Copertina
Autore Georges Perec
Titolo La bottega oscura
Sottotitolo124 sogni
EdizioneQuodlibet, Macerata, 2011, Compagnia Extra 23 , pag. 354, cop.fle., dim. 12x19x2,5 cm , Isbn 978-88-7462-365-5
OriginaleLa boutique obscure
EdizioneDenoël, Paris, 1973
CuratoreFerdinando Amigoni
TraduttoreFerdinando Amigoni
LettoreRenato di Stefano, 2011
Classe narrativa francese
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Indice


     1968

  1  La statura
  2  I vassoi
  3  Itinerario
  4  L'illusione
  5  La dentista


     1969

  6  L'addio
  7  Dei giorni andati
  8  Nella metropolitana
  9  Sinusiti
 10  Gli scrittori
 11  La morte di Helmlé
 12  Il go


     1970

 13  L'albergo
 14  La caccia sugli sci
 15  Rue de Quatrefages
 16  L'arresto
 17  La canna


     [...]


     1972

101  Il disordine
102  Le torri
103  La tomba
104  Un sogno di P.: La terza persona
105  La condanna
106  La Biblioteca Nazionale
107  Al ristorante Kuntz
108  Lo spettacolo teatrale
109  Le bische
110  Le scarpe
111  Ricostruzione di una scelta
112  I libri
113  Il rapporto
114  Il puzzle
115  Frammenti di una storia generale dei trasporti
116  La scimmia
117  Il giunto
118  La doppia festa
119  Rue de l'Assomption
120  Ipotesi
121  L'affitto
122  Le nozze
123  L'atelier
124  La denuncia


Riscontri e ripari                                  265

Note di Ferdinando Amigoni                          285


 

 

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Pagina 17

N. 1

Maggio 1968


La statura


Il misura-statura (il cui nome mi sfugge: metronomo, asta) dove si deve stare immobili ad libitum per molte ore. Come se fosse ovvio. L'armadio (i due nascondigli). La rappresentazione teatrale. L'umiliazione. ?. L'arbitrario.


È una stanza con molte persone. In un angolo c'è uno statimetro. So che rischio di dovervi passare molte ore sotto; più che di un supplizio vero e proprio si tratta di un sopruso, ma estremamente imbarazzante, perché nulla trattiene l'asticciola dello statimetro e, a lungo andare, si rischia di rimpicciolire.


Come se fosse ovvio, sogno e so che sto sognando, come se fosse ovvio, di essere in un campo di concentramento. Non si tratta davvero di un campo, com'è ovvio; è l'immagine di un campo, il sogno di un campo, un campo-metafora, un campo di cui so che è solo un'immagine familiare, come se rifacessi instancabilmente lo stesso sogno, come se non facessi mai altro sogno, come se non facessi mai altro che sognare questo campo.


È evidente che la minaccia dello statimetro basta dapprima a concentrare in se stessa tutto il terrore del campo. Poi, sembra che non sia così terribile. D'altra parte, io sfuggo a questa minaccia che non si realizza. Ma è proprio questa minaccia evitata che costituisce la prova più evidente del campo: ciò che mi salva è solo l'indifferenza del torturatore, la sua libertà di fare o non fare; sono completamente sottomesso al suo arbitrio (esattamente come sono sottomesso a questo sogno: so che è solo un sogno, ma non posso sfuggire a questo sogno).


La seconda sequenza riprende questi temi modificandoli appena. Due personaggi (uno dei quali, senza alcun dubbio, sono io stesso) aprono un armadio nel quale sono stati ricavati due nascondigli dove sono ammassate le ricchezze dei deportati. Per «ricchezze» bisogna intendere ogni oggetto capace di aumentare la sicurezza e le possibilità di sopravvivenza del loro possessore, che si tratti di oggetti di prima necessità o di oggetti dotati di un valore di scambio. Il primo nascondiglio contiene indumenti di lana, un mucchio d'indumenti di lana, vecchi, tarmati e di colori sbiaditi. Il secondo nascondiglio, che contiene denaro, è costituito da un meccanismo basculante: uno dei ripiani dell'armadio è scavato all'interno e il suo coperchio si solleva come il piano di un banco di scuola. Eppure questo nascondiglio è considerato poco sicuro, e io sto per azionare il meccanismo che lo rivela per toglierne il denaro, quando qualcuno entra. È un ufficiale. Di colpo capiamo che, in ogni caso, è tutto inutile. Allo stesso tempo, diventa evidente che morire e uscire dalla stanza sono la stessa cosa.


La terza sequenza avrebbe forse reso possibile, se non l'avessi quasi completamente dimenticata, dare un nome a questo campo: Treblinka o Terezienbourg o Katowicze. La rappresentazione teatrale era forse il Requiem de Terezienbourg («Les Temps modernes», 196., n.?, pp. ...-...). La morale di questo episodio cancellato sembra riferirsi a sogni più arcaici: Ci si salva (talora) suonando...


_______________________________________ Note

Sogno n. 1

«In un angolo c'è uno statimetro». Oggetto d'uso assai comune, lo statimetro è formato da un'asta centimetrata, verticale, di metallo, su cui scorre una piccola asticciola perpendicolare: serve per misurare l'altezza delle persone.

«Treblinka o Terezienbourg o Katowicze». Situato vicino a un villaggio a nord-est di Varsavia, Treblinka I fu un campo di concentramento nazista; a un paio di chilometri venne costruito Treblinka II, un campo di sterminio, operativo dal luglio 1942 all'autunno del 1943. Terezín (in tedesco: Theresienstadt), cittadina della Repubblica Ceca, a circa sessanta km a nord di Praga, dove sorse un campo di concentramento nazista; Katowice, città polacca situata a pochi chilometri dal più vasto insieme di campi di concentramento e di sterminio costruiti dalla follia nazista, quello di Auschwitz - Birkenau.

«Forse il Requiem de Terezienbourg». Perec allude all'indimenticabile Terezínské Rekviem (traduzione italiana Il «Requiem» di Terezín, Longanesi, Milano 1965), pubblicato nel 1963 da Joseph Bor, pseudonimo di Josef Bondy, giurista ceco di origini ebraiche (1906-1979). Deportato nel campo di concentramento di Theresienstadt, nel giugno del 1942, Joseph Bondy fu trasferito nell'ottobre 1944 ad Auschwitz, dove sua madre, sua moglie e i suoi due figli furono assassinati nelle camere a gas. In quel libro si narra dell'esecuzione del Requiem di Verdi, organizzata nel campo di concentramento di Theresienstadt dal compositore, pianista e direttore d'orchestra ceco di origini ebraiche Rafael Schächter (1905-1945), mettendo insieme solisti, coro e orchestra tra gli internati del Lager, davanti a un pubblico formato da alti ufficiali delle SS, tra i quali lo stesso Eichmann, lo stratega della «soluzione finale» (Schächter e i suoi musicisti avranno certo pensato a lui e ai suoi colleghi, intonando il «Confutatis maledictis, flammis acri bus addictis»). Poco tempo dopo l'esecuzione, a tal punto folgorante da strappare l'applauso di Eichmann, il direttore, i cantanti e i musicisti furono inviati su uno stesso treno blindato alle camere a gas di Auschwitz, dove furono tutti, a cominciare da Rafael Schächter, trucidati. Con quel sarcasmo omicida tipico delle SS, Eichmann mantenne, a modo suo, la promessa che aveva fatto al direttore del Lager di non separare una compagine musicale che aveva saputo raggiungere risultati così alti.

«Ci si salva (talora) suonando...»: nell'originale: «On se sauve (parfois) en jouant...». Al di là dell'atroce smentita che i nazisti non mancarono di dare alla «morale» di «questo episodio cancellato» – come s'è detto i musicisti finirono tutti nelle camere a gas – è probabile che si debba qui rendere al verbo francese «jouer» parte almeno della sua polisemia: «jouer» significa infatti, oltre a «suonare uno strumento» ed «eseguire una partitura», anche «giocare», «divertirsi» e «recitare», attività queste ultime ampiamente sfruttate da Perec, sia in campo letterario sia nella vita, per confondere le acque, sottrarsi, celarsi, far perdere le proprie tracce. Si veda, per non uscire da questa Bottega oscura, la conclusione di uno dei sogni più ilari dell'intera raccolta, il 42: «Sono molto allegro: sono il giullare, il buffone prediletto».

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Pagina 22

N. 4

Dicembre 1968


L'illusione


Sto sognando

Lei è accanto a me

Mi dico che sto sognando

Ma la pressione della sua mano sulla mia mi sembra troppo forte

Mi sveglio

Lei è proprio accanto a me

Felicità folle

Accendo

La luce balena un centesimo di secondo poi si spegne

(una lampadina che si fulmina)

L'abbraccio


(mi sveglio: sono solo)

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Pagina 23

N. 5

Dicembre 1968


La dentista


In fondo a un dedalo di gallerie coperte, un po' come in un suk, arrivo da un dentista.

Il dentista non c'è, ma trovo suo figlio, un ragazzino, che mi chiede di tornare più tardi, poi si corregge e mi dice che sua madre tornerà da un momento all'altro.

Me ne vado. M'imbatto in una donna piccolissima, graziosa e sorridente: è la dentista. Mi accompagna nella sala d'aspetto. Le dico che non ho tempo. Lei mi spalanca la bocca e, cominciando a piangere, mi dice che i miei denti sono tutti marci ma che non vale la pena curarmi.

La mia bocca spalancata è immensa. Ho la sensazione quasi concreta di un marciume totale.

La mia bocca è così grande e la dentista così minuta che ho l'impressione che stia per mettermi tutta la testa nella bocca.

Più tardi, corro lungo le gallerie dei negozi. Compro un fornello a gas a tre fuochi che costa 26.000 franchi e un frigorifero da 103 litri.

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Pagina 48

N. 17

Luglio 1970


La canna


«Un bel mattino», mi ritrovo ancora una volta in un campo di concentramento. È l'ora del risveglio; il problema è trovarmi dei vestiti (sono vestito come in città, giacca di tweed, scarpe inglesi).

Nel campo, si compra tutto. Vedo circolare grossi rotoli di banconote. Alcune guardiane danno medicine da bere ai detenuti.

Mi trovano una giacca. Ci mettiamo in fila per scendere (siamo in un grande dormitorio, al primo piano d'una specie di caserma dismessa).

Ci nascondiamo per un istante in un corridoio.

Marciamo in fila per quattro. Un ufficiale ci mette in riga con una lunga canna di bambù: è dapprima benevolo, poi si mette di colpo a ingiuriarci spaventosamente.

In fila per l'appello. L'ufficiale continua a urlare ma ha smesso di colpirci. A un certo punto, afferriamo (lui e io) le estremità della canna: sono in preda al panico all'idea che voglia colpirmi.


L'universo del campo è intatto: non lo si può modificare.


Più tardi, mi metto a singhiozzare passando davanti a un padiglione dove si curano bambini affetti da un male incurabile. Lì trovano la loro unica possibilità di sopravvivenza. Mi chiedo se questa sopravvivenza non consista nel trasformarli in pillole, e mi ricordo a tal proposito un aneddoto su alcune cure dimagranti che funzionano perché si fanno ingurgitare pillole che contengono un verme solitario.

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Pagina 80

N. 37

Dicembre 1970


Lo stuccatore


Sono tornato a Dampierre per una grande festa. Mi sento pieno di fiducia e certezze: nell'immensa cucina e nelle molte sale da pranzo, una folla di persone che mi sembrano tutte più o meno familiari, ma né Z., né i suoi figli. La cerco nel parco.


Si sentono degli urli: «Niki! Niki!». Niki arriva con i suoi diciassette cani; mi balzano addosso e quasi mi gettano a terra, ma in seguito si mettono a saltellare affettuosamente attorno a me. Benché mi abbia visto una sola volta, Niki mi stringe la mano con slancio e mi suggerisce di telefonare a H., un nostro comune amico, per chiedergli di raggiungerci mercoledì. Le rispondo che mercoledì, purtroppo, non sarò più lì.


Attraverso di nuovo cucine e sale da pranzo. La folla continua ad aumentare e non si è preparato abbastanza cibo per sfamare tutti. La folla diventa impaziente. Vengono annunciati nuovi arrivi (di Z.? di cibo?). Alcuni scrutano la strada con binocoli; è una strada rettilinea che si perde all'orizzonte; ma non c'è traccia di arrivi.


Ho visto C.? Ho visto S.? Mi hanno detto che la loro madre mi stava aspettando? La sua camera è al buio, ma, a un certo momento, ho visto una mano pulire un vetro (il vetro di una piccola finestra quadrata) con un tessuto a quadretti rossi (Vichy).


Poco dopo.


Z. è forse nell'edificio dei bambini. È una casa di cartone. Per entrare al pianoterra bisogna prima attraversare una sorta di corridoio strettissimo, ma all'apparenza elastico. Infilo per prima la testa domandandomi se – o piuttosto stupendomi quasi del fatto che – le spalle riusciranno a passare. Ho già percorso metà del cammino, quando, all'interno, vedo apparire un operaio che, non so perché, chiamo stuccatore: viene dalla scala che porta alla casa di Z. e si dirige verso un'altra scala. Tiene in mano un trapano elettrico munito di una potente levigatrice.


Mi ritiro dal condotto che ho l'impressione di trascinarmi dietro, rischiando di far crollare la casa.


Ai miei piedi c'è qualcuno che mi pare dapprima un bimbo piccolo, un essere misero e gracile con una testa allungata e membra magrissime.


La casa dei bambini è ora una roulotte a due piani con una doppia porta di legno e rame (come la porta di un vagone-letto). Voglio entrare da questa porta, e anche il bambinetto, ma io l'afferro per la pelle del collo e lo respingo. M'accorgo allora che è un piccolo animale, un po' come la puzzola di un cartone animato. Mi graffia e mi morde. Ha l'aria cattiva.


Riesco a entrare nella roulotte. È la mia camera. Quella di Z. forse è di sopra, ma è sempre meno certo che Z. si trovi lì.


L'animale è riuscito a introdursi in parte tra la prima e la seconda porta. Ho di colpo una tale paura che riesca a entrare davvero in camera mia, per poi spaventarmi nascondendosi negli angoli, che decido di ucciderlo. Lo prendo sulle ginocchia; gli stringo il collo, quello si dibatte ma debolmente. Ha l'aria inoffensiva (impaurita, rassegnata, grandi occhi tristi); le sue zampe affusolate sono agitate da soprassalti furtivi. Stringo più forte. Mi rendo conto che lo sto uccidendo, e subito è un bambinetto inerte. La pressione delle vene del suo collo diventa più forte, sempre più forte, poi di colpo cede.


(mi sveglio, le dita intorpidite, bagnato di sudore)


Poco dopo (sogno a occhi aperti)


Sono in una camera buia. Davanti a me, una porta aperta su una camera vagamente rischiarata. Una donna dai capelli grigi, con un vestito lungo, va e viene.


Ma ciò che fino a questo punto è inoffensivo, non perturbante, diventa di colpo orrendo: è la stessa donna di Psycho (un giovane folle vestito come la sua anziana madre), la cui visione (a Sfax, dieci anni prima) mi aveva a tal punto angosciato che tutta la notte seguente ero rimasto sveglio a causa del ricordo del mio terrore e del rumore che un animale immaginario faceva sotto il letto o sotto gli altri mobili.


_______________________________________ Note

Sogno n. 37

«Niki arriva con i suoi diciassette cani»: si tratta probabilmente di Catherine Marie-Agnès de Saint Phalle, nota come Niki de Saint Phalle (1930-2002), pittrice, scultrice e regista francese (famosissima la sua Fontana Igor Stravinskij davanti al Centre Pompidou a Parigi). Prima di sposare l'artista Jean Tinguely (1925-1991), era stata la moglie dello scrittore statunitense Harry Mathews (1930), membro dell'OuLiPo e amico di Georges Perec (Perec tradusse in francese due romanzi di Mathews). Niki de Saint Phalle ricomparità nel sogno 81.

«Ho visto una mano pulire un vetro [...] con un tessuto a quadretti rossi (Vichy)». In questo splendido frammento onirico, che ricorda un'immagine ricorrente nelle novelle del grande E. T. A. Hoffmann (1776-1822), una fantasmatica mano viene menzionata insieme a Z., nelle sue vesti di «madre». Questa mano pulirebbe il «vetro di una piccola finestra quadrata» con un panno «Vichy». È comunemente chiamato «Vichy», dalla regione in cui viene prodotto, un resistente tessuto di cotone a quadretti colorati, ma «Vichy» è anche il toponimo che diede il nome al governo francese (1940-1944) della cosiddetta «zona libera», la parte centromeridionale della Francia non direttamente occupata dai nazisti. Nonostante si trattasse di un governo fascista, antisemita e filonazista, la «zona libera» era molto meno pericolosa per gli ebrei della zona occupata; per tale ragione, come ho già detto, Perec si trovò a trascorrere gli anni dell'infanzia e della guerra nascosto nella regione alpina del Vercors. Si tratta dunque per Perec di un nome geografico saturo di allusioni alla sua storia e al suo soggiorno, vissuto come un incomprensibile abbandono da parte della madre (che in realtà gli salvò la vita, attardandosi in una Parigi occupata che le sarà fatale). Alquanto eloquente la conclusione del sogno che menziona l'angoscia che aveva scatenato in Perec il «giovane folle vestito come la sua anziana madre», protagonista del film Psycho». Sui rischi del travestirsi con panni materni, vedi anche i sogni 14 e 25 e le note relative.

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Pagina 100

N. 46

Gennaio 1971

Campo di concentramento sotto la neve

o

Sport invernali nel campo


Non ne resta che un'immagine: qualcuno che sembra indossare scarpe fatte di neve molto dura, o di ghiaccio, che ricordano irresistibilmente l'idea d'una mazza da hockey.


_______________________________________ Note

Sogno n. 46

Il già più volte citato romanzo W o il ricordo d'infanzia è un testo complesso, costruito attraverso l'accostamento (a capitoli alternati) di due intrecci, uno autobiografico (relativo all'infanzia negli anni della guerra) e uno, interamente stampato in corsivo, che comincia come un romanzo di avventura per poi diventare la descrizione di un'isola immaginaria, chiamata W, dove l'intera popolazione vive solo per lo sport. Questa lunghissima e maniacale descrizione, mirabile esempio di etnografia fantastica, assume presto i caratteri dell'incubo e finisce per rivelarsi come la descrizione di un campo di concentramento. Lo sport è connesso, anche a un livello inconscio, nel pensiero e nella scrittura di Perec, ai campi di concentramento, e questo è vero in modo particolare per gli sport invernali (praticati durante la sua infanzia passata nel Vercors, quasi una deportazione, assolutamente incomprensibile per il piccolo Perec, al quale non viene fornita spiegazione alcuna). Tale equivalenza inconscia, fissatasi nel corso dell'infanzia di Perec, riaffiorerà alla coscienza solo venticinque anni più tardi (così narra lo stesso Perec in W). Si tratta di una connessione a tal punto salda che non sarebbe esatto dire che W o il ricordo d'infanzia parli di questa connessione: W prende le mosse da questo cortocircuito inconscio e su questo cortocircuito è interamente costruito (a partire dalla sua stessa duplice struttura), e non potrebbe propriamente parlarne, essendo la sua stessa origine, ciò che dà origine alla scrittura e che la scrittura non può esaurire, pena la sua estinzione (e la sua vanificazione). In breve, W non parla dell'equivalenza «sport» (invernali o non invernali) – «campi di concentramento»: è tale equivalenza. L'accostamento che dà il titolo a questo sogno, tra sport invernali, paesaggi nordici e lager, apparentemente arbitrario (ovvero, arbitrario per la coscienza) come tutti gli accostamenti inconsci, presenta qualche analogia con le testimonianze dei sopravvissuti, piene di pagine dedicate appunto al terribile gelo degli inverni che mieteva vittime tra i deportati, ne è una peculiare versione (la versione di chi non ha avuto percezione diretta dei lager, ma ne è stato ferocemente colpito e non può che fantasticare su questo non percepibile, non localizzabile, inconoscibile mostro).

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Pagina 105

N. 49

Febbraio 1971


M/W


In un libro che sto traducendo trovo due frasi; la prima finisce con «wrecking their neck», la seconda con «making their naked», espressione gergale che significa «cavarsi giù nudo».


_______________________________________ Note

Sogno n. 49

Sogno fondamentale, nonostante la brevità e la scarsissima trasparenza, fornisce, anche solo attraverso il titolo «M/W», una chiave di lettura imprescindibile per capire W o il ricordo d'infanzia. In questo «febbraio 1971», tra i numerosissimi lavori, in mezzo ai quali cercava di tenersi a galla (moltiplicandoli in modo compulsivo, all'avvicinarsi di un blocco di scrittura), Perec era alle prese con la traduzione, assai ardua, di Tlooth, il secondo romanzo di uno scrittore newyorkese, Harry Mathews (1930), molto amante dei giochi linguistici, nonché oulipiano, conosciuto da Perec l'anno prima e diventato suo caro amico (vedi nota al sogno 85). Anzitutto le due frasi in inglese «wrecking their neck» e «making their naked», che, iniziando rispettivamente per «w» e per «m», dovrebbero giustificare il titolo del sogno: la prima significa «rompendogli il collo» («rompendo loro il collo» ); la seconda – correggendo quello che sembra proprio un palese errore grammaticale (il lavoro onirico e l'irreprensibile grammatico utilizzano metodi diversi), e trasformandola in «making them naked» – potrebbe forse essere tradotta con l'espressione gergale «lasciandoli in mutande». Poi la frase in francese argotico «se foutre à poil»: «à poil» – letteralmente «a pelo» («monter un cheval à poil», «cavalcare a pelo», senza sella) – significa «a nudo»; «se foutre» ha perso tra XVII e XVIII secolo, come c'insegna l'autorevolissimo dizionario «Grand Robert», ogni riferimento diretto all'atto sessuale e significa nel moderno francese parlato «fottersene», «fregarsene» (se costruito con il «de»), mentre, se costruito, come qui, con «à», significa «mettersi (con violenza, rapidità)», «gettarsi», in locuzioni quali «se foutre à l'eau» («gettarsi in acqua»), o «se foutre en l'air» («andare a gambe all'aria»). «Se foutre à poil», che qui traduco «cavarsi giù nudo» («cavarsi giù» è usato in molti dialetti come sinonimo di «spogliarsi»), significa dunque qualcosa di simile a «mettersi violentemente (o rapidamente) a nudo». E qui Perec si mette appunto violentemente (e rapidamente) a nudo, fornendo l'equivalenza alfabetico-simbolica su cui W o il ricordo d'infanzia è per intero costruito. È davvero imbarazzante e addirittura impudico sciogliere nel breve spazio di una nota l'enigma, ma sarebbe un'omissione non segnalare questa preziosa «istruzione per l'uso». Come s'è detto l'isola W rivela a poco a poco, nel corso della lettura, il suo vero volto di campo di sterminio: ma una «W» ruotata di 180 gradi diventa una «M», l'iniziale di «madre» («mère» in francese), e di altre parole tra le quali «assassino» in inglese e in tedesco («murderer» e «mörder» ). In tale semplice rotazione di una lettera è contenuta una costellazione psichica infausta. Moltissime madri vennero risucchiate da W, il simbolo nella scrittura perechiana della più grande macchina di morte mai concepita nella storia dell'umanità, e tra queste anche la madre di Georges Perec. L'inconscio, tuttavia, ha una sua propria logica e non riesce a distinguere tra vittima e carnefice secondo le asimmetrie della coscienza diurna, limitandosi a registrare un abbandono (una sparizione che, anche se per nulla desiderata da colei che è scomparsa, viene registrata dall'inconscio del sopravvissuto come abbandono) impossibile da elaborare, da sciogliere senza residui, attraverso il linguaggio. Ogni «M», materna iniziale di vittime del tutto innocenti della follia nazista, sembra dunque, per l'inconscio (e per il sogno e per il delirio) del figlio scampato al genocidio, sempre sul punto di ribaltarsi in una «W», l'iniziale degli immondi carnefici (i responsabili di questa contraddittoria e impossibile paralisi psichica, di questo lutto interminabile che non può trovare una stabile collocazione all'interno del linguaggio).

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Pagina 127

N. 60

Marzo 1971


La liberazione del pane


È una commedia musicale «brechtiana».


1

Siamo marinai. Ci imbarchiamo per andare in guerra. Nei corridoi sottocoperta regna una gran confusione. Nessuno sa con precisione in quale cabina deve sistemarsi.


2

Ci siamo imbarcati.

Il piroscafo visto da molto in alto: grandioso. Si sente che questa guerra sarà terribile; si teme che una bomba cada in pieno sul piroscafo.

Il piroscafo è pieno di scompartimenti oblunghi (un po' simili a bare) allineati in lunghe file parallele e muniti di coperchi: alcuni coperchi sbattono (e allora la «bara» è vuota), mentre altri restano ostinatamente chiusi. Tutto questo assomiglia a un balletto di Busby Berkeley, o meglio alla colonia di cozze a cui Alphonse Allais insegnava a suonare le nacchere. Presto si capisce che sono le cabine degli uomini d'equipaggio, poi che è il pane, messo sotto sigilli (in un involucro di nylon, impacchettato sotto vuoto).


3

GRANDE CAMPAGNA PER LA LIBERAZIONE DEL PANE.

Eseguo con un compagno (H. M.) un duetto molto Astaire-Kelly cantando:

«Non rinchiudete il pane

Il pane deve essere libero (ad lib.)».


Riusciamo a convincere diverse corporazioni che entrano per un breve istante in primo piano nel film (sequenza intercalata), che è adesso molto colorato. Per esempio «un bravo fornaio con i baffi».


4

Grande manifestazione.

Il mio compagno (oppure sono io?) afferra un microfono che scende dal cielo e grida:

«Tra pochi secondi, sotto la direzione di (farfuglia un nome comicamente troppo lungo), l'Orchestra della Marina interpreterà la Liberazione del Pane».

Musica. I musicisti sono molto più in alto di noi. Noi siamo sulla banchina e loro sono sul piroscafo.


5

Ritrovo un compagno (o forse è ancora H. M.) che mi presenta la sua nuova moglie (prima aveva una moglie enorme, genere «mamma italiana»): è una donna gracile, indossa un lungo cappotto.

Insisto per andare a casa loro, ma lui comincia ad abbracciare e ad accarezzare sua moglie e io mi ritrovo ben presto ad accarezzarla a mia volta e, alla fine, nudo sopra di lei, e, benché lei abbia dapprima incrociato le gambe, fortemente e profondamente piantato dentro di lei.


_______________________________________ Note

Sogno n. 60

«Tutto questo assomiglia a un balletto di Busby Berkeley, o meglio alla colonia di cozze a cui Alphonse Allais insegnava a suonare le nacchere». Busby Berkeley è lo pseudonimo di William Barkeley Enos (1895-1976), regista e coreografo statunitense che deve la sua fama a musical realizzati negli anni Trenta e Quaranta. Alphonse Allais (1854-1905), scrittore e umorista francese, grande cultore dell'assurdo ed eccellente giocoliere linguistico. Non è necessario fornire notizie su Fred Astaire e Gene Kelly, vista lo loro notorietà: vale forse la pena segnalare che il nome anagrafico del primo, di origini ebraiche, era Frederick Austerlitz.

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Pagina 179

N. 84

Agosto 1971


Il rifiuto di testimoniare


Credo di scoprire nel mio appartamento una grande stanza, ma, in realtà, non è mia e anzi è la strada.


Giungono molte persone e invadono la mia camera. Mi raccontano che F. ha delle noie: ha cagato davanti a un monumento pubblico; bisogna che io testimoni che ho assistito alla scena e che non l'ho visto e addirittura che, più precisamente, ho visto che lui non l'ha fatto.


F. arriva, scortato da due sbirri. Spiego o tento di spiegare che non posso rendere questa testimonianza.


Recito in una commedia, ma devo anche presentare l'attore alle autorità. Purtroppo però il sindaco è rimbecillito. Faccio capire a gesti che deve parlare il suo vicino di tavola: mentre il vero sindaco tace, il falso fa un discorso che imita alla perfezione quelli del vero sindaco.


In seguito spiego a Z. che tutto questo non ha in fondo alcuna importanza, che l'altro è in realtà il sindaco precedente, e, nello stesso tempo, il migliore amico e il peggior nemico dell'attuale.


Giungiamo in un luogo già visto: un'alta palizzata?


Faccio l'amore con Z. In fin dei conti, sto bene solo dentro di lei.

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