Copertina
Autore Tullio Pironti
Titolo Il paradiso al primo piano
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2010, , pag. 194, cop.fle., dim. 14x21,5x1,5 cm , Isbn 978-88-7937-474-3
LettoreLuca Vita, 2011
Classe narrativa italiana
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Pagina 21

Dieci giugno millenovecentocinquantacinque.

Da un'ora era passata la mezzanotte e ancora non riuscivo a dormire. Avevo appena compiuto diciotto anni! Finalmente potevo andare al casino. Dovevo solo aspettare l'apertura, alle nove del mattino.

Mi giravo e rigiravo nel letto.

Mi alzai diverse volte.

Erano le due quando finalmente mi addormentai. E sognai. Sognai di fare l'amore.

Alle otto ero già in piedi. Alle otto e mezza andai a svegliare mio fratello Guglielmo. Gli diedi uno scossone. Prima sobbalzò, poi aprì gli occhi.

«Che c'è?».

«Oggi è il mio compleanno».

«E allora?».

«Vuoi accompagnarmi?».

«Dove?», mi domandò con la voce impastata dal sonno.

«Al casino».

«E tu mi svegli per questo!?».

«Pensavo che stessi già sveglio».

«Dormivo, dormivo. Ma non ci sai andare da solo?».

«Mi vergogno!».

«I soldi li hai?».

«Ho cinquecento lire».

«Dove le hai prese?».

«Le ho conservate un poco alla volta. Allora, mi accompagni?».

«Sì, sì, stasera ci andiamo».

«Non è possibile adesso?».

«Adesso no, devo andare in libreria».

«Dove mi porterai?».

«Alla Pensione Gianna, vicino all'Università».

Trascorsi tutta la giornata a pensare sempre alla stessa cosa: l'amore.

Poi il giorno finì e venne la sera.

Ogni tanto mi affacciavo alla finestra per vedere se mio fratello arrivava.

Finalmente lo vidi.

Mi precipitai per le scale e lo raggiunsi prima che incominciasse a salire.

«Andiamo?», gli dissi bloccandolo dov'era.

Mi rispose di sì, senza entusiasmo.

Guardai l'orologio, erano le sette.


Abitavo nel centro storico di Napoli, in un palazzo antico, con i miei genitori e cinque tra fratelli e sorelle, in via Tribunali al numero 175, in tre piccole stanze e un ammezzato.

C'era un lungo tratto di strada da percorrere per arrivare alla Pensione Gianna in vicolo Melofioccolo, a pochi passi da via Mezzocannone.

Camminavo a passo svelto e ogni tanto aspettavo che mio fratello mi raggiungesse.

Più di una volta mi fermai dinanzi alle vetrine, per vedere la mia immagine riflessa: ero davvero elegante, con il vestito blu scuro a righini bianchi, di mio fratello Amedeo, e la camicia azzurrina, che usavo solo la domenica. Avevo anche messo un po' d'olio nei capelli per farli diventare lucidi.

Con un finto sorriso, scoprivo i denti perfetti e bianchissimi e pensavo che il mio viso, con quegli occhi dal taglio vagamente orientale, sarebbe piaciuto alla ragazza che ancora non conoscevo e con cui avrei fatto l'amore.

«Puoi camminare più svelto?», dissi a Guglielmo.

«E tu perché corri? Le ragazze stanno là, non aver paura, non scappano. Ma al tuo maestro di boxe l'hai detto che andavi al casino?».

«Sei pazzo? Tra venti giorni devo combattere e se viene a saperlo mi sbatte fuori dalla palestra».

Finalmente arrivammo al piccolo portone dove c'era un'insegna di colore giallo con la scritta PENSIONE GIANNA.

All'ingresso ci accolse un giovane robusto e abbronzato; aveva un grosso naso e i capelli neri impomatati tirati all'indietro.

Mi chiese i documenti. Gli diedi la mia tessera d'identità che era davvero in uno stato pietoso: la data di nascita si leggeva appena. Per qualche istante temetti che non mi facesse entrare.

«Guagliò, nun hê perduto tiempo!», commentò. E mi restituì la tessera con un sorriso malizioso.

Salimmo una scala stretta e poco illuminata, entrammo in un grande salone con poltrone tappezzate di rosso; tende bianche e pesanti pendevano davanti alle due finestre.

Proprio di fronte alla porta c'era un banco circolare. Dietro stava seduta una donna sui cinquant'anni, grassa, col viso pesantemente truccato e i capelli biondo chiaro.

Le poltrone erano tutte occupate da giovani e uomini maturi, molti di loro erano vestiti con una certa eleganza.

Mio fratello, con un mezzo sorriso e a bassa voce, mi disse: «Li vedi quelli, sono tutti professori dell'Università!».

Ogni tanto si apriva una porta e usciva una coppia; l'uomo andava alla cassa a pagare e la donna rientrava quasi subito con un altro cliente.

Vidi un signore che dimostrava più di settant'anni, che per quell'epoca erano tanti, seguire una ragazza. Lui le teneva una mano su un fianco, mentre lei lo accarezzava: indossava solo un microscopico slip, un lungo velo bianco intorno al collo e un paio di scarpe dorate con tacchi altissimi.

Mi stavo appena rendendo conto di come si svolgevano le cose, quando apparve lei: alta, un seno grande, fianchi rotondi, occhi azzurri, capelli neri e lunghi fino alle spalle, un viso pulito senza ombra di trucco.

Non avevo mai visto una donna così bella e così nuda.

La vidi dirigersi verso il banco della tenutaria:

«Il signore paga una semplice».

«Voglio andare con quella!», dissi sottovoce a mio fratello.

«Sì, ma devi aspettare, quei due stanno prima di te».

«Va bene, aspetto».

Poi gli chiesi cosa significasse una semplice.

«Una semplice è quando il cliente fa l'amore una sola volta. Una doppia è quando fa l'amore due volte».

Non passò nemmeno mezz'ora che venne il mio turno.

Entrai in camera. Mi sembrava che il cuore mi scoppiasse nel petto.

Mi guardai intorno: su una parete c'era un'immagine erotica pompeiana, un Priapo con un enorme membro.

Lei mi prese per mano e mi portò vicino al lavandino; mi chiese di togliermi i pantaloni, aprì l'acqua calda e mi lavò il pene, che si inturgidì immediatamente.

«Caspita! Tieni questo ben di dio!», mi disse ridendo.

Poi incominciò a ispezionarlo.

«Perché lo guardi così?», domandai.

«Per accertarmi che non è malato».

Quando il controllo finì, si distese sul letto.

La luce della lampada illuminava il suo bellissimo corpo.

Stavo vicino al letto, senza pantaloni, ma in giacca e cravatta. E con il sesso pronto per l'amore.

«Vieni», mi disse.

Mi spogliai completamente e mi misi al suo fianco.

Le dissi: «Oggi compio diciotto anni, ed è la mia prima volta».

«Sei ancora vergine? Un bel ragazzo come te non è mai stato con una donna?».

«Sì, sono stato fidanzato, ma fra noi ci sono stati solo baci».

«E l'amore? Lo facevi da solo?».

«Qualche volta».

«Che bello... Sono la prima donna della tua vita! Vedrai che questo giorno non lo dimenticherai più».

Mi abbracciò e mi baciò sul petto.

La strinsi forte, volevo farle sentire che ero un vero uomo.

«Piano, così mi fai male!».

Allentai la stretta, lei ricominciò ad accarezzarmi.

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Pagina 44

Non avevo ancora sedici anni quando mi iscrissi a una palestra di pugilato.

Ancora oggi non so perché scelsi di fare la boxe. Quello non era proprio lo sport più adatto a me, mi mancava la principale dote che un pugile deve avere: il coraggio. E non rinunciai nemmeno quando vidi cosa capitò al mio amico Marco mentre in allenamento boxava con un ragazzo che, al contrario di lui, aveva un fisico da gladiatore.

Marco, che era tecnicamente più bravo, lo colpiva ripetutamente con il sinistro; l'altro, nonostante portasse sventole con tutt'e due le mani, non riusciva mai a colpirlo.

A un certo punto la sorpresa: Marco non schivò un violento gancio destro che si stampò sul suo naso lungo e affilato.

Si sentì un rumore secco. Era l'osso che si rompeva. Il naso si piegò completamente e si schiacciò sullo zigomo sinistro: sembrava il proseguimento dell'occhio. Il sangue schizzò dappertutto.

Guardai spaventato il maestro. Lui non si scompose. Con calma mi disse: «Prendimi una sedia».

Corsi negli spogliatoi, gliela portai. La mise al centro del ring, sotto il fascio di luce.

Disse a Marco di sedersi. Lui obbedì come un automa, si sedette con le braccia penzoloni e la testa abbandonata all'indietro.

Il maestro afferrò fra l'indice e il pollice il suo naso. Sentii forte il rumore delle ossa: «Crac!». E íl naso di Marco ritornò al centro del viso.

Il maestro fece un passo indietro, come fanno gli artisti quando vogliono contemplare meglio un'opera appena realizzata. Sorrise soddisfatto, poi disse: «Tutto a posto. Al tuo bel nasino non è successo proprio niente, anzi prima l'avevi un poco storto, adesso sta dritto dritto».

Alcuni ragazzi novizi come me da quel giorno non vennero più in palestra.

Io continuai ad allenarmi e pochi mesi dopo venne il momento del mio primo vero combattimento.

Quel giorno misi per la prima volta i pantaloni lunghi.

Arrivai in palestra in anticipo. Chiedevo a tutti quelli che incontravo informazioni sul mio avversario. Mi dissero che aveva disputato già una decina d'incontri.

Andai a lamentarmi dal maestro: «Mi hanno detto che il mio avversario ha già combattuto molte volte».

«Sì, è ovèro, ha combattuto 'na decina 'e vòte, ma ha perz' sempe».

E perse anche con me.

Fu un brutto combattimento. Io saltellavo da una parte, lui dall'altra.

Gli spettatori incominciarono a fischiare, poi intonarono una musichetta. Ricordo ancora il motivo: era il valzer di Strauss.

Sul ring arrivarono diverse monetine e anche qualche biscotto.

L'arbitro fermò il match e ci chiamò al centro del ring.

Ci ammonì: «O combattete o vi squalifico».

Il mio avversario divenne più aggressivo e riuscì a colpirmi con il sinistro.

Suonò il gong.

Ritornai nell'angolo. Il maestro bagnò la spugna nel catino e mi buttò l'acqua sul viso. Lo fece con una tale rabbia che insieme alla spugna arrivò anche la sua mano. Poi mi gridò nell'orecchio: «Ma che bella passeggiata ti stai facendo! Ti hanno lanciato anche un biscotto crema e amarena!». Poi aggiunse con stizza: «Chi t'è mmuorte! Vuo' purtà nu cazzotto?».

«Ma quello mi blocca sempre con il sinistro, quello che volevo fare io lo sta facendo lui», tentai di giustificarmi.

Iniziò la seconda ripresa. Volevo recuperare. Attaccai disordinatamente, a occhi chiusi, ma senza successo.

Alla fine del round tornai nell'angolo, stanco e rassegnato. Non avevo immaginato così il mio debutto.

Iniziò la terza ripresa.

Eravamo a centro ring, il mio avversario mi colpì con il sinistro, poi ne portò un altro. Nel ritirarlo, abbassò la mano lasciando scoperto il viso, allora scattai con il destro e lo colpii in pieno volto.

Vidi con stupore che gli avevo fatto male. Girava per il ring, senza difesa, come uno sbandato.

Allora presi coraggio. Con un balzo lo raggiunsi, lo colpii con una scarica di cazzotti. Poi, mentre si afflosciava sulle corde, gli diedi un uppercut sinistro al mento.

L'arbitro mi prese per le spalle e mi tirò indietro.

Iniziò a contare.

A dieci disse: «Out!». Il match era finito.

Dimenticai la paura che mi aveva attanagliato fino a quel momento e iniziai a saltare felice per il ring.

Da allora incominciai a combattere almeno una volta al mese.

Molti combattimenti li vincevo per ko: pur non avendo un fisico muscoloso, quando colpivo, i miei avversari crollavano.

Ci misi del tempo a capire da dove veniva fuori quella potenza. Tutto era in proporzione alla velocità con cui colpivo.

E io ero velocissimo.

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Pagina 56

Il tragitto era breve e alla Pensione Gianna ci arrivai di corsa. Nel salone mi guardai intorno, ma Rosaria non c'era.

Passarono pochi minuti e la vidi.

Era in compagnia di un cliente. Lei si fermò vicino alle scale, l'uomo si diresse verso la maîtresse. Salutò la donna con grande familiarità, poi, con andatura ondeggiante, ritornò da Rosaria e insieme si avviarono verso l'uscita.

Capii che non era un cliente, ma il suo protettore.

Lei rientrò subito. Mi vide e mi venne vicino.

«Ciao, l'hai visto? Quello è Salvatore, è venuto perché gli dovevo dei soldi», mi disse con aria indifferente.

Poi, guardandomi in viso aggiunse: «Hai la faccia bianca, che ti succede?».

«Non immaginavo che il tuo uomo fosse così brutto. Sembra un delinquente».

Mi guardò infastidita.

«Vai via o resti?», mi chiese bruscamente.

Non risposi. Allora lei mi prese la mano e mi guidò verso la sua stanza.

Ci sedemmo sul bordo del letto.

Le domandai ancora di lui. Per qualche istante tacque. Poi mi disse, scandendo bene le parole: «Ti ho detto che è venuto perché gli dovevo dei soldi». E subito dopo ad alta voce esclamò: «Non capisco perché devo giustificarmi. Cosa c'entri tu con la mia vita?». E nel dirlo si alzò e si avviò verso la porta.

Non volevo che andasse via.

Con uno scatto la raggiunsi e la trascinai sul letto.

Tentò di respingermi. Le immobilizzai le braccia, cercai di baciarla, ma lei voltava la testa. Più mi respingeva, più mi accaloravo: ero preso dalla gelosia, ma anche dal desiderio.

Le aprii le gambe con le mie ginocchia, la presi con violenza, volevo farle intendere che andavo da lei solo per fare sesso, ma ottenni il contrario di quello che volevo. Non le importava niente del mio disprezzo, anzi si eccitava sempre di più. Incominciò a muoversi come un'indemoniata. Non era stata mai così.

Continuai fino a un certo punto a fare la parte del duro, poi ritornai a essere il ragazzo che ero. Lei non mi diceva come le altre volte parole d'amore, ma si lamentava, un lamento che sembrava un pianto.

Io, però, non avevo dimenticato. Non avevo dimenticato il viso dell'altro uomo. Pensai che quello era il momento per farmi dire la verità.

Le chiesi: «Dimmi, hai fatto l'amore con lui?».

Mi rispose con voce roca: «Sì, l'ho fatto».

«Quando fai l'amore con me, pensi a lui?».

Quasi con un grido mi disse: «Nooooo!!».

Dopo l'amore ritornai a farle domande: «Con lui provi lo stesso piacere che provi con me?».

«No, con lui è diverso».

«Perché diverso?».

«Lo facciamo in un altro modo».

«Come?».

«Non voglio dirtelo».

«Dimmelo, ti prego!».

«Quando ho iniziato questo mestiere, Salvatore mi fece giurare che non avrei mai fatto l'amore come lo facevo con lui. E questo giuramento l'ho sempre mantenuto. Solo lui può annullarlo».

«Dimmi cosa ti fa».

«Un'altra volta, adesso non ne voglio parlare».

Glielo chiesi ancora. Ma lei invece di rispondermi si mise a canticchiare una canzone. Allora mi alzai e incominciai a rivestirmi. A un certo punto Rosaria mi disse:

«Domani esco con Giulia, vuoi venire?».

«Come mai esci con lei?».

«Giulia attraversa un brutto momento, e la padrona ci ha dato il permesso di uscire».

«Cosa le è successo?».

«Ha dovuto abortire».

«In ospedale?».

«No, la maîtresse fa venire una sua amica, una calabrese simpaticissima. Racconta sempre barzellette, e scherzando scherzando mette tutto a posto».

«Ma a te è mai successo di restare incinta?», le domandai.

«No, sto attenta, uso sempre un batuffolo di ovatta; altre mie compagne mettono un anello d'argento, dicono che dà più sicurezza. Qualche volta, però, queste precauzioni non bastano».

Mentre diceva queste parole, sentimmo il campanello suonare. Dovevo andare.

Le chiesi dove ci saremmo incontrati.

«Davanti alla galleria Umberto I, alle dieci».


Per la prima volta avrei visto Rosaria fuori dalla Pensione.

Ero felice! Dovevo dirlo ad Alfredo.

I ragazzi della mia età non avevano mai avuto una storia con una vera donna, frequentavano delle ragazzine che solo dopo giorni di corteggiamento riuscivano a baciare. Io, invece, avevo un'amante.

Andai sotto casa di Alfredo e lo chiamai. Sentii sbattere la porta e lui che scendeva le scale.

«Tullio, che cosa c'è?», mi chiese, sorpreso di vedermi a quell'ora.

«Esco con Rosaria!».

«E allora?».

«Ma non capisci? Ci vedremo fuori dalla Pensione domani mattina come due fidanzati! Penso che si sia innamorata di me».

«Ma non dire sciocchezze. Innamorata!!».

«Perché, non può essere?».

«Ma sai con quanti uomini lei fa l'amore?».

«Ma quelli, per averla, devono pagare».

«Perché, tu non paghi?».

«Te l'ho già detto l'altra volta. Io non pago!».

Alfredo per un po' rimase in silenzio. Poi mi disse: «Quando siamo usciti dalla Cappella Sansevero, hai detto al nonno che andavi in libreria. Non ci ha creduto e mi ha consigliato di dirti che è pericolosissimo andare nelle case chiuse, si possono prendere brutte malattie; quella più probabile è la sifilide».

«Con Rosaria non c'è pericolo, scoppia di salute. Ma come ha fatto tuo nonno a capire che andavo al casino?».

«Forse ti avrà visto».

«Ho capito, va anche lui a puttane!», risposi ridendo.

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Arrivai a Porto Recanati all'imbrunire.

La palestra era in piazza Giacomo Leopardi, ma non sapevo come arrivarci e chiesi indicazioni a un passante. Mi disse che non era lontano, potevo andarci a piedi.

Raggiunsi la palestra in pochi minuti. Era immensa, piena di attrezzi. Alle pareti c'erano le foto di tutti i boxeur che negli anni avevano fatto parte della Nazionale.

A mano a mano, la palestra si riempì di tutti i pugili convocati come me. Tra loro, il triestino Nino Benvenuti col quale ci fu subito una grande simpatia.

Fu un mese di allenamento durissimo.

Alle sei del mattino andavamo a correre in una pineta, nel pomeriggio si saliva sul ring e facevamo a cazzotti. Doveva essere solo un allenamento, ma in realtà erano veri e propri combattimenti: tutti volevano dimostrare che erano degni della Nazionale.

Nei momenti di riposo pensavo a Rosaria e alle sue carezze.

E venne il giorno della selezione.

Alcune ore prima del match andai vicino al mare. C'era un forte vento, le onde battevano sulla spiaggia con fragore, i pescatori avevano tirato su le barche.

Mi sedetti su uno scoglio. Ogni tanto mi raggiungeva uno spruzzo d'acqua, ma neanche me ne accorgevo: pensavo al combattimento, ripassavo mentalmente i colpi che avrei dovuto portare al mio avversario.

Quando arrivò il momento, mi diressi a passo lento verso la palestra.

Negli spogliatoi incominciai gli esercizi di riscaldamento.

Passarono alcuni minuti e venne il mio turno.

Salii sulla scaletta, scavalcai le corde e raggiunsi il mio angolo. Sentii subito l'odore del ring, diverso da tutti gli altri. Era l'odore della paura. Un odore che porto ancora nella mia memoria.

Poi iniziò il combattimento.

Non ci furono le solite prime schermaglie, fu subito guerra.

Fu una lotta terribile, senza un attimo di tregua. Non mi sottrassi, con il mio gioco di gambe, agli attacchi del mio avversario, restai fermo al centro del ring a rispondere colpo su colpo.

Quella sera l'orgoglio vinse sulla paura.

Alla fine pensai di avercela fatta, forse avrebbero scelto me a rappresentare l'Italia. Ma non fu così.

Il giorno seguente, chi non doveva partire con la Nazionale poteva andare dal cassiere e ritirare la diaria più il premio della selezione.

Il contabile della Federazione ci chiamò a uno a uno. Quando venne il mio turno e mi disse la cifra che mi spettava, rimasi sbalordito: tutti quei soldi non li avevo mai visti. Nemmeno mettendo insieme la paga di tutti i combattimenti che avevo fatto.

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Pagina 113

Cinzia compiva diciotto anni. Le avevo promesso che sarei andato a casa sua per gli auguri.

Mi guardai allo specchio: i capelli erano lunghi. Allora decisi di andare da don Antonio, il mio barbiere.

Il suo negozio aveva ancora l'insegna scritta in americano: BARBER SHOP.

Mi sedetti su una delle quattro poltrone girevoli. Sulla mensola vicino al lavandino era poggiato un boccale pieno di animaletti lunghi e neri.

«Don Antonio, cosa sono quei vermi schifosi?».

Lui stava lavorando. Smise di radere, posò il rasoio sulla mensola e domandò al suo cliente: «Se non avete fretta, spiego a questo giovanotto a cosa servono le mignatte».

E senza aspettare la risposta incominciò: «Quei vermi schifosi, come li chiami tu, hanno salvato la vita a una quantità di persone».

«E come?», domandai curioso.

«Quando qualcuno è malato, ha la pressione alta o un edema polmonare, ha bisogno di un salasso. E a questo punto interveniamo noi».

«Noi chi?».

«Io e mia moglie: lei lavora con le donne, e io con gli uomini. Andiamo a casa del malato, portiamo un piccolo vaso pieno di sanguisughe o, come le chiamiamo noi, mignatte, le applichiamo dietro le orecchie, sulla pancia o sulle gambe del malato.

Si attaccano alle persone grazie a una ventosa che hanno sul ventre e subito iniziano a succhiare il sangue. Quando si sono saziate, lasciano la presa e cadono a terra. Allora io le prendo, le finisco e le butto nel cesso».

Il cliente aveva ancora íl sapone sul viso.

«Don Antò», gli disse, «volete finire questa barba o me ne vado con il sapone in faccia?».

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Pagina 157

Conoscevo la mitica Fernanda Pivano da diverso tempo.

Nanda, come affettuosamente la chiamano in tanti, si sa, è un'autrice di culto, una firma prestigiosa, e grande fu il mio entusiasmo quando, nel 1999, mi propose di pubblicare un suo libro dal titolo Dopo Hemingway.

Dopo alcuni anni, Fernanda mi fece un altro regalo. Aveva scritto la storia di un amore, quello fra Nelson Algren, l'autore de L'uomo dal braccio d'oro, e Simone de Beauvoir.

Decidemmo di intitolarlo Lo scrittore americano e la ragazza perbene e pensammo di presentarlo al Circolo Rari Nantes di Napoli.

Purtroppo, a causa di un'improvvisa indisposizione, non venne alla presentazione; ma mi scrisse una splendida lettera che fu letta in pubblico dal giornalista scrittore Generoso Picone:

Pironti, caro mio dolce Pironti, sono ancora emozionata per gli auguri che mi hai fatto ieri, che come sempre hanno funzionato. Mi dispiace tanto non essere con voi mentre presentate il mio libro, ma solo perché è anche vostro il libro vi porterà fortuna.

È un peccato che la mia voce non raggiunga il vostro pubblico, avrei confermato volentieri che Pironti è il mio editore preferito.

La lettera continuava con parole bellissime, parole che porterò sempre nel cuore.


Dopo quella magnifica serata avevo un altro impegno importante: dovevo incontrarmi con lo scrittore Ermanno Rea , un uomo non più giovanissimo ma ancora pieno di fascino.

Ricordo quando, a un convegno, l'incontrai per la prima volta. Mi fu subito simpatico.

Altezza normale, capelli argentati, occhi azzurro chiaro e uno sguardo vivo sotto le folte sopracciglia bianche. Aveva un'aria leggermente aristocratica e sulle labbra un sorriso appena accennato.

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Pagina 162

Ai problemi di Napoli, raccontati da Rea nel suo bel libro, Napoli Ferrovia , si aggiunse quello drammatico dell'emergenza rifiuti. Ogni giorno non si parlava d'altro che del disastro dell'immondizia che ormai sommergeva la città.

Molti davano la colpa a Bassolino.

Non ci potevo credere. Lui, per me, come per tanti altri, era stato l'uomo della rinascita.

Non scorderò mai l'autunno del 1993, quando fu eletto sindaco di Napoli. Quella sera ero in piazza San Domenico Maggiore dove c'era la sede del suo comitato elettorale.

Ero lì, insieme a una folla incredibile, ad aspettare l'esito della votazione.

Vinse lui, e fu un trionfo.

Trascorsi, in mezzo a una marea di gente, ore fantastiche.

Ritornai a casa con la felicità nel cuore.

Finalmente tutto sarebbe cambiato.

Bassolino era la persona che ci voleva.

Lui non sarebbe mai sceso a compromessi con nessuno, non avrebbe mai accettato quelle brutte mediazioni che si fanno in politica pur di guadagnare consensi. Piuttosto si sarebbe dimesso.

Finalmente Napoli si sarebbe riscattata da tutti gli anni bui.

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Pagina 170

Buona parte dell'infanzia l'ho vissuta in via Tribunali e nei suoi vicoli. Spesso, per rivivere quei momenti, ritorno in quella strada. Mi fermo davanti alla scuola in vico Fico al Purgatorio e ricordo con nostalgia il maestro De Renzi, che mi bocciò in terza elementare. Lui aveva un metodo per punire che era una tortura. Su un tappeto di ceci, che stava a lato della sua cattedra, costringeva il ragazzo che aveva disubbidito a stare in ginocchio per un tempo proporzionato alla scostumatezza che aveva commesso.

La passeggiata dei ricordi continua. Arrivo in piazza Luigi Miraglia, dove c'è l'ingresso principale del Vecchio Policlinico, e mi rivedo scugnizzo a guardare Mangiafuoco. Lo chiamavano così perché sputava fuoco. Era un gigante, faceva paura solo a vederlo. Indossava una maglietta nera che disegnava il suo torace immenso, aveva due braccia che sembravano clave.

A gambe divaricate, sul tappeto consumato dall'uso, si cingeva il torace con una pesante catena, la stringeva ben bene e la chiudeva con un lucchetto. Poi girava fra gli spettatori per fare vedere che non c'era nessun trucco, diceva a tutti che quella catena l'avrebbe spezzata gonfiando il suo torace con un respiro profondo. E così succedeva, tra lo stupore di tutti i presenti.

È proprio in piazza Luigi Miraglia che, all'età di quarant'anni, vidi per la prima volta la donna che mi avrebbe cambiato la vita. Ero vicino a un'edicola e lei era a pochi passi da me.

Accennai a un sorriso, lei mi guardò appena, poi andò via.

E il destino volle che alcuni giorni dopo la rincontrassi. Venne nella mia libreria a cercare un libro universitario che non avevo. Le dissi che lo avrebbe trovato il pomeriggio successivo. E intanto non riuscivo a staccare gli occhi dal suo viso.

Eravamo alla fine degli anni Settanta, quelli del femminismo, dei capelloni, dei figli dei fiori. Indossava una maglietta bianca e uno stretto pantalone dello stesso colore, portava un sottile nastro azzurro che le cingeva la fronte e scendeva lateralmente, fin quasi alle ginocchia, nei lunghi capelli neri.

Sentivo il desiderio di trattenerla ancora un po', e la fortuna mi venne in aiuto. Prima di uscire, si fermò a dare un'occhiata ai libri esposti in vetrina.

In un attimo le fui vicino. Presi da uno dei ripiani un libro che stava avendo un successo incredibile, Porci con le ali, di Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice e le dissi che valeva la pena di leggerlo.

Mi sorrise, mi disse che non aveva molto tempo per leggere romanzi, perché stava mettendo a punto la sua tesi di laurea. Il libro che mi aveva chiesto le serviva proprio per gli studi, mi spiegò.

Restammo a parlare a lungo. Quindi ci salutammo con la promessa che sarebbe ritornata il giorno dopo.


Era sera quando la vidi che veniva verso di me, con il suo passo svelto e sicuro. Le andai incontro, le dissi che avevo il libro che aveva prenotato.

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