ma senza scambio di saliva.

Preliminari. È il terrnine tecnico che indica l'atto di togliersi le scarpe.

Sesso orale. Ai vecchi tempi, naturalmente, il sesso orale era considerato un po' tabù. Oggi, tuttavia, l'atteggiamento sta cambiando e in Irlanda il sesso orale è una cosa che capita di continuo proprio sotto il nostro naso.

Esplorare le proprie fantasie. Oggi si considera del tutto accettabile condividere i propri desideri e fantasie. Chiedete al vostro partner se potete pensare a qualcun altro quando fate l'amore. Siate aperti. Non preoccupatevi. Se il suddetto partner risponde: «Sì, tesoro, sarà sempre un cambiamento: così almeno non penserai solo al tuo stramaledetto io», preoccupatevi.

Contraccezione. La chiesa cattolica è, naturalmente, ferocemente contraria alla contraccezione artificiale e l'attuale Papa ha paragonato l'uso del preservativo a un omicidio. Di sicuro, chiunque abbia mai provato a infilarsi un preservativo nell'oscurità più totale di un maleodorante monolocale di Rathmines non potrà non essere d'accordo. Puro omicidio è l'unica parola per descriverlo. Ciò nondimeno, i preservativi in effetti proteggono da numerose malattie sociali e dalle gravidanze indesiderate, e oggi sono disponibili in un'ampía varietà di sapori interessanti. Anzi, i profilattici aromatizzati, quando non vengono usati a scopo di contraccezione, costituiscono un'ottima e riutilizzabile alternativa ai chewing-gum. Non provate a usare la pellicola trasparente come contraccettivo. Nella foga del momento è facile fare confusione. Avvolgere il membro virile nella pellicola in realtà non gli procurerà alcun danno, ma avvolgere il proprio picnic in un preservativo può di sicuro rovinare un sandwich con l'insalata e l'uovo sodo.

Altre precauzioni. È ovviamente importante che adulti maturi, coinvolti in pratiche sessuali, si comportino da persone responsabili e prendano le adeguate precauzioni. Troppi giovani patiscono oggi i danni psicologici derivati dall'incapacità di seguire alcune semplici regole. Ci siamo passati tutti. Sappiamo come vanno le cose. Il calore del momento, l'impeto brutale della passione. È così facile dimenticare le precauzioni. Non fate questo sbaglio. Ricordate: se avete intenzione di passare la notte da lei e dovete lasciar fuori la bicicletta, per favore, chiudetela bene con la catena.

Posizioni sessuali. Fate esperimenti. Siate sfrontati. È del tutto accettabile, in quest'epoca moderna ed emancipata, suggerire la posizione preferita al partner. Posso dirvi con sincerità, dato che anch'io sono un amatore alquanto focoso, che ho provato tutte le posizioni possibili. Come no, quella con la donna di sotto e quella con l'uomo di sopra. Proprio così. Sono proprio un ragazzaccio selvaggio, eh?

Farlo «come i cani». Significa strofinare in maniera entusiastica il proprio inguine contro la gamba di un ospite mentre si ansima e si fa penzolare la lingua.

Masochismo. Smettete subito. Potreste cominciare a trovarlo troppo piacevole.

Bondage. Se legate una persona a un letto, è estremamente importante che a quel punto non ve ne andiate al pub scordandovi di lei.

Orge. La conversazione tende a essere limitata. Ma non si può avere tutto. E poi è da maleducati parlare con la bocca piena.

Quando si raggiunge l'orgasmo. Il nome che gridate mentre, e quando, e se, raggiungete l'orgasmo dovrebbe essere quello del vostro partner, non il nome di un partner precedente, del vostro cane o della squadra di calcio per cui fate il tifo. E non può assolutamente essere il vostro nome.

Lo stadio postcoitale. La maggioranza dei moderni sessuologi sostiene che i minuti inunediatamente successivi all'atto sessuale sono fondamentali, e che è di vitale importanza abbracciare il partner, dirgli che lo si ama, farlo sentire amato e protetto. Per molti uomini irlandesi questo può comportare alcune difficoltà, dato che a questo punto sono già sull'autobus che li riporta a casa con un sacchetto di patatine al curry e un hamburger alle spezie.

Onesta comunicazione. Non usate giri di parole. Quando ero un ragazzo impressionabile delle superiori, i sacerdoti del collegio mi hanno spiegato la riproduzione animale soffermandosi con dovizia di particolari sulle farfalle. Come risultato, al ballo dei diciotto anni mi sono presentato con un macaone.

Come gestire il mattino dopo. Questa è una materia davvero complessa. Avete conosciuto nella maniera più intima un altro essere umano - sto chiaramente dando per scontato che sia un essere umano - e non sapete nemmeno il suo cognome. O il nome di battesimo. O qualunque altra cosa su di lui o su di lei. Evitate a tutti i costi di ammetterlo. Mentre il partner è sotto la doccia, frugate nella camera da letto in cerca di qualcosa su cui sia scritto il suo nome. Se non trovate niente, potete ricorrere ai vezzeggiativi. «Coniglietto», «Guancíotta» e «Coccolino» sono considerati accettabili. «Sacco di pustole», «Capelli unti» e «Culo sudato» sono probabilmente da evitare, almeno all'inizio.

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IL MASCHIO IRLANDESE IN PATRIA E ALL'ESTERO



1. Irlanda in esilio

    «Quando uno si rende conto che la sua vita
    è senza valore, o si suicida o viaggia.»

    Edward Dahlberg, Reasons of tbe Heart

Un giorno, durante il mio ultimo anno allo University College di Dublino, un uomo arrivò in autobus dalla città e prese a vagare per il campus assalendo studenti sbigottiti. Risultò essere il fotografo che era stato incaricato dall'Ente irlandese per lo sviluppo industriale di scattare fotografie per un annuncio pubblicitario che avrebbe dovuto persuadere i ricchi capitalisti stranieri ad aprire fabbriche in tutta la campagna irlandese. Il fotografo cercava immagini di studenti attraenti e dall'aria intelligente, disposti a indossare giacche di tweed e abiti di Laura Ashley, guardare nell'obiettivo della sua Leica, sorridere come vongole e, a quanto pare, dimenticare il fatto che non sarebbero riusciti a trovare un impiego nella loro patria, nonostante i lavoratori di quella stessa patria fossero stati abbondantemente tassati alla fonte per finanziare quel loro diritto. Cercava giovani che incarnassero la brillante nuova Irlanda della quale straparlavano i giornalisti in quegli anni. Nessuno degli studenti che conoscevo io venne selezionato.

Qualche mese dopo, un amico venne a casa mia con uno di quei poster dell'Ente per lo sviluppo industriale, ritagliato da un giornale. Lo slogan sotto le foto annunciava con orgoglio: «REPUBBLICA D'IRLANDA: SIAMO NOI I GIOVANI EUROPEI». Risultò che il mio amico conosceva uno di quei giovani europei, un brillante ingegnere che proveniva da un paesino dell'Irlanda rurale, ed era appena partito per l'Arabía Saudita, dopo molti inutili sforzi di trovare un lavoro in patria. Il mio amico fece scorrere il dito su tutte le facce della fotografia, dicendo che questa persona era in America, quella in Australia, alcune in Spagna o in Francia o in Gerinania e, naturalmente, molte di più erano in Gran Bretagna. La maggior parte dei giovani in quel poster era scappata via proprio a causa della politica economica ridicola e suicida alla quale il poster tentava di fare pubblicità. Quanti vivevano ancora in Irlanda erano disoccupati e, credetemi, nell'estate del 1985 trovare un lavoro era probabile come trovare un ghiacciolo nel Kalahari. Io e il mio amico parlammo per un po' di quel poster. Sembrava strano che tutti quei giovani attraenti, che dovevano rappresentare l'Irlanda, fossero stati costretti a lasciare la patria semplicemente per sopravvivere. Avevamo studiato letteratura inglese, io e il mio amico. Eravamo stati istruiti a riconoscere l'ironia quando la incontravamo.

Avevamo studiato anche la storia irlandese. Sapevamo tutto del nostro passato di emigrazione. La fame, lo spopolamento, le navi bara, i ghetti di Kilburn e di Boston, le statistiche, le liste, la morte della lingua irlandese, il modo in cui l'emigrazione divenne una tradizione, non solo un fenomeno, ma proprio un modo di vivere. Era stato un modo di vivere per la generazione dei nostri genitori, e adesso lo era anche per noi. Il giorno della laurea, in pratica ci misero in mano, insieme al diploma, un biglietto aereo per Londra. Sapevamo dell'emigrazione irlandese per averla studiata. Mentre io e il mio amico stavamo seduti a parlarne quel pomeriggio, non sapevamo - o forse lo sapevamo, a un livello più profondo - che entro breve tempo avremmo imparato qualcosa di più sull'emigrazione irlandese grazie all'esperienza diretta. Ben presto anche noi saremmo partiti, come tutti, assolutamente tutti quelli che conoscevamo.

Sono passati dieci anni da quando vidi per la prima volta quel poster nel giornale del mio amico, e ho passato otto di questi anni a vivere a Londra. Ogni volta che, in quegli otto anni, tornavo in Irlanda, mi trovavo a ripensare a quel poster. Fino a pochissimo tempo fa ha continuato a circolare. L'ultima volta che l'ho visto, aveva la stessa vecchia foto ma un nuovo slogan: «REPUBBLICA D'IRLANDA: LA BASE EUROPEA DEL BUSINESS DI QUALITÀ». Vedevi questa pubblicità sui giornali irlandesi o sulle riviste delle compagnie aeree. E lo vedevi spesso all'aeroporto di Dublino.

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All'improvviso, mezz'ora prima dell'orario di chiusura, ti ritrovi a guardare il pub e diventi freneticamente nervoso. È strano. Ti senti del tutto fuori posto, senza sapere perché. Non ne capisci il motivo. Nonostante l'eccitazione, c'è qualcosa di sbagliato. Sei a casa, in Irlanda, ma non sei davvero a casa. Il tuo cuore è a Londra o a New York o a Parigi. Ma il resto di te è in Irlanda. Com'è potuto succedere? Non è che sei infelice. È Natale, dopotutto. Volevi essere proprio qui, no? Ma c'è qualcosa che non va. Bevi un sorso di birra. La musica sembra sempre più forte, opprimente, roca. Chiudi gli occhi e cerchi di ricacciare indietro il bisogno quasi travolgente di essere altrove, ovunque. E in quel momento ti rendi conto che adesso sei davvero un emigrante. Che essere un emigrante non è solo una questione di indirizzo, ma anche un modo di pensare l'Irlanda.

Alcuni giorni dopo saresti andato all'aeroporto per tornartene a casa (ah, di nuovo questa parola cosi difficile). Postumi delle sbronze così lancinanti da farti sembrare una Sarajevo su due gambe. Testa pulsante di tensione e confusione durante la cerimonia degli addii e degli abbracci. Ai vecchi tempi, gli emigranti se ne andavano per sempre quando partivano, o tornavano una volta ogni quarant'anni. Oggi è così diverso. I viaggi aerei sono a buon mercato, potresti tornare molto presto, e dicevi che l'avresti fatto, anche se sapevi che probabilmente non sarebbe successo. E allora, sul muro del corridoio parallelo al duty free, vedevi ancora una volta quel maledetto poster dei Giovani europei, mentre ti trascinavi dietro le valigie per andartene dalla tua nazione. Come ti fissavano, quei puri volti verginali, mentre avanzavi fra scaffali di plastica di whisky irlandese, salmoni affumicati avvolti nel cellophane, patatine Tayto e sigarette Major, chiedendoti cosa comprare con la montagna di moneta che ti ritrovavi in tasca. Hai sempre un sacco di moneta in tasca ogni volta che ti ritrovi in Irlanda. È perché bevi troppo quando sei in Irlanda, e bere, se significa qualcosa, significa accumulo di moneta. Così eri sempre zavorrato come un cavallo da corsa. E qualche volta, solo qualche volta, mentre facevi tintinnare le monete e ti sentivi la testa leggera per l'emozione, ti scoprivi a chiederti cosa diavolo dovevano pensare, quelle facce speculative. Ma sapevi cosa stavi pensando tu, perché era estremamente semplice, tutto sommato. Pensavi: fila. Pensavi: Natale è passato. Pensavi: vattene. Corri. Non ti fermare. Scappa. Salta su quell'aereo e sparisci. Prima di cambiare idea.

Siamo oggi, come siamo sempre stati, una terra di esuli e di vagabondi. «La storia dei trasporti» riflette in una poesia Paul Durcan, «esiste qualche altra storia?» Be', è una domanda molto irlandese. Fin da quando James Joyce sosteneva che la via più breve per Tara passava per Holyhead - non avrà preso il massimo dei voti in geografia - centinaia di migliaia di noi hanno seguito le orme di Dedalus junior, poco lavato e con gli occhi illuminati, nel suo viaggio eccitante, straziante per il cuore e spesso devastante per lo stomaco attraverso il mare verde muco e scrototendente.

A quanto pare, l'emigrazione è cambiata nel corso degli anni. Oggi sono i figli e le figlie delle classi medie a emigrare, in cerca di stipendi più alti e migliori prospettive di carriera, e anche, se bisogna dire tutta la verità, per allontanarsi dai genitori. L'Irlanda dev'essere l'ultima nazione al mondo in cui la gente è costretta ad andare all'estero per poter avere una casa per sé. Tornano a casa in aereo, il week-end, per i party di Killiney e Montenotte, questi giovani di successo della generazione Ryanair. I genitori credono che gli faccia bene stare per un po' fuori dall'Irlanda, ritengono che l'esperienza allarghi i loro orizzonti. Hanno ragione. Probabibnente li allarga.

Ma continuiamo anche a esportare i poveri, i deboli, quelli senza nessuna istruzione. Cacciamo fuori i sofferenti, i senza casa, i diseredati nella loro stessa patria, poveri come qualunque rifugiato. Espelliamo coloro che sono inadatti al favoloso sogno di noi stessi. Quel sogno era la celtica Erin postrivoluzionaria, dove avremmo dovuto essere tutti senza eccezione contadini, cattolici, eterosessuali, conservatori, in una vasta famiglia patríarcale. Un'Irlanda in cui tutti avremmo saputo stare al nostro posto, rispettato coloro che sono più maturi e migliori di noi, indossato mutandoni di lana e maglioni delle Aran, fumato la pipa e scritto turgide poesie in irlandese sui pescatori. Yeats disse che l'Irlanda indipendente non era una nazione per vecchi. Toglie il fiato pensare quanto si sbagliava, e in maniera tanto insolita per lui. Negli ultimi settantacinque anni, l'Irlanda è stata proprio questo: una nazione in cui essere vecchio e maschio davvero ti faceva guadagnare un sacco di punti.

Più recentemente, il sogno è stato quello di un paradiso fiscale post-Maastricht, del tutto senza storia, per turisti ricchi e popstar, con sedici canali televisivi via satellite, pieno impiego poco retribuito in fabbriche prefabbricate e lisce strade nuove pagate dai tedeschi. Le cose stanno cambiando adesso, lo vediamo tutti. L'Irlanda sta introducendo leggi più civili, e riconosce che occorre umanità negli ordinamenti sociali. Alcuní degli emigranti che conosco torneranno indietro. Ma per altri è ormai troppo tardi. Sentono che i sogni cambiano, ma in Irlanda risvegliarsi è sempre uguale. Lo è sempre stato. Lo sarà sempre. Nei secoli dei secoli, amen. Ecco perché preferiscono risvegliarsi da qualche altra parte.

L'emigrazione è tanto irlandese quanto il caro piccolo trífoglio o l'arpa di Cathleen Ni Houlihan, eppure è solo dagli anni Sessanta e dalla generazione di Edna O'Brien che gli scrittori irlandesi si sono messi a scrivere di prima mano di questo argomento. È un luogo comune che l'emigrazione e l'esilio siano temi importanti nella letteratura irlandese, come la nobiltà della campagna o la chiesa cattolica. Ma se lo sono, sono preoccupazioni intermittenti e incoerenti. Dove sono i testi in prima persona sulla vita degli emigranti irlandesi dell'ultima parte dell'Ottocento o della prima del Novecento? Con una o due notevoli eccezioni - Raggered-Trousered Philanthropists di Robert Tressel, per esempio, o i brevi e desolati romanzi e poesie di Patrick Magill - non ci sono proprio. Al cuore dell'esperienza degli emigranti irlandesi ci sono la cautela, il rifiuto di parlare, la paura del mondo.

La cultura degli emigranti è stata tradizionalmente descritta in canzoni più che in romanzi, commedie o poesie. Ma poco tempo fa un amico mi diceva di essere sicuro che tutte quelle ballate sentenziose e sdolcinate su macushla dai capelli grigi e sui maledetti shillelagh furono scritte da gente che in tutta la loro vita non erano mai usciti da Port Laoise, altro che dall'Irlanda. Sospetto che potrebbe avere ragione. Il silenzio, l'esilio e l'astuzia, sosteneva Joyce, sono le vere armi dello scrittore. Ma gli esuli sono stati in silenzio troppo a lungo. Forse daremo loro il diritto di voto. Forse no. In entrambi i casi, i politici i cui manifesti fallimenti hanno perpetuato l'emigrazione irlandese farebbero bene a ponderare le parole di Coriolano: «Lungo l'esilio, dolce la vendetta».

Ciò che i giornali domenicali inglesi chiamano il «nuovo rinascimento letterario irlandese» ha cominciato a riempire il silenzio degli esuli con un torrente di parole. Adesso ci sono prati verdi in tutto il pianeta e finalmente cominciano ad apparire anche nella narrativa irlandese. Il poeta Louis MacNeice ha celebrato la «ubriachezza delle cose che sono varie». Questa giovane generazione di scrittori sta reclamando il diritto di celebrare un'Irlanda che è anch'essa varia, in termini che sono in primo luogo estetici, ma anche, per implicazione, profondamente politici. Ormai, il silenzio dell'esilio irlandese è finito. È una cosa importante.

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