Copertina
Autore Michèle Petit
Titolo Elogio della lettura
EdizionePonte alle Grazie, Milano, 2010, Saggi , pag. 174, cop.ril.sov., dim. 14.5x21x2 cm , Isbn 978-88-6220-114-8
OriginaleÉloge de la lecture. La construction de soi
EdizioneBelin, Paris, 2002
TraduttoreLaura De Tomasi
LettoreMargherita Cena, 2013
Classe scrittura-lettura , libri , ragazzi , scuola
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Introduzione                                          5

 1  I due volti della lettura                        13

 2  Un altro mondo, intimo e remoto                  24

 3  Elogio della fantasticheria                      41

 4  Identificazione?                                 48

 5  Il diritto alla metafora                         61

 6  Tra due culture                                  73

 7  La paura del libro                               82

 8  La lettura riparatrice                          103

 9  Dallo spazio intimo allo spazio pubblico        117

10  E la scuola?                                    131


Conclusione                                         145
Note                                                151
Bibliografia scelta                                 163
Ringraziamenti                                      171


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 26

Una stanza tutta per sé

La lettura può essere, a qualsiasi età, un rifugio ideale per costruire o preservare uno spazio individuale, intimo, privato, un luogo «altro». Una stanza tutta per sé , come avrebbe detto Virginia Woolf , anche nei contesti in cui sembra che non vi sia alcuna possibilità di disporre di uno spazio personale.

Come osservava Agiba, questo spazio che si apre sulla «discussione interiore», che ne permette l'affiorare, ha a che vedere con la segretezza. I lettori si proteggono dall'intrusione degli importuni, dalla repressione, dalla violenza che il privato richiama. Ma anche nelle famiglie dove i genitori non hanno mai vietato la lettura e si mantengono discreti ci sono bambini che leggono sotto le lenzuola, la torcia elettrica in una mano, loro lì e tutto il mondo fuori. E se spesso leggere è un gesto che appartiene all'ombra, alla notte, non è solo perché il tempo delle attività «utili» è stato finalmente sospeso, ma anche perché leggendo si crea un giardino protetto dagli sguardi. Si legge stando sull'orlo, sul margine della vita, al confine del mondo.

Sono molti gli scrittori che l'hanno confermato: la lettura è una cosa sola con la segretezza, la notte, l'amore, la dissoluzione dell'identità sociale. E fa appello allo stesso pudore dell'amore. Marguerite Duras notava, durante un'intervista: «In un certo senso, leggiamo sempre nell'oscurità [...] La lettura ha a che fare con l'oscurità della notte. Anche quando fuori è pieno giorno, se stiamo leggendo attorno al libro scende la notte». E Michel de Certeau: «Leggere significa essere altrove, dove gli altri non ci sono, in un altro mondo [...] significa creare degli angoli d'ombra e di notte in un'esistenza sottoposta alla trasparenza tecnocratica».

Il lettore elabora un proprio spazio dove non dipende dagli altri, dove momentaneamente gira le spalle anche ai membri della sua famiglia. La lettura in questo senso è trasgressiva: si fugge, si erige un muro – quello di casa, del paese, del quartiere. E dischiude nuovi orizzonti. È un gesto di allentamento, di uscita, ancor più quando si tratta della lettura di opere letterarie, perché all'origine di una grande quantità di racconti, romanzi e narrazioni troviamo un eroe o un'eroina che abbandona la famiglia, la casa e che infrange un divieto.

Nel corso delle sue analisi, cercando di classificare le migliaia di fiabe che aveva raccolto, Vladimir Propp ha scoperto che erano costruite su un certo numero di «funzioni» che seguivano sempre un determinato ordine: un membro della famiglia si allontana da casa, all'eroe è imposta una proibizione, la proibizione viene infranta, eccetera. Le stesse cose le ritroviamo in molti romanzi, tanto che qualcuno ha potuto sostenere che «l'atto fondativo del romanzo, malgrado la grandissima diversità delle sue espressioni, è la partenza dell'eroe che forgia la propria identità sulla base del proprio sradicamento». Ed ecco che il lettore mette i suoi passi nelle impronte lasciate dall'eroe o dall'eroina che lascia la casa e va incontro al vasto mondo, compiendo un percorso iniziatico che lo plasmerà. La sua esperienza entra in risonanza con quella dell'eroe, e lo è anche con quella dello scrittore, poiché nel momento in cui dà l'avvio a una finzione inizia a elaborare una geografia immaginaria, a comporre uno scenario, partendo da ricordi e frammenti di percezione.

Quale che sia il genere del libro, il gesto della lettura è di per sé una via d'accesso a questo territorio dell'intimità. I sociologi hanno osservato che in ambiente carcerario essa permetteva ai detenuti, entro certi limiti, di ricostruire un ambito privato, mentre all'opposto «la televisione poteva sottolinearne la fondamentale, radicale impossibilità». Pensiamo anche a quella commedia di Thomas Bernhard , Prima della pensione, in cui una donna paralizzata che dipende totalmente dal fratello e dalla sorella, grandi ammiratori di Himmler, preserva nei confronti di tutto e tutti un suo spazio, leggendo giornali e libri. E la cosa risulta insopportabile ai due nazisti, che cercano di allontanarla da quegli oggetti che odiano affidandole il rammendo delle calze.

Ecco forse in cosa consiste l'essenza dell'esperienza della lettura: che ci permette di disegnare un paesaggio, una piazza, una dimora, una contrada intima, personale, segreta, ma legata da mille fili ad altre persone – colui o colei che ha scritto il libro, coloro che l'hanno letto o lo leggeranno, coloro che l'hanno fabbricato, venduto, coloro che scopriamo nelle sue pagine. Uno spazio pacifico, senza conflitti, dove ci percepiamo come separati, diversi da ciò che ci circonda, capaci di un pensiero indipendente; dove cominciamo a muovere i passi del nostro cammino, come avrebbe detto Chambaz, a elaborare o riconquistare una posizione come soggetti. Un luogo che apre un margine di manovra o di libertà, che permette un nuovo dispiegarsi di possibilità, che introduce uno spazio a partire dal quale si possono compiere degli spostamenti, reali e metaforici.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 38

Ma i viaggi nella lontananza offerti dalla lettura sono spesso disprezzati, bollati come roba da bambini o consolazione per le donne escluse dalle cose serie – in breve, dei paradisi artificiali. Ma se si pensa questo si disconosce l'importanza dell'immaginario. Per agire nel mondo reale bisogna cominciare a immaginare. L'immaginario fa appello a un'attitudine creativa, più che alla sottomissione allo stato di fatto; mette in moto, fa desiderare. A partire da questo spazio, da questa libertà interiore scoperta, mantenuta o ritrovata, può nascere l'idea di oltrepassare i limiti prefissati, di essere un po' più soggetti attivi della propria vita, di andare altrove, di ribellarsi.

Indubbiamente quest'immaginario si forma utilizzando elementi molteplici e impercettibili – sensazioni, emozioni, volti amati o detestati, paesaggi sconosciuti o familiari, storie di famiglia, di giochi, di scene viste in tv, per strada, frasi raccolte a scuola, negli articoli di giornale, nei libri o in autobus. Ma non tutto questo sta sullo stesso piano. La televisione, ad esempio, è certamente un medium meraviglioso, che ci mostra cose da un capo all'altro del mondo, ma perlopiù rinvia all'identico, a un mondo chiuso, al villaggio globale. Distrae, mentre il libro conduce verso l'interiorità. Per di più, la si guarda solitamente in famiglia, e in questo diventa l'erede dell'usanza di raccontare storie e condividerle a fine giornata. Un'esperienza completamente diversa dall'intimità trasgressiva propiziata dalla lettura.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina

Un pensiero creativo


Resta il fatto che l'accesso al libro e la sua democratizzazione implicano la condivisione di quel modo di abitare il tempo che è propizio alla fantasticheria. Proprio perché è in disaccordo, confligge con il ritmo delle attività «utili», essa può introdurre un margine di manovra, di creatività. C'è bisogno di ricordare che qualsiasi invenzione, qualsiasi scoperta nasce nei momenti di fantasticheria, e che in senso più ampio senza fantasticheria non vi è pensiero né creatività? Lo sa benissimo Daoud, che trascorre giorni interi in biblioteca e che ha notato come i demoni dell'«utilità» e dell'«efficienza» vi stiano guadagnando terreno: «Alla Cité des Sciences quegli imbecilli hanno eliminato tutti i libri di fantascienza, perché secondo loro non erano scientifici. Be', è assurdo, come pensate che i giovani si interessino all'immaginario scientifico, a costruire dei robot, se non trovano dei libri che raccontano di qualcosa di inventato? Sono sicuro che libri come quelli di Jules Verne sono stati determinanti per centinaia di scienziati e di ingegneri. È con i sogni, non aprendo le pagine di un libro di matematica pieno di formule, che si diventa scienziati. Leggere del capitan Nemo, del suo sottomarino che combatte con un disco volante, sono queste le cose che tengono sveglia l'immaginazione. Non eliminandole perché secondo te non sono scientifiche o serie. Rifiutandole ci si impoverisce, non ci si arricchisce».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 48

Capitolo 4

Identificazione?


Nel corso della storia, al libro è accaduto di essere considerato pericoloso altrettanto quanto è stato ritenuto edificante o educativo. E, come ha scritto Marsine Poulain, «più ancora della lettera del testo, del suo contenuto, all'origine di qualsiasi forma di censura ci sono le sue letture potenziali»: a mettere in allarme sono le letture senza controllo. Quello che fa paura è in particolare quel meccanismo in cui il lettore verrebbe come «aspirato», posseduto dall'immagine che gli viene porta, correndo il rischio di seguire l'eroe o l'eroina nelle loro peggiori derive: cosa che equivarrebbe a riconoscergli un potere immenso. Nella tradizione dei Lumi, solo la lettura disciplinata, inquadrata, di opere istruttive o elevate, accuratamente selezionate, permette di edificare la ragione. Per molto tempo gli altri utilizzi del libro sono stati giudicati socialmente nefasti, assimilati alla pigrizia, all'assunzione di droga o all'autoerotismo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 60

È vero anche che esistono film come testi e libri ai quali ci si appiccica come allo schermo. Ma come sottolinea Baudry, ciò che è visivo appartiene alla sfera dell'Uno e del potere tirannico, dal quale è più difficile proteggersi, mentre la lettura appartiene perlopiù alla sfera di ciò che resiste all'assemblaggio in «un quadro unico». Sulle travi del soffitto della sua biblioteca, Montaigne aveva fatto incidere citazioni di autori dell'antichità. In quel labirinto di iscrizioni, conversando dentro di sé con altri autori, egli lavorava sulla propria interiorità e sperimentava la sottrazione dell'unità del soggetto. Il soggetto gioca al «cavallo scappato», noi siamo fatti di frammenti: «Siamo tutti frammentari, e fatti in modo talmente informe e diverso che ciascun frammento, ciascun istante è a sé».

Proprio come il soffitto di Montaigne, il nostro essere è tatuato di parole. Meglio ancora: è fatto di parole. Molte esistevano già prima della nostra nascita, altre sono arrivate con il tempo e l'esperienza. E certe, di cui siamo fatti, con le quali abbiamo messo insieme un senso, le abbiamo trovate nei libri. Ecco perché è così difficile separarsi dai propri libri: è il nostro essere, la nostra storia, che vediamo sfilare lungo gli scaffali.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 81

Salman Rushdie , ricordando che «nel corso dei secoli gli artisti occidentali hanno svaligiato allegramente i magazzini dell'Africa, dell'Asia, delle Filippine», scrive: «Sono certo che possiamo permetterci la stessa libertà». E così fanno tante donne e tanti uomini che praticano la lettura in modo intensivo o episodico, facendo il loro bricolage personale, i loro assemblaggi, pescando nelle tasche degli scrittori di tutti i continenti. In questo comportamento, come direbbe Ridha, niente è incompatibile. O, come scrive Jean-Luc Nancy: «Il gesto della cultura è di per sé un gesto di rimescolamento: la cultura confronta, trasforma, ribalta, sviluppa, ricompone, combina, elabora». Perché ciò che ciascuno fa nel suo angolino ha un effetto su scala più ampia: le culture s'incontrano, si fecondano, si modificano a vicenda, si ricostruiscono.

Proprio questa «mescolanza», questo incontro, alcuni si ostinano a volerlo negare perché lo vivono come una catastrofe, un'intrusione. Per loro il rimedio a quest'intrusione è fare ricorso a un'«identità» monolitica, cementata; i libri, in quest'ottica, diventano ciò che rischia di demolire tutto l'edificio.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 82

Capitolo 7

La paura del libro


Nelle società scarsamente acculturate, leggere un libro significava entrare in un mondo pericoloso, affrontare il diavolo. Oggi, quando tutti elevano peana ai piaceri della lettura e deplorano i misfatti dell'ignoranza, una simile paura fa sorridere. Però... però in Francia, proprio in questo primo scorcio di Ventunesimo secolo, ci sono ragazzi che leggono poesie clandestinamente per evitare che i compagni li prendano in giro o gli spacchino la faccia; ci sono ragazze, nei quartieri «problematici», che leggono nascondendosi sotto le coperte, alla luce della torcia elettrica; ci sono donne in campagna che stanno ben attente a nascondere il libro quando vedono passare un vicino, per non sembrare delle scansafatiche; ci sono genitori che s'indispettiscono se scoprono i figli con un libro in mano, pur ripetendo loro di continuo che «bisogna leggere»; ci sono addetti alle biblioteche speranzosi che, grazie alle nuove tecnologie, «finalmente ci sbarazzeremo dei libri»; ci sono insegnanti di Lettere che entrando in sala professori nascondono la copia di Le Monde o il romanzo che stanno leggendo, per non fare la figura degli «intellettuali» ed essere emarginati dai colleghi; ci sono cattedratici che non leggono altro che tesi e relazioni, e diffidano di quelli che amano la letteratura.

Inverosimile? Sottolinea un cattedratico, su un recente numero della rivista Débat: «Leggere un libro all'interno delle mura dell'università è considerato segno di snobismo e di affettazione: è la prova che si rimane in disparte rispetto alla vita dell'istituzione e ci si rifiuta di partecipare a quell'incessante turbinio di organizzazioni e riorganizzazioni conseguenti alle riforme del sistema universitario che ti prosciuga tutte le energie in cambio di risultati che definirei volentieri ridicoli».

Nei miei dieci anni di ricerche sulla lettura non ho mai smesso di stupirmi per i tanti episodi che testimoniano quanto sia ancora viva la paura del libro, quante siano le forme che assume (divieti sociali che si assommano ai divieti inconsci), e per il fatto che se è manifestata apertamente nei contesti sociali sfavoriti, la si incontra anche presso le classi privilegiate, persino tra i professionisti del libro e gli insegnanti.

E curiosamente, di questa paura non si parla. Troppo spesso si pensa che il libro sia qualcosa di scontato per gente scolarizzata e dotata di certe competenze. E invece no: la lettura può rivelarsi comunque impossibile o rischiosa, se implica entrare in conflitto con modi di vivere o valori culturali di un gruppo o di un luogo: non è un'attività isolata; trova – o non trova – posto in un insieme di attività dotate di un significato. E infine, può risultare incompatibile con certi processi psicologici.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 115

Il libro permette di ritrovare il senso della nostra continuità e la capacità di stabilire dei legami con il mondo. È anche depositario di energia e come tale può dare la forza di passare ad altro, di uscire da dove siamo immobilizzati. Alimenta la vita – sappiamo quanto siano frequenti le metafore orali quando si parla della lettura. Permette di dare voce alle emozioni e alle angosce, di prendere le distanze da loro, di smorzare le paure. Dà senso all'insensato e, come dice Michèle Bertrand, «la produzione di senso è ciò che consente di negoziare la nostra impotenza davanti al destino, come di simbolizzare l'insimbolizzabile».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 116

La lettura non è la sola attività che offre questa possibilità di elaborare senso. La scrittura, il disegno sono altrettanto efficaci per dar forma all'insensato, racchiudere nei tratti di matita ciò che si è subito, riprendere fiato accanto a delle immagini scarabocchiate. E in diversi punti del globo, in contesti di una violenza inaudita, ci sono bibliotecari, insegnanti, persone impegnate nel volontariato che non si stancano mai di leggere storie ai bambini e agli adolescenti e di esortarli a scrivere diari o disegnare.

La lettura, come il disegno, non può rimediare ai guasti del mondo, né svolgere di colpo una funzione catartica. Ma più il contesto è violento, più è vitale mantenere degli spazi di tregua, di fantasticheria, di pensiero, di umanità. Le nostre vite, la nostra comprensione di noi stessi e del mondo non possono reggere senza deviazioni, senza l'attesa di ciò che potrebbe accadere, di un incontro imprevisto. Il mondo non è abitabile se mancano i luoghi in cui è permesso muoversi, lasciarsi andare, riposare, passare ad altro, tentare accostamenti insoliti; spazi spalancati su qualcos'altro, racconti che giungono da altrove, volti sconosciuti, leggende, saperi. Tutto questo, in una parola, è il libro.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 117

Capitolo 9

Dallo spazio intimo allo spazio pubblico


«Così, zitta zitta, la lettura che sembrava asociale e disimpegnata finisce per svolgere un'altra funzione sociale, che è forse la sua preoccupazione fondamentale» scrive Jean-Christophe Bailly.

Se in questo libro parlo della lettura come pratica intima, come gesto di distacco, di disimpegno, non significa negarle quella dimensione di condivisione che appartiene a tutti i gesti di sublimazione. Leggere significa stringere legami, e nell'atto di leggere, l'abbiamo già detto, si stringono legami multipli con colui o colei che ha scritto il libro, con coloro che l'hanno trasmesso, tradotto, fabbricato, proposto – e la lettura può essere un modo per prolungare questo legame; con coloro le cui storie sono raccontate nelle sue pagine, e coloro che hanno letto questo libro in precedenza o che lo leggeranno un giorno.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 120

[...] Se leggere può costituire un'apertura all'altro, non è solo grazie ai circoli di lettura organizzati e alle discussioni che si animano attorno ai libri, ma anche perché quando con un solo gesto si svela la nostra verità più intima e la nostra comune umanità, il rapporto con l'altro cambia. La lettura non taglia fuori dal mondo: ti ci porta dentro diversamente. Nella lettura ciò che è più singolare coincide con l'universale. E se a tutti noi succede, prima o poi, di leggere come se ci succhiassimo il pollice, in un atto di evidente autoerotismo, tanti lettori raccontano come l'incontro con un libro gli abbia permesso di uscire dal loro piccolo mondo, dalle loro piccole preoccupazioni.

Aziza, ad esempio; ha diciott'anni e così ricorda quando ha letto un racconto biografico: «In quel modo ho scoperto molte cose sulla Seconda guerra mondiale, su come la gente l'ha vissuta. L'avevo studiata anche in Storia, ma non è la stessa cosa. Ci parlano di conseguenze demografiche, ma sai, non sono cose che vivi. Invece in quel libro avevo l'impressione di viverla, la storia, insieme alla gente. Quando il professore dice 'Ecco, ci sono stati centomila morti' sembra sempre una cosa astratta. Poi ho letto il libro e mi sono detta: come hanno fatto a vivere una cosa così...»

Oppure Mounira: «Avevo scoperto due libri... ero in quarta o in quinta, c'era una mostra di libri che parlavano della situazione degli ebrei nei campi di concentramento, ha cambiato il mio modo di vedere le cose... quello che penso sulla comunità ebraica, e mio padre non è d'accordo. Per lui un ebreo è un nemico, per me no. Hanno sofferto come tutti gli altri, e da un punto di vista storico possiamo considerarli come dei cugini. Mio padre non è d'accordo nemmeno su questo. Lo capisco, ma mi tengo la mia opinione».

La lettura può far vacillare convinzioni radicate, mettere in crisi una visione del mondo basata sulla contrapposizione «noi-loro», quella dicotomia così diffusa, e non solo negli strati sociali più bassi. Ma se può allentare dei legami comunitari, invita però a stringere altri tipi di legami sociali, altre modalità di appartenenza. Non è che dedicandosi a quest'atto selvaggio e solitario si diventa tanti Narcisi, incapaci di una vita sociale e di condividere dei progetti comuni. La scoperta di sé e dell'altro in sé viaggia di pari passo con un'apertura verso l'altro.

Noteremo di passaggio che per le due adolescenti citate è l'emozione, l'empatia che le ha condotte ad acquisire una distanza critica. È un po' la stessa cosa che accade a Hocine quando ricorda la lettura di un'antologia di brani di Montesquieu: «Il testo sulla schiavitù dei negri, ecco, quello mi è piaciuto davvero. Sono idee che bisognerebbe ritirare fuori, oggi».


Aver voce in capitolo

La lettura può contribuire a farci diventare critici o ribelli, a farci imboccare la direzione opposta rispetto a quella che era stata scelta per noi. Per molti lettori che abbiamo incontrato nelle campagne o nei quartieri «problematici», per molti scrittori che scrivono dei loro ricordi, la lettura ha giocato un ruolo di uscita, di resistenza.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 125

[...] George Steiner ha trascorso tutta la vita a domandarsi come si potesse leggere Goethe o Rilke, apprezzare un passaggio di Bach o di Schubert, e la mattina successiva mettere a morte delle persone in un campo di sterminio: «Né la grande lettura, né la musica, né l'arte hanno potuto impedire la barbarie totale. Anzi, bisogna fare un passo più avanti: spesso sono stati l'ornamento di quella barbarie».

È forse su un altro registro che la diffusione della lettura può, a certe condizioni, andare nel senso di una democratizzazione – intesa come la partecipazione a un processo in cui ciascuno, ciascuna sarebbe soggetto più attivo del proprio pensiero e del proprio destino, individuo e membro della collettività. Ascoltando le parole dei lettori ci si rende conto che grazie alla lettura, anche episodica, si hanno armi migliori per far presa sul proprio destino anche in contesti sociali molto oppressivi, resistere a un certo numero di processi di emarginazione o di meccanismi d'oppressione (politici, economici, simbolici o familiari), elaborare o riconquistare una dignità di soggetto, invece di essere solo oggetto dei discorsi altrui. Mediante la diffusione della lettura si crea così un certo numero di condizioni necessarie per propiziare una cittadinanza attiva – ma attenzione: necessarie, propizie; non sufficienti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 132

La tecnica o la vita?


Oltre alle parole degli alunni, ci sono le considerazioni di scrittori e sociologi che sembrano fatte apposta per scoraggiare gli insegnanti: Borges diceva che quando si detesta la poesia la si insegna, Nathalie Sarraute che commentando un testo lo si uccide e che rimane solo il commento. E secondo Píerre Bourdieu la scuola distruggerebbe quell'esperienza popolare, sradicherebbe quel bisogno di leggere per cui il libro è recepito come depositario di segreti magici e dell'arte di vivere, creandone un altro, di tipo diverso.

Certo è che nel corso degli ultimi venticinque anni l'insegnamento ha preso la direzione opposta a quella dell'iniziazione a un'arte di vivere. In generale, ha anche dato minor spazio alla letteratura, pur con le migliori intenzioni del mondo: gli ispiratori di questa tendenza della didattica considerano la letteratura come uno dei fattori di riproduzione di un determinato ordine sociale, dato che solo i figli delle classi agiate si muoverebbero a loro agio in quella cultura letteraria che era già familiare ai loro genitori. Nota Francis Marcoin: «Non si esagera dicendo che nel 1968 nelle università la linguistica è di sinistra, la letteratura di destra. Questa curiosa dicotomia ispirerà per molti anni la didattica del francese; lo scopo è abolire dall'apprendimento della lingua qualsiasi uso letterario, considerato classista, normativo e praticamente estraneo al fruitore finale». La letteratura è stata quindi vista per un certo periodo come un lusso da classi agiate. È vero che l'industria francese aveva in quel periodo un gran bisogno di ingegneri e tecnici e che si stavano sviluppando modelli culturali diversi, fortemente improntati al concetto di «comunicazione». I valori utilitaristici prendevano il posto di quelli «umanistici», considerati aristocratici.

Allo stesso tempo, con disprezzo è stata messa alla porta l'«identificazione», confusa con l'approccio soggettivo. Ed è stata privilegiata una concezione strumentale, formalista, interamente dalla parte della manipolazione del testo – ispirata dalla linguistica strutturalista e dalla semiotica, poi da una neo-retorica – che si voleva più democratica, più «scientifica», più suscettibile, anche, di dare luogo a delle valutazioni. Il «testo» letterario è diventato una macchina funzionale – laddove si suppone che il lettore abbia acquisito il sapere tecnico, gli strumenti per farla funzionare – poi una «forma di discorso» tra le altre. A partire dagli anni Ottanta, e quindi in ritardo, i programmi e i manuali trasponevano così nella scuola secondaria dei saperi di riferimento la cui ricerca e il cui insegnamento universitario erano già tramontati...

In questo modo, curiosamente, più la scuola si apriva a categorie sociali lontane dalla cultura «alta», più si imponevano un gergo e delle tecniche estremamente sofisticate, presi a prestito dalla critica testuale, dalle teorie dell'enunciato e dalla retorica. Per fare un esempio, al secondo anno di superiori possono essere chieste le definizioni di: metafora, metonimia, sineddoche, perifrasi, ossimoro, iperbole, epifora, graduazione, litote, eufemismo, antonomasia, ipallage, preterito, esplezione, iperbate, prosopopea, paronomasia, per tacere dei migliori, del tipo di epanalessi, anadiplosi, anacoluto e altri zeugmi. E come dice François Bon, a cui ho rubato questo esempio, è lecito chiedersi se è con roba del genere che si legge o si scrive. E se la scuola non ha in un certo senso ripreso con una mano quello che dava con l'altra, visto che certi programmi sembrano andare in senso diametralmente opposto al «pubblico», proprio quando i loro promotori proclamavano di farsi portatori dei bisogni «specifici» di questo «nuovo pubblico».

Tutti hanno il diritto di aver accesso agli strumenti di pensiero più attuali, ci mancherebbe altro. Ma a parte il fatto che buona parte di coloro che lo proponevano agli allievi portavano avanti un modello già datato, maneggiare cotanto metalinguaggio presupponeva forse di essere già animati dalla passione per la lettura. Peccato che nel corso degli ultimi decenni la proporzione dei «forti lettori» (quelli che leggono almeno due libri al mese) si sia abbassata tra i giovani, proprio mentre ci si sarebbe potuti aspettare che si innalzasse con la generalizzazione e il prolungamento della scuola dell'obbligo: alla stessa età gli adolescenti leggono meno delle generazioni precedenti.

Le ragioni di ciò sono molteplici e complesse; alcune discendono dai conflitti socioculturali ricordati in un capitolo precedente, altre dalla diversificazione dei tipi di passatempi, dall'avanzata della cultura visiva e dall'ossessione per la «visibilità» che caratterizza la nostra società, dal ritorno alle forme di aggregazione maschiliste, eccetera. Anche gli effetti perversi dei peana innalzati alla gloria della lettura hanno contribuito a svalutarne l'immagine agli occhi dei giovani e a trasformarla in una corvée.

Di certo, la piega che ha preso l'insegnamento non ha migliorato le cose. Almeno è quello che sostengono Christian Baudelot e Marie Cartier con una frase lapidaria e provocatoria: «Più i ragazzi vanno a scuola, meno libri leggono». Secondo loro, l'insegnamento del francese contribuirebbe a un processo di rifiuto della lettura individuale. In particolare, il passaggio alle scuole superiori richiederebbe una vera «conversione mentale» alla quale molti alunni non sarebbero preparati, perché implica il porsi di fronte ai testi con un atteggiamento distante, avvertito, di rottura rispetto alle loro letture precedenti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 139

Vi è probabilmente una contraddizione insanabile tra la dimensione clandestina, ribelle, eminentemente intima della lettura per se stessi, e gli esercizi in classe, in quello spazio trasparente, sotto gli occhi degli altri. Tra la fantasticheria di un bambino che costruisce un significato e la sottomissione alla letteralità. E l'essenziale dell'esperienza personale della lettura non passa per una scheda. I gesti che accompagnano la lettura scolastica e quella individuale non sono gli stessi. Ascoltiamo ancora una volta Jean-Louis Baudry: «Se i nostri libri di classe si differenziano e addirittura si contrappongono a quelli che saranno proposti per il nostro piacere [...] è soprattutto perché i primi esigerebbero la postura rigida e scomoda da tenere nel banco o su una sedia dura, e gli altri invece inducono a un'indolenza e una lascivia da odalisca sul divano, o a meditazioni da saggio indù nei recessi in cui abbiamo trovato rifugio».

Non bisogna fare di tutta l'erba un fascio. Delle scoperte più sconvolgenti che bambini e adolescenti fanno grazie ai libri la scuola non sa granché, né deve cercare di saperlo. Invece, è compito degli insegnanti introdurre gli allievi a una maggiore familiarità, una maggiore spigliatezza nell'approccio ai testi. A loro spetta di far sentire ai ragazzi che tra tutti quei libri, di ieri o di oggi, ce n'è sicuramente qualcuno capace di parlare a loro, proprio a loro – facendogli incontrare la voce di un poeta, lo stupore di uno scienziato o di un viaggiatore, che possono offrirsi a una condivisione più allargata ma solo avendoci toccato prima uno per uno. Tocca agli insegnanti spalancare il senso, far passare l'idea che se non si può far dire qualsiasi cosa a un testo, ce ne sono però tante letture possibili, molte interpretazioni e che questa polisemicítà, questa riserva di significato, è una chance. Devono anche essere disponibili se gli allievi desiderano discutere del contenuto dei libri – della gelosia, del- l'amore, del senso della vita, della morte... – e non solo della loro forma; e passare la mano più spesso alle biblioteche esterne all'universo scolastico. È una fortuna che esistano diversi luoghi, ciascuno con la propria vocazione. La biblioteca non è la rivale della scuola, è un luogo diverso.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 145

Conclusione


Un giorno d'inverno del 1983, Calaferte si scaglia nel suo taccuino contro i «pretesi intellettuali» e «gli invidiosi buoni a nulla» che pronosticano soddisfatti la scomparsa del libro, invitandoli a recarsi nelle biblioteche pubbliche per constatare l'effervescenza che vi regna. E annota: «Immaginare l'uomo amputato della scrittura e del suo corollario, la lettura, significa pensare a una società completamente sottomessa al riflesso meccanico, dove l'individualità non esisterebbe più; che questa decerebrazione sia preconizzata da certe cricche, è certo, ma non fa i conti con il bisogno di poesia, quell'energia vitale che, qualunque forma prenda, è come impiantata in ciascun individuo, e gli permette perlomeno di assegnarsi una dignità a titolo personale».

Oggi sono numerosi coloro che si rattristano (o si rallegrano) della decadenza della lettura, o della morte del libro. Ma quando si ha la fortuna di avervi accesso, la lettura ha sempre senso, anche per i giovani e in ambienti teoricamente lontani dalla cultura «ufficiale». Da piccoli lettori, anche se non vi dedicano molto tempo, sanno che certe frasi trovate in un libro possono cambiare il corso di una vita e attribuiscono alla lettura delle virtù uniche, che la rendono diversa da tutti gli altri passatempi. Il libro ai loro occhi vince rispetto alla cultura visiva, perché apre alla fantasticheria, all'immaginario, al mondo interiore.

Di fatto, l'esperienza della lettura, per coloro che vi hanno accesso, è la stessa indipendentemente dalla sfera sociale d'appartenenza. Ci sono persone di ambienti modesti che sono dei «forti» o «deboli» lettori in termini statistici, e che hanno conosciuto tutta la gamma delle esperienze di lettura – in particolare, hanno incontrato in un testo scritto parole capaci di stimolarli, attivarli, talvolta molto dopo che ne avevano richiuso le pagine. Nessuna sorpresa: la curiosità, il bisogno di poesia – per riprendere la felice espressione di Calaferte –, di leggere storie, il desiderio di simbolizzare la propria esperienza, di metterla in parole, non sono appannaggio di alcuna classe sociale né di alcuna etnia.

Non si legge solo per acquisire padronanza di informazioni, perché il linguaggio non è riducibile a uno strumento o a un utensile di comunicazione. Non si legge per brillare nei salotti o per scimmiottare la gente «bene», che del resto non sempre legge, anzi. Molte donne e uomini, un po' meno numerosi, leggono per il piacere della scoperta e per inventarsi un senso della vita, anche negli ambienti modesti. Per uscire dal tempo, dallo spazio della quotidianità, e avere accesso a un universo più ampio. Per aprirsi all'ignoto, farsi trasportare in mondi sconosciuti, entrare nei panni di un altro o un'altra, avvicinarsi all'altro che c'è in loro, addomesticarlo invece di rifiutarlo. Per sapere cosa è stato inventato per rendere meno difficile essere solo di passaggio su questa terra. Per abitare poeticamente il mondo e non limitarsi a adeguarsi a un universo fatto di produttività.

La cultura, più in generale, non è un vezzo da ricchi, ma qualcosa che ha a che fare con il senso della vita. Non è nemmeno un totem attorno al quale si radunano le masse, ma qualcosa che è, o piuttosto dovrebbe essere, a disposizione di tutti, affinché tutti possano impadronirsene e farne uso in qualsiasi momento delle loro vite.

| << |  <  |