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| << | < | > | >> |IndicePrefazione di Pietro Barcellona 5 Introduzione 7 Capitolo primo Dal mito alla tavola 13 Le società dell'abbondanza 13 Le società della colpa 20 Le società del pane 25 Le società del convivio 34 CONVIVIALITÀ MEDITERRANEA: LE RICETTE DEL MEZZÉ 43 Capitolo secondo La linea di confine 45 Cibo umano, cibo divino 45 Cibo del corpo, cibo dell'anima 49 Cibo puro, cibo impuro 63 IL VIAGGIO DELLA MELANZANA: RICETTE DALLE INDIE AL MEDITERRANEO 71 Capitolo terzo Il gusto, una questione di classe 75 L'Europa divisa 75 Dalla carne al «pasticcio» 81 Il «buon gusto» dominante 92 Un companatico di paure 96 IL PASTICCIO E IL BIANCOMANGIARE: RICETTE DI GRASSO E DI MAGRO 103 Capitolo quarto Pratiche alimentari e strutture sociali 109 La «grammatica del gusto» 109 Paradossi dell'onnivoro tra gusti e dis/gusti 116 Gusto, habitus, distinzione 121 Cibo e costruzione del senso di Sé 126 RACCONTARE IL PASTO: TRA RICETTE «BAROCCHE» E «VITTORIANE» 133 Capitolo quinto Il futuro del cibo 137 La manipolazione del vivente 137 La stagione unica e i semi sterili 146 Democrazia: una questione alimentare 150 Lifting per polli e pillole per mucche 158 McAlimentazione globale 162 Mangiare: atto agricolo o simulazione? 168 LA CUCINA DEL «FUTURO»: RICETTE TRA CROMO E AZOTO 172 Bibliografia 177 Il mito, il sacro, il logos: le fonti 177 Cultura contadina e cultura urbana: le fonti 179 Statuti e regolamenti 181 Il gusto della narrazione: selezione bibliografica 181 La ricerca storica e sociale: riferimenti bibliografici 182 Il futuro del cibo: articoli e documenti 191 |
| << | < | > | >> |Pagina 7IntroduzioneL'inizio del mondo, l'inizio di tutte le cose, può essere narrato attraverso un pasto divino: Crono che divora i figli con feroce appetito, ingoiando persino una pietra al posto di Zeus in fasce; Ciclopi ed Ecatonchiri che vengono trasformati da Zeus in dèi olimpici attraverso un nutrimento immortale; Zeus che, incatenato Crono e avvolto con una catena d'oro tutto quello che vagava nel mondo, divora mari, terra, cieli e divinità, li cattura nel proprio ventre, per restituirli alla luce in un'ultima definitiva nascita, secondo il proprio disegno. Molte volte, ancora, il mito greco ricorre all'impatto simbolico del nutrimento, del pasto, del banchetto; ogni inizio, nella narrazione delle cose che «non avvennero mai, ma sono sempre», è segnato da un profondo legame con il cibo. Non c'è origine senza nascita, non c'è inizio senza nutrimento; «non si dà esistenza se non nel sensibile, perché siamo al mondo attraverso il corpo, e il pensiero non è mai un puro spirito». Per comprendere le profonde trasformazioni che investono il nostro stare al mondo — che mettono in discussione persino il mistero dell'origine, la nascita da un corpo di donna, la trasmissione della parola e del pensiero; che stravolgono la ricerca di senso dell'esistenza umana e persino la sfera dell'immediatezza sensoriale — può essere utile seguire il millenario racconto della storia dell'alimentazione, della costruzione delle pratiche alimentari, del rapporto tra il Sé, il corpo e il nutrimento; quel filo che, dall'inizio narrato dai miti originari, può portarci a comprendere i possibili scenari del futuro. «L'inizio della filosofia non è Dio, non è l'Assoluto, non è l'essere come predicato dell'assoluto o dell'idea: l'inizio della filosofia è il finito, il determinato, il reale». Da questa premessa, capovolgendo la prospettiva hegeliana, Feuerbach giungeva ad affermare che «l'uomo è quello che mangia». Una frase divenuta celebre, probabilmente al di là del suo significato, che ha atteso quasi un secolo per essere compreso fino in fondo: se l'essere umano non è determinato metafisicamente, interrogarsi sull'alimentazione significa interrogarsi sull'essenza umana. L'affermazione di Feuerbach, notava Gramsci, può essere interpretata variamente: se l'essere umano fosse, volta per volta, ciò di cui si nutre materialmente, «la storia avrebbe la sua matrice determinante nella cucina e le rivoluzioni coinciderebbero coi mutamenti radicali dell'alimentazione di massa»; ma se «l'uomo è quello che mangia, in quanto l'alimentazione è una delle espressioni dei rapporti sociali nel loro complesso, e ogni raggruppamento sociale ha una sua fondamentale alimentazione», si coglie il senso profondo di un interrogarsi sul «problema della natura umana». L'unità del genere umano non è data dalla sua natura biologica, sostiene quindi Gramsci, né dalla «facoltà di ragionare» o dallo «spirito»: «che la "natura umana" sia il "complesso dei rapporti sociali" è la risposta più soddisfacente, perché include l'idea del divenire: l'uomo diviene, si muta continuamente col mutarsi dei rapporti sociali». Interrogarsi sull'alimentazione permette di comprendere questo «divenire»: attraverso le pratiche alimentari si compiono processi di differenziazione dall'Altro da Sé, si comunicano dinamiche di appartenenza/esclusione, si strutturano sistemi simbolici e sociali. «Decifrare», per usare un termine caro a Mary Douglas, il pasto è un modo per leggere la struttura sociale e simbolica di una società e i suoi codici culturali; decifrando il linguaggio alimentare nella storia dell'Occidente, vi troviamo inscritta la strutturazione dell'ordine simbolico maschile e le sue dicotomie fondanti, così come vi leggiamo le pratiche di costruzione dell'identità e della differenza di genere. Lévi-Strauss ha colto la forza di questo linguaggio – che più di ogni altro esprime l'antica contraddizione tra natura e cultura – che l'antropologo ritrova nelle dicotomie crudo/cotto e cibo/non cibo. Se per Feuerbach, nonostante l'essere umano sia mosso dall'istinto «animale» della fame, quella del mangiare non è una funzione animale, ma un atto «logico», e quindi «distinguente», potremo comprendere, con Pierre Bourdieu, come i gusti, le scelte alimentari rappresentino l'affermazione pratica di una differenza necessaria, riprodotta permanentemente: «il principio di divisione in classi logiche, che organizza la percezione del mondo sociale, è a sua volta il prodotto dell'incorporazione della divisione in classi sociali». Il gusto, risultato dei condizionamenti connessi a una classe, unisce tutti coloro che sono il prodotto di condizioni di esistenza analoghe, distinguendoli da tutti gli altri, proprio in ciò che hanno di essenziale; il gusto si struttura sul dis/gusto, sull'intolleranza per i gusti degli altri, in una continua tensione tra desiderio di innovazione alimentare e paura dell'alimento sconosciuto e dell'incorporazione, attraverso un cibo potenzialmente contaminante, dell'Altro da Sé. È il «paradosso dell'onnivoro», che accompagna, nei secoli, scelte e imposizioni alimentari, costruzione di tabù e divieti, la nascita delle culture gastronomiche e dell'alta cucina e persino il disperato procacciarsi di cibo in affamati tempi di carestia. Ripercorrendo la storia delle pratiche alimentari, riusciamo a cogliere aspetti fondamentali della vita degli uomini e delle donne e del contraddittorio rapporto con la natura, a comprendere la strutturazione sociale e simbolica della differenza di genere e di classe. Ancora, vi leggiamo teorie, simboli, vicende del rapporto degli individui con il proprio corpo, delle società con l'indicibile presenza dei corpi sessuati di donne e uomini; il complicato intreccio tra negazione del fardello terrestre pesante per l'anima ed esaltazione della fisicità e della potenza, tra mortificazione dei piaceri e dei desideri, controllo di Sé e controllo sociale, scelte di liberazione. Ma, nell'epoca del controllo capitalistico sull'intero processo vivente naturale, questo «divenire» è messo in discussione e, con esso, lo statuto antropologico umano. Assistiamo, quasi senza rendercene conto, alla riduzione a merce dell'intera sfera riproduttiva, al commercio dei corpi, contenitori di pezzi di ricambio umani, alla mercificazione del corpo femminile, distributore di ovuli o incubatrice di desideri altrui, alla manipolazione di ogni seme di vita e di saperi millenari ridotti a brevetti industriali. Mentre i teorici del post-umano annunciano l'avvento di un completo controllo biotecnologico sui corpi; affermano con scientifica arroganza che i nostri sensi, il nostro stare al mondo e relazionarci con l'Altro non sono altro che interazioni biochimiche e determinazioni di impulsi elettromagnetici; negano ogni mediazione della cultura, della società, delle passioni; profetizzano persino l'imminente scomparsa della differenza di genere; scivoliamo, quasi senza accorgercene, verso una sorta di deprivazione sensoriale, particolarmente evidente nell'impoverimento dei sapori e nella standardizzazione del gusto. Se il logos si è espresso nell'equilibrio del simposio greco e la modernità ha finito per passare frettolosamente da un fast food, quale sarà il cibo del post-umano? Pillole senza sapore saranno in/corporate da cyborg, corpi ripetibili di carne e microchip? Oppure, se il post-umano è già adesso, pasti pronti infarciti di grassi idrogenati riempiono i microonde di chi non può permettersi un fegato di ricambio, mentre una élite post-umana ammira sul piatto costose creazioni stellate all'idrogeno e azoto. | << | < | > | >> |Pagina 103IL PASTICCIO E IL BIANCOMANGIARE: RICETTE DI GRASSO E DI MAGROLa cucina, piuttosto che un'invenzione delle classi dominanti, è un bisogno delle stesse, soddisfatto con l'arte dei popolani.
Le torte ripiene sono uno dei piatti più diffusi nella cucina europea,
presenti fin dal medioevo in numerosi ricettari con nomi
diversi (pastelo, crosta, empanada, torta), ma con metodi di preparazione
simili. Il successo di questa vivanda è dovuto senza
dubbio alla possibilità di preparare il ripieno con tutto ciò che
fosse reperibile sul mercato, rendendola adatta ai «giorni di
grasso» come a quelli «di magro», ma anche alla diffusione dei
forni pubblici, in cui acquistare la pietanza pronta o far cuocere
quella preparata in casa. In alternativa all'uso del forno pubblico,
la torta veniva cotta sul fuoco, come dimostrano i testi degli antichi
ricettari. Risulta subito evidente come dalla torta per i giorni
di magro del XIII secolo derivi l'attuale Torta Pasqualina ligure,
con numerosi strati di sfoglia e ripieno di bietole, ancora in vendita nelle
rosticcerie tradizionali.
Pastelo de capretto (per i giorni di grasso) Ingredienti: carne di capretto, lardo, erbe odorose, zafferano, formaggio fresco, uova, pasta di pane. Poni uno capricto tagliato ben minuto et suffrigi forte con lardo et sopra puni quelle carni et summatamente le suffrigi posato. Le bone herbe odorifere in bona quantità et çafarame et pista forte, et formagio frisco con quelle herbe bene trite, et destempera colle ova sì che sia bene mollo, et destempera con quellé dicte carni et mictele in uno vascello sopra la brascia tanto ch'el sia uno poco spisso. Et farrai la pasta nellu texto convenevelemente sottile, et micte de lardo in mezo del testo et del pasta. Poi tolli pepe che baste et la carne colle ove, tucto mixto in su lu testo, et fa un'altra pasta et mictila desopra, et puni la brascia desopra et desocto, et spisso la cerca, et mieti de lardo et manduca.
Tagliare la carne di capretto a pezzetti, soffriggere a fuoco
forte il lardo, poi aggiungere la carne e soffriggere leggermente.
Tritare una buona quantità di erbe odorose, zafferano e formaggio
fresco e mescolare con le uova, formando un composto morbido;
unirvi le carni e cuocere il tutto a fuoco lento, per addensarlo. Fare
una pasta sottile, foderarvi una teglia unta e riempire col composto,
aggiungendo pepe; poi coprire con altra pasta, chiudendo
i bordi. Far cuocere il pastelo in forno, finché non è gonfio.
Torta bolognese (per i giorni di magro) Ingredienti: formaggio fresco o ricotta, bietole, prezzemolo, maggiorana, parmigiano, uova, sale e pepe, burro, pasta di pane. Pigliarai una libra et meza di bono cascio frescho, et grattalo. Et nota che quanto e piu grasso il cascio tanto e meglio; poi habi de le vietole, petrosillo et maiorana; et nettate et lavate che l'avrai, battile molto bene con un coltello, et mittirale insieme con questo cascio menandole e mescolandole con le mani tanto che siano bene incorporate, agiongendovi quattro ova et del pepe quanto basti et un pocho di zafrano item di bono strutto ovvero butiro fresho, mescolando et incorporando tutte queste cose inseme molto bene como ho ditto. Et questo pieno metterai in una padella con una crosta di sotto et una di sopra daendoli il focho temperatamente; et quando ti pare che sia meza cotta, perché para piu bella, con un roscío d'ovo battuto con un poco di zafrano la farai gialla. Et acconoscere quando ella e cotta ponerai mente quando la crosta di sopra li levara et alzara in suso, che allora stara bene et poterala levare dal focho. Dopo aver lavato e strizzato le bietole, tagliarle finemente con il coltello, aggiungere i formaggi, le uova, prezzemolo e maggiorana tritati, sale e pepe. Impastare bene, in modo da formare un composto omogeneo. Stendere uno strato di pasta, rivestirvi una teglia unta, versare il composto e ricoprire con altra pasta, chiudendone i bordi. Far cuocere la torta in forno, spennellandola, a metà cottura, con uovo sbattuto insieme a zafferano. Le varianti dell' albus cibus presenti nei ricettari medievali sono innumerevoli: spesso tra gli ingredienti compare il latte, a volte il riso e le mandorle, ma il candore che dovrebbe farne una pietanza «di magro» cela, altrettanto spesso, tra gli ingredienti carni e brodo carneo. L'evoluzione del biancomangiare nelle tradizioni gastronomiche regionali ci lascia ancor oggi numerosissime ricette, dai dolci siciliani all'ajoblanco andaluso. | << | < | > | >> |Pagina 116Paradossi dell'onnivoro tra gusti e dis/gustiSe il bisogno di differenziazione sociale produce, nei secoli, un mutamento delle norme sociali sul «come» mangiare, il ruolo del paradigma della «distinzione» non è meno rilevante rispetto al «cosa» mangiare: La variabilità delle scelte alimentari umane procede forse in gran parte dalla variabilità dei sistemi culturali: se non mangiamo tutto quello che è biologicamente commestibile, è perché non tutto ciò che si può biologicamente mangiare è culturalmente commestibile. Fischler ha racchiuso nell'originale definizione di «paradosso dell'onnivoro» la continua tensione tra il desiderio di innovazione e di varietà alimentare e la paura del cibo sconosciuto, dell'alimento che può condurre alla contaminazione e all'espropriazione del sé. Fischler considera questo paradosso fonte di una continua ansia, nel rapporto con il cibo, per ciascun individuo, in quanto «un oggetto incorporato sconsideratamente, può contaminarlo, trasformandolo insidiosamente, possedendolo, anzi, dispossessandolo del sé», in particolare quando si tratta di un cibo sconosciuto, mai provato prima o con un odore particolare: il disgusto che nasce dal confronto con quest'alimento ignoto provoca profonde reazioni emotive. A simbolo del paradosso dell'onnivoro può assurgere la storia dell'arrivo nel vecchio continente della patata, per oltre duecento anni oggetto di paure diffuse e di contrastanti teorie; paragonata alla mandragola e alla belladonna, temute sostanze allucinogene, accostata agli umori flemmatici delle altre piante sotterranee, considerata alimento per un altro «onnivoro»: il maiale. Secondo Ferrières, proprio nel XVI secolo, con la scoperta del nuovo mondo, si vive il dilemma dell'onnivoro; la cultura fortemente neofobica del tempo è costretta a confrontarsi con nuove specie botaniche: Non bisogna meravigliarsi che ogni giorno si dichiarino nuove malattie, sconosciute nel secolo scorso, che si propagano da una terra all'altra: in effetti noi adottiamo un nuovo modo di vivere che importiamo da un altro mondo. Poiché, se andiamo a cercare degli alimenti in India, non dobbiamo aspettarci di conseguenza di esserne contaminati? mentre la crescita esponenziale della popolazione europea provoca un forte degrado del regime alimentare. Il dilemma è evidente: l'apertura ai nuovi cibi o la fame. Il dibattito sulla patata coinvolge naturalisti di tutta Europa; Clusius, tentando una classificazione botanica del nuovo tubero, si interroga sulle sue proprietà e sui motivi della differente diffusione nel continente: Vi è tuttavia motivo di esser sorpresi di aver conosciuto così tardivamente questa pianta, mentre si dice che se ne faccia uso comune in Italia, dove se ne mangiavano i tuberi cotti con della carne di montone, come fossero rape o carote, oppure ci si nutrivano i maiali. Finalmente accolta tra i cibi «commestibili», la patata si diffonde in Europa, seppure con tempi diversi, ma non supera le barriere di classe: oltre che dei maiali, è il cibo dei poveri; persino l' Encyclopédie illuminista, alla voce «pomme de terre», si attiene a questo pregiudizio sociale: Questa radice, in qualsiasi maniera la si prepari, è insipida e farinosa. Non potrebbe essere annoverata fra gli alimenti gradevoli; ma fornisce un nutrimento abbondante e abbastanza sano agli uomini che non chiedono altro che sostentarsi. Si rimprovera con ragione alla patata di essere ventosa: ma cosa sono dei venti per gli organi così vigorosi di contadini e manovali!. L'utilizzo del tubero per piatti innovativi, come la Parmentiére, e l'introduzione della pentola di Papin sono tangibili esempi della possibilità di modificare il comportamento alimentare con un mutamento delle tecniche di preparazione dei cibi. | << | < | > | >> |Pagina 133RACCONTARE IL PASTO: TRA RICETTE «BAROCCHE» E «VITTORIANE»I Maccheroni di Bengodi Gli gnocchi che, nella novella boccaccesca o nelle narrazioni popolari sul paese della cuccagna rotolavano da montagne di parmigiano, fanno la loro comparsa nella tradizione gastronomica italiana secoli prima dell'arrivo della patata: si tratta di gnocchi di semolino e farina, come nell'antica ricetta dei Banchetti, o di semolino e latte, come gli attuali gnocchi alla romana. Ingredienti: 2 etti di farina bianca, 1 etto di semolino macinato sottile, 5 uova, sale, 1 litro di brodo, 1 etto di formaggio grana grattugiato, 50 grammi di burro.
Setacciare insieme la farina e il semolino, fare la fontana e aggiungere le
uova e il sale. Impastare fino a ricavarne una pasta
morbida, aggiungendo farina o acqua se necessario. Ricavare dei
rotoli, tagliarli a pezzetti delle dimensioni di una noce e modellarli sul retro
della grattugia, ottenendo degli gnocchi a forma di conchiglia. Mettere al
fuoco, in una pentola larga, il brodo con cui insaporire gli gnocchi; quando
bolle calarvi, un po' alla volta, gli gnocchi. Quando salgono a galla, coglierli
con un mestolo bucato e disporli in un piatto da portata, cospargendoli, di
volta in volta, con il formaggio grattugiato. Al momento di servire, cospargere
il piatto con il burro fuso.
La Olla Podrida del Quijote Il tradizionale stufato di legumi o patate, cavoli e carni di maiale, cui Sancio Panza non riesce a rinunciare, è presente in innumerevoli versioni nella tradizione gastronomica europea: dalla Fabada asturiana (con fagioli bianchi di Spagna) alla Favata sarda (con le fave); dal Cocido madrileno (con ceci e pane raffermo) al Pot-au-feu francese (in cui a volte compaiono le polpette di carne di maiale e pane raffermo); dalla Caseoûla milanese (senza legumi, con i tradizionali cotechini, chiamati verzini) alla Choucroute alsaziana (anch'essa senza legumi e con patate, che si utilizzano anche nel pot-au-feu e nel cocido). La olla, letteralmente pentola, poteva restare a cuocere lentamente sulle braci per giorni, da cui l'epiteto di «putrida»; poteva essere un piatto ricchissimo oppure una minestra povera, in cui un po' di carne secca, qualche orecchia di maiale e l'immancabile sanguinaccio insaporivano cavoli, legumi o patate e, soprattutto, l'enorme quantità di brodo. Ingredienti: 1 chilo di fagioli rossi secchi, 4 orecchie e 2 piedini di maiale, 2 chili di puntine di maiale, 2 etti di cecina (carne secca di manzo), mezzo chilo di chorizo (salsiccia secca), mezzo chilo di morcilla (sanguinaccio), 2 etti di lardo, 2 cipolle, 2 carote, 1 piccola verza, qualche spicchio d'aglio, un po' di farina, qualche foglia di alloro, un cucchiaio di aceto, olio extravergine d'oliva, sale e peperoncino. Lasciare in ammollo in acqua fredda per 12 ore i fagioli; tenere per altrettanto tempo in acqua e aceto la carne di maiale, poi pulirla e sciacquarla. Portare lentamente a bollore, in un pentolone, i fagioli con l'aglio a spicchi interi, le carote, la verza, un po' di cipolla tritata e una fetta di lardo. Lessare, a parte, la carne di maiale; quando si intenerisce aggiungervi il rimanente lardo e il chorizo. Cuocere, ancora separatamente, la cecina; quando tutte le carni sono pronte, versarle nel pentolone dei fagioli, insieme a parte del loro brodo. Continuare a cuocere a fuoco lento, eliminare l'aglio e unire la morcilla. Rosolare in una padella la rimanente cipolla, unirvi una cucchiaiata di farina e un po' di peperoncino, poi amalgamare tutto nel pentolone e servire. | << | < | > | >> |Pagina 150Democrazia: una questione alimentareL'esperienza conferma che una democrazia politica che non si basi su una democrazia economica e culturale è di ben scarsa utilità. Disprezzata e relegata nel dimenticatoio delle formule arcaiche, l'idea di una democrazia economica ha ceduto il posto ad un mercato trionfante fino all'oscenità. [...] I popoli non hanno eletto i loro governi perché questi li offrano al mercato. Ma il mercato condiziona i governi affinché questi gli offrano i loro popoli. Nel nostro tempo di globalizzazione liberista, il mercato è lo strumento per antonomasia dell'unico potere degno di tale nome, il potere economico e finanziario. I processi in atto evidenziano una grande questione democratica, che riguarda anche l'Europa: quella della sovranità alimentare. Se è ormai noto come la globalizzazione abbia messo in discussione il ruolo degli stati, ciò è vero anche per quanto concerne le scelte alimentari: gli accordi internazionali sul commercio, che favoriscono le grandi imprese e condannano spesso all'illegalità i piccoli produttori di colture diversificate, incidono fortemente persino sulla possibilità di autoregolamentare la sicurezza alimentare, con il rischio che anch'essa, anziché strumento di garanzia per i «cittadini/consumatori», possa diventare un'ulteriore arma di legittimazione delle multinazionali, con cui escludere definitivamente dal mercato i piccoli produttori e, con essi, molti prodotti tipici, bollati dalle normative come poco igienici. È stato questo il caso dell'olio di mostarda, produzione tradizionale indiana sostituita da oli di semi di soia geneticamente modificata, la cui produzione tecnologica è ritenuta più «igienica»; ma è anche il caso di prodotti tipici europei, messi in discussione da un modello normativo fatto a misura dei colossi dell'agroalimentare: i formaggi erborinati prodotti con l'utilizzo di muffe naturali, come gorgonzola, cabrales o roquefort, hanno rischiato di scomparire nell'illegalità.
Per quanto riguarda l'introduzione di coltivazioni geneticamente modificate,
l'Unione Europea ha avviato un monitoraggio
sugli effetti ambientali e sanitari, ha imposto l'etichettatura obbligatoria sui
cibi OGM e si è pronunciata chiaramente sull'accordo Sps con una moratoria
che, secondo Vandana Shiva, «rappresenta la volontà della gente di non essere
alimentata a forza» e risponde alla «mobilitazione mondiale delle persone contro
la reinterpretazione della sicurezza e delle sovranità nazionali per
aumentare il controllo globale delle grandi società statunitensi
sulle risorse e sul mercato»; altre scelte decisive devono ancora
essere affrontate, per garantire una scelta alimentare informata,
attraverso un modello di legislazione sulla sicurezza che non sia
disegnato nell'interesse delle grandi imprese agroalimentari e che
punti a tutelare consumatori e piccoli produttori, attraverso la valorizzazione
delle biodiversità e delle produzioni locali.
José Bové,
Né l'industrializzazione e la modernizzazione dell'agricoltura, con le sue fattorie-fabbriche e la produzione alimentare a catena, né il commercio agricolo internazionale, fondato sulle sole regole del profitto, devono poter sfuggire al controllo della popolazione che in tutto il mondo si nutre dei prodotti della terra. In questo senso vanno anche le proposte avanzate dal «Manifesto sul futuro del cibo», secondo cui gli individui e le comunità hanno diritto a ricevere tutte le informazioni sull'origine dei cibi che consumano e sui procedimenti utilizzati per produrli: Si riconosce il diritto sovrano della gente di fare scelte informate sui rischi che sono pronti a correre relativamente alla sicurezza e alla salute, sia in tema di benessere umano sia di ambiente. Questo diritto si applica in modo specifico agli alimenti sottoposti a interventi tecnici quali i pesticidi, altri agenti chimici, la biotecnologia e l'irradiazione dei cibi. Nessuna entità governativa, compresi gli organismi internazionali, ha il diritto di omettere informazioni o di rifiutare le etichette obbligatorie e gli altri modi di informare su tutti i rischi, compreso quello della malnutrizione. La negazione di tali diritti deve essere perseguita come crimine. Quest'ultima affermazione potrebbe sembrare eccessiva, agli occhi di quei consumatori dei paesi sviluppati che non hanno coscienza di come la parzialità di organismi internazionali, come il WTO, sia «causa diretta della dislocazione sociale, della devastazione ecologica e della concentrazione non democratica di potere monopolistico globale», e neppure di come il rischio della «malnutrizione» non comprenda soltanto la denutrizione, ma anche la «malalimentazione» che colpisce, a loro insaputa, proprio i consumatori dei paesi più ricchi, causando la crescente diffusione di malattie legate al cibo, a partire da obesità e diabete. Per salvaguardare la salute e l'ambiente, il «Manifesto sul futuro del cibo» propone l'applicazione su scala globale del «principio di precauzione», per cui non si dovrebbero autorizzare nuove tecnologie nelle produzioni alimentari, senza prima provarne la conformità con le regole locali di sicurezza e sostenibilità. Secondo il manifesto, alcune tecnologie, come l'ingegneria genetica, i pesticidi e i fertilizzanti di sintesi, l'irradiazione dei prodotti alimentari, non sono compatibili con la sicurezza alimentare o ambientale, anzi costituiscono una grave minaccia per la salute, hanno un impatto ambientale irreversibile e sono incompatibili con l'agricoltura sostenibile, pertanto: Nessun organismo internazionale ha il diritto di emanare regolamenti che impongano ad un paese qualsiasi di accettare alle sue frontiere un prodotto alimentare o altri prodotti agricoli d'importazione, che siano stati manipolati con queste tecnologie, o che il paese stesso considera nocivi per la salute pubblica, per l'ambiente, l'agricoltura locale, le tradizioni culturali, o per qualsiasi altro motivo. Porsi il problema della sicurezza alimentare significa chiedersi cosa si mangia, come è prodotto e da chi, da dove proviene e com'è arrivato nel piatto: la tracciabilità non può essere un'etichetta colorata, dietro cui nascondere gli enormi difetti del sistema agroalimentare, deve poter essere uno strumento che favorisca una scelta alimentare consapevole, valorizzando al tempo stesso la produzione legata al territorio. Oggi, la valorizzazione delle produzioni regionali europee riguarda soltanto pochi settori alimentari, a interesse economico rilevante, per i quali si istituiscono denominazioni PDO e PGI, ma, persino in questi casi, spesso la «denominazione di origine» non è garanzia di qualità. L'entrata in vigore delle norme europee sull'etichettatura avrebbe dovuto produrre dei mutamenti, almeno rispetto ai prodotti a denominazione di origine, ma l'attesa tracciabilità non ha prodotto alcun effetto; è quindi legittimo chiedersi se questo modello possa realmente favorire una scelta informata, essere uno strumento di informazione sui rischi crescenti della «malalimentazione», addirittura un mezzo per una presa di coscienza rispetto alle implicazioni ambientali e sociali del consumo, in un contesto globale. Oppure se l'idea, esclusivamente giuridica, di tracciabilità nella legislazione europea, servirà soltanto ai colossi dell'agroalimentare per rimodellare la propria immagine, per «rifarsi l'etichetta», nascondendoci dietro gli stessi prodotti e gli stessi criteri produttivi, dalle ormai insidiose carni ai dolciumi ipercalorici. L'Unione Europea si trova, oggi, a dover effettuare scelte fondamentali riguardo al modello di sviluppo agroalimentare, trovandosi stretta tra un modello completamente globalizzato e delocalizzato (grandi gruppi industriali, multinazionali, OGM) e la possibilità di rilanciare un modello di sviluppo legato al territorio, che tenga insieme cultura e tradizioni, occupazione, sostenibilità ambientale, sicurezza alimentare. Ma per rendere possibile quest'alternativa, sarebbe innanzi tutto necessario regionalizzare i regolamenti e gli standard alimentari, prendendo atto di come le attuali disposizioni internazionali in materia di sicurezza abbiano imposto modalità di lavorazione industriale dei generi alimentari, come l'irradiazione, la pastorizzazione o la confezione sottovuoto, che fanno lievitare i costi per i piccoli produttori e, talvolta, incidono negativamente sul gusto e sulla qualità. Un primo passo verso un differente modello di sviluppo agroalimentare è la realizzazione della «filiera corta», ovvero la riduzione della distanza percorsa dal cibo dal luogo di produzione fino alla tavola: La menzogna che ci viene continuamente ripetuta è che non ci si può permettere il cibo locale, perché spedire del cibo da 5.000 miglia di distanza costa meno, pompare il cibo con enormi dosi di prodotti chimici costa meno. Questa menzogna sul cibo economico proveniente dal commercio libero globalizzato e dalle monocolture industriali è ciò che sta rendendo impossibile la pratica di un'agricoltura davvero genuina, che ha bisogno di prezzi genuini, non dei sussidi, nascosti e non nascosti, che rendono economico il cibo molto costoso. Costoso per il pianeta che non può reggere il peso del commercio libero globalizzato e dell'agricoltura industriale con prodotti chimici, costoso per milioni di individui che subiscono la minaccia della povertà e della fame. La ricostruzione delle «economie alimentari nazionali», attraverso il rilancio delle varietà di coltivazioni necessarie al fabbisogno interno, potrebbe costituire una via d'uscita dalla crisi tanto per i piccoli agricoltori, costretti alla monocoltura intensiva, e per i milioni di nuovi poveri, colpiti dai rincari e dalle speculazioni, che per i consumatori vittime della «malalimentazione» globale. In occasione del vertice FAO sulla sicurezza alimentare, molte voci si sono levate per affermare il principio della sovranità alimentare e proporre soluzioni alla crisi. «È necessario potenziare la vendita diretta da parte dei contadini e dei piccoli agricoltori ai consumatori [...]; in ogni paese deve stabilirsi un sistema d'intervento che possa stabilizzare i prezzi del mercato», regolando le importazioni ed evitando il dumping che distrugge le produzioni locali, sostiene un'organizzazione internazionale contadina, per cui «la produzione di ogni paese dovrebbe soddisfare il massimo possibile della domanda interna; è l'unico modo per proteggere contadini e consumatori dalle repentine fluttuazioni dei prezzi derivanti dal mercato internazionale». La ricostruzione dei mercati locali e la valorizzazione dei saperi locali, come possibili strade per una produzione agroecologica, sono gli obiettivi proposti dal Forum per la Sovranità Alimentare, «per guarire il pianeta perché il pianeta possa guarirci»; obiettivi che non possono, però, essere perseguiti senza una profonda riforma delle organizzazioni sovranazionali che governano i processi globali.
La democrazia è anche una questione alimentare.
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