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| << | < | > | >> |IndiceRichard Powers Introduzione 9 Aeroplani Denis Johnson Casa di cura "Beverly" 15 Junot Díaz Edison, New jersey 34 Edward P. Jones Marie 52 Alice Munro La Catena di Preghiera 72 Karl Iagnemma Come equazioni d'amore 100 Yiyun Li Immortale 127 Helen Schulman Il revisionista 155 Philip Roth Epstein 177 Treni Raymond Carver Perché non ballate? 209 T. Coraghessan Boyle Greasy Lake 216 William Maxwell I ragazzi candidi 231 Joy Williams Marabù 239 Vijay Seshadri Ancora di salvezza 246 Lydia Davis Pezzo a pezzo 253 Vjaceslav Pjetzuch Killer Miller 262 J.G. Ballard L'indice 269 Ira Sadoff Sette romances 278 Joyce Carol Oates Nairobi 287 V.S. Naipaul Mia zia Denti d'Oro 297 Ascensori Richard Wilbur Piccola Commedia 311 Stuart Dybek Caprimulgo 314 Robert Pinsky Desideri immortali 317 Paul Hoover A Berlino 319 A.R. Ammons Da "Strip" 320 Patricia Storace Natura morta 324 Heather McHugh Questa è la vita 326 Sharon Olds Dodici anni 328 Albert Goldbarth Sonetto al litio 330 James Lasdun Primi cadaveri 331 William S. Burroughs Il gatto in noi 333 Deborah Warren Aeroplano 334 X.J. Kennedy In un bar importante a Secaucus un giorno 336 Jim Carroll Eroina 339 Philip Larkin Riferimento precedente 342 Lucy Grealy Decimo padiglione 344 Ben Sonnenberg La piega 347 Suji Kwock Kim Il giardino della comunità coreana nel Queens 350 Cari Phillips Di quella città, il cuore 354 Agha Shahid Ali Il Purse-Seiner Atlantis 357 Lawrence Raab Perché nei film piove spesso 360 C.K. Williams Dalla mia finestra 362 Jamaica Kincaid Cosa ho fatto ultimamente 366 Billy Collins Sul decimo compleanno 371 Sale d'attesa Charles D'Ambrosio Casa in vendita 375 Rick Moody La Villa sulla Collina 415 Ethan Canin Il ladro del palazzo 469 Gli scrittori 529 Note 537 |
| << | < | > | >> |Pagina 9IntroduzioneViviamo in un'epidemia, nel bel mezzo di uno di quei virus che abbiamo disseminato ovunque, quasi senza accorgercene. Eppure ci siamo adattati così bene che sembra essere con noi da sempre. Ci viviamo immersi, non avvertendone quasi più i sintomi. Come molte piaghe, questa è iatrogena, indotta dalle medicine. I nostri strumenti più puliti hanno prodotto una malattia peggiore di quella che curano, infettandoci con il contagio del tempo reale. Nel tempo reale, ogni transazione quotidiana è sul listino del cambio globale. Degli sconosciuti a cui siamo inestricabilmente collegati comprano e vendono futures su tutto ciò che facciamo o non riusciamo a fare. In tempo reale, perdiamo in continuazione il valore di immani ricchezze in opportunità sprecate. Nel tempo reale ogni secondo conta. Ogni minuto deve essere ottimizzato. Dal momento che non possiamo fermare gli attimi fuggenti, abbiamo le nostre macchine che ci offrono una seconda scelta: due momenti ammassati l'uno sull'altro. Lo schermo frazionato. Esecuzione contemporanea di più programmi. Invio di messaggi vocali wireless. Flussi Rss. Film nel film. Non dobbiamo farci mancare nulla. Di fatto, non possiamo. Nel tempo reale, ogni piacere e ogni dolore vengono espressi in pubblico. Le nostre paure più intime vengono messe nei blog e commentate da una comunità in tempo reale un migliaio di volte al giorno, accessibili in qualsiasi momento da qualunque parte, almeno per adesso. Ogni cosa su cui mettiamo mano è giudicata collettivamente in tempo reale, le stelle degli utenti di Amazon continuamente aggiornate. Restiamo intrappolati in ogni loop, informati su qualsiasi sviluppo: sul film dell'anno, sul disco del mese, sulla personalità del giorno, sullo scandalo del minuto. Il tempo reale garantisce la nostra perenne raggiungibilità, il nostro essere sempre aggiornati, sempre immersi nell'immagine del mondo che si schiude davanti a noi, mai soli, mai fuori dalla corrente in aumento di dati che ci sospinge ancora più giù verso valle. In tempo reale, viviamo in due menti, in tre tempi verbali e in quattro continenti allo stesso momento, e ricompriamo i frammenti persi nel transito con i punti frequent flyer. In breve, siamo diventati così bravi a comandare il tempo che i nanosecondi adesso ci pesano in mano. Eppure, il tempo resta e noi ce ne andiamo. Roberto Calasso: "È forse un preludio all'estinzione? Solo in apparenza. Perché nel frattempo tutte le potenze del culto sono migrate in un solo atto, immobile e solitario: quello del leggere". La lettura potrebbe essere l'ultimo comportamento privato che non sia patologico né perseguibile. È di certo l'ultimo rifugio dall'epidemia del tempo reale. Perché la corrente della narrativa esonda dagli argini del reale. Il racconto denuda il lettore, tenendolo in un luogo che il tempo non può raggiungere. Il potere di un libro sta nella sua capacità di cancellarci, di espandersi o contrarsi senza limite, di girarsi intorno senza inizio né fine, di sfidare i nostri orari immaginari e lasciarci spogli per concederci scatti più essenziali. Le pagine che leggiamo sono un non-tempo, e scorrono molto lontano dalla pubblica arena. Fin tanto che rimaniamo lì, l' adesso si rivela la più audace delle invenzioni. Quanta fretta ha il tempo reale? Chiaramente, va avanti un secondo alla volta. Qual è la velocità del tempo di un libro? Immaginiamo che sia come comprare rupie al mercato nero: stabilite voi il vostro tasso di cambio. T.E. Lawrence: "Lo sto rileggendo con lenta e deliberata noncuranza". Quanto dura un racconto? So che ce n'è uno in cui una partita a carte dura più di un ergastolo. E un altro, invece, in cui la guerra dei Cent'anni si svolge prima dell'arrivo dell'insalata. Dentro un libro, ci ricordiamo che siamo nati sapendo che il tempo esiste non per usarlo, ma per rifiutarlo, non per metterlo a frutto ma per lasciare che vada perso. Quanto dura una corsa in ascensore? Dipende da cosa leggerete salendo. Allora come vorreste che venissero ordinati i vostri racconti? Di certo non secondo l'uso, non per importanza, non per la loro commerciabilità, non per il loro valore netto attuale. I racconti si dispongono sulla base del tempo che si ha per leggerli: sembra una cosa inutile? Provate a pensare al Corano, con i suoi capitoli sistemati per lunghezza decrescente, da quelli che durano centinaia di versetti alle preghiere di due o tre righe: "Per ogni profezia c'è un tempo stabilito, e alla fine lo saprete". Perché quindi non ordinare i racconti secondo il tempo a disposizione? Secondo quella quantità di tempo che potreste rubare alla corrente e farla comunque franca? Proust: "Basta che un rumore, un odore, già udito o respirato, lo siano di nuovo, a un tempo nel presente e nel passato, reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti, perché subito l'essenza permanente e ordinariamente nascosta delle cose venga liberata, e perché il nostro vero 'io', che talvolta sembrava morto da un pezzo, ma che non lo era interamente, si desti, si animi". Leggiamo per fuggire – anche solo per poco – la trappola del tempo reale, e poi per tornare e riconoscere – anche solo per poco – i tempi in cui siamo intrappolati. E per un istante, almeno, il tempo non scorre, ma è. Arrivi a quell'ultima frase, e alzi lo sguardo: Humbert Humbert è nel sedile del treno davanti a te. Charles Bovary ti sta accanto nella sala d'aspetto dell'ospedale. La Belle Dame Sans Merci ti guarda mentre le porte scorrevoli si aprono e tu scendi al tuo piano. Richard Powers | << | < | > | >> |Pagina 72Alice Munro
La Catena di Preghiera
Trudy lanciò una brocca dall'altra parte della stanza. Non raggiunse il muro opposto, non fece male a nessuno, neppure si ruppe. Era la brocca senza manico, color cemento, con delle striature marroni, ruvida come carta vetrata, che Dan aveva fatto l'inverno in cui aveva seguito delle lezioni di ceramica. Aveva fatto sei tazzine senza manico nello stesso stile. La brocca e le tazzine dovevano essere per il sakè, che però il negozio di liquori locale non vendeva. Una volta l'avevano riportato da un viaggio, ma non gli era piaciuto. Quindi la brocca fatta da Dan se ne sta sul ripiano più alto della cucina, e contiene vari oggetti preziosi. La fede di matrimonio di Trudy e il suo anello di fidanzamento, la medaglia vinta da Robin in terza media, una collana a due fili di ambra nera che apparteneva alla madre di Dan e che era stata lasciata a Robin. Trudy non le permetteva ancora di portarla. Trudy tornò dal lavoro un po' dopo mezzanotte, entrò in casa al buio. Era accesa solo la lucetta della cucina – lei e Robin la lasciavano sempre accesa. A Trudy non ne servivano altre. Salì su una sedia senza neppure posare la borsa, e tirò giù la brocca, tastandovi dentro. Non c'era. Chiaro. Lo sapeva che non ci sarebbe stata. Andò per la casa immersa nel buio fino alla camera di Robin, con la borsa ancora al braccio, la brocca in mano. Accese la plafoniera al soffitto. Robin mugugnò, si girò tirandosi il cuscino sulla testa, facendo finta di dormire. "La collana di tua nonna", disse Trudy. "Perché l'hai fatto? Sei pazza?" Robin simulò un gemito assonnato. Sembrava che tutti i vestiti che possedeva, vecchi e nuovi, puliti e sporchi, fossero sparsi sul pavimento, sulla sedia, sulla scrivania, sul cassettone, persino sul letto. Sul muro c'era un enorme manifesto con un ippopotamo, con sotto le parole "Perché sono nato così bello?", e un altro che mostrava Terry Fox che correva su un'autostrada piovosa, seguito da un corteo intero di macchine. Bicchieri sporchi, confezioni vuote di yogurt, appunti di scuola, un Tampax ancora nel suo involucro, il serpente e la tigre di pezza che Robin aveva da prima di andare a scuola, un collage di fotografie del suo gatto, Sausage, che era stato investito da una macchina due anni prima. Coccarde rosse e blu che aveva vinto per gli ostacoli, la corsa o il basket. "Rispondimi!", esclamò Trudy. "Dimmi perché l'hai fatto!" Lanciò la brocca. Ma era più pesante di quanto avesse creduto, oppure aveva perso convinzione al momento di tirarla, perché non colpì la parete, cadde sul tappeto accanto al cassettone, rotolò per terra, intatta. Mi hai tirato una brocca quella volta. Avresti potuto uccidermi. Non a te. Non l'ho tirata a te.
Avresti potuto uccidermi.
A riprova del fatto che Robin stava facendo finta di dormire: Saltò su spaventata, ma non era quello spavento vacuo di chi dorme. Sembrava atterrita, ma sotto quell'aria di terrore infantile ce n'era un'altra – testarda, calcolatrice, sprezzante. "Era così bella. Ed era di valore. Apparteneva a tua nonna. "Pensavo che appartenesse a me", replicò Robin. "Quella ragazza non era neppure tua amica. Cristo, stamattina non hai avuto neppure una buona parola per lei."
"Tu non sai chi è mia amica!" Il viso di Robin diventò
di un rosa acceso e gli occhi le si riempirono di lacrime,
ma la sua espressione sdegnosa, ostinata, non cambiò.
"La conoscevo. Ci parlavo. Quindi vattene!"
Trudy lavora alla Casa per adulti mentalmente handicappati. Poche persone la chiamano così. I più anziani dicono ancora la Casa delle signorine Weir, mentre altri, fra cui Robin e presumibilmente la maggior parte di quelli della sua età, la chiamavano la Casa degli idioti. La casa adesso ha una rampa per le sedie a rotelle, perché chi ha un handicap mentale potrebbe anche essere fisicamente infermo, e ha una piscina nel giardino sul retro, fonte di varie discussioni quando venne installata a spese dei contribuenti. Per il resto la casa ha l'aspetto che ha sempre avuto: le pareti di legno bianco, i fregi verde scuro sui frontoni, il tetto spiovente e la veranda scura sul lato con le zanzariere, e il prato alto sul davanti ombreggiato da teneri aceri. Questo mese Trudy ha il turno dalle quattro a mezzanotte. Ieri pomeriggio ha parcheggiato la macchina sul davanti e ha percorso il vialetto a piedi, pensando a quanto fosse carina quella casa, pacifica, come nei giorni delle signorine Weir che dovevano aver servito tè freddo e letto i libri della biblioteca, o giocato a croquet, qualunque cosa la gente facesse allora. C'è sempre qualche notizia, baruffe o eccitazione, quando si entra. Gli operai sono venuti ad aggiustare la piscina ma non ci sono riusciti, e sono andati via di nuovo. E la piscina non è ancora stata sistemata. "Non ci serve a niente, l'estate sta per finire", disse Josephine. "Non è nemmeno metà giugno, e tu dici che l'estate sta per finire", ribatté Kelvin. "Pensa prima di parlare. Hai sentito della ragazzina che è stata ammazzata, là in campagna?", domandò a Trudy. Trudy aveva iniziato a mescolare due dosi di limonata congelata, una rosa e una semplice. Quando lui disse questo, lei schiacciò il cucchiaio con talmente tanta forza su quel pezzo ghiacciato che un po' di liquido fuoriuscì. "Come, Kelvin?" La spaventava sentire che una ragazza era stata trascinata al bordo di una strada di campagna, stuprata nei boschi, strangolata, picchiata, lasciata lì. Robin va sempre a correre sulle strade di campagna, con i suoi pantaloncini [...] | << | < | > | >> |Pagina 177Philip Roth
Epstein
Michael, l'ospite del fine settimana, doveva passare la notte in uno dei letti gemelli nella vecchia stanza di Herbie, dove le fotografie del baseball erano ancora attaccate al muro. Lou Epstein dormiva con sua moglie nella camera con il letto spinto in diagonale. La stanza di sua figlia Sheila era vuota; era a un incontro con il suo fidanzato, il cantante folk. Nell'angolo della sua stanza un orso di pelouche della sua infanzia era in equilibrio sul sedere, con una spilla "Vota socialista" attaccata all'orecchio sinistro; sulle mensole, dove una volta i volumi di Louisa May Alcott raccoglievano la polvere, adesso erano tenute le opere di Howard Fast. La casa era silenziosa. L'unica luce accesa era al piano terreno nella camera da pranzo dove le candele shabu brillavano nei loro candelieri alti e dorati e la candela jahrzeit di Herbie tremolava nel suo bicchiere. Epstein guardò il soffitto buio di camera sua e lasciò che la testa che aveva pulsato per tutta la giornata si svuotasse per un attimo. Sua moglie Goldie respirava affannosamente accanto a lui, come se soffrisse di una bronchite eterna. Dieci minuti prima si era spogliata e lui aveva guardato mentre si faceva passare la camicia da notte bianca dalla testa, sopra i seni che si erano incanalati giù verso la vita, sopra il sedere come un mantice, le cosce e i polpacci venati di blu come una mappa stradale. Ciò che una volta poteva venire pizzicato, ciò che una volta era piccolo e sodo, adesso poteva essere spinto e tirato. Tutto pendeva. Aveva chiuso gli occhi mentre lei si preparava per dormire, e aveva cercato di ricordare la Goldie del 1927, il Lou Epstein del 1927. Si girò sullo stomaco appoggiandosi contro la schiena di lei, ricordando, e spostò un braccio per prenderle i seni. I capezzoli andavano in giù come quelli di una mucca. Si voltò di nuovo verso il suo lato. Una chiave girò nella porta principale – si sentì sussurrare, poi la porta si chiuse gentilmente. Epstein si tese e aspettò i rumori – non ci voleva molto a quei socialisti. La notte il rumore dovuto all'aprirsi e richiudersi delle zip bastava a tenere sveglio un uomo. "Cosa stanno facendo laggiù?", aveva urlato a sua moglie lo scorso venerdì notte. "Si provano i vestiti?" Adesso, ancora una volta, aspettò. Non che fosse contrario ai loro giochi. Non era un puritano, credeva che i giovani dovessero divertirsi. Non era stato giovane anche lui? Ma nel 1927 lui e sua moglie erano belli. Lou Epstein non aveva mai somigliato a quel pigro furbacchione senza mento che si guadagnava la vita cantando canzoni folk in un saloon, e che una volta aveva chiesto a Epstein se non era stato "eccitante" vivere in un "periodo di grandi movimenti sociali" come gli anni Trenta. E sua figlia, perché non era cresciuta e diventata come – come quella ragazza dall'altra parte della strada con cui era uscito Michael, quella il cui padre era morto da poco. Ecco, quella era una bella ragazza. Non la sua Sheila invece. Cosa era accaduto, si chiese, cosa era accaduto a quella piccolina dalla pelle rosa? In che anno, in che mese quelle caviglie magre erano diventate grosse come ceppi, il colorito di pesca e panna trasformato in acne? Quella graziosa bambina era adesso una donna di ventitré anni con "una coscienza sociale"! E che coscienza, pensò. Andava tutto il giorno in cerca di picchetti di operai in sciopero per unirvisi così che la sera poteva tornare a casa e mangiare come un cavallo... Infatti, che lei e il suo strimpellatore di chitarra si toccassero le parti innominabili sembrava peggiore di un peccato – era disgustoso. Quando Epstein si girò nel letto e sentì il loro ansimare, il rumore delle zip gli risuonò nelle orecchie come il tuono. Zip! Lo stavano facendo. Li avrebbe ignorati, avrebbe pensato ai suoi altri problemi. Gli affari... mancava un anno alla pensione che aveva pianificato, ma non aveva un erede per la Ditta Epstein Sacchetti di carta. Aveva costruito quella ditta dalle fondamenta, sofferto e sanguinato durante la Depressione e Roosevelt, e solo, alla fine, con la guerra e Eisenhower la vide avere successo. Il pensiero di uno sconosciuto a dirigerla gli dava la nausea. Ma cosa si poteva fare? Herbie, che avrebbe compiuto ventotto anni, era morto di poliomielite quando ne aveva undici. E Sheila, la sua ultima speranza, aveva scelto come promesso sposo un uomo pigro. Cosa poteva fare? Un uomo di cinquantanove anni poteva improvvisamente mettersi a produrre eredi? Zip! Pant-pant-pant.! Ahh! Chiuse le orecchie e la mente, con più forza. Cercò di ricordare dei fatti e vi si immerse. Per esempio, la cena... Si era sorpreso nel trovare, tornando a casa dal negozio, il soldato seduto a tavola per la cena. Sorpreso perché il ragazzo, che non vedeva da dieci o dodici anni, era cresciuto con il viso degli Epstein, come avrebbe fatto suo figlio, con la piccola gobba sul naso, il mento forte, la pelle scura e una massa di lucenti capelli neri che, un giorno, sarebbero diventati grigi come le nuvole. "Guarda chi c'è", gli gridò sua moglie nel momento in cui entrò dalla porta, con lo sporco della giornata ancora sotto le unghie. "Il figlio di Sol." Il soldato si alzò di scatto dalla sedia e tese la mano. "Come stai, zio Louis?" "Un Gregory Peck", disse la moglie di Epstein, "un Monty Clift, ha tuo fratello. È qui da tre ore e ha già un appuntamento. E un gran gentiluomo..." Epstein non rispose. Il soldato rimase sugli attenti, ben dritto, come se avesse imparato la cortesia molto prima di andare nell'esercito. "Spero che non ti dispiaccia che sono arrivato all'improvviso, zio Louis. Sono stato mandato a Monmouth la settimana scorsa e papà ha insistito perché passassi a salutarvi. Ho il fine settimana libero e la zia Goldie ha detto che dovevo fermarmi...", aspettò. "Guardalo!", stava dicendo Goldie, "un principe!" "Certamente", rispose Epstein alla fine. "Resta. Come sta tuo padre?" Epstein non parlava più con suo fratello dal 1945, quando aveva rilevato la quota di Sol della ditta e lui si era trasferito a Detroit, e si erano detti male parole. "Papà sta bene", disse Michael. "Manda i suoi saluti." "Certo, anch'io mando i miei. Glielo dirai." Michael si sedette, ed Epstein capì che il ragazzo doveva pensare esattamente ciò che pensava suo padre: che Lou Epstein era un uomo rozzo il cui cuore batteva più forte solo quando pensava alla Epstein Sacchetti di carta. Quando Sheila tornò a casa si sedettero tutti a mangiare, come ai vecchi tempi. Goldie Epstein saltava su e giù, su e giù, facendo scivolare ogni portata sotto il loro naso nell'istante in cui avevano finito quella precedente. "Michael", disse come parlando di un fatto storico, "Michael, da piccolo mangiavi molto poco. Tua sorella Ruthie, che Dio la benedica, mangiava bene. Non una buona forchetta, però mangiava bene." Per la prima volta Epstein ricordò la sua nipotina Ruthie, una bellezza dai capelli scuri, una Ruth della Bibbia. Guardò sua figlia e sentì che sua moglie continuava. "No, Ruthie non era una gran mangiona. Però non era schizzinosa. Il nostro Herbie, che la sua anima riposi in pace, era schizzinoso..." Goldie guardò suo marito come se lui potesse ricordare con precisione a quale categoria di mangiatore il suo amato figlio aveva appartenuto; lui fissò il suo arrosto in pentola.
"Ma", riprese Goldie, "che tu possa vivere in buona salute, Michael, sei
diventato una buona forchetta..."
Ahhhh! Ahhh! I rumori spezzarono in due i ricordi di Epstein. Aaahhh! Bastava così. Si alzò dal letto, si assicurò di avere il pigiama addosso, e scese verso il salotto. Avrebbe detto loro cosa pensava. Avrebbe detto loro che – che il 1927 non era il 1957! No, quello glielo avrebbero detto loro. Però in salotto non c'erano Sheila e il cantante folk. | << | < | > | >> |Pagina 209Raymond Carver
Perché non ballate?
In cucina, si versò un altro drink e guardò i mobili della camera da letto nel giardino davanti alla casa. Il materasso era senza lenzuola e le lenzuola a strisce confetto erano accanto a due cuscini sullo chiffonnier. A parte quello, le cose avevano per la maggior parte lo stesso aspetto di quando erano nella stanza — comodino e lampada per leggere al suo lato del letto, comodino e lampada per leggere al lato di lei. Il lato di lui, il lato di lei. Ci meditò sopra mentre sorseggiava il whisky. Lo chiffonnier era a poca distanza dai piedi del letto. Quella mattina lui aveva svuotato i cassetti in scatoloni di cartone, che erano in salotto. Un calorifero portatile era accanto allo chiffonnier. Una sedia di vimini con un cuscino in stile era ai piedi del letto. Il set da cucina in alluminio lucidato occupava una parte del vialetto. Un panno giallo di mussolina, troppo grande, un regalo, copriva il tavolo e pendeva giù dai lati. Sul tavolo c'era una felce in vaso, insieme a una scatola con l'argenteria e un giradischi, regali anche quelli. Una televisione modello console era appoggiata a un tavolinetto, a pochi passi da quello c'erano un divano, una poltrona e una lampada a piede. La scrivania era spinta contro la porta del garage. Sopra c'erano degli utensili, insieme a un orologio da muro e a due stampe incorniciate. Nel vialetto c'era anche uno scatolone con le tazze, i bicchieri e i piatti, ogni oggetto era incartato nel giornale. Quel mattino aveva ripulito gli armadi e, tranne che per i tre scatoloni in salotto, tutta la roba era fuori di casa. Vi aveva portato una prolunga e tutto era connesso. Le cose funzionavano, non diversamente da quando erano dentro. Ogni tanto una macchina rallentava e la gente guardava. Ma nessuno si fermava.
Gli venne in mente che neppure lui l'avrebbe fatto.
"Deve essere un mercatino", disse la ragazza al ragazzo. Quella ragazza e quel ragazzo stavano ammobiliando un appartamentino. "Vediamo quanto chiedono per il letto", disse la ragazza. "E per la tv", aggiunse il ragazzo. Il ragazzo svoltò sul vialetto e si fermò davanti al tavolo di cucina. Scesero dalla macchina e iniziarono a esaminare le cose, la ragazza toccò la tovaglia di mussolina, il ragazzo infilò nella presa il frullatore e girò la manopola su TRITA, la ragazza prese uno scaldavivande, il ragazzo accese la televisione e la sintonizzò. Si sedette sul divano per guardarla. Accese una sigaretta, si guardò intorno e buttò il fiammifero nell'erba. La ragazza si sedette sul letto. Si tolse le scarpe e si stese. Pensò di vedere la stella della sera. "Vieni qui, Jack. Prova questo letto. Porta uno di quei cuscini", disse. "Com'è?", domandò lui. "Provalo", rispose lei. Lui si guardò intorno. La casa era buia. "Mi sento strano", disse. "Meglio vedere se in casa c'è qualcuno." Lei saltò sul letto. "Provalo prima", disse. Lui si stese e si mise il cuscino sotto la testa. "Come ti sembra?", domandò la ragazza. "Rigido", rispose lui. Lei si girò sul fianco e gli posò una mano sul viso. "Baciami", disse. "Alziamoci", disse lui. "Baciami", ripeté lei. Poi chiuse gli occhi. Lo abbracciò. Lui disse: "Vado a vedere se c'è qualcuno in casa". Invece si drizzò a sedere e rimase dov'era, facendo finta di guardare la televisione. Le luci si accesero più in su e più in giù lungo la strada. "Non sarebbe buffo se", la ragazza disse e sorrise, senza finire. Il ragazzo rise, ma senza una buona ragione. Senza una buona ragione, accese la lampada da lettura. La ragazza scacciò una zanzara, allora il ragazzo si alzò e si infilò la camicia nei pantaloni. "Vado a vedere se c'è qualcuno in casa", disse. "Non lo credo. Ma se c'è, vedrò quali sono i prezzi." "Qualsiasi cosa chiedano, offri dieci dollari in meno. È sempre una buona idea', aggiunse lei. "E inoltre, devono essere disperati o qualcosa del genere." "È una tv piuttosto buona", disse il ragazzo. "Domanda quanto costa", disse la ragazza. L'uomo arrivò dal marciapiede sul vialetto con una borsa della spesa. Aveva dei panini, della birra e del whisky. Vide la macchina sul piazzale e la ragazza sul letto. Vide la televisione accesa e il ragazzo sulla veranda. "Salve", disse l'uomo alla ragazza. "Hai trovato il letto. Bene." "Salve", la ragazza salutò e si alzò. "Lo stavo provando." Carezzò il letto. "È abbastanza buono." "È un buon letto", replicò l'uomo, posò il sacchetto per terra e ne prese la birra e il whisky. "Pensavamo che non ci fosse nessuno", disse il ragazzo. "Siamo interessati al letto e forse alla tv. Magari alla scrivania. Quanto vuole per il letto?" "Pensavo cinquanta dollari", rispose l'uomo. "Ne accetterebbe quaranta?", domandò la ragazza. "Okay, quaranta vanno bene", rispose l'uomo. Prese un bicchiere dallo scatolone. Vi tolse il giornale. Ruppe il sigillo del whisky. "E per la tv?", domandò il ragazzo. "Venticinque." "Ne accetterebbe quindici?", domandò la ragazza. "Quindici vanno bene. Potrebbero andare bene", replicò l'uomo. La ragazza guardò il ragazzo. "Ragazzi, vorrete un drink", disse l'uomo. "I bicchieri sono nello scatolone. Ora mi siedo. Mi siedo sul divano." L'uomo sedette sul divano, si appoggiò all'indietro, e fissò il ragazzo e la ragazza. | << | < | > | >> |Pagina 216T. Coraghessan Boyle
Greasy Lake
È a circa un miglio, sul lato buio della Route 88. Bruce Springsteen C'è stato un tempo in cui la cortesia e le maniere accattivanti diventarono fuori moda, quando andava bene essere cattivi, quando si coltivava la decadenza come un gusto. Allora eravamo tutti personaggi pericolosi. Portavamo delle giacche di pelle strappata, ci trascinavamo in giro con gli stuzzicadenti in bocca, sniffavamo la colla e l'etere e quella che qualcuno sosteneva fosse cocaina. Quando portavamo la lamentosa giardinetta dei nostri genitori sulla strada, lasciavamo una striscia di gomma lunga mezzo isolato. Bevevamo gin e succo d'uva, Tango, Thunderbird e Bali Hai. Avevamo diciannove anni. Eravamo cattivi. Leggevamo André Gide e studiavamo delle pose elaborate per mostrare che non ce ne fregava un cazzo di niente. La notte andavamo a Greasy Lake. Attraverso il centro della città, su per la strada principale, oltre le case popolari e i centri commerciali, i lampioni lasciavano il posto alla sottile e continua illuminazione dei fari, gli alberi che affollavano l'asfalto in un muro nero e ininterrotto: era quella la strada per Greasy Lake. Gli indiani l'avevano chiamato Wakan, un riferimento alla limpidezza delle sue acque. Adesso era fetido e limaccioso, gli argini di fango brillavano di vetri rotti, lattine di birra buttate via e resti carbonizzati di falò. C'era un'unica isola devastata a un centinaio di metri dalla riva, talmente priva di verde da sembrare che l'Air Force vi avesse sferrato un attacco a bassa quota. Andavamo al lago perché ci andavano tutti, perché volevamo annusare il ricco odore delle possibilità, guardare una ragazza che si levava i vestiti e si buttava nel buio suppurante, bere birra, fumare erba, gridare alle stelle, assaporare l'incongruo ruggito a gola spiegata del rock and roll contro il primordiale sussurro delle rane e dei grilli. Era la natura. Una notte mi trovai là. Tardi, in compagnia di due personaggi pericolosi. Digby portava una stella d'oro all'orecchio destro e permetteva a suo padre di pagargli la retta a Cornell; Jeff stava pensando di smettere di studiare per diventare un pittore/musicista/proprietario di una rivendita di articoli per il consumo di stupefacenti. Erano entrambi esperti in buone maniere, rapidi con il sarcasmo, capaci di guidare una Ford a centoquaranta all'ora con tremendi scossoni su una strada asfaltata tutta buche mentre si rollavano una canna compatta come un lecca-lecca. Potevano appoggiarsi contro una pila di altoparlanti rombanti e salutare chiunque o buttarsi sulla pista da ballo come se le loro giunture fossero di gomma. Erano abili e svelti e portavano i loro occhiali a specchio a colazione e a cena, nella doccia, negli armadi e nei sotterranei. In breve, erano cattivi. Guidavo io. Digby colpiva il lunotto e urlava con Toots & the Maytals mentre Jeff teneva la testa fuori dal finestrino e macchiava di vomito la fiancata della Bel Air di mia madre. Era l'inizio di giugno, l'aria era dolce come una mano sulla guancia, la terza notte delle vacanze estive. Le prime due notti eravamo stati fuori fino all'alba, cercando qualcosa che non avevamo mai trovato. In quella, la terza notte, avevamo perlustrato la strada principale sessantasette volte, eravamo entrati e usciti da ogni bar e club che ci era venuto in mente nel raggio di trenta chilometri, ci eravamo fermati due volte per prendere pollo da portare via e hamburger da quaranta centesimi, avevamo dibattuto la questione se andare a una festa a casa di una ragazza che conosceva la sorella di Jeff, e avevamo tirato due dozzine di uova contro le cassette delle lettere e gli autostoppisti. Erano le due di notte, i bar stavano chiudendo. Non c'era niente da fare se non portare una bottiglia di gin al limone su a Greasy Lake. | << | < | > | >> |Pagina 269J.G. Ballard
L'indice
Nota del curatore. Da abbondanti prove sembra chiaro che il testo stampato di seguito sia l'indice della non pubblicata e forse soppressa autobiografia di un uomo che avrebbe potuto rappresentare una delle figure più notevoli del ventesimo secolo. Eppure pubblicamente della sua esistenza non è noto nulla, sebbene la sua vita e la sua opera abbiano esercitato una profonda influenza sugli eventi degli ultimi cinquant'anni. Dottore e filosofo, uomo d'azione e patrono delle arti, pretendente al trono inglese e fondatore di una nuova religione, Henry Rhodes Hamilton era evidentemente intimo degli uomini e delle donne più grandi della nostra epoca. Dopo la Seconda guerra mondiale fondò un nuovo movimento di rigenerazione spirituale, ma lo scandalo privato e la preoccupazione pubblica per la sua crescente megalomania, culminata nella sua proclamazione come nuova divinità, sembra averlo condotto alla caduta. Incarcerato in un istituto governativo non specificato, presumibilmente passò i suoi ultimi anni scrivendo la propria autobiografia di cui questo indice è l'unico frammento sopravvissuto.
Rimane un mistero sostanziale. È plausibile che tutte
le tracce delle sue attività siano state cancellate dai nostri
documenti di quel periodo? L'autobiografia soppressa in sé è un
roman à clef
nascosto, in cui l'eroe della narrazione espone le identità segrete dei suoi
contemporanei storici? E qual è il vero ruolo di colui che scrive l'indice,
chiaramente un amico intimo dello scrittore, che per primo suggerì che iniziasse
la sua autobiografia? Questa figura ambigua e oscura ha fatto il passo inusuale
di indicizzarsi nel suo proprio indice. Forse l'intera compilazione non è nulla
di più di una finzione dell'immaginazione
troppo eccitata di qualche lessicografo impazzito. In alternativa, l'indice
potrebbe essere del tutto genuino, e
l'unico sguardo che abbiamo su un mondo nascosto a noi
da una gigantesca cospirazione, di cui Henry Rhodes Hamilton è la principale
vittima.
| << | < | > | >> |Pagina 297V.S. Naipaul
Mia zia Denti d'Oro
Non ho mai saputo il suo vero nome ed è abbastanza verosimile che ne avesse uno, sebbene non l'abbia mai sentita chiamare altro che Denti d'Oro. E davvero li aveva, i denti d'oro. Sedici. Si era sposata presto, e bene, e poco dopo il suo matrimonio aveva cambiato i suoi denti perfettamente sani per altri d'oro, annunciando così al mondo che suo marito era un uomo ricco. Anche senza i denti d'oro mia zia sarebbe stata notevole. Era bassa, un metro e mezzo a malapena, ed era grassa, orribilmente, mostruosamente grassa. Vedendo soltanto la sua silhouette sarebbe stato difficile capire se era di faccia o di profilo. Mangiava poco e pregava molto. Poiché la sua famiglia era indù, e suo marito un pundit, anche lei era indù ortodossa. Dell'induismo conosceva poco oltre alle cerimonie e ai tabù, e le bastava. Denti d'Oro vedeva Dio come Potere, e il rituale religioso come un modo di incanalare quel Potere per un grande bene pratico, il suo. Temo di poter dare l'impressione che Denti d'Oro pregasse perché voleva essere meno grassa. Il fatto era che Denti d'Oro non aveva figli, e aveva quasi quarant'anni. Era la mancanza di bambini, non il grasso, a opprimerla, e pregava perché quella maledizione le venisse tolta. Voleva provare ogni sistema – qualsiasi rituale, qualsiasi preghiera – per intrappolare e incanalare il Potere soprannaturale. Così accadde che di nascosto prese a indulgere in pratiche cristiane. In quel periodo viveva in un villaggio di campagna chiamato Cunupia, nella contea di Caroni. Là, molto tempo prima, la missione canadese aveva mosso guerra ai pagani indiani, e ne aveva salvati molti. Ma Denti d'Oro restava salda. Il ministro di Cunupia emanò la sua pietà presbiteriana su di lei; così fece il preside della scuola della missione. Tutto però invano. In nessun momento Denti d'Oro si lasciò convincere al pensiero di convertirsi. L'idea la orripilava. Suo padre ai suoi tempi era stato uno dei pundit indù più noti, e già allora la fama di suo marito come pundit, che sapeva leggere e scrivere il sanscrito, si era sparsa molto oltre Cunupia. Lei non aveva alcun dubbio che gli indù fossero le persone migliori al mondo e che l'induismo fosse una religione superiore. Voleva selezionare, modificare e incorporare eccentricità aliene nel suo culto; ma abiurare la sua fede – mai! Il presbiterianismo non era l'unico pericolo che il buon indù doveva affrontare a Cunupia. Oltre, ovviamente, all'onnipresente minaccia di un'aperta aggressione musulmana, andavano considerati i cattolici. I loro volantini erano da tutte le parti ed era difficile evitarli. In quelli, Denti d'Oro leggeva di novene e rosari, di squadre di angeli e santi. Erano cose che lei comprendeva e con le quali poteva persino trovarsi d'accordo, che la incoraggiavano a cercare oltre. Leggeva dei misteri e dei miracoli, delle penitenze e delle indulgenze. Il suo scetticismo cedeva, e lasciava spazio a un entusiasmo eccitante, sebbene riluttante. Una mattina prese il treno per la città di Chaguanas, a cinque chilometri, due stazioni e venti minuti di distanza. La chiesa di San Filippo e San Giacomo a Chaguanas si erge imponente alla fine della Caroni Savannah Road, e sebbene Denti d'Oro conoscesse bene quella città, della chiesa sapeva soltanto che aveva un orologio, al quale lei aveva rivolto lo sguardo dirigendosi alla stazione ferroviaria lì vicino. Fino ad allora era stata molto più interessata all'edificio scialbo tinteggiato di ocra sul lato opposto, che era la stazione di polizia. Entrò nel sagrato, sorpresa dalla propria temerarietà, sentendosi come un esploratore in una terra di cannibali. Con suo sollievo, la chiesa era vuota. Non era così terrificante come si era aspettata. Nelle dorature e nelle immagini e negli abiti risplendenti trovò molto che le ricordò il suo tempio indù. I suoi occhi notarono un cartello discreto: CANDELE DUE CENTESIMI L'UNA. Aprì il nodo in fondo al velo, dove teneva i soldi, ne estrasse tre centesimi, li infilò nella cassetta, prese una candela e borbottò una preghiera in indostano. Un breve momento di euforia lasciò spazio a un senso di colpa, e all'improvviso si sentì ansiosa di uscire dalla chiesa alla maggior velocità che il suo peso le consentiva. Prese un autobus per tornare a casa, e nascose la candela nel cassettone. Aveva avuto un mezzo timore che il dono braminico di suo marito per la chiaroveggenza avrebbe svelato la ragione del suo viaggio a Chaguanas. | << | < | > | >> |Pagina 333William S. Burroughs
Il gatto in noi
Il contatto animale può alterare ciò che Castaneda chiama "punti di assemblaggio". Come l'amore materno. Hollywood ci ha sbavato sopra. Andy Hardy si inginocchia accanto al letto di sua madre. Cosa c'è che non va? Un bravo ragazzo americano che prega per sua madre. Cosa c'è che non va? "Te lo dico io cosa c'è che non va, B.J. È merda. È una schifezza melensa e distrugge la verità che c'è sotto."
Qui c'è una madre foca con il cappuccio su un banco
di ghiaccio. Venti che soffiano a cinquanta chilometri
l'ora, trenta gradi sotto zero. Guarda nei suoi occhi, a fessura, gialli, fieri,
folli, tristi e disperati. Parte finale di un
pianeta segnato. Non può mentirsi, non può tirarsi addosso stracci patetici di
autoglorificazione. Eccola lì, su
quel banco di ghiaccio con il suo cucciolo. Sposta la sua
massa di duecento chili per rendere disponibile un capezzolo. Ecco il cucciolo
con la spalla lacerata da un maschio
adulto. Probabilmente non ce la farà. Devono tutte nuotare fino alla Danimarca,
a ventiquattromila chilometri
di distanza. Perché? Le foche non lo sanno. Devono andare in Danimarca. Devono
tutte andare in Danimarca.
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