Autore Laura Pennacchi
Titolo De valoribus disputandum est
SottotitoloSui valori dopo il neoliberismo
EdizioneMimesis, Milano, 2018, Teoria critica 12 , pag. 170, cop.fle., dim. 14x21x1,4 cm , Isbn 978-88-5755-297-2
LettoreMargherita Cena, 2019
Classe politica , filosofia , economia , antropologia , scienze sociali , destra-sinistra












 

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Indice


INTRODUZIONE                                                              9


CAPITOLO 1. L'ECLISSE DEI VALORI E LA CRISI DELLA DEMOCRAZIA             13

L'eclisse dei valori dalla sfera pubblica e il populismo                 13
Questione della verità e questione dei valori                            17
Dimensione valoriale, svuotamento della democrazia, ridimensionamento
    dello Stato e delle istituzioni pubbliche                            20
La discriminante destra/sinistra e la disintermediazione istituzionale   23
Riabilitazione della dimensione morale e ripoliticizzazione del mondo    26
Lo status argomentativo della discussione sui valori e l'umanesimo       28
Antropologia della mancanza e antropologia delle motivazioni superiori   31
Coestensività tra maturazione valoriale, identificazione di fini ed
    evoluzione della democrazia                                          33


CAPITOLO 2. UN DEFLAZIONISMO FILOSOFICO IN MATERIA DI VALORI
            ALLA BASE DELLO SCETTICISMO CONTEMPORANEO                    37

Il relativismo valoriale e le responsabilità della filosofia             37
11 "campo di tensioni" dell'illuminismo e i nuovi auspicabili
    "confini morali"                                                     40
L'obbligo all'agnosticismo del secolarismo liberale e
    l'intrattabilità del conflitto tra valori                            45
Un indifferentismo normativo e valoriale presente anche nel marxismo
    e nel socialismo                                                     49
Diverse posizioni di fronte al "pluralismo dei valori": Kant, Hegel
    e perfino Weber versus postmodernisti e decostruzionisti             52
Il proceduralismo "spesso" di Rawls e di Habermas                        57
La polemica antinormativa e antivaloriale del decostruzionismo e la
    sua contiguità con lo spirito denormativizzante del neoliberismo     61


CAPITOLO 3. L'ASSIMILAZIONE DEI VALORI A GUSTI E A PREFERENZE
            E IL CONNUBIO NEOLIBERISMO/POPULISMO                         67

La configurazione razionalistica mezzi/fini nella svolta
    epistemologica dell'economia neoclassica                             67
I valori assimilati a gusti e a preferenze: de gustibus et
    de valoribus non est disputandum                                     69
L'ambiguità del concetto di preferenza ("scegliere" coesiste
    con "valutare") e lo "sciocco razionale"                             71
La libertà individuale "contro" la società e il mercato come
    standard morale                                                      73
Il neoliberismo, la pulsione all'irrazionalità, la crisi                 76
La resilienza del neoliberismo, il connubio con il populismo e
    il mutismo rispetto a fini e a valori                                78
"Crisi di redditività" e "crisi di significato"                          82
Il neoliberismo è "eccesso di razionalità" o "pulsione
    all'irrazionalità"? La denormativizzazione neoliberista              84


CAPITOLO 4. IL PRIMATO DELL'ECONOMICO E L'EMARGINAZIONE DEI VALORI
            ALLA BASE DELLA "VITA OFFESA"                                89

La patologie della modernità: consumismo, narcisismo, edonismo
    come altra faccia dello sfruttamento                                 89
Generalizzazione dell'"oggettualità spettrale" della merce e
    alienazione                                                          92
Per ridiscutere il primato dell'economico non basta la critica
    della "razionalità illimitata"                                       95
I valori nella formazione delle preferenze: metaordinamenti e
    relazioni simboliche                                                 97
Razionalità in base a obbligazione, ragionevolezza, oggettività         100
L'economia e il mercato non sono sfere "libere" da norme e valori       102
Una critica del capitalismo come "forma di vita"                        105


CAPITOLO 5. PER UNA TEORIA DEI VALORI: AUTENTICITÀ, FIORITURA UMANA,
            FORME DI VITA                                               107

La categoria di "forma di vita" per un'elaborazione strutturata sui
    fini e sui valori                                                   107
L'impatto costruttivista e normativizante delle dinamiche esperienziali 110
"Agevolazione e intensificazione della vita" e autenticità              113
Soggetto in relazione, alterità, riconoscimento                         116
Privatismo come "privazione della vita pubblica", depoliticizzazione
    e mediazione istituzionale                                          120
Interiorità e autenticità esplorate dalla psicoanalisi                  124
Autotrasformazione e immaginazione                                      127
Fioritura umana e "forme di vita"                                       129


CAPITOLO 6. LA RISCOPERTA DEI VALORI E DELLO SPIRITO PROGETTUALE        133

Superare il secolarismo liberale e il deflazionismo filosofico
    sui valori                                                          133
La "forma dono" e il valore della responsabilità                        135
La demercificazione e il nuovo modello di sviluppo orientato
    da valori e fini                                                    137
Spirito progettuale e riforma del capitalismo: il New Deal
    come "storia esemplare"                                             141
Tipi di capitalismo e loro riformabilità                                144
I valori in campo anche per la questione dei "diritti di proprietà"     146
Valori per la "direzione" dell'innovazione                              149
Il valore del lavoro                                                    151
Radicalità valoriale in materia di lavoro e di eguaglianza              154
Radicalità valoriale sull'Europa e per l'Europa                         158


 

 

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INTRODUZIONE



In questo libro parto dalla contestazione dell'opinione corrente secondo cui "de gustibus, et de valoribus, non est disputandum" - un'opinione apparentemente di senso comune, in realtà basata sulla fallace equiparazione epistemologica dei "valori" a "gusti" e a "preferenze", compiuta in primo luogo dalla disciplina economica - e sostengo, al contrario, che "de valoribus disputandum est". Di qui il latino parzialmente maccheronico a cui ricorro. E di qui, per la natura interdisciplinare della materia trattata, il fatto che il libro si muove a cavallo di più discipline: la filosofia, l'economia, l'antropologia, la sociologia.

L'ostracismo dato alla discussione dei valori nella sfera pubblica, da una parte accompagna i processi di "depoliticizzazione" e "dedemocratizzazione" in atto ormai da molti anni, dall'altra è alla base del disorientamento e dello smarrimento culturali odierni, alimentanti molti fenomeni di populismo, che a loro volta, però, incorporano paradossalmente domande valoriali inevase. Al disorientamento concorrono il radicarsi dello scetticismo e del relativismo, che nega che i valori possano essere veri o falsi, e la diffusione di espressioni come "postverità", che mettono tutto sullo stesso piano. Nell'ostracismo dato ai valori quanto ha agito la latitanza, rispetto alle sue stesse origini profondamente umanistiche, del pensiero filosofico di matrice illuministica, da Heidegger alla "decostruzione" operata da Foucault e dalla sua scuola?

In effetti, il secolarismo liberale - che, con la speranza di neutralizzare le pulsioni distruttive delle guerre di religione, ha confinato le credenze metafisiche e le convinzioni assolute, dunque anche quelle valoriali, in un territorio extrapolitico e extrapubblico, nella sfera privata, operandone una sorta di privatizzazione che lega la loro apprezzabilità a uno statuto di mutismo politico - coincide con un "deflazionismo filosofico". Il secolarismo, cioè, ritenendo che le questioni poste a decisione pubblica vadano formulate solo in termini che non richiedano di fare appello agli impegni morali individuali (ritenuti per definizione inconciliabili, incomparabili, non negoziabili), induce a calare un velo di trascuratezza e di sottovalutazione su dissensi pregni di credenze significative su cosa è vero e cosa è falso, cosa è giusto e cosa è ingiusto, cosa è moralmente apprezzabile e cosa no. L'esito di questa sottrazione al discorso pubblico delle questioni valoriali si risolve in una difficoltà di loro sottoposizione all'argomentazione, all'esame critico, alla verifica razionale, al dibattito collettivo, al dialogo intercomunicativo.

L'esito può anche essere una sorta di deresponsabilizzazione delle credenze assolute (fino al limite delle aberrazioni del fondamentalismo e del terrorismo), ma anche una indifferenza, o una impotenza, di fronte al conflitto morale, filosofico, religioso. Le soluzioni secolarizzate, che pretendono di approcciare al meglio il fatto del "pluralismo dei valori", si rivelano così particolarmente vulnerabili al fatto del dissenso e del conflitto tra valori. È per queste ragioni, per rimediare a questi deficit, che con questo libro propongo di lavorare a costruire una "teoria dei valori" e un quadro razionalizzato di possibilità di "ideali" e di "fini", sottraendo i valori alla sfera privata irriflessa a cui sono stati consegnati in ottemperanza all'interdetto weberiano fatto/valore e riconsegnandoli a una possibilità di argomentazione razionale pubblica, di discernimento, di valutazione analitica, di vaglio critico, di interazione comunicativa. Tutto ciò richiede di superare la rigida nozione di "razionalità strumentale" imposta come dominante dalla disciplina economica - che oggi si pretende "scienza della natura" e non più "scienza morale e sociale", tanto più in conseguenza della lunga egemonia neoliberista - e di adottare una nozione più spessa di razionalità in termini di "ragionevolezza", carica anche di sentimenti e di passioni. Ma tutto ciò ci può anche restituire la possibilità di tornare a ragionare sulla "vita buona" - come ha cominciato a fare la terza generazione di interpreti della scuola di Francoforte - e di coglierne gli embrioni nelle idee di una rinnovata "centralità del lavoro" e della costruzione di un "nuovo umanesimo" radicato in un alternativo "modello di sviluppo", a cui affidare il rilancio dell'Europa.

Nel libro, a partire dalla considerazione delle relazioni che legano l'ostracismo dato alla discussione dei valori nella sfera pubblica e i populismi contemporanei con la loro coesistenza di vuoto valoriale e domande valoriali inevase, offro spazio ai drammi politici dei nostri giorni. Ripercorro i processi più di fondo sottostanti al relativismo e allo scetticismo odierni, il nichilismo e il decostruzionisrno e le loro implicazioni, il secolarismo liberale e il deflazionismo filosofico conseguente. Faccio risalire alla sistemazione positivista dello statuto epistemologico della disciplina economica la frattura etica/economia e alla generalizzazione del modello della "razionalità strumentale" che ne è conseguita una delle cause fondamentali dell'espulsione dei fini e dei valori dall'ambito del razionalmente tematizzabile e indagabile.

Su tali onde ricostruttive, passando per una rilettura delle tematiche della reificazione e dell'alienazione e della "vita offesa" (da Lukacs a Horkheimer e Adorno , a Marcuse , agli autori appassionati oggi a tali tematiche), discuto i nessi tra dimensione morale e dimensione politica e rileggo le problematiche dell'"autenticità riflessiva", alla ricerca delle tracce degli antecedenti di una riflessione sulle "forme di vita". "Trasformazione" è la parola chiave - per cui un'attenzione particolare è dedicata all'afflato trasformativo, valoriale e morale, del New Deal di Roosevelt - per approdare alla riproposizione dell'attualità di una trattazione esplicita e forte di "valori" e "fini". Concludo suggerendo due ricadute pratiche decisive di tutto questo percorso: la fuoriuscita del "lavoro" dall'invisibilità politica in cui lo si è lasciato precipitare e il rilancio valoriale dell'Europa.

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CAPITOLO 1
L'ECLISSE DEI VALORI
E LA CRISI DELLA DEMOCRAZIA





L'eclisse dei valori dalla sfera pubblica e il populismo


La luna dell'ipermodernità presenta più di una faccia oscura e indecifrabile. Una di queste è l' eclisse dei valori dalla sfera pubblica, in conseguenza della quale all'ossessiva ma retorica rivendicazione di un ritorno dei valori fa da pendant un assordante silenzio argomentativo raziocinante su di essi. Sembra essere arrivato alla sua definitiva imposizione un luogo comune, risalente da molto lontano, che sancisce "de gustibus non est disputandum" e che, assimilando i valori a "gusti" e a "preferenze" - dei quali, appunto, in quanto espressioni del tutto personali e private, non è possibile disputare - estende ai valori l'interdizione alla disputa e all'esame critico pubblici, da condurre in modi aperti, argomentati, razionali. Così, però, i valori, e tutte le problematiche ad essi connessi, cessano di essere trattati - cioè discussi, esaminati, vagliati, confrontati - o lo sono solo nella sfera privata in cui sono stati confinati, pertanto in forme necessariamente parziali e insufficienti. Tuttavia, essi non cessano di operare, ma, non trattati pubblicamente e discorsivamente, ribollono in calderoni fumanti che periodicamente esplodono in conflitti incomponibili e in fiammate irrazionali in cui ondeggiano i populismi contemporanei.

[...]

Poiché gli argomenti che fanno più presa sono la paura dell'immigrazione, l'ansia per la precarietà occupazionale, il timore dell'erosione del benessere, molte delle reazioni sollevate da questi fenomeni possono essere drammatiche: il razzismo, l'intolleranza soprattutto verso i rifugiati e gli immigrati, il nazionalismo identitario, l'acredine anti-egualitaria. A tali reazioni diamo il nome di populismo, termine polisemico, in realtà sfuggente, con cui non è possibile chiarire immediatamente se si tratti di populismo dall'alto o dal basso, di destra o di sinistra, nuovo o antico. Ma con cui si afferra quel che nell'immediato colpisce e cioè la dimensione del rancore e del risentimento, rivolti contro tutto e tutti, in particolare contro l'élite e contro l'establishment. Così proliferano gli articoli di giornali, gli studi, le analisi, i libri dedicati al populismo, senza che mai si getti lo sguardo su ciò che al populismo è retrostante e cioè la crisi di valori e il disorientamento che ne consegue. Intanto fra le crepe, nel silenzio della sinistra, si insinuano istinti a una regressione reazionaria, al punto che vengono in mente le parole che Ernst Bloch pronunziò negli anni '30 del Novecento per mettere in guardia una sinistra dimentica delle proprie responsabilità: " 'Vita', 'anima', 'inconscio', 'nazione', 'totalità', 'Regno' e parole d'ordine di questo genere ... cesserebbero di servire al cento per cento alla reazione, se la rivoluzione non si limitasse a smascherare, ma se volesse rilanciare concretamente e ricordarsi del suo antico possesso proprio di quelle categorie".

Bisognerebbe, dunque, scavare più nel profondo. "Pensare il populismo" non solo contrastarlo, se implica rifuggire dal dare risposte altrettanto semplici al suo semplicismo, richiede di misurarsi fino in fondo con l'ansia di valori in esso racchiusa. Perché le persone si ritraggono nell'indifferenza o nel disgusto in un movimento che con la desoggetivazione e l'inaridimento valoriale trascina con sé l'accorciamento del futuro, l'annullamento delle prospettive, l'atrofizzazione della dimensione del progetto. Questa deriva è rafforzata dal dilagare di una politica-contro che, diversamente dalla politica-per, "opera come una calamita per stati d'animo di rifiuto senza dover precisare cosa si intende fare, come, con chi" e afferma una "democrazia dell'interdizione" opposta a una "democrazia del progetto". In quel che Honnet chiama lo "improvviso prosciugamento delle risorse utopiche" che sembra privare l'indignazione di massa di "ogni tipo di orientamento normativo", la speranza si arrende, la paura trionfa, l'ansia brucia senza progetto, senza investimento, senza attesa. Il tempo della riflessione è cancellato da una velocizzazione incessante. Crollano le virtù civili legate alla speranza e all'attesa: la fiducia, la pazienza, la responsabilità, surclassate dall'incertezza nutrita dallo spasimo di avere, riuscire, consumare, godere.

Tutto ciò si rafforza con l' incontro fra varie istanze dei populismi - in grande misura ripiegati su forme di rattrappimento sovranista e nazionalista in apparente contraddizione con i dogmi neoliberistici - e elementi cruciali del neoliberismo, primi fra tutti l'avversione allo Stato e alle istituzioni pubbliche, l'insofferenza per le regole e gli apparati normativi a cui preferire l'autoregolazione del mercato, la chiusura individualista ed egoista. Questo incontro tra populismi (di destra) e neoliberismo è reso possibile dalla adattabilità e plasmabilità delle ideologie di entrambi, sottolineata da Cas Mudde, il quale in particolare per il populismo evidenzia la sua elevata possibilità di entrare in rapporti simbiotici con dottrine più strutturate (il che ha consentito in Italia nel caso della Lega la successione, a una primigenia miscela di regionalismo e neoliberismo, di una combinazione di autoritarismo e nativismo, nel caso del M5S una sorta di indifferenza fra destra e sinistra).

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La discriminante destra/sinistra e la disintermediazione istituzionale


Ma alla deriva ha anche contribuito il progressivo attutirsi della distinzione destra/sinistra, a cui invece bisognerebbe reagire. Habermas , il più importante filosofo politico europeo dei nostri tempi - le dernier philosophe secondo l'icastica definizione della rivista cattolica Esprit -, nel commentare la "mobilitazione del risentimento" operata dai populismi e la capacità di un seduttivo "populismo di destra" di "rubare" temi propri della sinistra, denunzia la mancanza di "ogni tempra politica" nella sinistra stessa, desertificata dalla sua interminabile soggezione alla Terza Via di Blair, e indica nella riscoperta di un autentico discrimine destra/sinistra e in una "polarizzazione democratica" la via per la rinascita. La "polarizzazione democratica" - l'opposto di quella convergenza al "centro" rivendicata ieri da Blair oggi da Macron - implica una radicalizzazione nel definire "una riconfigurazione politica accettabile della globalizzazione economica" soggiogata dal capitalismo "scatenato". Del resto, è la destra che si è già enormemente radicalizzata: basti pensare alle tante formazioni ipernazionaliste e xenofobe che guadagnano consensi in molti paesi europei a partire almeno dal 2015. Occorre, quindi, ripristinare il conflitto su valori e programmi non dentro i partiti politici - come accade ora e come è inevitabile che accada quando si perseguono linee e prassi neocentriste - ma tra partiti politici, che debbono essere meno indistinti tra loro e debbono tornare ad assumere connotati più accentuati e diversificati. Ciò fa della distinguibilità e riconoscibilità del rinnovato profilo valoriale e progettuale di una forza di sinistra una questione cruciale.

Per questo è così allarmante il compiacimento con cui si guarda, da parte di alcuni leader come l'italiano Matteo Renzi, alla cosiddetta "disintermediazione". Perché la disintermediazione si risolve inevitabilmente nella spoliticizzazione e i "frutti avvelenati della spoliticizzazione contemporanea" sono il leaderismo e il personalismo come carica selvatica e divisiva, il ridimensionamento dei corpi intermedi quali i sindacati, lo svuotamento dei partiti come strutture educative e luoghi di mediazione e di rappresentanza, il dominio dell'immagine e della comunicazione a scapito del pensiero e della deliberazione, il dilagare di conflitti senza regole.

L'annebbiamento di principi valoriali e di tessuti normativi di matrice universalistica sgretola i fondamenti morali su cui poggiano le sofisticate costruzioni protettive incorporate nelle istituzioni della modernità. Tale annebbiamento tende ad escludere la politica e a renderla ininfluente e infine si scarica sulla società civile inducendo sfiducia, assenteismo, ricerca di fallace identità nella chiusura individualistica, particolaristica, etnica e xenofoba. Così da una parte vengono screditate le funzioni mediatrici delle istituzioni e la stessa idea di politica, dall'altra vengono sollecitati personalismi, plebiscitarismi, legami diretti con il leader, in un vortice che porta allo "sfiguramento" della democrazia, se non alla "post-democrazia".

Una concezione elementare e famelica dell'esistenza ricorre alla paura come unica risorsa strategica. In questo contesto si radica il ritorno del mito e della religione. In conseguenza del fatto che né mediazione né identità sono più adeguatamente garantite dallo Stato e dalle istituzioni sociali, gli esseri umani cercano punti di appoggio e di stabilità in qualcos'altro, le religioni, le etnie, i localismi, i tribalismi, i settarismi. Se si generalizzano gli attributi dello scambio commerciale come ha fatto il neoliberismo - competizione, profitto, scelta, massimizzazione, guadagno - permeando tutte le sfere della vita umana e facendo sì che l'ordine economico si appropri di quello sociale, il senso viene cercato altrove. L'ansia indotta dalla eclisse dei valori, dalla denormativizzazione e dalla mercatizzazione, spinge il singolo a cercare un senso residuo nell'ambito limitato e particolare della propria comuniià e a rifugiarsi nell'appartenenza, sia essa quella del localismo o quella della razza e dell'etnia. L'affrancamento dai rischi di vanificazione delle individualità e delle soggettività viene cercato risalendo alle radici, alla consanguineità, ai segni materiali e corporei di conferma di identità e appartenenza e, conseguentemente, nel localismo e nel comunitarismo.

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CAPITOLO 6
LA RISCOPERTA DEI VALORI
E DELLO SPIRITO PROGETTUALE





Superare il secolarismo liberale e il deflazionismo filosofico sui valori


Le società liberali sono giunte ad evitare dibattiti pubblici sulle problematiche concernenti i valori, nel timore che essi potessero generare settarismi, fondamentalismi, prevaricazioni di una fazione sull'altra. Il senso comune ha fondato questa eclisse dei valori dalla sfera pubblica sull'assimilazione dei valori a "gusti" e a "preferenze", estendendo il detto de gustibus non est disputandum e trasformandolo in de valoribus non est disputandum. Il secolarismo liberale ha compiuto un'operazione più vasta e più complessa, assimilando le questioni valoriali alla fedi religiose e - convinto che da esse non potessero che scaturire conflitti irrisolvibili pari a quelli religiosi - ha decretato che anche sui valori vigesse uno statuto di "neutralità" o quanto meno di "parsimonia" e di "sobrietà", imposto pure alla politica alla quale si è chiesto di essere agnostica. Si è arrivati, infatti, a ritenere che il "pluralismo dei valori" - e dei modi di vita che ne conseguono - richieda ineluttabilmente una sorta di astensionismo nelle questioni di natura etica e di privatizzazione in quelle di natura morale, confinando queste ultime nell'ambito interiore personale e correlando la loro apprezzabilità a uno statuto di mutismo politico.

[...]

L'economia, lungi dall'essere considerata valuefree (libera da giudizi di valore) e quindi un ambito alieno e chiuso a tutto ciò, può essere vista come un territorio elettivo per una simile esplorazione. Nel mondo sociale devastato dalla crisi globale esplosa nel 2007/2008, le cui conseguenze non cessano di operare, considerazioni etiche riflessive da un lato sono ancora più richieste, dall'altro vengono avanzate in termini più acuti. Le implicazioni della crisi non consentono più la procrastinazione di giudizi normativi e obbligano all'esplicitazione di valutazioni rimaste troppo a lungo implicite, per esempio in ordine alla diseguaglianza accettabile o alla percezione soggettiva delle ingiustizie. Si guarda con allarme all'atrofizzazione della solidarietà e del legame sociale indotti da un'etica dello scambio il cui unico principio si basa sul dire al cittadino go shopping e sii felice. Un filosofo della giustizia come Michael Sandel si interroga insistentemente su What Money Can't Buy, perché bisogna contrastare il casino capitalism e costruire istituzioni sociali libere dal vincolo della commodication, sostituendo i'autointeresse con motivazioni altruistiche, le quali hanno la speciale qualità di non deteriorarsi con l'uso ma anzi di moltiplicarsi.




La "forma dono" e il valore della responsabilità


Si può cominciare con il recupero del concetto di "economia morale" dal celebre storico inglese Edward Thompson , il quale aveva identificato - con accenti che richiamano la distinzione polanyana tra un'economia profondamente radicata nella vita sociale (embedded) e un'economia autonomizzata dalla società mediante il mercato (disembedded) - il veicolo della legittimazione dei vecchi saccheggi dei negozi e dei granai in tempi di aumento del prezzo del pane "nei presupposti di un'antica economia a sfondo morale (moral economy), che bolla di immoralità qualunque metodo consistente nel trarre profitto dalle necessità del popolo rincarando i prezzi dei viveri". L'antropologo Fassin è alla ricerca dei prerequisiti odierni della "capacità di produrre norme e obblighi" con cui affrontare "una delle contraddizioni più radicali" del nostro tempo, quella tra vita fatta "oggetto di una forma di sacralizzazione" e vite con "valori differenti", e trattare enormi problemi di giustizia e di eguaglianza. Su queste basi Didier afferma "l'interesse teorico" di costruire una teoria dei valori pensando insieme morale e politica, un interesse che "implica un sentimento d'umanità e porta a una riflessione morale" esprimente "un umanismo, ovvero dei valori e una sensibilità che definiscono ciò che significa essere umani", perché "il procedimento scientifico si costruisce come un anti-umanismo", ma "a queste condizioni l'intollerabile tende a diventare un impensato e addirittura un impensabile delle scienze sociali".

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Per reagire a tale situazione e proiettarsi in avanti verso un "nuovo modello di sviluppo" intriso di "neoumanesimo" bisogna rompere con i tabù, per esempio il tabù che trattiene molti dal parlare esplicitamente di "nuovo modello di sviluppo". Occorre riappropriarsi di parole cadute in oblio, pensare e praticare politiche alternative illuminate da idealità e valori, inventarsi linguaggi nuovi reimparando l'abilità "discorsiva" adeguata suggerita da Tony Judt , il quale non a caso denunziava il carattere di "catastrofe morale in fieri" delle privatizzazioni. Diventano essenziali agenti restituiti a soggettività multidimensionali, strutture di razionalità più ricche e complesse di quella solo strumentale, riscoperta dei valori, strategie di connessione tra strumenti e scopi, tra mezzi e fini. Le istanze della soggettività, della socialità, della responsabilità motivano tali esigenze entro un quadro di significazione valoriale. Un nuovo reincantamento non prigioniero del costume e della tradizione - dopo la lunga fase che Weber chiamò del "disincanto", sterilizzante sentimenti, passioni, valori - può nascere da soggettività, socialità, responsabilità rinnovate, in grado di riarticolare un discorso sui valori e sui fini e liberare il pathos sottostante a una nuova apertura affettiva verso il mondo.

L'irruzione della problematica dei valori e dei fini ci dice di quale ampiezza e di quale profondità debbono essere il riorientamento e il ripensamento richiesti. La domanda fondamentale diventa: "che tipo di società e di economia vogliamo costruire?"

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Valori per la "direzione" dell'innovazione


Se ciò che ci si ripropone come cruciale è la profondità della trasformazione a cui dobbiamo aspirare, domande dirompenti vengono ad investire la possibilità di una direzione dell'innovazione verso una simile trasformazione e la qualità delle istituzioni pubbliche in grado di operare in tal senso, tanto più se la trasformazione presuppone che ci si pronunzi di fronte a una divergenza e persino a un conflitto tra valori. Già negli anni Ottanta del Novecento, David Noble , nel suo celebre Forces of Production, aveva chiarito che la tecnologia non è neutrale e che relazioni di potere ne inducono lo sviluppo e ne plasmano le forme. E prima ancora John Dewey aveva sottolineato che il controllo della scienza è in stretto "rapporto con conseguenze, con fini, con valori". Noi oggi abbiamo bisogno di tornare a simili termini della riflessione, perché abbiamo bisogno di sottoporre a critica sia la "razionalità etico-politica" dell'innovazione, sia la sua "razionalità scientifica", in particolare la "razionalità dell'algoritmo" con la sua pretesa di corrispondere a una naturalizzazione oggettiva volta a trasformare tutti i fenomeni in stati di necessità chiusi allo spazio dell'alternativa.

Quando Henningen Meyer parla di "filtri" con cui "moderare" l'evoluzione tecnologica non intende solo "rallentare": egli parla di un filtro "etico" (in gioco, per esempio, nelle biotecnologie: non tutto ciò che è possibile, solo per questo deve essere fatto), un filtro "sociale" (che può portare a implementazioni scaglionate nel tempo o a differenti forme di regolazione), un filtro "relativo a differenti modelli di governance imprenditoriale" (privilegiando forme che danno voce a un più largo numero di portatori di interessi), un filtro "legale" (si pensi alle controversie a cui sta dando luogo il caso della self-driving car), un filtro "connesso alla produttività" (qui si verificano gli effetti di ciò che gli economisti chiamano rendimenti decrescenti: una lavatrice equipaggiata con dispositivi elettronici simili a quelli del programma spaziale Apollo, non vi porterà sulla luna, continuerà semplicemente a lavare i vostri panni sporchi). Ma c'è di più, c'è una domanda ancora più complessiva che dobbiamo porci, specie quando ci viene detto che certe innovazioni - come l'automazione - potrebbero anche non essere desiderabili ma sono tuttavia irreversibili, dati i guadagni di produttività e di efficienza ad esse associati, il che lascerebbe sul campo il solo problema di come adattare al meglio ad esse gli esseri umani. Poiché è grave la confusione filosofica che qui si fa "tra ciò che può essere fatto più efficientemente e ciò che può essere fatto meglio", rimane in piedi la possibilità e il dovere di porre agli apostoli della tecnologia un interrogativo che può essere sollevato solo se resta aperta una riflessione e una discussione pubblica su tutto ciò e che Robert Skidelsky sintetizza così: "quello che proponete è buono?"

Sulla "direzione" da imprimere all'innovazione Brynjolfsson e McAfee sottolineano l'intenzionalità esplicita e determinata con cui l'operatore pubblico può guidare l'innovazione, come nel caso della sfida ingaggiata dalla Darpa americana quando ha offerto un premio da un milione di dollari per un'automobile senza guidatore, il cui risultato è stata la Googles driverlesscar. E se questa "direzione" intenzionale è stata possibile per l'automobile autoguidata perché non dovrebbe essere possibile per la generazione di altre innovazioni, magari più socialmente utili, orientate a soddisfare valori pressanti o grandi bisogni insoddisfatti? Le alternative sono strette: o si rilancia come se niente fosse accaduto la crescita neoliberistica, drogata dall'invenzione ininterrotta di esigenze fittizie, o si dà vita a un nuovo modello di sviluppo, in cui gli interrogativi sul "per chi", "cosa", "come" produrre trovano risposte anche in un'innovazione piegata a soddisfare valori impellenti e domande sociali inevase.

Nell'ultimo, bellissimo libro scritto prima di morire, Tony Atkinson, invocando "proposte più radicali" (more radical proposals) e denunciando l'insufficienza quando non la fallacia delle misure standard (quali tagli delle tasse, intensificazione della concorrenza, maggiore flessibilità del lavoro, privatizzazioni), suggeriva che "la direzione del cambiamento tecnologico" sia identificata come impegno intenzionale ed esplicito da parte delle istituzioni collettive. In effetti, l'attualizzazione delle immagini di Blade Runner evoca un nuovo Medioevo in cui il potere privato spadroneggia. E la diffusione delle nuove tecnologie - specie di quelle digitali - coincide con una polarizzazione del potere senza precedenti. Senza una forte mobilitazione alternativa da parte dei poteri pubblici, dell'azione collettiva, dei corpi intermedi, nell'arena globale in cui Google, Uber, Amazon, e i loro contraltari finanziari, trascinano le decisioni di accumulazione e pertanto le traiettorie tecnologiche, l'individuo rischia di trovarsi solo e inerme di fronte ai nuovi poteri che lo sovrastano. Per questo Atkinson escogita tutta una serie di proposte "radicali", tra cui tornare a prendere nuovamente molto sul serio l'obiettivo della piena occupazione - eluso dalla maggior parte dei paesi OCSE dagli anni '70 - facendo si che i governi offrano anche "lavoro pubblico garantito" agendo come employer of last resort. E proprio collegata al rilancio della piena e buona occupazione è la proposta che "la direzione del cambiamento tecnologico" sia identificata come impegno intenzionale ed esplicito da parte dell'operatore pubblico, volto ad accrescere l'occupazione, e non a ridurla come avviene con l'automazione.




Il valore del lavoro


Ecco, dunque, che il lavoro si impone come prima delle problematiche su cui misurare la fertilità e la fecondità di un approccio che ritorni a riflettere sulle alternative politiche a partire da una liberazione dei valori dal confinamento "privato" in cui sono stati imprigionati, restituendo loro pienamente lo statuto della disputabilità pubblica. Il disincagliamento dei valori consente una riflessione non più procrastinabile sulla stessa concezione del lavoro, andando alle radici filosofiche e antropologiche di quel processo che già da tempo ne ha provocato un'incredibile "invisibilità" sulla scena politica e che ora la trasformazione tecnologica rischia di rafforzare, tenendo conto di cambiamenti che stanno investendo tutte le sfere, la sfera macroeconomica e microeconomica, quella strettamente produttiva, quella sociale.

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Non stupisce che di fronte a questo scenario soggetti religiosi - come Papa Francesco, il papa che ha definito il neoliberismo "l'economia che uccide" e che grida "non reddito ma lavoro per tutti" - mostrino una persistente forte sensibilità al trinomio innovazione/lavoro/persona, tornando a ribadire con veemenza che il diritto al lavoro è primario, superiore alla stesso diritto di proprietà, e che il rapporto che ha per oggetto una prestazione di lavoro non tocca solo l'avere ma l'"essere" del lavoratore, chiedendo di "non ridurre la persona umana a puro elemento dei fenomeni economici" e riaffermando la natura di relazione tra soggetti del rapporto lavorativo, soggetti "titolari di una 'dignità' e non solo di un 'prezzo' (come è, invece, nella concezione mercificata del lavoro). C'è, invece, da chiedersi perché la stessa riscoperta di Marx e della sua critica al capitalismo, indotta dalla crisi economico-finanziaria e dal cambiamento tecnico, non si sia spinta - a sinistra - fino al recupero del Marx che, con Hegel, vede nel lavoro il processo attraverso il quale l'uomo non si limita a metabolizzare ma media anche simbolicamente il rapporto fra se stesso e la natura, cambia se stesso dandosi una funzione autotrasformativa, esplora sistematicamente dimensioni intellettuali di consapevolezza e di progettualità.

Indubbiamente opera quell'idea non di "liberazione del lavoro" ma di "liberazione dal lavoro" che da sempre anima teorici come Toni Negri. Ma per interpretare questa reticenza, quando non vero e proprio ripudio (si pensi che si giunge a titolare interi libri a "Lavoro male comune"), bisogna risalire anche più in là, al deficit di teoria che ereditiamo dal neoliberismo e alle "eco filosofiche" dell'invisibilità politica del lavoro, in particolare alla influenza, che si è riflessa anche in Habermas, di quella parte del pensiero di Hannah Arendt - giustamente preoccupata degli aspetti inquietanti delle società di massa - che dei regimi totalitari denunziava la riduzione della vita activa a lavoro e dell'"animale politico" a animal laborans. Per non dire delle implicazioni negative su tutta la problematica dei "valori" - compreso il valore del lavoro - esercitata dal decostruzionismo à la Derrida e à la Foucault. Se si accettano i postulati della postmodemità - l' universale e l' umano sono fantasie totalizzanti - si giunge a un sovrano disprezzo per ogni critica della neutralità della tecnica e a condannare ogni tentativo che cerchi di recuperare concetti universali come la dignità umana, la giustizia, la verità, l'autonomia, considerando la riflessione sullo sfruttamento e l'alienazione un ritorno alle illusioni, dichiarate "regressive", di Rousseau , Fromm e Marcuse.

Ma così si sottace l'enorme significato, anche antropologico, della vitale "inquietudine creatrice" sempre soggettivamente racchiusa nel lavoro. Si trascura che il lavoro è fattore vitale dell'identità del soggetto e attribuzione di significato all'esperienza esistenziale, esprime un'intrinseca dimensione di apertura verso il mondo e verso gli altri, contiene relazioni plurime (con il contesto in cui l'attività lavorativa si svolge, con il sapere e l'esperire di chi ha operato precedentemente, con gli altri che lavorano), il suo senso è impregnato di desiderio, quel desiderio che è un moto verso una destinazione mancante, un orizzonte nel quale non si è e al quale si aspira. Non a caso nella Costituzione italiana la triplice centralità del lavoro - antropologica (il lavoro tratto tipico della condizione umana), etica (il lavoro espressione primaria della partecipazione al vincolo sociale), economica (il lavoro base del valore che obbliga a politiche di piena occupazione) - segna un "profondo distacco" dalla elitaria concezione arendtiana, sotto il profilo dei fondamenti di eguaglianza, di libertà, di autodeterminazione, ma anche sotto il profilo delle connessioni tra "operare" ed "agire" (invece scissi da Hannah Arendt) in cui l' homo faber incrocia e incontra l' homo politicus in un nuovo percorso umanistico.




Radicalità valoriale in materia di lavoro e di eguaglianza


Sono convinta che in materie controverse l'urgenza consiste oggi nell'esplicitare le priorità fra valori. Dirò quindi con chiarezza che quelle che precedono sono proprio le ragioni valoriali per cui preferire la proposta del "lavoro di cittadinanza" a quella del "reddito di cittadinanza". Quest'ultima, infatti, si configura come compensazione e risarcimento di un lavoro che non c'è, per costruire un "welfare per la non piena occupazione", accettando e sanzionando le tendenze spontanee del capitalismo che, specie nella fase odierna di intense trasformazioni tecnologiche, naturalmente va verso l'opposto della piena occupazione e cioè la disoccupazione di massa. La motivazione con cui da parte di molti dei suoi sostenitori si giustifica il "reddito di cittadinanza" o "reddito di base incondizionato" è del tipo "tanto il lavoro non c'è e non ci sarà o quello che c'è è di tipo servile", con la quale, però, ci si dimostra indifferenti ad un'analisi politico-strutturale del neoliberismo e dei suoi esiti devastanti e il "reddito di cittadinanza" viene a comportare una sorta di accettazione rassegnata della realtà così come è, quindi una sorta di paradossale sanzione e legittimazione dello status quo per il quale si verrebbe ad essere esentati dal rivendicare trasformazioni più profonde. È questa la convinzione di Van Parijs e di Guy Standing , i quali argomentano che il destino delle società occidentali è di essere "società senza lavoro", per questo da compensare e da risarcire monetariamente con forme di "reddito di cittadinanza" che antepongano la rivendicazione del "reddito" a quella del "lavoro".

[...]

Non a caso oggi la dinamica della diseguaglianza, anche in conseguenza degli effetti della crisi globale e delle implicazioni della evoluzione tecnologica in corso, manifesta sempre più la sua natura di fenomeno che riguarda non solo la sfera redistributiva - su cui invece si concentra, con la fondamentale eccezione di Atkinson, la letteratura prevalente in materia, compreso l' importante volume di Piketty -, ma primariamente la sfera produttiva, l'allocazione, le strutture in cui si articolano i vari modelli di sviluppo. Questo è, del resto, l'unico modo in cui prendere sul serio l'imperativo umanistico di don Milani - attualissimo a cinquanta anni dall'intramontabile '68 - di fare di ogni deserto "un minuscolo giardino": prendere atto che la diseguaglianza, lungi dall'essere un difetto di funzionamento di un sistema, è una componente intrinseca di un sistema che, fra i vari possibili, sceglie un certo modo di operare.

[...]

Ecco perché al centro debbono tornare le domande sul valore del "lavoro" e sui "fini" di un "nuovo modello di sviluppo", gli interrogativi sui meccanismi di acquisizione dei guadagni di produttività, sui modelli contrattuali, sulla regolazione del mercato del lavoro, sulla possibilità di fare ricorso a "minimi" e "massimi" retributivi. Se il rapporto tra la retribuzione di un lavoratore medio e quella di un top manager era di 30 volte nel 1979 e oggi è divenuto di 200 e anche di 400 volte, questa può essere ritenuta una diseguaglianza tollerabile? Non si dovrebbe pensare a porre a tali differenze sia nel settore pubblico che in quello privato, oltre che dei pavimenti "minimi", anche dei tetti "massimi"? Nell'Ottocento i liberisti più sfrenati consideravano gli interventi sull'orario di lavoro o sul lavoro minorile un'ingerenza inaccettabile nel naturale funzionamento del mercato, eppure la legislazione di tutela e di promozione non si è fermata ed è andata avanti. Perché dovrebbe ora arrestarsi di fronte alla questione dei "minimi" e dei "massimi" retributivi?

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È stato mostrato così quanto il compito della politica di guidare l'economia sia idea moderna, non postmoderna e a quali esiti possano portare il costituzionalismo democratico e l'evoluzione dello Stato moderno, il quale nacque proprio dal superamento della patrimonializzazione dello Stato feudale e dalla sanzione della separazione tra proprietà e sovranità. Va rilevato che rispetto a tutto ciò il neoliberismo ha costituito un vero e proprio processo decostituente, cosa su cui fino agli ultimi istanti della sua vita non si è stancato di insistere Stefano Rodotà. Oggi in Europa è richiesto un nuovo processo costituente. Il riconoscimento di valori, fini e beni comuni dovrebbe trattare, oltre ai bisogni e ai beni, quelle che Nancy Fraser chiama le "interpretazioni dei bisogni", con tutti i conflitti e le questioni di potere che anche le interpretazioni racchiudono. Così i processi dell'ampliamento e dell'approfondimento della sfera pubblica, questa volta a livello europeo, coinciderebbero con quelli del riconoscere la cittadinanza come fine collettivo e gli uni e gli altri darebbero vita a fenomeni di "politicizzazione" e a un tempo di "soggettivazione", nei quali si possono estrinsecare tanto le ispirazioni di battaglie antiautoritarie quanto le pulsioni dell'ansia di "individuazione".

Anche oggi le formulazioni costituzionali, specie quelle spesso solo abbozzate e talora improprie del Trattato di Lisbona, appaiono largamente indeterminate e pertanto disponibili a interpretazioni e concretizzazioni normative che possono essere anche tra loro diametralmente opposte. Molte maglie, quindi rimangono aperte, nelle quali ci si può inserire, grazie alle quali e oltre le quali si deve agire. Attraverso queste maglie possono incanalarsi istanze valoriali sovvertitrici dell'ordine dato: avere/non avere, giusto/ingiusto, vero/falso, eguale/diseguale, libero/non libero. E può incanalarsi uno spirito progettuale intenso che coinvolga la riqualificazione ambientale, la critica della neutralità della scienza, la reinvenzione e la generazione del lavoro, l'estensione della democrazia economica. Tutto ciò apre le porte verso il mondo nuovo che ci attende. Del resto, altrettanti chiavistelli normativi di apertura del mondo furono tutti i momenti rivoluzionari con i loro documenti fondativi, dal Dictatus Papae del 1075 alla Dichiarazione del 1789. L'universalismo occidentale è scaturito dal paradigma rivoluzionario grazie all'Europa, che "è la prima civiltà che ha concepito se stessa in modo dinamico e la storia come 'rivoluzione' permanente". Kant venne riconosciuto come il filosofo della Rivoluzione francese anche perché ne salutò le conquiste come "simbolo storico" di un cammino normativo che si voleva irreversibile, le cui chiavi sono universalità, individuazione, eguaglianza, inclusione, emancipazione. Le tracce di quel cammino non spariscono mai del tutto, anche in tempi bui, e riappaiono sempre nuovamente, mentre passi ulteriori vengono intrapresi.

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