|
|
| << | < | > | >> |IndicePREFAZIONE 11 di Adriano Prosperi INTRODUZIONE: JEKILL O HYDE? 19 1. NEUROVIVENTE 27 2. NEUROMANIA 31 3. COMPLESSITÀ 35 4. RIPRODURRE PER SAPERE 39 5. RIPRODUCIBILITÀ E GOVERNANCE 47 6. FILOSOFIE E SCIENZA DELLA VITA 53 7. L'APERTO E IL CHIUSO 57 8. POLITICA DELLA VITA 63 9. SÉ NEUROCHIMICI 69 10. EUGENETICA ECONOMICA 73 11. NEUROETICA 77 12. PREVENZIONE 79 13. COMUNE DIFFERENZA 83 14. SÉ E DIPENDENZA 85 15. SPECCHI DELLA SOPRAVVIVENZA 89 16. PROFEZIA E INCERTEZZA 93 17. MODELLISTICHE 97 18. NEUROECONOMIA 101 19. PUNIZIONE PREVENTIVA 105 20. EUGENETICA DELLA SOPRAVVIVENZA 109 21. NEUROLINGUAGGIO 115 22. CONTESTO 119 23. NEUROETICA E MEMI 123 24. IDENTITÀ E PERSONA 127 25. BIOLOGIA E BIOGRAFIA 133 CONGEDO: FANTASCIENZA 135 |
| << | < | > | >> |Pagina 11Si potrebbe cominciare così: un fantasma si aggira nel mondo, il cervello. E se ci appropriamo di un inizio celebre è perché quello di cui parliamo è un fenomeno che riassume in sé la più radicale svolta rispetto all'epoca e all'orientamento del Manifesto di Marx ed Engels. Allora l'attenzione era tutta rivolta ai cambiamenti in atto nei rapporti tra le classi e gli autori del Manifesto intendevano lanciare un invito alla lotta contro la divisione sociale introdotta dalla rivoluzione industriale come rivoluzione borghese. Oggi l'attenzione prevalente ha cambiato direzione, ha voltato le spalle ai rapporti sociali e alla storia e si è concentrata sul cervello come sede dell'identità personale, luogo in cui tutto l'individuo si riassume e si concentra. Tutto il resto, dal corpo ai rapporti con l'ambiente e con gli altri esseri umani, è passato in seconda linea. Difficile fare anche solo un elenco approssimativo degli studi e delle riflessioni che vengono dedicati al cervello. Come mostra Marco Pacioni in questo libro, tante scienze diverse affollano il campo: genetica, cibernetica, biochimica, biologia molecolare e altro ancora. Si parla ormai correntemente di neuroscienze. Interi dipartimenti universitari sono dedicati a questa branca del sapere. E ovviamente non potevano mancare i filosofi e i teologi, attirati dalle prospettive aperte dalle scienze e dalle metafisiche della vita. Al posto dell'essere vivente si è impiantato il neurovivente, al posto della vita concreta dell'individuo esposto alle occasioni del contesto c'è un'astrazione organica e mentale: l'attività cerebrale come quintessenza della vita, qualcosa che funziona a prescindere da tutto il resto, indifferente e immodificabile dalle circostanze della vita. In questa concezione c'è coincidenza tra mentale e cerebrale. L'uomo e la donna, scrive Pacioni, «sono predeterminati, predestinati e come tali possono sviluppare soltanto ciò che hanno nel loro patrimonio genetico e cerebrale». Il libero arbitrio sparisce da questa macchina umana che procede secondo ciò che è iscritto nella scatola nera del suo cervello. Non c'è spazio per la responsabilità personale intesa in senso non solo giuridico ma morale. Inutile ricordare che anche in sede legale «brains are not held responsible, acting people are». Viene cancellata la decisiva scoperta illuministica delle implicazioni morali che reca con sé la previsione anticipata dell'effetto delle proprie azioni. Il fenomeno appare tanto più singolare se si pensa che proprio dagli studi sul cervello è emersa la scoperta dell'importanza dei neuroni specchio nel processo della comunicazione con altri esseri viventi. Eppure, osserva Marco Pacioni, mentre i neuroni specchio «ci fanno comprendere che l'umano (e l'animale) è in una rete interna ed esterna complessa» e ci offrono «una traccia che ci consente di capire la costellazione che gli esseri umani formano e intessono», si tende piuttosto a considerarli come «mera causa neurobiologica dell'etica e della politica». E l'effetto degli avanzamenti delle scienze mediche e biologiche sembra riassumersi nella scoperta che mentre ci illudiamo di scegliere liberamente qualcosa noi obbediamo in realtà a «una predisposizione genetica e anatomica». [...] Ma il percorso delle neuroscienze per arrivare all'anima è complicato. Marco Pacioni scrive: «le neuroscienze vogliono separare la vita-umana da se stessa per arrivare a isolare dall'umano la vita-stessa, il neurovivente». A questo scopo la foucaultiana volontà di sapere procede per via di separazione e di esclusione di «ogni elemento di contesto». Si risolve così l'antico dilemma che appassionava nel tardo '700 chi seguiva la vicenda del ragazzo selvaggio dell'Aveyron: se ci sia e quale sia l'influenza dell'ambiente nello sviluppo dell'individuo. Non per niente un oggetto privilegiato d'indagine che si riaffaccia di nuovo è quello dei "gemelli identici". Lasciamo da parte i pensieri che si associano alla semplice evocazione di questa categoria: vengono in mente, ad esempio, le speculazioni che trovarono spazio negli atroci esperimenti del laboratorio nazista del dottor Mengele. Restiamo fermi al tema centrale, quello del contesto e del suo deliberato accantonamento. Osserva ancora Pacioni: «Che l'ambiente, cioè gli altri, i rapporti sociali, la storia, gli accadimenti biografici o, con altre parole, la dimensione politica dell'umano siano fattori secondari si coglie dalle pratiche mediche, nel momento in cui si deve intervenire sulle persone. Quando cioè il disagio psichico viene trattato esclusivamente come un problema fisiologico interno all'organo fondamentale del soggetto neurovivente: il cervello». Su questo punto del rapporto tra la personalità umana e il contesto ambientale fatto di politica e di storia si deve richiamare qui l'attenzione per giustificare il fatto, di per sé singolare, che sulla soglia di un libro sulle neuroscienze si trovino queste righe di un lettore che nella sua vita si è occupato di tutt'altro genere di studi. Ebbene, qualche spiegazione c'è per giustificare un interesse così stravagante. Quella fondamentale risiede nel fatto che la lettura di questo libro ha portato lo scrivente davanti a una critica dall'interno di un paradigma scientifico oggi dominante, quello che mostra con maggiore evidenza gli effetti del divorzio tra le due discipline fondamentali nello studio del vivente, la medicina e la storia. Ed è un fatto singolare che questo divorzio abbia avuto luogo proprio negli studi sul cervello. Questo è l'organo che contiene il prezioso deposito della memoria; è il magazzino indispensabile a cui si ricorre davanti a ogni problema del presente. L'invocazione di Dante è sempre valida: «O mente che scrivesti ciò ch'io vidi». E questo tanto sul piano individuale quanto su quello collettivo e generale. E anche se i rapporti tra memoria e storia sono assai complessi, non c'è dubbio che la storia ha a che fare con la memoria. Ci racconta la vicenda dell'uomo nel tempo, rende conto del mutamento incessante della vita umana sulla terra. Non è "magistra vitae". Ma una cosa almeno ce la insegna: che la solidarietà tra generazioni, oggi sempre più carente e urgente, si costruisce imparando dagli errori e dalle sconfitte del passato nella lotta per garantire un futuro alla nostra specie. Sul piano privato, chi ricorda un tentativo fallito, un incidente materiale, un volto amico, correggerà la strategia del secondo tentativo, eviterà quella buca sulla strada, sorriderà al volto che gli si fa incontro. Il che vale o dovrebbe a maggior ragione valere sul piano collettivo, per le scelte e le decisioni che riguardano materie di interesse comune. E tuttavia, un fatto è certo: forse più di ogni altra epoca, i tempi in cui viviamo sono sfavorevoli a tutto quello che sa di richiamo alla memoria e alla storia. Si pregia l'efficienza a scapito dell'esperienza, si voltano le spalle al sapere storico relegando in un angolo lo spazio dell'insegnamento della materia nelle scuole e lasciandovi galleggiare tutt'al più un residuale culto astorico del bello che ben difficilmente "salverà il mondo". Sappiamo quanta ragione abbia l'impaziente rifiuto del vecchiume a cui spesso si è ridotta la cultura umanistica e storicista. Ma la tendenza attuale appare sempre più tesa alla creazione di generazioni pronte all'obbedienza e tanto tecnicamente efficienti quanto sprovviste di una matura e robusta coscienza morale e civile. Di questa tendenza generale troviamo un esempio proprio in quel campo di studi che va sotto il nome di neuroscienze: un campo affascinante per tante ragioni. Le novità che arrivano da lì appassionano, divertono e inquietano perché ci portano di continuo davanti a qualcosa di cui abbiamo da sempre una confusa coscienza: la ricchezza ma anche la precarietà del tesoro che possediamo, finchè lo possediamo, la sua delicatezza e il rischio che quel tesoro si trasformi in una fonte di disastri e di naufragi. La popolarità di un autore da poco scomparso come Oliver Sachs nasce dalla brillantezza del suo stile ma anche dal brivido che suscitano dentro i lettori le sue narrazioni di casi clinici. Chi ha maturato curiosità per le neuroscienze e si chiede quali siano i presupposti del fenomeno troverà in questo libro una informazione seria e un tentativo di interpretazione assai interessante di un fenomeno singolare che dura da anni: il bombardamento continuo di notizie sulle ricerche intorno al cervello umano, i suoi misteri, le sue potenzialità. Sembra essersi rifugiata qui la ricerca di una risposta scientifica alla domanda che da sempre ci incombe - chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Solo che oggi la domanda è un po' diversa. | << | < | > | >> |Pagina 31Con la centralità essenzialista che il cervello ha assunto, sembra che tutte le discipline stiano diventando neuro. Dalla neuropsichiatria alla neurobiologia, dalla neurofisiologia alla neuropsicopatologia, dalla neurofarmacologia alla neuroetica, dalla neurotecnologia alla neurochimica, dalla neurofilosofia alla neurolinguistica, dalla neuroeconomia alla neuroestetica. E gli esempi potrebbero andare avanti a mostrare la dinamica apparentemente plurale di diverse discipline che adottano un unico prefisso. Tale apparente pluralità era già implicita nel termine Neurosciences coniato dai neurofisiologi del MIT nel 1962, anno di fondazione del Neurosciences Research Program. Ma al di là della parola, quello delle neuroscienze, così come almeno viene spiegato da molti autorevoli neuroscienziati, tende a essere un approccio riduzionistico alla conoscenza, una strategia di ricerca e di intervento deterministica verso i fenomeni che riguardano la vita-umana. Fenomeni che non si manifestano in modo univoco e che dovrebbero essere considerati di più attraverso la distinzione invece che esclusivamente attraverso la separazione. È anche per ristabilire o comprendere nuovamente che esiste una differenza fra separare e distinguere che occorre una critica della ragione neurotecnologica e richiamare l'importanza del pensiero. Cioè la capacità che sa distinguere senza necessariamente dover separare e ridurre all'univocità ciò che può vivere come contesto, costellazione. Una volta indifferenziato dalla separazione neurogenetica invece, il vivente senza pensiero acquisisce esclusivamente le forme che le applicazioni biotecnologiche adottano seguendo modelli prestabiliti. Adottare il dispositivo della separazione implica il rifiuto di individuare qualità diverse all'interno dello stesso orizzonte e anzi considerare l'orizzonte medesimo come la prima distinzione da trasformare in una cesura che chiuda l'interno in un'immanenza escludente e l'esterno in una trascendenza esclusiva. Sia nell'immanenza escludente, sia nella trascendenza esclusiva ciò che viene sacrificato è proprio la linea di orizzonte che diventa in tutti e due i casi separativa. Immanenza escludente e trascendenza esclusiva non intendono esprimere qui vicinanza all'immanenza che il pensiero politico radicale riconduce a Baruch Spinoza. Al contrario, le due espressioni segnalano due percorsi che si oppongono allo spinozismo. L'immanenza escludente è quella che per Nancy «affonda in se stessa ed è priva di senso», cioè quella privata di apertura alla possibilità di direzione. È il tipo di immanenza della politica ridotta a tecnica, cioè a governance. La trascendenza esclusiva è invece il risultato al quale porta la teologia politica che difende la necessità di una sovranità che chiama a sé gli umani, ma non va ad essi se non nell'imposizione dell'autorità che dovrebbe salvaguardarli anzitutto da se stessi. Immanenza esclusiva e trascendenza escludente, così come governance e teologia politica si basano su un'antropologia negativa. Sono, in fondo, politiche della disperazione che cercano di adottare la logica del male minore, del fatto compiuto, dell'emergenza e dell'eccezione. La caratteristica di ridurre la distinzione a separazione, l'idea di ricondurre il con-fine soltanto ad un e ad una fine, come accennato, non sono una novità nella scienza e nella filosofia. Se ne possono trovare esempi anche prima del determinismo scientifico ottocentesco. Di questa lunga e risorgente tradizione, le biotecnologie e ora soprattutto le neuroscienze rappresentano un esito ulteriore. Un esito straordinariamente potente, benché un po' in crisi ultimamente visti i risultati prodotti dalle loro applicazioni, anche se l'opinione pubblica ne continua sempre di più a magnificare le sorti troppo spesso acriticamente. Ciò anche perché la stessa opinione pubblica è aiutata molto da alcuni gruppi di ricerca riuniti attorno a faraonici progetti finanziari. Si pensi al programma Brain Research Advancing Innovative Neurotechnologies negli Stati Uniti fortemente voluto da Barack Obama con trecento milioni di dollari all'anno di finanziamento; progetto guidato dai National Institutes of Health. Si pensi al Human Brain Project di Henry Markram del Politecnico di Losanna finanziato dall'Unione Europea con un miliardo di euro in dieci anni. A parte gli scienziati coinvolti direttamente o indirettamente in questi progetti, ci sono persino scrittori e personaggi dello spettacolo che hanno intrecciato le loro attività al cervello attraverso una mole cospicua di libri, articoli e programmi divulgativi e perfino di intrattenimento. La forza con cui le neuroscienze si diffondono nell'opinione pubblica è dovuta a scelte politiche guidate, nella maggior parte dei casi, da motivi di interesse economico – o al contrario, da motivi politici che hanno determinato scelte di investimento finanziario e, quale corollario ideologico, una multiforme produzione di propaganda culturale che sta avendo come risultato quello di aver dato vita ad una vera e propria neuromania. | << | < | > | >> |Pagina 35In termini più correnti alle scienze e all'epistemologia, si può dire che la biologia neurogenetica tende a invertire il rapporto tra complessità e modello in modo da far assumere a quest'ultimo simultaneamente il ruolo di dato e metodo. Per le neuroscienze il cervello non è soltanto ciò che si deve studiare, ma anche il modello attraverso cui studiare. Pur non sapendo ancora bene come funziona complessivamente, tuttavia quel che di esso è noto offre una modellizzazione per sapere che il cervello stesso è l'essenza dell'essere umano. Altre scoperte arricchiranno eventualmente un modello che però già si ritiene di conoscere sostanzialmente com'è. Talvolta è proprio negli ambiti conoscitivi nei quali la complessità gioca un ruolo più forte, come quelli appunto della mente e del cervello che la modellizzazione dimentica di essere essa al servizio del sistema complesso e non il contrario. La necessità di costruire modelli, così in grado di dominare con più forza campi conoscitivi più fluidi, soggetti a più variabili e a maggiori interazioni nelle parti che li compongono porta a far assumere ai modelli medesimi non solo un ruolo epistemologico, ma anche e soprattutto un ruolo ontologico. Un risultato paradossale di tutto ciò, ad esempio, è quello per cui oggi la cosiddetta scienza dura e fondamentale della fisica può presentarsi più complessa e pensante della neurobiologia e quest'ultima più semplificata e meccanicistica della fisica. Un esempio che esprime questo paradossale confronto viene dalle ricerche del fisico Carlo Rovelli che nell'epilogo delle sue Sette brevi lezioni di fisica richiamandosi a Spinoza in merito alla materia neuroscientifica scrive:
sarebbe assurdo chiedersi se «io» posso fare qualcosa di diverso da quello
che decide di fare il complesso dei miei neuroni: le due cose, come aveva
compreso con lucidità meravigliosa nel XVII secolo il filosofo olandese Baruch
Spinoza, sono la stessa cosa. Non ci sono «io» e «i neuroni del mio cervello».
Si tratta della stessa cosa. Un individuo è un processo, complesso, ma
strettamente integrato. Quando diciamo che il comportamento umano è
imprevedibile, diciamo il vero, perché è troppo complesso per essere previsto,
soprattutto da noi stessi. [...] L'immagine scientifica del mondo, che ho
raccontato in queste pagine, non è allora in contraddizione con il nostro
sentire noi stessi. Non è in contraddizione con il nostro pensare in termini
morali, psicologici, con le nostre emozioni e il nostro sentire. Il mondo è
complesso, noi lo catturiamo con linguaggi diversi, appropriati per i diversi
processi che lo compongono.
Forse, si dovrebbe più opportunamente parlare di pensiero della complessità che di teoria o modelli della complessità. Ad esempio, Edgar Morin nella sua lunga ricerca dal 1977 al 2004, nei 6 volumi di Il metodo è stato l'artefice di un pensiero della complessità alternativo alle modellizzazioni ontologiche dei sistemi complessi come quelle che hanno seguito gli studi di Norbert Wiener , John von Neumann , Karl Ludwig von Bertalanffy , Herbert A. Simon , Ilya Prigogine , Jean-Louis Le Moigne e William Ross Ashby. Oltre a Morin, nella direzione di un pensiero complesso, possono essere considerate anche la ricerca di Gregory Bateson e l'autopoiesi di Humberto Maturana e Francisco Varela. Nel rapporto tra complessità e modelli, per le neuroscienze è il pensiero stesso a costituire un problema. Come la mente, il pensiero è sempre più considerato come un termine provvisorio, un'etichetta sempre più vuota per definire l'attività biochimica del cervello. [...] Un sapere che pretende di esercitare un controllo meccanico di causa-effetto ad ogni passo non si accontenta di prevedere. Esso deve prevenire. La prevenzione, da specifica applicazione che riguardava processi eccezionali, è diventata sempre di più un vero e proprio modello epistemologico. Nella sua logica abbreviativa ha finito da un lato con lo scambiare l'ordine di causa-effetto. Dall'altro lato, per aumentare in efficienza, ha ridotto la pluralità contestuale al minimo possibile, cioè alla dimensione binaria che obbligherebbe a separare anche soltanto per distinguere due entità, per considerarne una e una soltanto. In questa volontà di sapere a tutti i costi, l'inglobamento della causa nell'effetto vuole anche cancellare – cosa ancora più rilevante – il collegamento stesso. cioè l'articolazione che sta fra la causa e l'effetto. Contro questo anti-processo, contro questa anti-relazione di cui soprattutto le neuroscienze oggi sembra si giovino, si deve sottolineare che la stessa relazione, prima di ogni riduzione. costituisce, se non la dimensione, almeno una dimensione qualificativa imprescindibile della vita e in special modo della vita-umana e della sua dimensione politica. Nel rapporto tra politica e vita-umana e, più specificamente, nel rapporto tra quest'ultima e le neuroscienze, importanti riferimenti sono stati in questi ultimi anni due libri. La sorte ha voluto che entrambi siano stati scritti da persone che hanno lo stesso cognome: Rose. Hilary e Steven sono gli autori di Geni cellule e cervelli; Nikolas è l'autore di La politica della vita. Obiettivi e prospettive di questi libri sono opposti, ma tutti e due basano i loro argomenti su elementi sociali ed economici. Ad entrambi preme riflettere sul rapporto ontologico tra vita-umana e quella che Steven e Hilary Rose chiamano biotecnoscienza. Quest'ultimo termine è stato coniato proprio per sottolineare la difficoltà di distinguere i vari aspetti naturali e culturali dello studio e dell'intervento sugli organismi e sui cervelli di umani e animali. A tal proposito scrivono Hilary e Steven: [L]e scienze della vita si sono trasformate in una mastodontica biotecnoscienza, in cui i confini tra scienza, tecnologia, università, imprese biotecnologiche, e Big Pharma sono sfumati. La conoscenza diventa proprietà intellettuale [...] I protagonisti principali di questi cambiamenti sono stati le grandi industrie farmaceutiche, i capitali di investimento, le società biotecnologiche, lo Stato – con i suoi interessi nella sorveglianza e nel controllo – e, come sempre, l'esercito. Le biotecnologie detengono poteri nuovi e formidabili che non soltanto ricostruiscono la vita, ma la costruiscono dal nulla. L' oncomouse – topolino creato dai biologi di Harvard perché sviluppi un cancro umano — è diventato l'icona della riconfigurazione dei confini, soltanto apparentemente fissati, tra natura e cultura. Il brevetto di questo essere vivente è detenuto dalla DuPont, ma l'oncomouse non è né soltanto natura né soltanto cultura: ormai solo il neologismo cultura/natura rende giustizia alle tecnoscienze della vita nel ventunesimo secolo, un "mondo nuovo" dove la vita nasce ed è creata dal nulla. | << | < | > | >> |Pagina 47Il lavoro sull'ottimizzazione dei modelli, non solo robotici, è stato l'apripista per una nuova governance dei corpi. Proprio perché questi si crede non possano diventare ciò che vogliono li si tratta per limarne ciò che di essi si ritiene non possa in essenza cambiare. Si avvicina il momento dell'equazione perfetta: non solo il robot è come l'uomo, ma anche quest'ultimo è, perché riproducibile, come quello. La paura di produrci ci fa abbracciare la scienza nel principio della riproducibilità tecnica. La paura di decidere chi essere fa screditare le dimensioni nelle quali la possibilità conta: la psicologia, l'etica, la cultura e, con queste e più di tutte, la politica. Il supposto materialismo delle neuroscienze, la supposta concretezza della tecnica della vita che conosce perché è in grado di riprodurre e rimpiazzare la politica sociale sono materiali e concreti solo apparentemente. Essi poggiano su un principio metafisico che suona così: se si può prevenirlo, controllarlo, separarlo, riprodurlo allora qualcuno è qualcosa. Emancipatasi dalla necessità, benché e significativamente non si fa altro che ricorrere alle necessità estreme dell'emergenza e dell'eccezione in politica, la furia per l'individuazione di un'essenza che acquisisca i crismi dell'identità fissa, l'enorme volontà di sapere che ha persino trasformato l'identità in identificazione, con la neurotecnologia si mostrano per quello che sono sempre già state: ridurre completamente il possibile che si trova nell' è in ciò che sta. L'essere umano nello status cerebrale, nel patrimonio genetico, nella rete neurale, negli impulsi elettrici, nei composti biochimici. Questa ontologia operativa della separazione e del controllo, questo divide et impera hanno una dimensione ideologica, benché spesso negata in nome della neutralità scientifica, che è quella che si richiama, come accennato, al potere sovrano che manifesta la sua natura nelle situazioni estreme, nell' eccezione e che ha come paradigma politico quello della governance. Il sapere inteso come riproducibilità assicura identità e controllo. Sostituisce l' imitazione, fondamentale nel processo dell'apprendimento, con la replicabilità. Proprio dall'odierno confronto con la riproducibilità e replicabilità, giunge ora a rivelare tutta la sua dimensione ontologica e non più soltanto estetica e pedagogica, l'idea aristotelica della donna e dell'uomo come esseri il cui imitare inerisce la loro essenza. Oppure l'idea umanistica che l' imitazione non è identità, cioè non è copia, clone. Ciò che non è identico, che non coincide, cioè lo scarto, è invece proprio quello che permette il processo imitativo. In tal senso, il processo è differenziazione della somiglianza. Come gli studi di Kandel sulla codificazione dell'esperienza che si fa memoria dovrebbero mostrare, occorre che alcuni degli elementi coinvolti nel processo di apprendimento assumano una funzione diversa, addirittura scomparire, per permettere che l'esperienza dell'ambiente diventi memoria interna. Questo processo può esser qui illustrato ricorrendo al linguaggio. Affinché quest'ultimo funzioni occorre che alcuni suoi elementi, quali le parole grammaticali come articoli e preposizioni ad esempio, non abbiano significato di per sé, ma soltanto in rapporto ad altre parole, in rapporto all'ambiente linguistico e non linguistico che circonda tali parole grammaticali. Così l'esperienza si fa memoria perché alcuni elementi di quest'ultima fungono da tramite fra l'una e l'altra senza avere di per sé senso al di fuori del rapporto. Dal punto di vista storico, ben prima della nuova biologia e delle neuroscienze, come già si è accennato, il dispositivo della separazione nella quale l'eccezione è indistinguibile dalla norma, è servito per secoli, ad esempio, per la gestione separata dei corpi e delle anime. Mettere tra quelli e queste una dicotomia netta ha permesso che i corpi diventassero dello stato e le anime della chiesa. Ciò ha determinato che la chiesa potesse accettare la pena capitale e la tortura e al contempo potesse esercitare fin sotto il patibolo il proprio controllo sull'anima di un reo che merita la pena capitale, ma che può, pentendosi e non opponendo resistenza alla sentenza di morte (anche nel caso questa fosse stata ingiusta), guadagnarsi il paradiso. La spartizione che governa ed elimina il «doppio» della distinzione anima-corpo, lo stabilirsi del paradigma della separazione fra questi due a partire dalla situazione estrema della morte o dalla situazione estrema dell'origine della vita (prima della nascita, poi dello stato fetale e infine dell'embrione) per determinare l' essenza sostanziale sopravvivente dell'individuo è figlia di una lunga e frastagliata tradizione che il cristianesimo ha fatto in parte propria adattandola, come ha ben ricostruito Adriano Prosperi: Ripercorrendo per sommi capi le tappe di questo lavorio occidentale sull'anima un fatto appare evidente: la morte è stato sempre l'osservatorio fondamentale per studiare la composizione dell'individuo. Con la morte, l'unità del vivente si scinde, la sorte del corpo è segnata. [...] Chi si è soffermato sulla lunga preistoria del concetto di «anima» ha individuato un insieme di termini e di pratiche che avevano in comune l'individuazione di un «doppio» – [...] Ed è qui che incontriamo la prima traccia linguistica di un concetto fondamentale, quello di «persona», inteso come dal mondo romano nel senso di «maschera», ruolo, identità socialmente riconosciuta; qualcosa che implica una dignità e un significato giuridico che distingue, ad esempio, lo schiavo dal libero. | << | < | > | >> |Pagina 69La convergenza tra neuroscienze e governance si palesa dai nuovi concetti neuroscientifici e biotecnologici della personalità. Per esempio, come si è visto, da quelli che Rose chiama sé neurochimici. Quella del sé neurochimico è un'idea centripeta dell'umano. Ciò che determina quest'ultimo e che lo definisce normale o anormale sta esclusivamente dentro di sé, o meglio dentro il cervello. Tutto ciò che è anche esterno, ambientale non conta essenzialmente. L'uomo animale politico, l'uomo sociale e tutte le definizioni centrifughe dell'umano sono archiviate nella prospettiva neuroscientifica. Ma perché allora parlare ancora di sé? Perché indicare con una parola spirituale-mentale quello che l'approccio neuroscientifico e biomedico vuole proprio eliminare? Il paradosso della concezione della personalità neuroscientifica è quello per cui, proprio nel momento in cui si dissolve quello che le neuroscienze stesse ritengono essere il sé metafisico e spirituale, esse ne definiscono un altro altrettanto forte e astratto. La differenza è che a questa definizione neuroscientifica, tutta nelle mani dei medici, l'individuo oggetto della definizione non partecipa. Ed è proprio a questo punto che si palesa l'aspetto biopolitico delle neuroscienze. Tale aspetto ora non è più semplicemente l'elemento che inerisce la forma-umana, ma lo strumento che serve a far stare dentro il format prestabilito dagli standard neurobiologici l'uomo cocktail chimico e cerebrale, a definire anormale chi presenta standard che non stanno dentro il format. Il lato politico della prospettiva neuroscientifica, come reclama esplicitamente il titolo del libro di Rose, ha un significato gestionale, amministrativo ed è dunque più propriamente, ancora, governance. | << | < | > | >> |Pagina 97Gestire una predisposizione vuol dire prevenirne certi effetti o potenziarne altri. Proprio perché gestione di dati non ancora attualizzati, che non si sono ancora manifestati come fatti, ma che fluttuano ancora nell'aleatorietà, la prevenzione è una forma di governance. Alla prevenzione è indifferente che il fatto sia già prodotto o sia presupposto come se esso fosse avvenuto. Una prevenzione post-factum, quella che cioè preferisce gestire gli effetti anziché prevederli, è quella che corrisponde al tipo della governance securitaria. L'altro tipo di governance è quello che si basa sulla prevenzione ante-factum, quello che segue il paradigma medico della profilassi. [...] Il discredito odierno delle scienze umane, dell'arte e della filosofia (e anche della politica) è anche dovuto a che queste operino come distinzioni che non sono già separazioni, previsioni che non sono già prevenzioni. Detto in altri termini, esse non riproducono per produrre, perché mantengono il dato epistemologico distinto e al contempo legato all'operazione conoscitiva che svolgono, a differenza delle tecniche che si basano sull'ingegneria matematica dei modelli dove la riproducibilità stessa assicura che ci sia un dato conforme a quello che si è prodotto. Si pensi alla rilevanza che hanno oggi le applicazioni delle equazioni differenziali, gli automi cellulari, le reti neurali, la programmazione ad agenti per avere un'idea di come la matematica sia sempre più ridotta a mera tecnica per domare la complessità, a strumento di razionalizzazione che deve rimanere al di qua o andare al di là della stessa razionalità. Essa deve eludere il pensiero e sostanzialmente far funzionare deterministicamente porzioni di quella complessità di cui la matematica stessa fa parte. Ma che la matematica sia il linguaggio in cui è scritto il libro della natura, come sosteneva già Galileo Galilei, significa appunto che essa non può essere ridotta soltanto ad un insieme di filastrocche che intonano le realtà al canto dell'utilizzazione. D'altronde, il recente minor impatto che specialmente in ambito neurobiologico e neuroeconomico – stando ai dati di Bertuglia e Vaio – la modellizzazione matematica sta avendo, è esso stesso segno del mero uso strumentale che della matematica si fa. Senza che vi sia un coinvolgimento epistemologico e ontologico di essa, nel momento in cui si trova un'altra tecnica di modellizzazione ecco che anche la matematica può diventare irrilevante. L'idea di fondo delle biotecnologie è che se riproducibile allora un dato è: se stabilizzabile allora qualcosa e solo allora è anche possibile. Ma una possibilità che è già un atto in stato che possibilità è? Che senso ha prevedere ciò che si è già prevenuto? | << | < | > | >> |Pagina 115Parallelamente alla sostituzione della mente e del pensiero con il cervello, viaggia la conquista del linguaggio da parte delle neuroscienze. Anche qui sono fondamentali per questa conquista l'applicazione, il dispositivo. Le presunte scoperte che in materia linguistica le neuroscienze avrebbero effettuato si basano su come certi elementi neurobiologici reagiscono nella fase di apprendimento e insegnamento di una lingua o nella fase di produzione dell'atto linguistico. Che sia l'applicazione a determinare in che modo si deva intendere il linguaggio non è secondario. La priorità della fase applicativa determina i limiti del linguaggio in corso d'opera mostrando dati, immagini che però valgono anche come teoria e tagliano al discorso teorico ogni possibilità di formulazione e di confronto. La grammatica generativa di Noam Chomsky , cioè l'idea che gli esseri umani sembra abbiano già in se stessi le strutture fondamentali del linguaggio che permettono di acquisire tutte le diverse lingue che si confanno a quelle stesse lingue che rispettano la struttura generativa naturale (dunque un numero finito di lingue le quali coincidono con il linguaggio) ha fatto sì che questa struttura fosse considerata come essa stessa propria dell'apparato cerebrale elevando di fatto il cervello a essere l'organo attraverso cui studiare le diverse situazioni che interessano il linguaggio, il suo apprendimento, le diverse aree cerebrali coinvolte. L'innesto delle neuroscienze alla grammatica generativa che Chomsky ha, tra l'altro, formulato senza analizzare il cervello, ha trasformato molti linguisti che hanno lavorato in quest'ambito in neurolinguisti. Nonostante il suo approccio in parte sia ancora teoretico filosofico, ad esempio, anche Andrea Moro , uno dei più brillanti allievi di Chomsky, sembra considerarsi un neurolinguista che infatti scrive: La convergenza [tra i risultati della linguistica teorica e comparativa e i risultati di quella sperimentale, in particolare quella che si basa sui dati delle neuroimmagini] è ormai chiara e completa: le lingue naturali sono strutture biologicamente determinate e invarianti, salvo modificazioni accidentali, a esclusione ovviamente, dell'associazione tra significante e significato che rimane sostanzialmente arbitraria, nel senso e nei limiti che sono stati definiti da Saussure. [...] La vecchia distinzione di Ferdinand de Saussure fra langue e parole (codice-regole e parole), nella concezione neuroscientifica del linguaggio perde senso perché obbliga l'innatismo chomskiano non solo a fare ancora meno conto dell'apporto ambientale comportamentale esterno, ma soprattutto perché rimuove ogni possibilità di articolazione duale e dunque riflessiva e metateorica del linguaggio. Se come amano dire i neuroscienziati la mente non è altro che l'attività del cervello, allora la langue (la grammatica) è soltanto l'attività della parole e viceversa. Le due componenti del codice e delle regole da un lato e delle parole semantiche e che indicano un referente esterno dall'altro, distinguibili soltanto nel momento in cui si danno simultaneamente e proprio per questo non separabili, nella prospettiva neurolinguistica si appiattiscono. Il codice e le regole diventano componenti cerebrali che rendono difficile spiegare come, all'interno della teoria dell'evoluzione, si possano dare tante lingue diverse. È ciò che si chiede anche un genetista come Luca Cavalli-Sforza che per rispondere reintroduce, non a caso, i fattori esterni al cervello e alla biologia e cioè la socialità, la geografia e la cultura per accordare le invarianti strutturali grammaticali-biologiche alle differenziazioni linguistiche. E ciò fino al punto di tornare ad uno dei cardini della concezione aristotelica dell'uomo come animale politico. Benché Cavalli-Sforza insista più sulla socialità dell'uomo, l'importanza che il genetista attribuisce al noi, il così detto noismo della sua teoria, ha evidenti legami con l'idea di uomo come animale politico che per definirsi deve esternare (fare gruppo) quelli che biologicamente e individualmente sono tratti potenzialmente già proiettati all'esterno. Per Cavalli-Sforza si ha linguaggio quando c'è un noi e viceversa. Ciò vuol dire che l'individuo è già potenzialmente comunità. E proprio su questo aspetto si sono concentrate non a caso le critiche che gli sono state rivolte e in particolare che il noismo, la socialità cruciale per l'identità dello stesso individuo, abbia implicazioni esclusiviste e possa annullare l'individualità medesima in comunità chiuse e addirittura nel razzismo. Ma al di là di questi estremi, le critiche a Cavalli-Sforza esprimono di fondo diffidenza verso concezioni non individualistiche che mettono in gioco, nel linguaggio e nell'uomo, la relazione con l'esterno della cultura, dell'ambiente, della politica. L'idea che l'uomo non sia soltanto una monade biologica penetrabile esclusivamente dalla chimica dei farmaci e dalle tecniche di imaging. Ma la posta in gioco per il dominio neuroscientifico del linguaggio è quella di togliere di mezzo insieme al pensiero, alla mente, alla psiche, il linguaggio stesso — l'elemento più importante, come si vede invece anche nelle argomentazioni di Cavalli-Sforza, per elaborare politicamente il discorso sull'umano. | << | < | > | >> |Pagina 119Una delle cose che le neuroscienze dicono o meglio dicevano di studiare sono le connessioni: tra cervello e mente, tra natura e cultura, tra ominità e umanità. Ma in realtà il loro interesse non si è dimostrato tanto per le connessioni. Queste servono alle neuroscienze come via per riunificare le due componenti dell'hardware e software dell'umano secondo una reductio della seconda alla prima componente. La connessione che le neuroscienze prendono a modello, anche perché in origine il cervello stesso aveva fornito tale modello, è quella elusiva della connessione stessa e cioè quella delle reti neurali che dopo una pausa quasi ventennale, in significativa coincidenza con la ripresa delle teorie liberiste in economia di Friedrich von Hayek, è tornata alla ribalta. L'elusione della connessione è del resto già presente nel pionieristico studio neurobiologico di Oldig Hebb, The Organization of Behavior, nel quale il collegamento è esclusivamente infraneuronale. Alla connessione come elemento esclusivamente interno si richiama il progetto illustrato da Sebastian Seung in Connettoma, equivalente cerebrale della mappatura dei geni del già menzionato Progetto Genoma Umano. Tale progetto va oltre la sinapsi e intende ricostruire e spiegare l'interazione di diverse aree cerebrali, dopo averle divise, con lo scopo finale di mappare un giorno tutte le parti del cervello sulla base di come esse si rapportano fra loro. Un modo per far coincidere il cervello con il suo diagramma di cablaggio — espressione che infatti prima era usata al posto del neologismo «connettoma». La sinapsi, che è appunto definibile come connessione infraneuronale, è raffigurabile come un processo che trasforma il collegamento stesso in un dato; o meglio in una «macchina»: [...] Prima dello sviluppo delle biotecnologie vi è era una forte tendenza delle discipline umanistiche, della filosofia, religione e anche del diritto a privilegiare di più la componente software, per così dire, cioè quella spirituale o mentale e con ciò ci si dimenticava, anche in quel caso, delle connessioni. Anche quella, come si è detto, era una reductio, benché di segno opposto. Il punto di contatto tra queste due reciproche forme di riduzione però anche oggi non manca ed è dato dall'idea di un'identità immodificabile, fissa, universale. Fanno capo a questo determinismo al contempo neurobiologico e spiritualistico, ad esempio, le tesi di Marc Hauser in La mente morale, quelle della Sociobiologia di E. O. Wilson (benché il suo determinismo si sia di recente ammorbidito) dove si teorizza un graduale ma inesorabile assorbimento delle discipline umane nella biologia, come viene spiegato in Il fuoco di Prometeo scritto da Wilson con Charles Lumsden. Analoga convergenza fra determinismo scientifico e morale in parte si trova anche sul versante della bioetica, soprattutto se si guarda ai risultati del primo sviluppo istituzionale di questa disciplina centrata sui diritti dell'individuo e poco interessata a declinare la supposta autonomia e identità individuale in senso sociale, ambientale e politico. Ne è esempio quello che ancora oggi rimane uno dei testi di bioetica più diffusi, Principi di etica biomedica, di Tom L. Beauchamp e James F. Childress. Per ovviare sia all'identità cerebrale che a quella spirituale, forse bisognerebbe puntare l'attenzione sulla connessione stessa, considerarla non più soltanto come mezzo per un fine che stabilisce l'identità dell'umano. Forse è giunto il momento di pensare l'umano al di là e al di qua dell'identificabilità biologica o mentale. Forse è giunta l'ora di pensare e abitare quel mezzo che i collegamenti stessi ci mostrano. Ad esempio, va in questa direzione, tra l'altro basandosi su un dato che dovrebbe essere ovvio e cioè la dipendenza dei figli dalla madre, Il pensiero materno di Sarah Ruddick, oppure l'idea relazionale dell'autonomia della filosofa femminista Anne Donchin. | << | < | > | >> |Pagina 135Nel 1992, quando veniva ristampato a più di trent'anni dalla prima edizione, Le meraviglie del possibile. Antologia della fantascienza (a cura di Sergio Solmi e Carlo Fruttero) era già considerato un libro di culto per gli intenditori del genere in Italia. Nella prefazione che apre anche l'ultima uscita del volume, Fruttero dà conto di questo fatto mettendo in guardia il lettore dal non indulgere sulle classificazioni che vogliono definire troppo specificamente gli elementi che ne hanno determinato l'evoluzione. Certo, di acqua sotto i ponti ne è passata dal 1959 quando l'antologia fu pubblicata la prima volta e dalla nascita, l'anno successivo, di Urania la collana di riferimento della fantascienza in Italia. Oltre alle ristampe delle Meraviglie del possibile, altre raccolte hanno fatto seguito a quella prima di Solmi e Fruttero: Il secondo libro della fantascienza, Il giardino del tempo, Il quarto libro della fantascienza. Nel corso degli anni in Italia il genere fantascientifico è venuto allargando il suo già consolidato campo anche nel cinema, nei fumetti, nelle serie televisive, nei viedogames e con internet in un universo elettronico virtuale che ne ha ulteriormente cambiato e rilanciato le possibilità espressive. E tuttavia, nonostante se ne possano ricostruire il percorso ed elencare le tipologie, interpretando il suggerimento di Fruttero si dovrebbe considerare la fantascienza come se fosse senza storia perché essa è un genere che fa proprio del tempo storico la materia principale sulla quale lavorare. Anche per la capacità di dilatare o ristringere il tempo e lo spazio della realtà, la fantascienza ha sempre avuto una naturale dimensione filosofica oltre che inventiva. Il titolo aristotelico che Solmi aveva coniato per questa raccolta, Le meraviglie del possibile, vuole sottolineare proprio tale aspetto e in particolare l'emozione filosofica della stupore che si prova quando immaginiamo quello che può e possiamo essere a partire da quello che è e siamo. Presentati con questa chiave di lettura, i racconti di Wells, Sheckley, Dick, Bradbury, Matheson, Asimov e altri accentuano la loro attitudine a essere al contempo contemporanei e inattuali, utopici e distopici. Anche quando non c'è un'esplicita intenzione, queste storie vogliono far toccare all'immaginazione una dimensione etica e politica. In un certo senso, non possono evitare di farlo. E il motivo principale di ciò è perché non considerano la scienza e la tecnologia come operatori neutri al di là della scelta etica e della decisione politica.
Se una differenza va rilevata fra l'antologia di Solmi e Fruttero e l'oggi
forse questa può essere trovata nella sempre più diffusa idea o ideologia
della neutralità scientifica e tecnologica. In particolare quella neutralità
accompagnata alla collateralità esclusiva al mercato di quelle biotecnologie
informate a criteri fatti passare come dati di fatto indiscutibili quali
efficienza, rapidità, emergenza, rischio e sicurezza individuali che vogliono
sempre più convincerci di passare dalla meraviglia della possibilità alla
possibilità della meraviglia. Vogliono cioè rovesciare e far coincidere ciò
che è con ciò che può essere, non lasciare quello spazio/tempo intermedio
dove si articolano l'etica e la politica – o dare queste già per decise in
un processo inarrestabile che possiamo o dovremmo solo prevenire spinti dalla
paura. In tal senso, non solo nell'immaginare futuri possibili, ma
soprattutto per capire quali altre possibilità abbiamo già nel presente, la
fantascienza continua a giocare un ruolo culturale cruciale.
|