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| << | < | > | >> |Indice1. La nuova Silicon Valley è cinese 3 - 1.1. Il mondo è dentro WeChat, p. 8 - 1.2. Cosa racconta all'Occidente la nascita della più grande potenza tecnologica mondiale, p. 13 - 1.3. La svolta: da fabbrica del mondo a hub tecnologico, p. 17 - 1.4. WeChat va alla guerra, p. 22 - 1.5. Perché a Facebook interessa WeChat, p. 24 - 1.6. Lasciamo i nostri dati alle aziende americane o allo Stato cinese?, p. 26 2. Le città del futuro 31 - 2.1. Progettare la smart city, p. 35 - 2.2. La smart city delle smart city, p. 41 - 2.3. Gli occhi acuti della Cina (in Occidente), p. 44 - 2.4. La propaggine africana della Cina, p. 48 - 2.5. Sorvegliare e punire; il caso Xinjiang, p. 51 - 2.6. Innoway, p. 54 - 2.7. Come il 5G e l'Intelligenza artificiale cambieranno le nostre vite, p. 59 3. La sinizzazione dell'industria digitale mondiale 65 - 3.1. La cultura del lupo, p. 68 - 3.2. I nostri smartphone e i suicidi, p. 74 - 3.3. 996, p. 78 - 3.4. Etichettatori di tutto il mondo, unitevi!, p. 81 - 3.5. I turchi meccanici e l'industria digitale, p. 86 - 3.6. Controllo di Stato e censura nell'industria più innovativa del mondo, p. 89 - 3.7. «Sostituire gli umani con i robot», p. 91 4. Sistema dei crediti sociali e vite a punti 95 - 4.1. Liste nere, punteggi e affidabilità economica di persone e aziende: cosa sono i crediti sociali, p. 99 - 4.2. Capitalismo e credito sociale aziendale: i rischi per la sovranità degli altri Stati, p. 103 - 4.3. Buoni e cattivi, p. 105 - 4.4. Vita a punti e cittadinanza, p. 110 - 4.5. Il Scs cinese: uno specchio per l'Occidente, p. 115 - 4.6. Ingegneria sociale, p. 119 5. Creatività e ricerca: le chiavi per il successo 125 - 5.1. Su cosa si basa la forza della Cina, oggi?, p. 125 - 5.2. C'era una volta «Mad Men», c'era una volta Mao, p. 127 - 5.3. Meritocrazia e «guanxi», p. 131 - 5.4. La miniera di Qbit, p. 135 - 5.5. La prima emergenza sanitaria globale nell'era dell'intelligenza artificiale cinese, p. 141 Riferimenti bibliografici 149 |
| << | < | > | >> |Pagina 3Nella Cina odierna è impossibile immaginare che un individuo possa sopravvivere in una città cinese senza smartphone Chen Qiufan Pechino, marzo 2019. Mentre faccio colazione a casa, su WeChat controllo le notizie del giorno. Poi esco e, mentre cammino per gli hutong (le antichie viuzze della capitale che sopravvivono ai tanti cambiamenti in corso nella città), con WeChat prenoto il taxi per andare a un appuntamento in un bar del distretto dell'elettronica della capitale cinese. All'interno del bar, grazie all'Id di WeChat metto lo smartphone in carica in appositi cubicoli all'ingresso del locale e incontro la persona con cui ho appuntamento. Poi recupero lo smartphone e pago la mia consumazione con WeChat. Ho fame, così appena uscito cerco sull'applicazione un ristorante mongolo - una mia passione - nelle vicinanze. WeChat me ne indica uno a poche centinaia di metri dalla mia posizione, all'interno di un centro commerciale. Quando arrivo, mi metto in coda. Mentre attendo il mio turno per entrare, con WeChat controllo il menu e ordino. Mentre mangio, mando ad alcuni amici il Qrcode del ristorante: si tratta di buoni sconto appena ottenuti grazie al mio pranzo. In risposta ne ricevo anche io: buoni per ristoranti, locali e per i tanti mercati on line presenti nell'app. Mi incuriosisce un negozio di robot: scarico il «mini-programma» dello store virtuale e comincio a guardare il catalogo mentre pranzo. Finito di mangiare, pago con WeChat. Nel frattempo scambio messaggi, ricevo documenti, prendo altri appuntamenti: tutto con la stessa app. Esco dal centro commerciale e controllo sulla mappa di WeChat la zona dove devo andare per un altro appuntamento. Calcolo il percorso: prendo un autobus e poi la metropolitana e in entrambi i casi pago con WeChat. Nel frattempo acquisto on line i biglietti per un film da vedere l'indomani e spedisco dei soldi che dovevo a una persona, sempre via WeChat. Terminato il mio appuntamento esco e mi fermo davanti a un piccolo negozio di pochi metri quadrati gestito da una coppia cinese del Sud, compro dei ravioli che pago con WeChat, grazie al Qrcode appeso accanto alla porta che conduce alla piccola cucina. Poi con WeChat prenoto un biglietto del treno per Shanghai e la stanza di un hotel. Infine vado a un evento in uno dei grattacieli sulla Jianguomen, la lunga via che porta su piazza Tian'anmen. L'invito mi è arrivato via WeChat da un'amica, quando ancora ero in Italia: nella nostra chat ritrovo localizzazione, biglietto elettronico e ricevuta di pagamento (che archivio in un'apposita applicazione, sempre dentro WeChat, che aiuta a gestire la propria contabilità). Giunto sul luogo scannerizzo il Qrcode e ricevo tutta la documentazione relativa all'evento (una conferenza sui rapporti tra Cina e Usa). Insieme alla documentazione, mi ritrovo in un gruppo con tutti i presenti (i contatti li inserisco in un'apposita app dentro WeChat che consente di gestire al meglio tutte queste informazioni). Al termine della conferenza, vado a cena con alcuni dei partecipanti. A un certo punto tutti i nostri occhi finiscono sul cellulare: WeChat chiede l'update delle nostre informazioni. Ed eccoci, una tavolata intera impegnata a farsi selfie per consentire a WeChat di tenere sotto controllo i nostri dati biometrici. Quando terminiamo la cena, con WeChat dividiamo il conto in parti uguali. Tornando a casa ripenso al mio appuntamento della mattinata: nel distretto dell'elettronica, nella zona di startup legate all'Intelligenza artificiale, ho incontrato un giovane manager cinese. A un certo punto della nostra conversazione, all'ennesimo esempio di quanto WeChat faccia risparmiare tempo (le file in banca, negli uffici pubblici, al cinema e in migliaia di altri posti) gli ho chiesto a cosa sia dedicato tutto quel tempo guadagnato. «Forse a stare al cellulare», mi ha risposto sorridendo. In effetti, in una giornata intera non ho mai usato il portafoglio, la mail, un browser. Quando rientro in casa il mio computer, appoggiato sul tavolo in cucina, mi sembra ormai semplicemente una macchina da scrivere, ma meno rumorosa. Prima di andare a dormire, l'ultima mossa: prenoto la boccia d'acqua (presente in tutte le case cinesi) per l'indomani, via WeChat naturalmente. Nel corso di tutta la mia giornata non sono mai uscito da WeChat. In Cina lo smartphone è WeChat. E WeChat sa tutto di ognuno di noi. WeChat ( Weixin in mandarino) è un'applicazione, una «super-app» come viene spesso definita, grazie alla quale in Cina, come dimostra la giornata appena descritta, è possibile fare di tutto. È divenuta una presenza totalmente pervasiva nella vita quotidiana dei cinesi. Grazie a questa enorme diffusione, la superapp cinese è diventata interessante, per la mole di dati che produce, non solo per il partito comunista cinese (Pcc), ma anche per Facebook, il social network più famoso e utilizzato nel mondo occidentale. Secondo 1'«Economist» non ci sarebbero dubbi: Facebook aspira a diventare il «WeChat occidentale». Zuckerberg, che parla un ottimo mandarino, e la cui moglie, Priscilla Chan, nasce da genitori di etnia Hoa, una minoranza sino-vietnamita di lingua cantonese, non ha solo un interesse personale e culturale per la Cina. Negli ultimi anni, infatti, si è recato con una certa continuità in Cina con un obiettivo preciso: capire meglio il funzionamento dell'«applicazione delle applicazioni» ed estrarre da questo modello cinese vincente strategie e idee da applicare su Facebook (e gli altri social network di cui è proprietario, tra i quali Instagram e WhatsApp). WeChat ha infatti un modello di business che permette di generare denaro in modo molto più vario di quanto non faccia Facebook e di monetizzare (e incamerare) i dati degli utenti in modo molto più proficuo. Mark Zuckerberg è inoltre interessato ad alcuni aspetti di WeChat come la messaggistica diretta, la gestione dei Big Data e, soprattutto, la capacità di tenere gli utenti all'interno di «un mondo» WeChat. Non a caso, nel marzo 2019 Zuckerberg commentava l'articolo Che cosa Facebook potrebbe imparare da WeChat a firma di Jessica E. Levin, postato su Facebook nel 2015, scrivendo: «Se solo avessi ascoltato i tuoi consigli quattro anni fa...». L'enorme interesse del più grande social network occidentale per WeChat dimostra che siamo alla fine di un percorso e all'inizio di un nuovo mondo: dopo anni di imitazione da parte della Cina di tutto quanto era prodotto in Occidente, è l'Occidente - oggi - che guarda alla Cina per trovare nuove idee e nuovi utilizzi per le proprie «invenzioni». La Cina ha ripreso il suo posto al centro del mondo come vuole il suo nome, Zhongguo, «terra di mezzo». Del resto, per i cinesi non si tratterebbe di una novità. Gli europei cominciarono a conoscere la Cina a partire dal secondo secolo a.C., quando la seta iniziò a solcare i mercati centro-asiatici prima e del Mediterraneo poi, fino ad arrivare a fare letteralmente impazzire i romani, innamorati di quel tessuto pregiato proveniente da un luogo così lontano. Una storia che i cinesi ricordano bene: l'apertura di quelle tratte commerciali che sarebbero divenute famose con il nome di Via della Seta portò in seguito a scorrerie di esploratori, geografi e archeologi, impegnati a saccheggiare la ricchezza culturale dell'odierna zona del Xinjiang e del Gansu. Allora a Pechino si divideva il mondo in due: c'erano i cinesi e c'erano i «barbari», il resto del mondo, europei compresi. All'epoca, i primi gesuiti che riuscirono ad arrivare nell'Impero celeste rimasero stupiti per il grado di sviluppo del paese. Nel diciottesimo secolo, secondo Kant, la Cina era «l'impero più colto al mondo». Ma con il tempo quel luogo governato dai mandarini, frutto di complicati e competitivi esami, finì per diventare terra di conquista per i «barbari». Approfittando della debolezza dell'Impero cinese, incapace a fine '800 di far fronte al progresso occidentale prodotto dalla rivoluzione industriale, i «barbari» arrivarono fino al cuore del potere cinese, defraudando il territorio di ricchezze e di intere regioni con l'uso dell'oppio, delle armi, di sotterfugi e di sconcezze come i «trattati ineguali». La Cina divenne la malata d'Asia, attraversò la sua fase storica più umiliante. Nel fondo del cuore di ogni cinese qualcosa di tutta questa storia è rimasto. Oggi, i cinesi ripropongono quell'antica Via della Seta come il simbolo del cambiamento epocale che stiamo osservando, dello spostamento da ovest a est del centro del potere economico e tecnologico: ora sono loro a capo della locomotiva. E non intendono perdere di nuovo il loro appuntamento con la storia. Ma cominciamo dal principio: cos'è WeChat e come è nata? | << | < | > | >> |Pagina 512.5. Sorvegliare e punire: il caso XinjiangNella regione nordoccidentale cinese dello Xinjiang vive la minoranza uigura, un'etnia turcofona e musulmana. Attualmente gli uiguri nella regione sono circa 11 milioni. In questo territorio risiedono simboli della cultura musulmana, alcune città solo a nominarle - Kashgar, ad esempio - scatenano ricordi e incredibili storie di avventura legate a commerci, scambi, vite straordinarie. Ma la zona non è stata sempre musulmana: è stata anche e soprattutto una regione percorsa da popolazioni nomadiche, dalle mille religioni e credenze e dalle diverse attitudini e organizzazioni sociali. La zona fu considerata inespugnabile per molto tempo, perché percorsa dal deserto del Taklamakan, il terrore di ogni esploratore. Oggi, nelle città della regione, i mercati all'aperto, l'odore della carne d'agnello e delle spezie catapultano la mente di chiunque in immaginari arabeggianti. I cinesi della regione hanno gli occhi azzurri o barbe lunghe; attraverso lo Xinjiang, le sue città, i monti e il deserto, si può ammirare la grandezza paesaggistica, storica, culturale ed etnica della Cina. La prima volta che ho visitato la regione, però, ho impiegato ben poco tempo per accorgermi del livello di controllo e tensione, a causa della presenza di check point nelle strade appena fuori le grandi città e della presenza massiccia di poliziotti. A Urumqi sono stato seguito per tre giorni da due funzionari. Il loro scopo, a quanto dissero, era garantire la mia sicurezza. Il fatto è che gli uiguri sono considerati in tutto il paese dei poco di buono, quando non dei ladri e degli spacciatori. Da quando poi le istanze autonomiste hanno finito per confluire - benché i numeri non siano affatto chiari - nella più generale ondata jihadista, Pechino ha stretto ancora di più le maglie. Chiedendo alla comunità internazionale il riconoscimento della minaccia del terrorismo internazionale nello Xianjiang, Pechino ha braccato i sospetti jihadisti e ha tentato di soffocare l'affiato religioso usando dapprima il denaro. Una campagna, in atto da tempo e chiamata «Go West», ha invitato imprese e aziende cinesi a investire in quella regione strategica per il governo e per i piani futuri di Xi Jinping e la sua Nuova Via della Seta. Insieme a soldi, strade - non ovunque - e commercio, sono arrivati anche gli Han, quelli che noi chiamiamo cinesi e che costituiscono l'etnia maggioritaria in Cina. E si è passati al livello successivo: da alcuni anni Pechino ha trasformato quel territorio in un immenso laboratorio sociale che - secondo alcuni studiosi - sconfina ormai nell'esperimento totalitario puro e semplice. La regione è la più sorvegliata del paese; in ogni zona delle città sorgono posti di polizia: telecamere ovunque, territorio militarizzato e talvolta chiuso all'esterno. Oltre a una serie di disposizioni ufficiali nei confronti dell'etnia uigura, esiste un'operazione di natura «educativa», secondo quanto comunicato dal partito comunista: almeno un milione di cinesi di etnia Han sono stati mandati in Xinjiang all'interno di un programma chiamato «United as One Family». Il loro compito è trasformarsi in «parente» di una famiglia dello Xinjiang, installarsi in casa e diventare un cittadino-poliziotto. I1 loro compito risulta fondamentale non solo per monitorare, ma anche per condannare. Sembra strano ai nostri occhi ma è proprio così: un milione di impiegati statali, dalle grandi aziende di Stato alle agenzie di stampa statali, sono stati mandati nelle case degli uiguri per controllarli ed educarli a una cultura patriottica, in mandarino (e non nella lingua uigura) e con una devozione totale a Xi Jinping. Ognuno di loro, infine, riporta alle autorità il comportamento degli uiguri sotto controllo, decidendone dunque il futuro: in caso di giudizio negativo, infatti, per alcuni dei «controllati» si aprono le porte dei «campi di rieducazione» cinesi. Come abbiamo già visto, la Cina sa unire diversi strumenti di controllo sociale: quelli più tecnologici, ma anche quelli più tradizionali, legati alla propria specifica organizzazione territoriale e sociale delle città. | << | < | > | >> |Pagina 592.7. Come il 5G e l'Intelligenza artificiale cambieranno le nostre viteUn tempo, quando si doveva pensare al futuro, si faceva riferimento per lo più agli Stati Uniti. Oggi la nostra attenzione va indubitabilmente dall'altra parte del mondo, in Cina. Pensiamo solo all'industria culturale: fino a qualche tempo fa il cinema e la letteratura di fantascienza immaginavano mondi anche lontani nei quali però a salvare le sorti del nostro pianeta erano gli americani. O in cui extraterrestri o l'esplorazione di mondi lontani avevano in ogni caso a che fare con gli Stati Uniti. Negli ultimi anni il film più importante di fantascienza è The Wandering Earth, prodotto dalla Cina, con attori cinesi e con i cinesi impegnati a salvare il mondo. Lanciato in tutte le sale del mondo e distribuito anche da Netflix, con più di 700 milioni di dollari incassati è il secondo film di maggior successo economico nella storia del cinema di produzione non statunitense dopo Wolf Warrior 2, uscito nel 2017. Non solo cinema, perché oggi lo scrittore più famoso al mondo per quanto riguarda la fantascienza si chiama Liu Cixin ed è cinese. Già noto in patria, ha spiccato il volo anche sul mercato internazionale dopo che una copia del suo libro più celebre, Il problema dei tre corpi , è apparso in una foto tra le mani dell'ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama. L'industria culturale indica tendenze presenti e future in atto nel mondo economico. E a questo proposito, oggi, dire futuro significa dire 5G. Tutti gli esperti sono concordi: il 5G cambierà la nostra vita quotidiana e poiché la Cina è - insieme alla Corea del Sud - il paese più avanzato nella sperimentazione e quello che presumibilmente lo commercializzerà per prima, l'influenza che avrà sul resto del mondo sarà enorme. Per «Wired» il 5G sarà più veloce del 4G ma «meno veloce del teletrasporto». Una rivoluzione dai toni ancora più accesi di quando si passò al 4G, perché ad usufruirne saranno per lo più Intelligenza artificiale e di conseguenza non solo la governance, ma anche la manifattura (pensiamo alla velocità di elaborazione di manufatti di computer potentissimi e rapidissimi e in grado di far funzionare macchinari in modo molto più rapido ed efficiente di quanto non accade con gli operai), portando il 5G a impattare in modo significativo sui Pil degli Stati. Solo che ci sono due problemi: il primo è già in atto, e ha a che vedere con uno scontro geopolitico silenzioso che vede contrapporsi Cina e Stati Uniti. In palio c'è il primato per rendere il 5G utile alla vita di ogni giorno. E chi vincerà questa corsa usufruirà di tutti i vantaggi del caso. Il secondo problema arriverà in seguito, quando la velocità di elaborazione dei dati potrà consentire ai governi nazionali un controllo sociale ancora più ampio di quanto è già in corso. Gli esperti si aspettano che il 5G avrà una velocità massima di download fino a 20 gigabit al secondo, abbastanza veloce da scaricare un film hd a lunghezza intera in pochi secondi. Avrà una minore latenza e una maggiore connettività, il che significa tempi di attesa inferiori nell'invio di dati e più dispositivi in grado di connettersi alla rete contemporaneamente. Il miglioramento in questi campi sarà necessario - si dice - per inaugurare l'IoT: auto a guida autonoma, sensori, città intelligenti, realtà virtuale e persino chirurgia a distanza. | << | < | > | >> |Pagina 893.6. Controllo di Stato e censura nell'industria più innovativa del mondoLa condizione dei lavoratori digitali cinesi non può essere compresa se non si considerano le caratteristiche di contesto che contraddistinguono il sistema economico nazionale: le aperture dell'epoca post-maoista (fine anni '70) hanno finito infatti per creare meccanismi neoliberisti, ma «controllati» dallo Stato. Le aziende che producono app, infatti, devono attrezzarsi perché i contenuti che «passano» attraverso la propria piattaforma rispecchino il volere del governo per quanto riguarda la censura di argomenti proibiti. La classe dei lavoratori digitali, dunque, si ritrova schiacciata da dinamiche di mercato ultraliberiste, appesantite ulteriormente dalla volontà statale di guidare questi processi. Questo significa: altissimi ritmi di lavoro e paghe da fame. Ai nostri occhi si tratta di una contraddizione, ma non risulta tale agli occhi dei cinesi, ormai abituati al «socialismo di mercato»; un aspetto importante da tenere presente anche per l'Occidente, sempre più impegnato a relazionarsi con aziende cinesi mosse da istinti predatori sul mercato, ma con un fortissimo legame con il potere centrale e con il partito comunista cinese. A Tianjin, a sud-est di Pechino, esiste quello che viene chiamato «quartiere della censura», dove operano lavoratori che diventano «poliziotti informatici»: controllano il web per conto di aziende private - ma su indicazione dello Stato - cercando di ripulirlo da elementi «negativi». Rispetto al primo filtro del «Great Firewall» (che blocca siti internet sgraditi), riescono a lavorare più di fino. Toutiao, una di queste aziende, ha oltre 20mila dipendenti e sta addestrando anche le intelligenze artificiali perché imparino a scandagliare la rete e bloccare contenuti. Prima di tutto questo c'era l'Esercito dei 50 cents, una vera e propria «armata» di freelance che, remunerata dal governo (5 centesimi di yuan appunto), si occupava di tenere sotto controllo l'opinione pubblica on line. Si tratta più di manipolazione che di censura: l'Esercito dei 50 cents - che di recente Chen Qiufan, uno scrittore di fantascienza, ha definito «xenofobo» - indirizzava le discussioni on line a favore del governo. Non cancellava i post, ma commentava, precisava, interveniva in ogni forum o ambito di discussione on line. Si tratta di qualcosa di più complesso di una semplice forma di censura, è il tentativo di controllare e indirizzare l'opinione pubblica on line, sfruttando quegli stessi lavoratori che con quegli strumenti potrebbero creare invece una «resistenza» al sistema. Un meccanismo perfetto, almeno all'apparenza, per controllare e gestire (tra le altre cose) anche lo sfruttamento dei lavoratori della rete. Secondo i dati diffusi dal «Beijing News», la Cina avrebbe oltre 2 milioni di persone nei dipartimenti governativi e nelle aziende private dedicate solo a occuparsi di controllare i contenuti on line. Un numero che è destinato ad aumentare. E che ci riguarda da vicino: nel 2019 alcuni media cinesi hanno sottoscritto importanti accordi con media italiani. In questo caso sarà bene tenere d'occhio la situazione per capire quanto «lo spirito del lupo», unito alla volontà censoria dello Stato cinese, sarà tenuto a bada dai nostri meccanismi di garanzia di pluralità e trasparenza dell'informazione. Non c'è bisogno di fare previsioni azzardate, per sostenere che sarà un confronto piuttosto complicato. | << | < | > | >> |Pagina 97Durante la mia ultima visita in Cina nel 2019, su «That's Beijing», una delle tante riviste cittadine per cittadini stranieri (dove in genere, per intenderci, si sceglie il ristorante o il concerto per la serata), avevo notato che le prime due pagine erano dedicate proprio al cosiddetto «sistema dei crediti sociali». «That's Beijing» riportava la testimonianza di alcuni abitanti di Pechino, ben felici di esprimere il proprio apprezzamento del sistema che poteva garantire loro un ambiente economico e sociale sicuro e basato sulla fiducia. Apprendevo così che il sistema dei crediti sociali non solo è un progetto assolutamente di pubblico dominio, ma che è generalmente molto apprezzato dalla popolazione cinese.Eppure in quei giorni mi sembrava che i divieti, il controllo e le punizioni intorno a me aumentassero in continuazione. Ad esempio, qualche giorno prima, avevo appreso di una nuova moda in vigore a Shanghai: proiettare su schermi giganti, sparsi per le tante arterie e sopraelevate della metropoli, le targhe dei conducenti che suonano il clacson perché, oltre a essere multati, venissero esposti alla pubblica gogna. Sempre a Shanghai, dal luglio 2019, era stato attivato il nuovo sistema di raccolta differenziata. Grazie all'uso del riconoscimento facciale, associato alla propria educazione nel riporre la spazzatura, anche questa mansione era rientrata nell'ambito dei crediti sociali: i trasgressori delle regole avrebbero visto diminuire il proprio punteggio cittadino. Questo tipo di episodi non si verificava solo a Shanghai, ma in molte altre città cinesi. A Pechino, ad esempio, avevo notato schermi in prossimità degli attraversamenti pedonali: anche in questo caso i trasgressori, tanto i pedoni quanto le auto, erano etichettati come inaffidabili di fronte al resto delle persone che transitavano nella zona. La stessa cosa accadeva a Shenzhen. Confucio del resto riteneva che fosse proprio il timore della vergogna, più delle leggi, a indurre gli uomini a seguire le regole correttamente. Quanto a me, credo di non essere mai stato così attento come in quei giorni ad attraversare le strade, considerando che fino a poco tempo prima mi ero conformato anch'io a quella sorta di anarchia armonica nella quale sia i pedoni sia le auto cinesi erano soliti muoversi. Il sistema dei crediti sociali ha radici antiche nella cultura cinese. Nel 500 a.C. circa Confucio si pose come obiettivo quello di coordinare tutte le aspirazioni presenti nella società attraverso una serie di regole per mantenere l'ordine. La morale divenne un elemento integrante della nuova società: una qualità personale intima, in opposizione ai simboli di prestigio della nobiltà. In pratica, divenne lo Stato a decidere cosa è morale e cosa no, arrogandosi il diritto di stabilirlo anche per i cittadini. Tutto questo è tuttora tipicamente cinese: «Nel momento in cui si accetta l'idea che la morale, intesa come l'insieme delle virtù, e l'etica, intesa come l'attuazione pratica di quelle virtù, siano parte integrante del potere politico, tanto da divenirne i cardini», ha scritto il sinologo Maurizio Scarpari, «si sancisce il principio che la politica è per sua natura etica, e che lo Stato, in quanto massima espressione dell'autorità, è la fonte primaria, se non la sola, della moralità». Naturalmente, applicare oggi i valori tipici del confucianesimo apre a nuovi scenari, specie se la moralità dei cittadini può essere valutata e tracciata con l'utilizzo dei moderni sistemi tecnologici. In queste pagine vedremo quali sono questi scenari, sia in Cina che in Occidente.
Procediamo dunque nell'esplorazione di un mondo
fatto di dettami morali, che risalgono a tempi antichi,
e di rilevamenti ultratecnologici capaci di proiettarci
direttamente nel futuro.
4.1. Liste nere, punteggi e affidabilità economica di persone e aziende:
cosa sono i crediti sociali
Se è complicato spiegare WeChat a un occidentale, è ancora più complesso spiegare il sistema dei crediti sociali: WeChat quanto meno esiste, ha delle funzioni, ha un suo utilizzo. Non esiste ancora in Cina, è bene sottolinearlo, un sistema unificato di Scs. Non siamo cioè ancora in presenza di un unico database che determina il punteggio di tutti i cittadini cinesi. Esistono invece diversi sistemi di Scs: il credito sociale applicato alle aziende (tanto governativo, quanto locale), le black list e le red list (entrambe stabilite da organi del governo ma utilizzate in alcuni casi anche dalle aziende private), i progetti pilota di alcune città che sperimentano un vero e proprio punteggio sociale degli abitanti e infine il credito sociale di natura specificamente finanziaria (già in uso anche negli Usa e in alcuni paesi europei), applicato per lo più dalle aziende private. Si tratta di sperimentazioni che nel 2020 saranno valutate dal governo per passare a una fase successiva. In parole povere, se ci sarà un sistema di Scs che convincerà più di altri, potrebbe essere adottato a livello nazionale, così come le diverse sperimentazioni potranno aiutare il partito a concepire un sistema unico, nazionale, in grado di integrare varianti di sistemi diversi già sperimentati (magari unendo punteggio cittadino e finanziario per determinare black list onnicomprensive). Lo scopo finale del governo cinese potrebbe infatti essere il seguente: creare un unico mega-database nazionale nel quale ogni cittadino e ogni azienda avranno un punteggio sociale determinato dal proprio comportamento in termini di affidabilità economica (pagamento di multe, restituzione di prestiti), penale, amministrativa (comportamenti di natura civica, come abbiamo visto in precedenza: suonare il clacson, fare bene la raccolta differenziata, attraversare la strada) e probabilmente sociale (il comportamento on line, ad esempio). A seconda che il cittadino sia più o meno affidabile, avrà dei vantaggi o degli svantaggi. | << | < | > | >> |Pagina 133Di sicuro il sistema di scelta dei funzionari in Cina, però, funziona. Il paese tiene, progredisce e studia le strategie per rinnovarsi. I vantaggi della meritocrazia cinese sono chiari - specificano i sostenitori di questa tesi - perché i quadri sono sottoposti a un processo di selezione estenuante e solo quelli con un record di ottime prestazioni arrivano ai più alti livelli. Invece di sprecare tempo e denaro per campagne elettorali vuote di senso, i leader possono cercare di migliorare le loro conoscenze e i risultati. La Cina manda spesso i suoi leader ad imparare dalle migliori pratiche politiche all'estero. Questo - è innegabile - è qualcosa che in Occidente non appare all'orizzonte. E che vale la pena indagare: la Cina è una potenza economica con le sue peculiarità ma, come ha scritto Zhang Weiwei, professore della prestigiosa Fudan University, sulle pagine del «New York Times», «non produrrà mai leader incapaci alla stregua di Bush o Noda in Giappone». O di Trump, per non citare nessun italiano.Come per i crediti sociali, anche nel caso del principio della meritocrazia possiamo rintracciarne le radici nella storia cinese: la sua origine è infatti da ricercare nella storia e nella dinamica degli esami imperiali. A istituirli fu l'imperatore Wu della dinastia degli Han (141-87 a.C.), già protagonista dell'apertura della Cina alla «Via della Seta». Con la dinastia Tang gli esami diventarono una condizione necessaria per accedere all'incarico di funzionario, per maturare poi definitivamente nel periodo Ming (passando anche per una fase nella quale erano una sorta di soluzione allo strapotere aristocratico: in quel caso la «meritocrazia» si prefiggeva di sconfiggere privilegi di natura ereditaria). Daniel A. Bell , autore del libro Il modello Cina, afferma che il principale ideale politico - condiviso da funzionari di governo, riformatori, intellettuali - è la cosiddetta meritocrazia democratica verticale, cioè «una democrazia ai livelli inferiori di governo» a fronte di un sistema politico che, secondo Bell, premia la meritocrazia nei livelli apicali della struttura politica e istituzionale del paese. Meritocrazia che sancisce la liturgia della politica interna e che diventa guida di quella all'esterno: la Cina con cui ci troveremo ad avere a che fare con molta più frequenza che in passato si muove su queste direttrici. Potrebbe sembrare quindi che la Cina sia il modello meritocratico per eccellenza. Ma non è esattamente così: come sempre in Cina la realtà è multiforme perché, insieme alla logica della meritocrazia, convivono pratiche quotidiane di corruzione, privilegi legati a conoscenze e legami del nucleo familiare. Qualsiasi businessman che abbia mai messo piede in Cina tornerà nel proprio paese con la parola guanxi stampata in testa: guanxi significa il gancio, il contatto, le relazioni, il network di conoscenze. Nel tempo che si passa in Cina, per fare affari, studiare, o lavorare, si cerca di identificare, trovare, arrivare al guanxi giusto, ovvero quel contatto che consente di svoltare. E arriviamo all'ultima considerazione, che completa la sequenza logica: «tengo famiglia», cerco un «gancio», creo un network e infine, quasi sempre, lo alimento in un modo molto semplice: con la mazzetta. E il circolo è completo. Non stupiamoci dunque se la Cina è l'unico paese dove si paga il dottore per sapere il sesso del nascituro, per un'operazione urgente, per iscrivere un bambino alla scuola elementare. Network, mazzette e rilevanza del nucleo familiare: ecco i limiti della meritocrazia cinese. | << | < | > | >> |Pagina 1415.5 La prima emergenza sanitaria globale nell'era dell'intelligenza artificiale cineseAlla fine di gennaio 2020 è piombato sul mondo il coronavirus. 11 focolaio è partito in Cina, nella regione dell'Hubei, nel capoluogo Wuhan, città di 11 milioni di abitanti. A partire dalla fine del 2019 in Cina si erano registrati casi anomali di polmoniti. Alcuni medici ritennero che si trattasse di nuovo della SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome), un'altra forma di coronavirus registrata in Cina - e identificata da un medico italiano, Carlo Urbani, che poi di SARS morì in Thailandia - fin dalla fine del 2002. Durò fino al 2003 e fece 774 vittime in 17 paesi del mondo. Le autorità cinesi furono ritenute responsabili per la diffusione del virus, perché minimizzarono a lungo l'epidemia senza dare l'allarme, contribuendo così a ritardare in modo fatale l'adozione di contromisure. Allora toccò al Guangdong, questa volta è il turno dell'Hubei. Il ritardo delle autorità cinesi nel comunicare l'emergenza è stato minimo, con il paradosso che, per non incorrere in «un'altra SARS», Pechino ha riportato l'esistenza del virus prima all'Organizzazione mondiale della sanità e solo in seguito alla propria popolazione. Una volta partita la risposta, però, la Cina ha agito come fa di solito, ovvero procedendo alla massima velocità per porre rimedio al problema. Wuhan è stata messa in quarantena insieme ad altre 15 città: un totale di almeno 60 milioni di abitanti - un'Italia intera - si è ritrovato così in luoghi sigillati, da cui impossibile entrare e uscire; è la quarantena più grande nella storia dell'uomo, una soluzione che viene considerata spesso tardiva dalla comunità scientifica, ma che dimostra la determinazione cinese nel fare fronte all'epidemia.
Il fatto che probabilmente tutto sia nato all'interno di un mercato a Wuhan,
dove si macellano e vendono animali selvatici, evidenzia la doppia faccia
della Cina ancora visibile oggi: un paese lanciato verso il futuro che mantiene
però abitudini tradizionali e culturali di natura millenaria capaci di incidere
ancora nel tessuto sociale. In quarantena e con grandi
città deserte, con le scuole e gli uffici chiusi, davanti
alla popolazione cinese è passata rapida una sequenza di immagini già iconiche:
l'urlo dai palazzi nella notte di Wuhan,
Wuhan jiayou,
«forza Wuhan», la conta dei morti e la necessità di rifornire gli ospedali
di materiale medico, la costruzione in dieci giorni di due ospedali di
emergenza, il licenziamento di centinaia di funzionari del Partito ritenuti «non
all'altezza», la morte di Li Wenliang, un dottore di 34 anni
che aveva denunciato i casi di polmonite anomala ma
non era stato creduto. Li Wenliang ha dovuto firmare
una reprimenda, poi è stato abilitato e infine è morto
a causa del coronavirus.
In tutto questo fremere di tragedie e speranze, la principale preoccupazione di molti cinesi rimaneva quella di capire se nel corso dei giorni precedenti allo scoppio dell'epidemia erano stati vicini a qualche persona contagiata. E sono arrivate le risposte, perché saperlo - nella Cina di oggi - è diventato semplicissimo: le compagnie telefoniche cinesi e alcune applicazioni (ad esempio quelle delle ferrovie statali) hanno approntato dei sistemi attraverso i quali le persone hanno potuto controllare se, nel corso dei propri spostamenti in treno o aereo, erano vicini o a contatto con chi poi si è ammalato o con chi è stato ricoverato in ospedale. China-Mobile - uno dei più importanti operatori di telefonia del paese - ha comunicato ai cittadini di Pechino che avrebbero potuto controllare attraverso un servizio ad hoc i propri spostamenti negli ultimi 30 giorni. Sembra una cosa incredibile ai nostri occhi, uno sfregio alla privacy - la propria e quella di passeggeri di treni e aerei, ignari dei controlli sul loro stato di salute -, eppure in Cina è risultata una mossa piuttosto positiva, stando ai feedback di questi servizi da parte degli utenti, per rassicurare gli animi.
La potenza delle app cinesi, dedicate allo stretto
controllo degli spostamenti della popolazione - come abbiamo visto nelle pagine
di questo libro -, è stata presentata dal governo cinese e dagli operatori
come un grande servizio in una situazione emergenziale. Come ha scritto
l'agenzia Reuters, il coronavirus avrebbe fatto emergere «dall'ombra» il sistema
di sorveglianza cinese. Più che un'emersione, in realtà,
si potrebbe dire che il virus abbia consentito un utilizzo ad hoc di strumenti
che i cinesi sono abituati a usare o «subire» ogni giorno.
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