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| << | < | > | >> |IndicePrefazione di Loretta Napoleoni XIII PROCESSO AGLI ECONOMISTI Introduzione 3 Capo d'imputazione n. 1: sbagliano le previsioni 7 - Anche Buckingham Palace contro gli economisti 7 - Il guastatore Tremonti 10 - La fiera delle previsioni sbagliate 13 - La tesi della grande menzogna 16 - Eccessi di ottimismo 21 - Un'ostinata miopia 24 - Fenomeno Roubini 28 - Un «nerd» chiamato Blanchflower 32 - Cattolica versus Bocconi 33 Capo d'imputazione n. 2: hanno perso il contatto con la realtà 37 - L'overdose di matematica 37 - La legge dell'equilibrio 39 - Sono sempre quelli di Chicago 43 - I due Nobel inventori dei derivati 47 - L'euforia: gli economisti trascurano l'effetto gregge. Un romanzo dimenticato 50 - Anche il «Financial Times» riabilita Minsky 54 - Saranno i fisici a salvare gli economisti? 56 - Un'altra accusa: non dovrebbero bersi tutte le statistiche 59 - Temi trascurati: il caso dell'economia criminale 63 Capo d'imputazione n. 3: hanno creduto troppo nel dio Mercato 67 - Parola di Alan Greenspan, il «mercatista» 67 - Mosche bianche: Stiglitz, quello del Washington consensus 69 - La sbornia italiana 73 - Torniamo alla lezione di Sylos 78 - Sicari o vittime? 84 - Una notizia: il Nobel per l'economia non esiste 89 Capo d'imputazione n. 4: hanno troppo potere 93 - La «dittatura» degli economisti 93 - I sacerdoti del deficit-Pil 98 - Notai o parafulmini? 102 - Martino, il battutista. Brunetta, l'aspirante Nobel 106 - Poltrone, conferenze d'oro e business 108 - Lo scandalo delle cattedre 112 Capo d'imputazione n. 5: sono incapaci di comunicare 117 - Ma gli economisti sanno parlare alla gente? 117 - Un test: semiologi, pubblicitari ed esperti di pr giudicano gli economisti 122 - L'appello a Obama dei duecento economisti: dove si parla chiaro 128 - Lavoce.info e la Cgia di Mestre. Due casi 130 - Due questioni finali: fare l'economista piace ancora? Quanto si fida la gente degli economisti? 132 Capo d'imputazione n. 6: hanno smesso di sognare 137 - L'economia della quarta dimensione: quella che trova consensi su internet e You Tube 137 - La setta antisignoraggio: una follia ascoltata 140 - I Titan, i money reformers e altri casi simili 143 - Geminello e il signor Silvius Gesell 145 - I fanatici della decrescita 146 APPENDICE Le dieci bugie degli economisti secondo John R. Talbott 153 La crisi e le ultime parole famose 157 Bibliografia 161 |
| << | < | > | >> |Pagina XIIIChiromanti, meteorologi ed economisti, ecco alcune professioni proiettate verso il futuro. È facile capire il perché: i chiromanti soddisfano la curiosità riguardo al nostro destino, i meteorologi ci dicono se dobbiamo uscire con l'ombrello. E gli economisti? Perché fanno parte delle voci del domani? Perché studiano il denaro. La loro è una professione che ruota intorno al censo, al punto che l'economia potrebbe essere ribattezzata «scienza del denaro». Come si guadagna, come si spende, come si muove, come si distrugge il denaro: questi i principi della teoria economica, che in sintesi ci racconta quanto ricchi o poveri siamo, e così facendo ci offre una visione della ricchezza delle nazioni in cui viviamo. Il denaro, si sa, fa girare il mondo: ciò spiega il successo che gli economisti da sempre riscuotono nei media. Ai giornalisti piace far parlare chi ne conosce i misteri, perché questi sono argomenti cari ad ascoltatori, lettori e telespettatori. Ecco spiegato il motivo per cui la gente pende dalle labbra degli economisti. E la storia della professione può essere raccontata descrivendo come è cambiato nel corso del tempo il rapporto tra popolo e denaro. L'economista nasce con la rivoluzione industriale; i classici, come nel gergo vengono descritti i primi economisti — Adam Smith, David Ricardo e perfino Karl Marx — non vivevano nell'antica Grecia come Socrate e Platone, ma nelle periferie uggiose dell'Inghilterra. Prima della nascita del capitalismo moderno, l'economista era il consigliere del principe: si occupava sia delle sue pene amorose, sia dei forzieri della nazione. La rivoluzione industriale ha rotto un paradigma vecchio quanto il mondo, secondo il quale ricchi non si diventa, ma si nasce. Prima di allora, i casi di persone che avevano accumulato una fortuna durante la propria vita e con il frutto del proprio lavoro erano rarissimi, se si escludono coloro che si erano arricchiti con la pirateria o la colonizzazione. Una volta scardinato questo principio, il consigliere si è concentrato sulle entrate e le spese pubbliche, tralasciando gli affari di cuore del suo signore. Gli economisti classici, dunque, studiavano un fenomeno senza precedenti, che forgiava davanti ai loro occhi la moderna economia. E sulla base della loro analisi è nata la teoria economica, una scienza sociale giovanissima rispetto alla filosofia, alla matematica, alla fisica, e che, a differenza di queste, ha pochi postulati, tutti legati al rapporto dell'individuo con il denaro. È però solo con la Grande depressione che l'economista fa il suo ingresso trionfale sulla scena politico-sociale, salvando il mondo dal baratro della crescita negativa. I classici assomigliavano molto a persone come Leonardo da Vinci: erano superintellettuali, vivevano isolati dal mondo politico, arroccati in quello che molti descrivono ancora come una torre d'avorio. Una postazione da dove osservavano la società e ne descrivevano i comportamenti, suggerendo metodi migliori per farla crescere economicamente: cioè, per far fruttare il denaro. Non si mischiavano con il popolo. La moderna professione di economista si afferma nel dopoguerra, quando, insieme a un gruppo di politici e di colleghi, Keynes si ritira per tre settimane a Bretton Woods, lontano dal mondo, per ridisegnare la mappa monetaria ed economica del sistema mondiale. E quando questo esperimento inizia a funzionare e le economie europee, distrutte dalla guerra, timidamente ricominciano a crescere, allora tutti osannano chi ha alimentato questa rinascita. Nasce così il fascino discreto dell'economista: una sorta di venerazione mista a timore, che fa di chi pratica questa professione una specie umana diversa da tutte le altre. Ma quanto esatta è la cosiddetta scienza economica? Quanto sono giuste le previsioni dell'economista sulla base dei suoi principi? La risposta non è facile, perché in realtà esistono diversi gradi e livelli di esattezza e di inesattezza, che corrispondono ad altrettanti strumenti dell'economia. Quando lavoravo in Borsa mi sentivo una chiromante: non so che cosa avrei dato per avere ogni mattina la palla di vetro dove poter leggere gli avvenimenti della giornata. Gli agenti di cambio che all'alba arringavo avevano un orizzonte di otto ore. Come i chiromanti, gli economisti di mercato (quelli che ne anticipano i movimenti) usano poco gli strumenti dell'economia e per necessità sono tutti un po' psicologi. Ci misi del tempo per capire che tutto ciò che avevo studiato all'università non mi serviva granché: era più importante prevedere come avrebbe reagito il mercato alla notizia che la disoccupazione era scesa o salita, che l'Iva era stata abolita o introdotta, che un leader di un paese povero era stato assassinato e che un uragano eccezionale si era abbattuto sulle coste di qualche paese. E poiché non avevo la sfera di cristallo, potevo basarmi soltanto sull'esperienza, cioè sul fatto di aver vissuto sul mercato situazioni analoghe. Altrimenti si procedeva a tentoni. L'economia del mercato si muove a piccoli passetti, quella delle nazioni e quella globalizzata fa grandi salti. Applicare alla prima gli strumenti della seconda e viceversa è sbagliato. Gli economisti classici, e lo stesso Keynes, conoscevano solo l'economia delle nazioni, e io mi ero formata alla loro scuola. Mi era quindi difficile avere una visione di ventiquattro ore: io guardavo ai grandi orizzonti. Soltanto dopo anni di esperienza ho capito come leggere i segnali del mercato. In un certo senso ho dovuto fare un lungo apprendistato per essere all'altezza del mio lavoro. L'avvento della finanza, la crescita del sistema finanziario globale e soprattutto la subordinazione dell'economia alla finanza hanno però ristretto l'orizzonte degli economisti, riducendo l'intera scienza a una serie di formule matematiche. La nascita dei prodotti strutturati non presuppone alcun orizzonte: si prende un prodotto (un mutuo, per esempio) e lo si trasforma in qualcosa d'altro. Negli ultimi vent'anni gli economisti hanno lavorato principalmente in finanza perché gli stipendi erano da favola e nessuno poteva resistervi. Anch'io sono finita lì. Così le grandi menti si sono applicate alla trasformazione di determinati prodotti in altri, hanno lavorato in nicchie microscopiche, dimenticandosi del quadro generale: il mondo. Ed ecco svelato il mistero degli economisti premiati con il Nobel per aver inventato formule matematiche complicatissime, simili a quelle dei fisici nucleari. E pensare che Keynes scrisse la Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta – il testo che ci salvò dalla Grande depressione – senza usare una sola formula matematica. Rileggendo quel libro e quelli di tanti economisti classici, viene da chiedersi: ma perché gli economisti moderni parlano un gergo incomprensibile e usano complesse formule con le lettere dell'alfabeto greco? Temo che ciò sia dovuto alla scarsa conoscenza della materia che trattano e al mantenimento del fascino discreto dell'economista. Se tutti ci capiscono, la distanza tra noi e gli altri si accorcia: questa è la logica. Il gergo incomprensibile è solo una barriera protettiva. Molti anni fa Ezio Tarantelli m'incoraggiò ad andare a studiare negli Stati Uniti perché lì l'economia era alla portata di tutti, faceva parte della vita quotidiana: per un economista non c'è situazione migliore di questa per apprendere i principi della disciplina. Quando lo andai a salutare prima di partire per Washington, mi disse: «Ricordati che se una persona è in grado di capire perché per avere un etto di salame deve pagare una certa somma di denaro, allora quella persona è in grado di comprendere l'economia». Da allora, ogni volta che devo spiegare cosa succede nell'economia, ripenso alle sue parole e cerco di usare esempi chiari, semplici e legati al quotidiano. E veniamo alle previsioni: perché molti economisti non si sono accorti che la grande crisi era alle porte? Perché tutti, qualsiasi professione svolgano, peccano di arroganza e di superbia. L'economia non è una scienza esatta, ma chiunque la professa sogna che lo sia. Tutti vogliono trovare la teoria perfetta, che funzionerà per sempre. E quest'assurda ricerca è il sacro Graal dell'economista, un oggetto fantastico e inesistente. Il massimo che si può ottenere è un atto di fede da parte dei seguaci di una teoria, e infatti la scienza economica era prima conosciuta come dottrina economica. I fallimenti del passato e quelli del presente – il socialismo e il neoliberismo – sono dunque il frutto della cocciutaggine degli economisti, rosi dal desiderio di essere scienziati, e della fede cieca dei loro seguaci. Questo divertentissimo libro, che distrugge uno a uno i miti più consolidati, ci aiuta a capire che quella dell'economista è una professione come tante altre, e che chi la svolge ne conosce poco i limiti. Poiché sta a metà tra credo religioso e scienza, pochi sanno esattamente che cosa sia. Ma questo libro ci fa anche riflettere sui nostri limiti di cittadini: nessuno, e sicuramente non gli economisti, possiede la formula per renderci ricchi e felici. La ricchezza di una nazione sta nell'armonia che la regola, non nel denaro che possiede. La società civile deve acquisire la consapevolezza che economia e finanza sono soltanto strumenti al servizio del cittadino. Quando gli economisti diventano chiromanti e stregoni, pretendendo di influenzare il nostro futuro, bisogna voltargli le spalle perché si tratta solo di ciarlatani. | << | < | > | >> |Pagina 3Sono i maghi dell'era moderna, gli sciamani delle nostre società globalizzate? Solo loro sanno come mettere insieme i tasselli di un mondo dove i trilioni spariscono in un giorno, i miliardi si spostano con un clic e i grandi capitali anonimi la fanno da padrone? Oppure sono un bluff e le loro teorie servono a ben poco quando sarebbe urgente avvistare le tormente della crisi e suggerire le ricette per tornare al benessere? Gli economisti, in circa tre secoli di attività, si sono conquistati la tribuna di primo piano che di volta in volta è stata riservata ad aruspici, sacerdoti, filosofi e giuristi. Hanno un posto privilegiato accanto ai potenti del mondo, ai quali suggeriscono azioni e strategie. Superpagati, stimati, osannati, protagonisti dei talk show, dei blog e delle prime pagine dei giornali, oggi sono sotto accusa. Le società moderne li hanno messi a fare da vedetta al benessere collettivo, ma mentre si avvicinava l'iceberg della crisi, dalla tolda delle università e delle grandi istituzioni internazionali non hanno lanciato l'allarme. Si sono distratti, hanno detto bugie, oppure è la loro scienza che mostra dei limiti? Così, tra la gente comune, il cahier de doléances nei loro confronti cresce e aumenta di dimensioni di giorno in giorno. E le accuse non vengono risparmiate. Hanno sbagliato le previsioni, si sono fatti affascinare dalle alchimie del mercato, hanno perso il contatto con la realtà e la vita di tutti i giorni, hanno ceduto alle lusinghe della politica e del potere, parlano un linguaggio fatto di formule ed equazioni incomprensibile all'uomo della strada. Anche per gli economisti, una corporazione che conta circa 100mila componenti in tutto il mondo, è giunta l'ora di rendere conto pubblicamente del proprio operato. Difficile mettersi a rifare le bucce a questa categoria: nascono insieme al capitalismo e al sistema finanziario e, in qualche modo, ne sono lo specchio. Hanno molto potere: sono nei governi, nelle banche centrali, negli organismi internazionali, nei consigli di amministrazione delle grandi società, nei media, nelle università. Le loro teorie, in particolare quelle ortodosse che dominano il dibattito, sono difficilmente contestabili da chi non ha i loro stessi strumenti e non parla il loro linguaggio. C'è pure il rischio che possano offendersi. Tuttavia, dopo anni in cui gli economisti, vere e proprie star del palcoscenico globale, hanno narrato le virtù dello sviluppo, della competizione e del mercato, il meccanismo si è inceppato. Il crac del 2008, il più grave tracollo della storia dopo la Grande depressione degli anni Trenta, li ha trovati spiazzati: il grosso della professione ha completamente mancato di prevedere la crisi e, a conti fatti, le stime di crescita delle maggiori economie del mondo — lo dicono fonti ufficiali — si sono rivelate sbagliate per almeno 4-5 punti percentuali. Se si tiene conto che il Pil mondiale ammonta a circa 65mila miliardi di dollari, l'errore vale circa quanto la ricchezza prodotta da un paese come la Germania in un anno! Quello che doveva essere un tranquillo orizzonte di crescita si è rivelato un mondo con le strade piene di disoccupati. Coloro che li accusano, e chiedono la loro testa, non sono pericolosi estremisti, ma membri dell'establishment mondiale. Nel novembre scorso addirittura Elisabetta d'Inghilterra è sbottata durante una visita al tempio dell'economia, la London School of Economics: «Ma voi dove eravate?», ha chiesto. Politologi, giuristi, sociologi e fisici puntano l'indice e chiedono: ma che scienza è la vostra? Anche il «Financial Times», bibbia della finanza, ha capito che era l'ora di rivedere qualcosa e Martin Wolf, il suo commentatore più autorevole, ha aperto il suo blog con un titolo eloquente: L'ora dell'umiltà. I pochi eretici, emarginati dalla professione, oggi vengono rivalutati non senza un qualche imbarazzo. Nel corso degli ultimi anni a molte categorie è toccato di sottostare al pubblico scrutinio e di dover render conto del proprio operato. Dai politici ai notai, dai tassisti ai medici, dai farmacisti agli imprenditori. I più attenti hanno notato che nella parte del pubblico ministero c'erano sempre gli eredi di Adam Smith ad agitare severi la bacchetta. Ora, invece, sono loro a sedere sul banco degli imputati. Chi sono i maghi del nostro tempo? Su quali libri e in quali università sono stati iniziati alla scienza economica? Perché hanno acquisito così tanto potere? E soprattutto perché sbagliano le previsioni e la loro scienza sembra sempre più lontana dagli interessi della società in cui viviamo? Che ci sia qualcosa da rivedere? Nelle prossime pagine cercheremo di rispondere a queste domande. Oggi può essere utile a tutti «processare» una delle categorie più ammirate e invidiate degli ultimi tempi per scoprire le cause della profonda crisi che la investe. Abbiamo istruito la pratica con cura. Abbiamo raccolto testimonianze e deposizioni di «pentiti», ricostruendo fatti, connessioni e moventi e abbiamo cercato di formulare, in tutta coscienza, sei capi d'imputazione. Non abbiamo naturalmente espresso un giudizio. Quello lo darà il tribunale dell'opinione pubblica. Sta agli economisti difendersi. Ne saranno capaci? Ma se dovesse arrivare una condanna, bisognerà essere pronti a mandare al macero buona parte dei testi su cui sono fondate le nostre conoscenze sull'economia. | << | < | > | >> |Pagina 153Nel libro The 86 biggest lies on Wall Street («Le 86 principali bugie su Wall Street») l'ex banchiere di Goldman Sachs e autore di best-seller, John R. Talbott, mette seriamente in dubbio la credibilità degli economisti. Artefice di sorprendenti previsioni sullo scoppio della bolla immobiliare e autore del libro Obamanomics, Talbott raccoglie una quantità di piccole e grandi bugie sulla crisi del 2008 e, in generale, sulla scienza economica: dieci di queste sono direttamente imputabili agli economisti. Vediamo quali. Bugia n. 1 - La disoccupazione negli Usa è al 7,2 per cento.
Non è vero, dice Talbott, è almeno al 25 per cento. Perché? Perché, come del
resto accade in tutti i paesi, si calcolano soltanto
gli individui che dichiarano di essere alla ricerca attiva di un lavoro. Restano
fuori casalinghe, sottoccupati, immigrati, anziani
non pensionati, studenti e disabili che potrebbero lavorare se ne
avessero la possibilità e non fossero così scoraggiati da dichiararsi
«disinteressati» ad un lavoro.
Bugia n. 2 - Le stime sul declino del Pil reale sono esagerate.
La riduzione del Pil, secondo Talbott, sarebbe in realtà più grave di quanto
appaia dai dati ufficiali, perché questi non tengono nel dovuto conto l'effetto
della deflazione. Per Talbott
invece la riduzione dei prezzi inciderebbe pesantemente sul Pil:
infatti, i consumatori ridurrebbero la quantità di merce acquistata perché non
sarebbero disposti a pagarla ai prezzi esorbitanti che ha raggiunto. Se noi
diciamo — argomenta Talbott — che il Pil reale si è contratto di un 5 per cento
in un periodo di deflazione, durante il quale i prezzi si sono ridotti di un
altro 5 per cento, non diciamo una cosa esatta. I consumatori infatti
non solo hanno comprato il 5 per cento in meno di prodotti,
ma hanno pagato anche il 5 per cento in meno per averli. Ciò
indica che il reale valore della contrazione del Pil è stato del 10
per cento.
Bugia n. 3 - L'inflazione viene provocata dal surriscaldamento dell'economia, con bassa disoccupazione e richiesta di salari più alti da parte dei lavoratori.
L'inflazione in realtà è provocata dall'eccesso di moneta messa in
circolazione. Stranamente, l'aumento dei prezzi delle case, delle
azioni, dei beni di prima necessità non suscita negli economisti
nessun allarme, ma tutti agitano il fantasma dell'inflazione se i
salari crescono. Forse gli economisti sono in combutta con un
sistema che ha interesse a mantenere basso il costo del lavoro per
aumentare i profitti delle aziende e delle banche?
Bugia n. 4 - La Federal Reserve è al servizio degli americani e ha tutto l'interesse a mantenere un'economia vibrante e in crescita.
La Federal Reserve non è controllata dal governo: è un organismo
indipendente controllato dalle banche commerciali
del paese, e come tale non opera per il bene dei cittadini
americani. Le sue scelte, dice Talbott, sono determinate dalla
necessità di proteggere le banche. Ha consentito che le banche facessero
profitti plurimiliardari negli scorsi due decenni
attraverso i mutui ad alto rischio, senza imporre alcun criterio di trasparenza
e alcuna restrizione. La Fed, inoltre, non ha
interesse alla piena occupazione, perché ciò provocherebbe richieste di aumenti
salariali da parte dei lavoratori, che scatenerebbero l'inflazione. Inoltre la
crescita dei salari ridurrebbe i profitti e aumenterebbe le difficoltà delle
imprese a onorare i propri debiti.
Bugia n. 5 - I cicli economici e la recessione sono necessari e normali in un'economia ben funzionante.
Secondo Talbott, le recessioni non sono inevitabili e non sono
una normale fase del ciclo economico. Non è vero che una normale economia, come
dice il senso comune, debba necessariamente attraversare fasi di boom e di
crisi, con recessioni e occasionali depressioni, causando un gran danno ai
cittadini. La recessione è provocata dalle banche, che prestano il denaro in
modo rischioso quando le cose vanno bene e ritirano il credito
quando la situazione peggiora.
Bugia n. 6- La crescita dell'occupazione è indice di un'economia prospera e in buona salute.
La creazione di nuovi posti di lavoro è un indicatore che spesso
utilizziamo come un segno del buon andamento dell'economia.
Ma occorre considerare, come è avvenuto durante le amministrazioni Bush e
Clinton, che molte casalinghe si mettono a lavorare
per necessità, perché una coppia non può sopravvivere con un
unico salario. Per necessità tornano al lavoro molti anziani. Inoltre i nuovi
posti di lavoro creati sono spesso a basso salario, come
quelli nei fast food o nella sanità. Così crescono i posti di lavoro,
ma non significa che la prosperità stia aumentando.
Bugia n. 7 - I tagli alle tasse favoriscono la crescita economica.
Per molti anni abbiamo sentito dire che il taglio delle tasse stimola la
crescita dell'economia, e un economista come Arthur
Laffer ha costruito la sua carriera su questo concetto. Tuttavia,
spiega Talbott, i ricchi non hanno mai pagato alte tasse in quanto dispongono di
abili consulenti fiscali. Inoltre, con il denaro reso disponibile dalla
riduzione delle tasse, i ricchi invece di
creare nuove aziende e nuovi posti di lavoro, aprono nuovi conti
in banca. Lo dimostrano i casi delle amministrazioni Reagan e
Bush: entrambi hanno tagliato le tasse, ma la crescita dell'economia è stata
provocata dalla riduzione dell'inflazione e dalle spese
militari. L'idea che i tagli alle tasse possano stimolare la crescita
è una menzogna.
Bugia n. 8 - L'aumento della ricchezza in un paese si traduce generalmente in una crescita della felicità.
Gli economisti ritengono che più un paese diventa ricco, più i
suoi cittadini sono felici. Molti studi, invece, dimostrano che esiste una
correlazione diretta fra ricchezza e felicità fino a 10mila
dollari di reddito all'anno. Dopo tale soglia, che consente alle
persone di avere una vita decente, la soddisfazione decresce: per
guadagnare di più occorre lavorare molto, trascurare la vita sociale e diventare
sempre più competitivi.
Bugia n. 9 - Per mantenere in salute l'economia americana occorre che il Pil continui a crescere.
Gli economisti credono che la crescita risolva tutti i problemi.
Sono le corporation, alle quali interessa solo l'aumento del valore azionario
delle aziende, a spingere in questa direzione, non
– come spesso si dice – l'insaziabile sete di consumi e il materialismo della
gente. Non è detto che in un paese ricco come gli Stati
Uniti, la salute dell'economia sia legata alla crescita. Le menti
più brillanti della scienza economica dovrebbero studiare come
organizzare una società capitalista basata sulla crescita zero. È il
pianeta stesso che ce lo chiede: il riscaldamento globale, la scarsità d'acqua e
le riserve limitate di petrolio depongono a favore
del contenimento della crescita.
Bugia n. 10 - I progressi della tecnologia provocano un aumento della produttività, il che si traduce in una società più sana e più felice.
Anche se durante l'ultimo secolo la tecnologia ha alleviato alcuni
compiti gravosi, le persone continuano a lavorare moltissimo.
Nessuno dice: «Ne ho abbastanza, non voglio altri beni di consumo, voglio
lavorare solo venti ore alla settimana e passare il resto del tempo con la mia
famiglia». Tutto questo perché la nostra
società è talmente produttiva che deve incoraggiare i consumi e
il materialismo per alimentare la domanda di quei prodotti che
la tecnologia sforna a ritmo sempre più rapido. A scapito dei
paesi poveri.
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