Autore Leonardo Piccione
Titolo Tutta colpa di Venere
EdizioneNeri Pozza, Vicenza, 2022, Bloom 229 , pag. 254, cop.fle., dim. 13x21,4x2 cm , Isbn 978-88-545-2504-7
LettoreCorrado Leonardo, 2022
Classe biografie , narrativa italiana , viaggi , astronomia , storia della scienza , paesi: Mauritius , paesi: Filippine












 

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Indice


  7   Prologo

 11   Tutta colpa di Venere

221   Epilogo

225   Cambusa. Annotazioni e riferimenti

249   Ringraziamenti



 

 

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Pagina 7

Prologo


Dei mille interrogativi esistenziali che in genere mi sottopone un tramonto d'agosto sulla baia di H·savÝk, oggi non ho voglia di affrontarne neanche uno. Questa sera pi· prosaicamente mi domando: cosa succede se provo a fotografare il Sole calante con la modalitÓ ritratto del mio iPhone, quella che mette in risalto la cosa o la persona di tuo interesse sfumando tutto ci= che appare sullo sfondo?

Succede che l'iPhone richiede, per meglio metterlo a fuoco, di avvicinarsi al soggetto. Di avvicinarsi molto al soggetto, il quale - intima un avviso nella parte superiore dello schermo - "deve trovarsi a 2,5 metri di distanza". Ora io proverei anche ad accontentarlo, il mio iPhone, se non fosse che non so proprio come fare a portarmi a duevirgolacinque metri di distanza dal Sole. Potrei camminare fino alla punta della spiaggia, questo sÝ, o pi· opportunamente esibirmi in un salto sul posto, esercizio che tecnicamente mi avvicinerebbe al soggetto - ma nemmeno poi tanto. Mi tornerebbe pi¨ utile un jet, o un razzo. Ecco, un razzo supersonico potrebbe davvero fare al caso mio, anche se a ogni modo dubito riuscirei ad arrivare alla distanza richiesta. E se pure ci arrivassi, certo non lo farei da vivo: fonderei molto prima. E tu con me, caro iPhone.

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Pagina 19

2.


                        Contemplava le stelle di lÓ della Luna, grosse come
                        frutta di luce maturata sui ricurvi rami del cielo, e
                        tutto era al di lÓ delle speranze pi· luminose, e invece
                        e invece e invece era l'esilio.

                                                  Italo Calvino, Le cosmicomiche



Gli abitanti di un non meglio specificato villaggio nei pressi di Foul Poite, costa nordorientale del Madagascar, puntavano i loro indici in direzione dell'uomo bianco. Per la precisione verso il viso dell'uomo bianco, ciascuno sollecitando con un'alzata di gomito il proprio vicino e industriandosi ma non troppo a trattenere il risolino indotto dalle bizzarre tonalitÓ sfoggiate da quell'ospite venuto a osservare le stelle dei mari del Sud: dal colore esotico della sua pelle ma in particolar modo dei suoi occhi, cerulei.


Dell'aspetto di Guillaume Le Gentil , astronomo dell'AcadÚmie Royale des Sciences di Parigi in servizio dal 1753 al 1791, si sa con certezza soltanto questo: che aveva gli occhi chiari. Lo certifica egli stesso in un breve passaggio dei suoi diari di viaggio, il solo stralcio in oltre millecinquecento pagine di memorie in cui l'autore descrive una parte di sÚ, benchÚ di sfuggita e con lo scopo non di indugiare sul dettaglio somatico ma di rimarcare per mezzo dell'aneddoto dello scherno subýto una pura osservazione da empirista - questo lui era, dopotutto: ½+ da notare che la specie umana originaria di questi climi non conosce gli occhi azzurri+, registr=.

Discreto e sobrio, refrattario per indole a ogni frivolezza, Le Gentil non si fece mai ritrarre in vita sua, o se Þ successo quel ritratto non Þ giunto nÚ a me nÚ a chi prima di me ha riferito di lui. Il mezzobusto imparruccato restituito dai motori di ricerca in risposta alle generalitÓ di Le Gentil non Þ suo, ma del quasi omonimo e quasi contemporaneo matematico Guillaume de l'H¶pital, luminare del calcolo infinitesimale. Lo scrittore francese Bernard Foix, curatore di una delle pi¨ recenti biografie dell'astronomo, ha rinvenuto un'unica raffigurazione attendibile di Le Gentil: datata 1874, ottantadue anni dopo la sua morte, Þ un'incisione in legno realizzata da un certo Miranda e riprodotta in stampa sul numero 52 della rivista La Nature. Le Gentil, in piedi sul castello di prua del vascello Sylphide, entrambe le mani poggiate sul grande telescopio, redingote al vento e sguardo rivolto verso un interlocutore sulla sua sinistra, appare altamente inquieto, preso anima e corpo da una delle osservazioni astronomiche della sua carriera che per un motivo o per un altro approdarono lontano dal lieto fine. Diciamolo meglio: che fallirono miseramente.

PerchÚ il senso dell'opera di Miranda - come di pressochÚ tutte le creazioni artistiche, letterarie, teatrali e persino di musica leggera ispirate alle vicende di Le Gentil - non era certo quello di riportare il pi· fedelmente possibile i caratteri fisionomici del protagonista. Non era importante che faccia avesse, Le Gentil: contava che fosse in balia degli eventi, che lo s'immortalasse nel bel mezzo di una delle sciagure che l'hanno consegnato alla storia dell'astronomia. Che rispondesse ai canoni, come sarebbe stato scritto, dell'uomo ½destinato a sperimentare seccature d'ogni foggia+.


Chiariamoci: dal punto di vista scientifico, non Þ stato un personaggio in assoluto rilevante, questo nostro Le Gentil. Ha scoperto un paio di nebulose e una galassia nana, ma nemmeno lontanamente possiamo riferirci a lui come a una specie di Galileo schivo, nÚ di un Newton incompreso. Non ha rivoluzionato nessuna delle plurime discipline di cui pi· o meno direttamente si Þ occupato. Se Þ stato salvato dalla polvere che i secoli riservano in genere ai gregari del suo rango, e se io un giorno d'inverno l'ho incrociato nelle note a piÞ di un libro che non parlava di lui e che ho prontamente trascurato per mettermi a cercare tutto quel che in quasi due secoli e mezzo Þ stato pubblicato sul suo conto (poco), Þ soprattutto grazie alle sue multiformi disfatte. Il nome di Le Gentil Þ inscindibilmente associato alla cattiva sorte, all'ineluttabilitÓ delle iatture che sempre incombono sulle buone intenzioni. Alle storture della vita che viaggiano a lungo su una corsia parallela a quella della fiducia, fianco a fianco, placide come un ruscelletto, per poi a un certo punto accelerare bruscamente, sorpassarla a velocitÓ doppia e farle, giÓ che ci sono, un sonoro gestaccio. Ci siamo trovati tutti, in qualche momento e a nostro modo, in circostanze simili, io per primo. Il mio desiderio di ricostruire slanci e disavventure di quest'uomo Þ originato pertanto non dalla volontÓ di produrre una scandagliata agiografia, bensÝ da un sentimento di riconoscenza, direi quasi di debito, nei confronti di un'esistenza - di un carattere - la cui scoperta Þ diventata il filo conduttore di una sfilza di considerazioni che in quei mesi andavo facendo, di storie che accidentalmente incrociavo, e nella cui allegoria ho colto un certo qual barlume di universalitÓ.


Non Þ un segreto, in definitiva, che il protagonista di buona parte dei capitoli che seguono appartenga al variegato novero dei perdenti. Non sto svelando in anticipo il finale. Anzi, facciamo cosÝ, lo dico qui e adesso cos'Þ in estrema sintesi la vicenda di Guillaume Le Gentil de la GalaisiÞre: Þ ½la pi· lunga e ardua spedizione astronomica della storia dell'uomo, esclusi i viaggi interplanetari+, che si Þ rivelata nella realtÓ dei fatti una grande ½commedia degli errori e della sfortuna+. Semplice.

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Pagina 28

Nel 1753 fu accolto a pieno titolo nei ranghi dell'AcadÚmie: l' abbÚ Le Gentil era diventato le savant Le Gentil. La morte del padre, lui che giÓ pregustava un vescovo in casa, lo sciolse dai vincoli residui. Quando, verso la fine del decennio, il neoscienziato intravide all'orizzonte l'occasione di consacrare definitivamente la sua devozione alla causa della conoscenza e di elevare una giÓ rimarchevole traiettoria umana al rango di esistenza leggendaria, non si fece pregare pi· di tanto. Aveva trentaquattro anni e nessuna moglie, nÚ figli. Nulla poteva trattenerlo dal tentativo di diventare uno dei protagonisti di quella che si prospettava come l'iniziativa scientifica pi¨ ambiziosa di sempre, una sovrumana sfida della conoscenza che non si sarebbe celebrata nella penombra delle accademie ma tra oceani lontani e continenti sconosciuti: il calcolo delle reali dimensioni dell'universo.


Come detto, a questo punto della Storia nessuno era ancora riuscito nell'impresa. Nell'arco di pi· di duemila anni, ci avevano provato in molti: da Aristarco di Samo ad Archimede, da Ipparco di Nicea a Tolomeo. Evidenze, per=, poche. Certo erano sempre di pi· gli esseri umani consapevoli di abitare un frammento piccolo e decentrato del cosmo, forse persino remoto. Quasi pi· nessuno sosteneva, come Eraclito e Lucrezio due millenni prima, che il Sole fosse grande al massimo quanto uno scudo, e nemmeno che l'universo avesse gli angusti confini previsti dallo stesso Tolomeo, con la Terra al centro di tutto, universo questo che si sarebbe potuto racchiudere tutto entro quella che oggi sappiamo essere la mera orbita del nostro pianeta intorno al Sole. Le stime pi· recenti, risalenti alla seconda metÓ del Seicento, collocavano il Sole a qualcosa come 138 milioni di chilometri di distanza dalla Terra. Si tratta di un valore inferiore di circa il 7,5 per cento rispetto a quello effettivo, una percentuale che sembra indice di accuratezza soltanto fino a quando non si realizza che il 7,5 per cento di margine, su un numero di quell'ordine di grandezza, non Þ in alcun modo poco. Riportandoci a lunghezze maneggevoli, Þ come se il navigatore della nostra auto ci dicesse che Padova dista da Bari 800 chilometri con un errore di pi· o meno 60 chilometri, anzichÚ condurci esattamente in via Galileo Galilei.


La curiositÓ rispetto alla reale estensione della sconsiderata volta che Þ ogni notte stellata e la necessitÓ di allegare alle mappe spaziali esistenti una scala di riduzione affidabile erano tali che il dilemma settecentesco sul calcolo delle dimensioni del Sistema Solare Þ stato definito, tra le altre cose, ½il pi· nobile e difficile dei problemi+ (da Edmond Halley , nel 1716) e ½il sacro graal dell'astronomia+ (dalla storica Andrea Wulf , nel 2012).

La questione centrale Þ che gli astronomi dell'epoca di Le Gentil possedevano, cortesia delle osservazioni di Tycho Brahe e delle leggi derivate dal suo assistente Keplero, una conoscenza piuttosto accurata del Sistema Solare in quanto a distanze relative tra i corpi celesti, ma nulla sapevano rispetto a quelle assolute. L' unitÓ astronomica - questa la dicitura assegnata alla distanza tra Terra e Sole - era il metro di paragone fondamentale per tutte le distanze dell'universo. Il cubetto bianco dei regoli didattici, per intenderci, quello che vale uno e fa da riferimento elementare per tutti gli altri. Bene: nessuno nel Settecento sapeva a quanto equivalesse in concreto quell'unitÓ. Si sapeva per esempio che tra la Terra e Marte c'era una distanza pari alla metÓ di quella che intercorre tra Terra e Sole, mentre tra la Terra e Giove una di circa cinque volte superiore a quella tra Terra e Sole, ma nessuno era in grado di dire a quanto corrispondesse questo valore in miglia, o in leghe, o in braccia, o in una delle duemila unitÓ di misura in vigore a fine XVIII secolo nella sola Francia. Sarebbe stato sufficiente conoscere il reale valore di questa cruciale unitÓ astronomica, in sostanza, per derivare a cascata tutta una serie di preziosissime misure, dalle distanze tra tutti i pianeti del Sistema Solare fino alla distanza tra la Terra e le stelle pi· vicine del firmamento, e poi tra le stelle vicine e quelle pi· remote, giungendo cosÝ fino ai limiti dell'universo visibile. Occorreva semplicemente calcolare quanto distassero Terra e Sole, dopodichÚ quell'unica informazione avrebbe consegnato all'umanitÓ una specie di passepartout cosmico.


In linea teorica, per riuscire nell'intento sarebbe bastato osservare il Sole nello stesso istante da due localitÓ differenti della Terra di cui fosse nota la distanza. La posizione del Sole in cielo sarebbe apparsa diversa dai due punti: misurando tale discrepanza angolare, la distanza Terra-Sole sarebbe stata ricavata tramite calcoli geometrici piuttosto banali. Un po' come stendere un braccio di fronte a sÚ e osservare il pollice coprendosi prima un occhio e poi l'altro: misurando la variazione angolare della posizione del pollice, e conoscendo la distanza tra gli occhi, Þ possibile calcolare la lunghezza del braccio. Il problema, tornando al Sole, Þ che si tratta dell'unica stella che brilla di giorno nei cieli terrestri: non esistono cioÞ riferimenti fissi rispetto a cui confrontare la sua posizione, quando osservata da punti diversi del nostro pianeta.

La soluzione al dilemma, come di frequente accade, risiedeva in un cambio di prospettiva. Sarebbe stato sufficiente, annunci= Halley riprendendo un metodo proposto mezzo secolo prima dal matematico scozzese James Gregory, trasformare il disco solare da oggetto dell'osservazione a sfondo dell'osservazione; dunque, misurare da due localitÓ lontane del globo lo spostamento non del Sole, ma di un pianeta che in quel momento gli passasse davanti. Derivata trigonometricamente la distanza dalla Terra di tale pianeta in transito, quella del Sole - l'agognata unitÓ astronomica - sarebbe stata servita su un piatto d'argento. Essendo Mercurio troppo piccolo e troppo lontano dalla Terra, e Marte, Giove e Saturno esterni all'orbita della Terra (quindi mai transitanti davanti al Sole, se visti da quaggi·), Halley identific= il candidato ideale in Venere, che riassunse cosÝ il ruolo, peraltro tradizionalmente interpretato, di apice dei desideri celesti degli umani.


Venere che periodicamente discende agli inferi ma sempre risorge (stando agli Assiri); Venere che poi Þ Afrodite, eponimo di bellezza e femminilitÓ; Venere gemello della Terra (massa, peso e composizione pressochÚ uguali) e terzo oggetto pi· luminoso del firmamento (dopo Sole e Luna, merito delle sue nubi super riflettenti); Venere visibile anche di giorno (purchÚ se ne conosca la posizione) e pianeta pi· caldo del Sistema Solare (temperatura superficiale media: 464 gradi centigradi); Venere che ruota su se stesso pianissimo (un suo giorno dura 117 giorni terrestri) e al contrario (il Sole lass¨ sorge a occidente), e che nel suo moto apparente intorno alla Terra tratteggia uno strano ghirigoro, un fiore a cinque punte che tuttora intriga gli astrofisici. Venere sacra, Venere oggetto di culto: Venere che si venera, per l'appunto.

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Jacques-Henri Bernardin de Saint-Pierre , nativo di Le Havre, si era infatuato dodicenne di Robinson Crusoe, e fu soltanto il fallimento dei suoi tentativi di stare al mondo da avventuriero (aveva, tra le altre cose, provato a sedurre l'arciduchessa d'Austria Maria Carolina, a fondare una compagnia per scoprire un passaggio in India attraverso la Russia e a redigere un piano di conversione dei popoli barbari) a spingerlo verso una pi· pacifica carriera da letterato, opzione che avrebbe continuato a considerare a lungo come ½estremamente sgradevole e infruttuosa+. Quando, nel 1768, partÝ per l'Isola di Francia in qualitÓ di ingegnere, Bernardin era indebitato e disilluso, ma la paradisiaca visione della colonia tropicale impieg= poco a trasformare l'uomo imbronciato in intellettuale illuminato. La purezza della vita sull'isola risvegli= in lui l'antica utopia di una societÓ ideale in cui tutti concorrano al bene comune, vivendo in armonia tra di loro e con la natura. Bernardin era fermamente convinto che il creato fosse un sistema perfetto in cui nessun elemento pu= essere analizzato separatamente, perchÚ tutti giovano in egual misura al principale beneficiario del sistema: l'uomo.

Scienza e religione si fondono nel suo pensiero, generando il peculiare sentimento della natura di cui impregn= le sue opere, e che gli fece rinnegare la versione originale del motto cartesiano in nome di un pi¨ carnale "sento, dunque sono". Nell'universo sensoriale di Bernardin nemmeno dolore e morte erano esclusi. Anzi, fu proprio l'esperienza di un profondo sconforto, provocato dalla realizzazione del disboscamento e dalle speculazioni agricole incalzanti nella colonia, a indurlo a convincere il governatore dell'Isola di Francia dell'importanza delle foreste nella conservazione di suolo e clima locali - presa di posizione che lo qualifica come uno dei pionieri del concetto di sostenibilitÓ ambientale. La radicalitÓ del pensiero di Bernardin si spinse fino a veementi considerazioni etologiche (riteneva che ogni animale che divorasse la propria preda viva commettesse un peccato contro le leggi della sua stessa natura) e ad accorate riflessioni sull'importanza di educare le giovani generazioni a un regime alimentare il pi· possibile genuino, al punto che oggi il sito internet della International Vegetarian Union gli dedica una pagina ben documentata. Sempre grazie al web, ho potuto procurarmi la versione digitalizzata dell'opera universalmente giudicata l'apice della produzione letteraria di Bernardin de Saint-Pierre. Oggi per lo pi¨ trascurato, Paolo e Virginia Þ un romanzo di meno di duecento pagine che io ho letto in una traduzione del 1816, opera del ½rinomato A. Loschi, socio di varie accademie+.


Paolo e Virginia, o ½i figli dell'infortunio+ secondo una successiva traduzione fiorentina, nascono sull'Isola di Francia da due donne emigrate dalla madre-patria europea: Madama de la Tour, madre di Virginia, nobile di famiglia e vedova, e Margherita, madre di Paolo, contadina abbandonata dal consorte. Accomunate dal destino baro ed entrambe sole, le due donne decidono di educare i rispettivi figli insieme, fratello e sorella immersi nella natura rigogliosa dell'isola. ½Amica+, dice Madama de la Tour a Margherita, ½ognuna di noi avrÓ due figli, ed ognuno de' nostri figli avrÓ due madri+. Paolo e Virginia crescono cosý in simbiosi con gli uccelli, che cominciano a riconoscere, e con le piante, che imparano a coltivare. Diventano inseparabili: ½Tutto il pensier loro era di compiacersi, ed aiutarsi scambievolmente+.

Attraverso l'idillio infantile dei suoi protagonisti Bernardin evoca una vita semplice, lontana anni luce dalla ridondanza del mondo occidentale. Un'esistenza in cui persino le parole appaiono superflue: ½Al silenzio loro, alla naturalezza degli atteggiamenti, alla bellezza de' loro piedi nudi, parea di vedere un gruppo antico di marmo+.


Novelli Adamo ed Eva, i due giovani non possiedono ½nÚ orologi, nÚ almanacchi, nÚ libri di cronologia, d'istoria, o di filosofia+. Bernardin si chiede che bisogno avessero di essere ricchi o colti quando giÓ traboccanti di virt·: ½La loro morale consisteva nell'azione, come quella del Vangelo+. Un giorno, dopo aver soccorso una schiava frustata dal suo padrone, Paolo e Virginia finiscono per smarrirsi nella fitta boscaglia dell'isola, allorchÚ, per lodare il loro sprezzo del pericolo e la loro nobiltÓ di spirito, lo scrittore ricorre a una delle metafore silvestri tipiche del suo stile: ½CosÝ come le viole sotto agli spineti nascoste, [le brave persone] spandono lungi un gratissimo odore+.

Il fraseggio di Bernardin Þ un costante rinvio alla natura, un fiume di analogie che gli consentono di illustrare idee e oggetti esotici per mezzo di immagini familiari al lettore. Il supporto fraterno tra esseri umani in difficoltÓ lo fa pensare a ½deboli piante che sogliono avvincolarsi insieme per far fronte alla tempesta+. I tronchi degli alberi al tramonto diventano ai suoi occhi preziosi pilastri: ½Le fronde degli alberi, al di sotto rischiarate da' dorati raggi, in guisa di topazi e di smeraldi vedeansi scintillare: i loro tronchi barbuti e bruni cangiati sembravano in tante colonne di bronzo antico. Gli augelli giÓ silenti, e disposti sotto a' cupi rami a pernottare, maravigliandosi credevano di rivedere un'altra aurora, e con mille canti salutavano tutti insieme l'astro apportatore di luce+.

Dopo averlo stordito con un campionario di perifrasi di cui ½l'astro apportatore di luce+ non Þ detto costituisca l'apice, nella seconda parte del romanzo Bernardin conduce il lettore verso sviluppi dalle tinte decisamente pi· fosche. Proprio quando il legame tra i due protagonisti ha l'aria di evolvere verso il sentimento ½fatto dalla natura vincolo di tutti gli esseri+ (insomma l'amore), Virginia abbandona l'isola. Una zia materna ½nubile, ricca, nobile, vecchia e bigotta+ la invita via lettera a tornare in Francia, promettendole ½una ottima educazione, un partito in corte e la donazione di tutti i suoi beni+. La fanciulla, inizialmente riluttante, si lascia convincere dalle pressioni del governatore e del missionario dell'isola, persuasi che la ricchezza da lei acquisita in Europa avrebbe giovato di riflesso a tutta la colonia: ½Se questo sarÓ l'ordine di Dio+, acconsente Virginia, ½non vi posso fare alcuna resistenza+.


La notizia della partenza dell'amata strugge Paolo, che dopo essere stato a fatica dissuaso dal proposito di seguirla a nuoto, decide di imparare a leggere e scrivere per poter intrattenere una corrispondenza con lei. La prima lettera di risposta giunge all'Isola di Francia due anni dopo: Virginia racconta di essere stata nominata contessa, di vivere ½in mezzo allo splendore della ricchezza+ e di poter godere di ½maestri d'ogni specie+. Aggiunge di esser sola, ½senza nessuno a cui potere esprimere l'amore+, nuova questa che non rasserena affatto Paolo, il quale prende a temere l'eventualitÓ che Virginia ½beva la corruzione dei romanzi alla moda+ e si dimentichi di lui. Presagio inequivocabile, i semi di viola e scabbiosa allegati alla missiva non germogliano nei luoghi dell'isola in cui Virginia raccomanda per iscritto a Paolo di piantarli. Comincia in ultimo a circolare voce che l'emigrata stia per sposare un rampollo francese.

[...]


Pubblicato nel 1787, Paolo e Virginia suscit= la commozione di un'intera generazione di francesi e, stando al resoconto di Emmanuel de Las Cases nel Memoriale di Sant'Elena, persino Napoleone Bonaparte pianse leggendo il romanzo. Flaubert lo cit=, in Madame Bovary, tra le letture di Emma in convento, mentre nel Curato del villaggio HonorÚ de Balzac lo definÝ ½uno dei pi¨ toccanti libri in lingua francese+. Un contemporaneo meno benevolo nei confronti di Bernardin - il filosofo e aforista Joseph Joubert - afferm= invece che nello stile dell'autore c'Þ ½come un prisma che affatica gli occhi, al punto che dopo averlo letto a lungo si Þ quasi sollevati nello scoprire che la vegetazione nelle campagne Þ meno colorata di quanto appaia nei suoi scritti+.

Io ho letto Paolo e Virginia per farmi un'idea di come si presentasse nella seconda metÓ del Settecento l'Isola di Francia, il luogo dove abbiamo lasciato impelagato Le Gentil. Nella raffigurazione dell'isola fornita con tanta perizia da Saint-Pierre ho trovato un olismo travolgente e un attacco alle storture dell'Occidente certamente ingenuo, ma sincero. Per questo, prima di tornare al nostro astronomo, desideravo dare spazio a questo curioso scrittore - e botanico, zoologo, fisico, teologo - che tra un viaggio e l'altro trov= anche il tempo di diventare grande amico di Jean-Jacques Rousseau, essere nominato intendente del Jardin du Roi e avere due figli. Li chiam=, ma forse questo lo immaginate giÓ, Paul e Virginie.

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Pagina 55

6.


L'esperienza all'Isola di Francia non fu propriamente un Eden, per Le Gentil.

[...]

Un discreto numero di giardini a parte, l'isola offriva pochi spunti degni della versatile vivacitÓ intellettuale dell'astronomo, il quale nei suoi scritti si diede salace a sciorinarne le pecche. Oltre alle ½temperature penose+, causa di mortiferi colpi di sole, individu= almeno altre sette piaghe che angustiavano quella landa: cavallette, ratti, bruchi, farfalle, siccitÓ, uragani e uccelli. I lucherini, in particolare, erano un vero tormento.

[...]

Anche sul versante agrario Le Gentil era atteso da una sfilza di delusioni. La noce moscata coltivata sull'isola era di qualitÓ ½molto inferiore rispetto a quella delle Molucche+, mentre gli alberi di mango, pur belli da vedere, producevano frutti ½in nessun modo paragonabili a quelli provenienti dall'India+. A causa del vento, i tamarindi crescevano molto lentamente, ed erano stati in gran parte rimpiazzati da schiere di bamb¨ ½che producevano un bell'effetto, ma danneggiavano i giardini+. Il mangostano, un albero dai frutti tondeggianti e dal vago sapore di pesca e litchi, era stato introdotto con ottimismo nel 1754, tuttavia Le Gentil non trov= ½alcuna evidenza della sussistenza di questa pianta nella colonia+. Una trattazione a parte la merita il caffÞ, del quale scopriamo essere Le Gentil consumatore seriale e ferrato conoscitore. Il preambolo, per nulla promettente, Þ che ½questo prodotto dei paesi caldi non cresce ugualmente bene in tutti i paesi caldi+. Secondo Le Gentil, la qualitÓ di caffÞ migliore in assoluto Þ l'arabica (ne sapeva per davvero), mentre le miscele provenienti dalla Martinica e dall'Oceano Indiano andrebbero considerate di rango inferiore. Per sostenere la tesi del primato del caffÞ arabico, Le Gentil riporta di aver sostenuto al riguardo un lungo dibattito epistolare con Monsieur de la Nux, referente dell'AcadÚmie dall'isola Borbone (l'attuale Riunione, sempre nelle Mascarene) e suo interlocutore di viaggio preferito. La disputa tra i due non Þ riportata nel diario, ma la chiosa finale di Le Gentil sÝ, e somiglia a una sentenza: ½Solo il caffÞ arabico lascia in bocca un profumo che perdura a lungo, e che non ha nulla da invidiare alle migliori bevande d'Europa+. Rispetto al caffÞ prodotto sull'Isola di Francia, be', giudicate da voi quale fosse l'opinione del nostro inviato: ½Ricordo ancora la prima volta che assaggiai del caffÞ locale, dopo aver terminato il mio. La prima tazza mi parve piuttosto cattiva. Mi ci vollero diversi giorni per abituarmici, e alla fine quello che penso Þ che il caffÞ non diventerÓ mai una branca del commercio di quest'isola+. Dopo aver chiarito di aver omesso per brevitÓ molti altri esempi, Le Gentil conclude il suo panegirico agronomico sancendo che il clima balordo e il terreno tufaceo facevano dell'Isola di Francia un luogo semplicemente ½non adeguato a un gran numero di produzioni+. Anche per questo motivo la vita laggi¨ risultava oltremodo cara, e il vino - un altro dei suoi selezionati sfizi - un lusso quasi proibitivo.


Le settimane passavano, il transito di Venere si avvicinava e le rare notizie che giungevano a Port Louis erano un proliferare di navi inglesi all'arrembaggio e altre francesi in ritirata.

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Infischiandosene delle tribolazioni di Le Gentil, e del fatto che egli non si trovasse sulla torretta di un osservatorio astronomico ma sul castello di prua di una nave in movimento, Venere si present= puntuale all'appuntamento. Un cielo terso come non lo si vedeva da giorni aggiunse ulteriori sfumature alla beffa. Sulla terraferma quelle condizioni sarebbero state considerate perfette per un'osservazione astronomica, invece a bordo della Sylphide Le Gentil dovette arrabattarsi come poteva: mont= le lenti affumicate sul telescopio, dopodichÚ leg= quest'ultimo a una trave in legno fissata a sua volta a un albero della nave per cercare di ottenere un minimo di stabilitÓ. PoichÚ l'ora esatta dell'inizio del transito non era nota, occorreva fissare il Sole tutto il tempo necessario al vanesio pianeta per ultimare il make-up, cercando di rimanere il pi¨ fermi possibile. Io che non sono in grado nemmeno di aprire senza sbrodolarmela addosso una porzioncina monodose di latte da caffÞ su un aereo che viaggi a velocitÓ di crociera e non attraversi turbolenze, faccio una sincera fatica a immaginare cosa possa significare provare a mantenere stabile un telescopio di cinque metri su una nave che solca l'oceano. A ogni onda Le Gentil era costretto a riposizionarsi, cosÝ che i suoi occhi furono presto affaticati. Constatata l'impossibilitÓ di rilevare l'ora esatta dell'inizio del transito, decise di concentrarsi sull'uscita di Venere dal disco solare. Secondo le pi¨ recenti indicazioni fornite dall'astronomo capo Delisle, infatti, sarebbe stata sufficiente alla causa la rilevazione del tempo di entrata oppure di quello di uscita del pianeta: il confronto con i dati provenienti da altre localitÓ della Terra avrebbe ovviato alla mancanza e reso nondimeno possibile il calcolo dell'unitÓ astronomica.

Il compito di Le Gentil era adesso semplicemente quello di misurare il tempo trascorso dall'istante in cui Venere, al termine delle sue circa sei ore di escursione, avesse toccato il bordo interno del disco solare, fino al momento in cui fosse uscito completamente da esso. Vale la pena contestualizzare un poco meglio: il Venere la cui comparsa attendeva Le Gentil non era la fascinosa biglia striata di violetto e arancio che ci ha mostrato la sonda Akatsuki nel 2018: era un punto nero, minuscolo, dai contorni sbavati; il Sole che fissava da ore non era il brulicante alveare di plasma dorato che ci ha rivelato il National Solar Observatory delle Hawaii nel 2020: era una boccia biancastra e sfocata.


Alle 2 e 27 del pomeriggio del 6 giugno, Le Gentil scorse Venere sfiorare il bordo interno del Sole, segno che l'ultimo atto della minieclissi era cominciato. Fece il cenno convenuto al navigante che lo assisteva nell'operazione, il quale capovolse una prima volta la clessidra. + la sequenza immortalata dall'incisione su legno di quel Miranda, l'unica raffigurazione di Le Gentil di cui abbiamo notizia. Passarono ventotto clessidre (circa sedici minuti) prima che Venere sparisse completamente dalla vista. Il transito a questo punto era terminato. Le Gentil aveva assolto al proprio compito, ma sapeva che quei dati raccolti in mezzo al mare non sarebbero stati di alcuna utilitÓ. ½Mi guardo bene dall'inviare le mie osservazioni in Europa+, scrisse sul diario a riguardo delle sue tutt'altro che inattaccabili misurazioni del 1761. ½Ma siccome questo Þ un resoconto che debbo al Pubblico, mi riservo di allegarle successivamente al racconto del mio viaggio+.

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Restringendo il campo ai quasi 250 astronomi che ne Il passaggio di Venere Andrea Wulf stima furono incaricati di osservare in giro per il mondo il transito del 1761, risulta oggettivamente arduo sfilare lo scettro della iella dalle mani di Le Gentil. Procediamo a una breve panoramica che attesti questo suo poco invidiabile primato.

[...]

Veniamo adesso al dunque: i dati raccolti da Chappe in Siberia, Winthrop in Canada e dai loro analoghi nel resto del mondo si rivelarono, come auspicato, di decisiva portata per il progresso della comunitÓ scientifica internazionale? Ecco... Cosý cosý. Man mano che i resoconti del transito cominciarono ad assommarsi, e tempi e misure a esser confrontati, parve infatti evidente che qualcosa fosse andato storto. Uno dei problemi, tanto per cominciare, fu che alcuni osservatori avevano considerato Greenwich come meridiano di riferimento ma altri Parigi, e l'esatta differenza longitudinale tra le due localitÓ non era ancora stata stabilita. Pi· nello specifico dell'osservazione, tutti i corrispondenti avevano riscontrato grosse difficoltÓ nell'individuare con esattezza l'istante di ingresso e quello di uscita di Venere dal disco solare, cioÞ i due riferimenti temporali decisivi per la buona riuscita del calcolo. Il pianeta - il pallino scuro che era il pianeta - aveva indugiato a lungo sui bordi del disco, fino a un minuto in certi casi, sia prima di entrarvi che di uscirvi completamente. Venere aveva temporeggiato sui lembi del Sole fin quasi a incollarvisi, riferirono gli astronomi, assumendo, pi· che quella di una sfera, la forma allungata di una pera. Questo fenomeno, che in seguito sarebbe stato chiamato "effetto della goccia nera", sappiamo oggi essere un effetto ottico causato dalla diffrazione della luce: in parole povere, un limite fisico dei telescopi. Nel 1761 si sapeva soltanto che era un intoppo sufficiente a rendere diverse tra loro, e dunque complessivamente poco attendibili, persino misurazioni fatte da due osservatori piazzati nello stesso luogo.

Alcuni astronomi notarono quale ulteriore disturbo una sorta di alone luminescente che avviluppava la goccia nera. In questo caso fu correttamente ipotizzato che si trattasse di una conseguenza della presenza intorno al pianeta di un'atmosfera per certi versi paragonabile a quella terrestre. Il russo Lomonosov si spinse fino a proporre che su Venere ci fosse vita.


Come intuibile, la determinazione dell'unitÓ astronomica non trasse beneficio da questa sfilza di intoppi. Le stime della distanza Terra-Sole calcolate dopo il transito del 1761 variarono tra 124 milioni e 159 milioni di chilometri, un range che - per quanto contenesse il vero valore cercato (circa 149 milioni e mezzo di chilometri) - non poteva certo dirsi preciso. Fu presto chiaro che per affinare accettabilmente il calcolo delle dimensioni dell'universo sarebbe servito il transito successivo, previsto per il 1769: un transito che l'AcadÚmie elesse come "il pi¨ favorevole" almeno fino a quello del 2012. Le differenze di durata del transito se osservato da stazioni astronomiche nell'emisfero nord e altre nell'emisfero sud sarebbero state infatti molto maggiori che nel 1761, consentendo calcoli pi¨ precisi. Il transito di Venere del 3 e 4 giugno 1769 venne cosÝ investito dell'ingombro di essere la migliore - e incidentalmente l'ultima - occasione utile per plurime generazioni di astronomi di consultare l'oracolo celeste. C'erano otto anni di tempo per prepararsi con dovizia di accorgimenti al nuovo appuntamento.

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[...] scoprii che a Flagstaff ha sede un importante osservatorio astronomico, il Lowell. Fu dalla sua cupola che, nel 1930, l'ex astronomo amatore Clyde Tombaugh scoprÝ Plutone.

Appassionato di stelle al punto di costruirsi da solo i propri telescopi, ma impossibilitato dalle difficoltÓ economiche in cui versava la sua famiglia in conseguenza della crisi del '29 a frequentare l'universitÓ, il giovane Tombaugh invi= autonomamente la propria candidatura - consistente in alcune illustrazioni di Giove e Marte - al Lowell Observatory, che lo assunse con lo scopo di potenziare le ricerche del corpo celeste collocato agli estremi confini del Sistema Solare e noto anche come Pianeta X. La scoperta di Plutone avvenne pochi mesi dopo, attraverso il meticoloso confronto di fotografie della porzione di cielo ritenuta sede del pianeta scattate in notti diverse.

Tombaugh utilizz= un arnese di sua invenzione, chiamato stereocomparatore, per passare rapidamente in rassegna le lastre fotografiche e scoprire, spostando lo sguardo da una all'altra, quali oggetti cambiassero via via posizione. Con le stelle fisse al loro posto, qualsiasi corpo in movimento - asteroidi, comete, pianeti - sarebbe stato in questa maniera stanato. Concedendo riposo agli occhi ogni venti minuti, Tombaugh si immerse cosý per settimane in quella che definý una "giungla": ciascuna sequenza di foto conteneva dai cinquanta ai quattrocentomila punti di luce da scrutinare a uno a uno. Il 18 febbraio 1930, a ventiquattro anni appena compiuti, mentre analizzava le lastre della costellazione dei Gemelli scorse una specie di flebile punta di spillo variare posizione di 3 millimetri e mezzo da un'immagine all'altra. Era il Pianeta X, che in onore del dio greco del mondo sotterraneo - e del fondatore dell'osservatorio di Flagstaff: Percival Lowell, iniziali P.L. - fu chiamato Plutone.

Tombaugh continu= a osservare il cielo per il resto della vita e quando, dopo essere andato in pensione, lo Smithsonian Institution chiese di acquisire il suo telescopio personale da 9 pollici, rispose: ½Non Þ possibile, lo sto ancora utilizzando+. Mori novantenne nel 1997, nove anni prima che il suo Plutone smettesse di essere il nono pianeta del Sistema Solare e venisse ufficialmente retrocesso a "pianeta nano". Parte delle sue ceneri fu collocata a bordo della sonda interplanetaria New Horizons, la quale, dopo aver approcciato Plutone nel luglio del 2015, sta attualmente proseguendo la sua marcia verso l'estrema periferia del Sistema Solare, con la prospettiva di rendere Clyde Tombaugh il primo essere umano i cui resti ne abbiano varcato i confini.

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Ma torniamo al cibo, topos sempre tra i pi· battuti nelle filippiche del nostro. Scopriamo cosÝ che gli abitanti di Manila, che ½non mangiavano mai a orari fissi, ma quando glielo suggeriva la fantasia+, bevevano ½troppo poco vino+ e consumavano enormi quantitÓ di zuppe d'uccelli e soprattutto di riso, il quale ½pu= essere alimento molto buono, ma piuttosto insipido per gli europei, e soprattutto per i francesi+. Fortuna che nei mercati di quartiere non mancavano capponi, piccioni, cotechini (½che possono anche essere buoni, per lo meno quando cotti a dovere+) e arance - soprattutto arance. L'arancia delle Filippine Þ un frutto eccellente, afferma Le Gentil: ½Mangiata al mattino, a stomaco vuoto, essa risulta efficacissima nel dividere gli umori. Sarebbe da evitare invece la sera, in quanto, come dicono i portoghesi, l'arancia al mattino Þ d'oro, a mezzogiorno d'argento e la sera di piombo+.

La sera, dunque. Le cene degli autoctoni consistevano generalmente di pesci secchi e fagioli. La volta in cui Le Gentil, ospite di locali, os= domandare se si potesse avere del formaggio, la padrona di casa lo avverti che il formaggio ½non pu= costituire cena+. Con la moderazione che gli era connaturata, l'astronomo replic= che lui al mattino accettava di desinare all'uso spagnolo, ma la sera tendeva a preferire i costumi francesi.

Il dessert, infine, prevedeva confetture servite su un vassoio munito di un'unica forchetta da spartirsi tra tutti i commensali, dettaglio che disgust= Le Gentil al punto da farlo astenere il pi· delle volte dalla parte finale del pasto. Ulteriore disappunto derivava dal fatto che al caffÞ era sovente preferito l'onnipresente cioccolato.


La mancanza di gusto dei dominatori spagnoli si ravvisava non solo a tavola, ma anche in ambito artistico, dal momento che le pitture che decoravano le chiese di Manila ½sembravano tutte simili tra loro, ugualmente sovraccariche di colore, adatte a fungere da insegne di empori pi· che da rappresentazioni sacre+. Nei canti religiosi, inoltre, si distinguevano esclusivamente cori selvaggi, ½che somigliavano molto a quelli di una truppa di ubriaconi appena usciti da una taverna+.

Le Filippine che descrisse Le Gentil vegetavano nella mediocritÓ. Tutto il marciume di quel regno gli sembrava riconducibile all'inettitudine degli amministratori e, ribadÝ con rammarico, al dispotismo della religione, che pure conterrebbe in sÚ "i germi della pace e dell'unione": ½Mentre Batavia spalanca il suo porto al mondo, Manila lo chiude a tutte le nazioni. E in un tempo in cui tra le corti di Francia e di Spagna regna la pi¨ suprema armonia, essa tratta i francesi come nemici+.

Le Gentil prendeva appunti su tutto. Era schietto nei giudizi, guidato da principi morali solidi, dei quali subodorava una certa latente pericolositÓ. Sapeva che la sua diversitÓ di vedute rispetto ai potentati locali avrebbe potuto causargli grosse grane. Ogni qual volta, in cittÓ, percepiva estranei avvicinarsi alle sue carte, nascondeva le pagine delle sue eterogenee memorie sotto tavole logaritmiche o grossi tomi di astronomia, facendo intendere ai curiosi che stava alacremente lavorando alla risoluzione di problemi relativi alla navigazione e nulla pi·.

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Non chiuse occhio, di li in avanti. Il vento cambi= presto, prendendo a spirare dalla direzione che temeva di pi·, quella da cui meno avrebbe desiderato provenissero folate e tantomeno cumuli, non quel giorno, non quella mattina: il quadrante di nordest, che si faceva pi· cupo a ogni minuto. Intorno alle cinque le raffiche si calmarono, infondendo in Le Gentil la speranza che il chiarore che cominciava a intravedersi a meridione fosse foriero di apertura generale, speranza controbilanciata dal fatto che assenza di vento significava assenza di movimento, ristagno di nuvole, conservazione del pi· detestabile degli status quo.

Tempo sette-otto minuti e le cose mutarono ancora. La brezza rinforz= di colpo, alle cinque e mezza era una furia. La nuvolaglia che aveva preso dimora a nordest si mise in moto, aprendo nella cortina piccoli interstizi dai quali emerse, simile a condanna, un secondo strato di nembi, pi¨ alto e pi· tenue del primo ma anche pi· omogeneo, impenetrabile all'apparenza, o forse penetrabile ma non dal Sole, che intanto era sorto e s'intravedeva, grande scudo pallido, oltre il grigio sipario.

Al porto intanto era iniziata la danza degli alberi maestri, che beccheggiavano nella risacca come i residui di ottimismo nell'animo dell'astronomo. La burrasca dur= fino alle sei, ora in cui i venti si concessero una nuova pausa, dando tregua alle imbarcazioni ma pure ai cumuli, ineluttabilmente fissi in cielo. Tre minuti prima delle sette, ovverosia nel momento in cui Venere si apprestava a concludere il suo attraversamento del disco solare, s'intravide a est un biancore che lasciava intuire la presenza dell'astro senza tuttavia che i suoi contorni potessero essere riconosciuti da occhio umano nÚ da telescopio. Erano superate ormai le otto quando il Sole si fece finalmente spazio, emergendo dal telone di nubi e incardinandosi nella rotta che avrebbe solcato indisturbato per il resto della giornata. Ma adesso Le Gentil non sapeva che farsene di quell'azzurro. Il transito di Venere, l'ultimo cui la sua generazione avrebbe assistito, era terminato, e il pi· instancabile dei suoi inseguitori l'aveva mancato un'altra volta.

Questo Þ il fato che talvolta attende gli astronomi. Avevo percorso pia di diecimila leghe, attraversato innumerevoli mari. Mi ero esiliato dalla mia patria per essere infine spettatore di una nuvola fatale che venne a piazzarsi davanti al sole nel momento esatto della mia osservazione, per derubarmi dei frutti delle mie pene e delle mie fatiche...

Una "nuvola fatale". Dopo tutte le insidie mortali che aveva scampato per un soffio, tutte le volte che aveva flirtato con la fine percependone da vicino il richiamo; dopo essersi fatto costruire un osservatorio astronomico su un cumulo di polvere da sparo e aver definito comunque "fortunato" l'inenarrabile viaggio che l'aveva condotto fino a lÝ, all'ultimo bramato rendez-vous, Le Gentil manc= Venere per colpa di una nuvola. Questo era quanto. Come ha scritto il solito Melville: ½L'uomo semina al vento e il vento soffia dove gli pare+.

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Comunque sia, non Þ faticoso comprendere perchÚ ricerca e studio degli esopianeti costituiscano una delle branche dell'astrofisica pi· in espansione, e senza dubbio tra le pi· affascinanti. C'Þ in gioco il compimento assoluto della rivoluzione copernicana, il decentramento finale di un pianeta i cui abitanti sono prossimi a passare, al termine di un arco di tempo lungo appena quattro secoli e mezzo, da ritenersi il centro di ogni cosa, l'insuperabile capolavoro delle mani di Dio, a condividere l'universo che credevano pensato per loro con un numero di mondi abitabili superiore alla somma di tutti i granelli di sabbia delle spiagge della Terra e soprattutto con una o pi· verosimilmente molteplici civiltÓ alternative alla propria, alcune di esse persino pi· avanzate, dotate di leggi, valori e cosmogonie differenti. Non Þ cosÝ sorprendente, a pensarci bene. L'intero cammino della fisica nella storia dell'umanitÓ Þ stato, a grandi linee, questo: un incedere da un mondo dominato da Assoluti a uno in cui tutto Þ, fino al midollo degli atomi, relativo.

Ho la ragionevole convinzione che se a Le Gentil fosse toccata in sorte l'epoca moderna si sarebbe messo in cerca di esopianeti. Avrebbe lasciato la Normandia e si sarebbe spinto fino alle vette pi· buie delle Ande o, considerata la sua indole, in un posto come La Palma, in mezzo all'oceano. Sarebbe stato uno degli astronomi che ogni pomeriggio, un po' prima del tramonto, salgono agli osservatori del mondo confidando in cieli senza nuvole e segnali di vita. Forse sarebbe stato Miguel, il giovane ricercatore castigliano che incrociammo al nostro ritorno nella control room, e che quella sera avrebbe puntato la sua stella in cerca di mondi nascosti. ½Suerte!+, gli disse Ennio lasciando lui alle sue mansioni preparatorie e implicitamente invitando me alla ripartenza.

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Come ha scritto alcuni anni fa Donald Fernie, professore emerito dell'UniversitÓ di Toronto, gli astronomi tendono a essere scettici nei confronti di chi si esprime in termini estatici quando si ragiona dell'universo e dei suoi misteri. L'astronomia richiede ferrea disciplina pi· che vago rapimento dei sensi, e la quota di misticismo che innegabilmente risiede nei suoi intenti Þ uno stupore discreto che discende dalla conoscenza della materia e dal continuo affinamento della comprensione delle leggi che la reggono, come avviene nell'arte e nella musica. + in questa prospettiva laica, mossa da un'urgenza pratica prima che spirituale, che Le Gentil pu= essere considerato a suo modo un visionario: un uomo spinto agli estremi del mondo e dell'umana pervicacia da interrogativi che alla maggior parte dei suoi simili apparivano oziosi, di certo non proporzionati al sacrificio richiesto per ottenere una parvenza di risposta.

Le stelle, prosegue Fernie, sono studiate per lo stesso motivo per il quale vengono scalate le montagne: perchÚ sono lÝ. A un certo punto arrivare in cima diventa un'impellenza, chiedere conto al cielo un bisogno non procrastinabile. Un allievo di Sir Arthur Eddington , uno degli astrofisici pi· rilevanti del Novecento, colui che per primo introdusse gli inglesi alla teoria della relativitÓ generale di Einstein, raccont= una volta di come il suo maestro sembrasse costantemente sul punto di uscire all'aperto e, agitando il pugno verso le stelle, esclamare ½Prima o poi vi capir=!+.

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