Copertina
Autore Edgar Allan Poe
Titolo I racconti [3 voll.]
EdizioneEinaudi, Torino, 1983, Scrittori tradotti da scrittori 5/1,2,3 , Isbn 978-88-06-56689-0
TraduttoreGiorgio Manganelli
LettoreRenato di Stefano, 1990
Classe classici statunitensi , fantasy , gialli , fantascienza
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Indice


     Volume primo  1831-1840

   3 Metzengerstein
  15 Le Duc De l'Omelette
  21 Un racconto di Gerusalemme
     (A Tale of Jerusalem)
  26 Senza fiato (Loss of Breath)
  43 Bon-Bon
  65 Quattro bestie in una
     (Epimanes - Four Beasts in One)
  75 Manoscritto trovato in una bottiglia
     (MS. Found in a Bottle)
  89 Rendez-vous (The Assignation)
 105 Mondanità (Lionizing)
 112 Ombra (Shadow)
 116 Silenzio (Silence)
 120 Berenice
 132 Morella
 140 Re Peste (King Pest)
 157 Mistificazione (Mystification)
 168 Ligeia
 188 Come scrivere un articolo alla
     Blackwood
     (How to Write a Blackwood Article)
 213 Il Diavolo sul campanile
     (The Devil in the Belfry)
 224 L'uomo interamente consumato
     (The Man that was Used Up)
 237 Il crollo della Casa Usher
     (The Fall of the House of Usher)
 261 William Wilson
 288 La conversazione di Eiros e Charmion
     (The Conversation of Eiros and
     Cbarmion)
 296 Perché il francesino porta il braccio
     al collo (Why the Little Frenchman
     Wears His Hand in a Sling)
 303 L'uomo d'affari (The Business Man)
 315 L'uomo della folla
     (The Man of the Crowd)


     Volume secondo  1841-1843

 327 Gli omicidi della Rue Morgue
     (The Murders in the Rue Morgue)
 373 Una discesa nel Maelström
     (A Descent into the Maelström)
 396 L'isola della Fata
     (The Island of the Fay)
 403 Colloquio di Monos e Una
     (The Colloquy of Monos and Una)
 4i6 Mai scommettere la testa col Diavolo
     (Never Bet the Devil Your Head)
 430 Eleonora
 439 Tre domeniche in una settimana
     (Three Sundays in a Week)
 448 Il ritratto ovale (The Oval Portrait)
 453 La mascherata della Morte Rossa
     (The Masque of The Red Death)
 46i Il pozzo e il pendolo
     (The Pit and The Pendulum)
 482 Il mistero di Marie Rogét
     (The Mystery of Marie Rogét)
 549 Il rumore del cuore
     (The Tell-Tale Heart)
 557 Lo scarabeo d'oro (The Gold-Bug)
 604 Il gatto nero (The Black Cat)
 617 Mattino sul Wissahiccon - L'alce
     (Morning on the Wissabiccon-the Elk)
 624 La truffa (Diddling)


     Volume terzo   1844-1849

 639 Gli occhiali (The Spectacles)
 671 La cassa oblunga (The Oblong Box)
 687 Un racconto delle Ragged Mountains
     (A Tale of the Ragged Mountains)
 701 La sepoltura prematura
     (The Premature Burial)
 720 La lettera trafugata
     (The Purloined Letter)
 744 Il sistema del dottor Catrame e del
     professar Piuma (The System of Doctor
     Tarr and Professor Fether)
 798 Rivelazione mesmerica
     (Mesmeric Revelation)
 782 « Sei stato tu! »
     (« Thou Art the Man »)
 801 La beffa del pallone
     (The Balloon Hoax)
 819 L'Angelo del Bizzarro
     (The Angel of the Odd)
 832 Vita letteraria di Thingum Bob (The
     Literary Life of Thingum Bob, Esq.)
 858 Il millesimo secondo racconto di
     Scheherazade (The Tbousand-and-Second
     Tale of Scheherazade)
 881 Chiacchierata con la mummia
     (Some Words with a Mummy)
 903 Il potere delle parole
     (The Power of Words)
 909 Il Genio della Perversità
     (The Imp of the Perverse)
 918 Testimonianza sul caso del signor
     Valdemar (The Facts in the Case of M.
     Valdemar)
 930 La Sfinge (The Sphinx)
 937 La botte di Amontillado
     (The Cask of Amontillado)
 946 Le terre di Arnheim
     (The Domain of Arnbeim)
 966 Mellonta Tauta
 985 Il villino di Landor
     (Landor's Cottage)
1001 Hop-Frog
1014 Di Von Kempelen e della sua
     invenzione
     (Von Kempelen and His Discovery)
1024 Come si icsa un paragrabo
     (X-ing a Paragrab)

1033 Nota del traduttore

 

 

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Pagina 237

Il crollo della Casa Usher


         Son coeur est un luth suspendu;
         Sitót qu'on le touche il résonne.
                               DE BÈRANGER


Per un intero giorno, caliginoso, taciturno e spento, un giorno autunnale, greve di basse nuvole, avevo proceduto, solo, a cavallo, per una campagna sommamente tetra; e, con le ombre lunghe della sera, ero giunto, alla fine, in vista della malinconica Casa degli Usher. Non appena scorsi l'edificio, mi invase l'anima un sentimento di intollerabili tenebre, di cui non potrei dar ragione. Intollerabili, dico; poiché non medicava il sentimento nessuno di quegli affetti, cattivanti perché poetici, con cui la mente per solito accoglie le piú crude immagini del terribile e della desolazione. Contemplavo il luogo: quella casa, il nudo disegno del paesaggio, le mura spoglie, le aggrovigliate càrici, i radi, decidui tronchi; e pativo uno sfinimento dell'anima, che non posso paragonare a nessuna sensazione terrestre, se non al ridestarsi dell'oppiomane dal fasto dei suoi sogni: il tristo precipizio nella vita quotidiana, l'orrore del velo che cade. Era gelido il cuore, affranto, infermo; tetra, sconsolata meditazione, che nessuna sevizia dell'immaginazione poteva adizzare al sentimento del sublime. Che mai dunque - sostai a meditare - che mai dunque a tal punto mi stremava mentre contemplavo la Casa degli Usher? Insolubile mistero; né potevo tener testa alle fantastiche larve che mi stringevano da presso mentre ero cosí assorto. E fui costretto a ripetermi, frustrante conclusione, che mentre, senza dubbio, semplici immagini della natura possono siffattamente comporsi da conseguire un tale effetto su di noi, pur sempre ci resta preclusa l'analisi di tanta efficacia. Poteva forse bastare una diversa disposizione dei particolari del paesaggio, dell'immagine, per alterare, forse cancellare quell'angoscioso potere; e, mosso da codesto pensiero, guidai il cavallo verso la ripida riva di una pozza nera e fosforica, liscio, immoto barlume accanto alla dimora, e chinai lo sguardo a rimirare - con un brivido piú inquieto che per l'innanzi - l'immagine rovesciata, ridisegnata delle scialbe càrici, i tronchi lividi, le vacue occhiaie delle finestre.

E tuttavia in quella dimora di tenebre mi proponevo di soggiornare alcune settimane. Il signore di quella casa, Roderick Usher, m'era stato lieto amico della adolescenza; ma lunghi anni erano trascorsi dal nostro ultimo incontro. Recentemente, tuttavia, una lettera mi aveva raggiunto in un lontano luogo di quella terra - una sua lettera - che, supplice e smaniosa, non ammetteva che una risposta diretta. La scrittura rivelava il turbamento dei nervi. Lo scrivente parlava di una tormentosa malattia corporale - un disordine della mente lo affliggeva - e del suo intenso desiderio di vedermi, come suo amico, il migliore, ed anzi l'unico, per tentare, con l'aiuto della mia affettuosa compagnia, di alleviare in qualche modo il suo male. Il modo in cui si esprimeva - il cuore con cui accompagnava la sua richiesta - non lasciava spazio all'esitazíone: e quindi io subito obbedii a quella che pur mi appariva una assai singolare convocazione.

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Pagina 327

Gli omicidi della Rue Morgue


        Quel che cantarono le Sirene, o
     quale nome si scelse Achille quando
     si nascose tra le donne, sebbene sia-
     no problemi da lasciar perplessi,
     non sono al di là di qualsiasi con-
     gettura.
                         SIR THOMAS BROWNE


Le facoltà mentali descritte come analitiche sono a loro volta difficilmente analizzabili a fondo. Ne constatiamo l'efficacia, non altro. Sappiamo che per coloro che ne sono dotati, purché in forma estremamente acuta, sono fonte del piú alacre godimento. Come l'uomo gagliardo gode della propria prestanza fisica e si diletta di quelle imprese che impegnano i suoi muscoli, allo stesso modo l'analista si compiace di quella attività mentale che risolve. Trae diletto anche da compiti da poco che esigano l'esercizio dei suoi talenti. Si invaghisce degli enigmi, dei rebus, degli ieroglifici; perviene alle soluzioni facendo mostra di un acumen che alla intelligenza comune appare piú che naturale. I risultati che consegue in obbedienza all'intimo spirito ed all'essenza del metodo hanno, in verità, l'aspetto dell'intuizione.

È probabile che la capacità di trovar soluzioni venga grandemente esaltata dallo studio della matematica, e specialmente di quel ramo supremo, inesattamente denominato analisi, quasi tale fosse par excellence, e ciò solo in grazia delle sue operazioni a ritroso. E tuttavia calcolare non è di per sé analizzare. Un giocatore di scacchi, ad esempio, calcola senza concentrarsi nell'analisi. Ne segue che radicalmente si fraintende l'effetto che codesto gioco esercita sull'atteggiamento della mente. Non mi propongo di scrivere un trattato, ma solo di esporre talune osservazioni abbastanza casuali, a mo' di prefazione ad una narrazione piuttosto singolare; colgo, pertanto, l'occasione per dichiarare che le superiori attitudini dell'intelletto riflessivo piú chiaramente e con maggior pertinenza vengono messe alla prova dall'umile gioco di dama, che da tutta la vacua macchinosità degli scacchi. In quest'ultimo gioco, i cui pezzi hanno movimenti diversi e anomali, e valori variabili e variati, quanto è solamente complicato viene inteso - errore non raro - come profondo. Qui si esige una attenzione affatto straordinaria. Ove per un attimo si allenti, si commetterà tale svista, che comporterà danno o disfatta. Essendo possibili mosse non solo molteplici ma complesse, si moltiplicano le probabilità di errore; e in nove casi su dieci ha la meglio il giocatore piú attento, non già il piú sottile. Al contrario, a dama, che ha mosse di un unico tipo, e scarse variazioni, meno probabile è la distrazione, e pertanto, poco abbisognando di attenzione, si avvantaggerà il giocatore dotato di maggior acumen. Sarò meno astratto. Supponiamo un gioco di dama i cui pezzi siano ridotti a quattro dame, e dove, pertanto, sviste non siano probabili. A parità di condizione dei giocatori, è chiaro che si perverrà al successo solo ricorrendo ad una qualche mossa recherchée, escogitata con un poderoso sforzo dell'intelletto. Privato delle normali risorse, l'analista si proietta nell'animo dell'avversario, e con questo si identifica, e non di rado, in tal modo, con una sola occhiata coglie l'unico metodo - talora incredibilmente semplice - con cui indurre in errore, o far precipitare un calcolo inesatto.

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Pagina 461

Il pozzo e il pendolo


 Impia tortorum longas hic turba furores
 Sanguinis innocui, non satiata, aluit.
 Sospite nunc patria, fracto nunc funeris
                                    antro,
 Mors ubi dira fuit, vita salusque patent.

        (Versi da apporre all'ingresso di
        un mercato da erigersi là dove era
        il Club dei Giacobini, a Parigi)


Ero stremato - stremato a morte dalla lunga tortura; e quando alla fine mi sciolsero, e mi si consentí di stare seduto, m'accorsi che stavo per perdere i sensi. La sentenza - la sentenza terribile di morte - fu l'ultimo suono che mi giunse nitido alle orecchie. Poi le voci degli inquisitori parvero confondersi in un lungo, indistinto rombo di sogno, che alla mia anima suggeriva l'idea di rivoluzione - forse perché nella fantasia lo associavo allo scabro ruotare di una macina da mulino. Questo per un breve periodo; poi non piú. E tuttavia, per qualche tempo, vidi; ma quale insensata iperbole! Vedevo le labbra dei giudici vestiti di nero; mi apparivano bianche - piú bianche del foglio su cui scrivo queste parole, e sottile, grottesche; affilate dalla espressione impietosa, risoluta, implacabilmente, al rigoroso disprezzo della umana sofferenza. Vedevo che i decreti di ciò che era mio Destino ancora uscivano da quelle labbra. Le vidi fremere mentre pronunciavano una sentenza ferale. Le vidi sillabare il mio nome; rabbrividii, non udendo alcun suono. Vidi anche, in un breve momento di delirante orrore, morbidamente, impercettibilmente gonfiarsi i drappi luttuosi che avvolgevano i muri della stanza. Poi lo sguardo cadde sulle sette candele, alte sul tavolo. Avevano sulle prime aspetto di carità, quasi esili angeli intesi a salvarmi; ma poi, subitamente, una nausea mortale sopraffece il mio spirito, ed io sentii ogni fibra del mio corpo sussultare come avessi toccato i fili di una batteria galvanica, e le forme angeliche diventarono insensati spettri con teste di fiamma, e capii che da quelle non mi sarebbe venuto alcun aiuto. E poi mi si insinuò nella fantasia, come un generoso motivo musicale, il pensiero del dolce riposo che deve trovarsi nella tomba. Il pensiero sopravvenne pianamente, furtivo, e parve occorresse gran tempo, prima che fosse riconosciuto e accolto; ma proprio quando il mio spirito giunse, alla fine, a sentirlo e accettarlo, svanirono le figure dei giudici, quasi magicamente, davanti ai miei occhi; le alte candele sparirono, si fecero nulla; se ne estinsero le fiamme; sopravvenne la nerità delle tenebre; ogni sensazione parve risucchiata nel precipite inabissamento dell'anima nell'Ade. Poi, silenzio, immobilità, notte furono l'universo.

Avevo perso i sensi, ma non dirò tuttavia che la coscienza fosse del tutto perduta. Quel che ne restava non tenterò di definire, o descrivere; ma perduta affatto non era. Nel sonno piú fondo - no! Non nel delirio! Non nello svenimento! Neppure nella tomba tutto è perduto. Cosí non fosse, non si darebbe immortalità per l'uomo. Emergendo dal sonno piú fondo, laceriamo la ragna di un sogno. E tuttavia, trascorso un secondo (tanto fragile può essere quella ragna), non rammentiamo piú d'aver sognato. Dal mancamento si ritorna alla vita in due tempi: dapprima, il sentimento dell'esistenza mentale o spirituale; e poi, di quella fisica. Potessimo, pervenuti al secondo momento, rammentare le sensazioni del tempo precedente, quelle sensazioni eloquenti ridesterebbero la memoria dell'abisso che abbiamo varcato. E quell'abisso, che è mai? Almeno, come distinguerne le ombre dalle ombre del sepolcro? Ma se quelle sensazioni di ciò che ho chiamato il primo tempo non si lasciano evocare a volontà, non accade forse che dopo lungo indugio non chiamate ritornino, cosí che stupiti ci chiediamo donde mai vengano? Colui che mai ha perso i sensi, non è già colui che scopre bizzarri palazzi e volti impossibili e stranamente consueti nella luce calda delle braci, non colui che osserva fluttuare per l'aria le tristi visioni che forse sfuggono ai piú; non colui che medita sul profumo di un fiore ignoto - o il cui cervello si smarrisce, riconoscendo il significato di una cadenza musicale che mai, per l'innanzi, ha fermato la sua attenzione.

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Pagina 537

Lo scarabeo d'oro


       Ma guarda, guarda un po',
                    come danza il ragazzo!
       Quello l'ha morsicato la tarantola.

                           Tutto sbagliato


Molti anni or sono, mi legai d'amicizia con un tal William Legrand. Era di antica prosapia ugonotta; un tempo era stato ricco; ma una sequela di sventure l'aveva ridotto all'indigenza. Per sfuggire all'umilíazione di codesta decadenza, lasciata New Orleans, città dei suoi progenitori, aveva preso dimora sull'Isola di Sullivan, non lontano da Charleston, Carolina del Sud.

È questa un'isola assai singolare. Offre poco piú che sabbia marina, ed è lunga circa tre miglia. In nessun punto la sua ampiezza eccede un quarto di miglia. La disgiunge dalla terra ferma un fiumiciattolo a mala pena riconoscibile, e che defluisce in mezzo ad un disordinato folto di canne e fango, prediletta dimora della gallinella d'acqua. La vegetazione, naturalmente, è rada, rattrappita. Non si scorgono alberi imponenti. Verso la punta occidentale, dove si trova Fort Moultrie, e si incontrano talune miserabili costruzioni di legno, frequentate d'estate da chi fugge la polvere e le febbri estive di Charleston, si trova l'irta palma nana; ma tutta l'isola, eccettuata questa estremità occidentale, e l'arenile bianco e duro lungo il mare, è ricoperta da una fitta macchia di amabili mirti, tanto apprezzati dai botanici d'Inghilterra. I cespugli non di rado raggiungono l'altezza di quindici o venti piedi, e formano un quasi impenetrabile folto, che colma l'aria della sua fragranza.

Nei recessi piú apportati di questo bosco, non lontano dall'estremità orientale, e piú segreta, dell'isola, Legrand s'era costruito una casupola, che appunto occupava, allorché, per mero caso, feci la sua conoscenza. Presto ne nacque un'amicizia, giacché quell'uomo solitario suscitava a ragione interesse e stima. Lo scopersi colto, di inconsueta originalità intellettuale, ma intossicato di misantropia, e soggetto ad alterni, capricciosi stati d'animo di entusiasmo e malinconia. Aveva molti libri, ma di rado se ne serviva. Suoi principali diletti, la caccia, la pesca, le camminate lungo la spiaggia e in mezzo ai mirti, in cerca di conchiglie o di insetti inconsueti; aveva una collezione entomologica da fare invidia ad uno Swammerdamm. Lo accompagnava per solito in codeste escursioni un vecchio negro, di nome Jupiter, affrancato prima ancora dei rovesci finanziari della famiglia, ma che né minacce né promesse avevano indotto a rinunciare a quel che considerava il suo diritto di assistere, fedelmente, passo dietro passo, il suo giovane «Massa Will». Non è improbabile che i parenti di Legrand, considerandolo un poco instabile di mente, avessero operato ad instillare in Jupiter questa ostinazione, affinché tenesse d'occhio e tutelasse il solitario vagabondo.

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Pagina 1024

Come si icsa un paragrabo


Essendo ben noto che i « sapienti » vengono da Oriente, e poiché dall'Oriente appunto veniva Scappefuggi Testatosta, ne segue che il signor Testatosta era un sapiente; e se si esige una prova collaterale, eccola tosto: il tal signore era direttore di giornale. L'iracondia era il suo unico punto debole; giacché la testardaggine di cui lo si accusava era tutt'altro che il suo debole, anzi il suo forte. Era il suo fondamento, la sua virtú e sarebbe occorsa la logica di un Brownson per convincerlo che era altra cosa.

Ho dimostrato che Scappefuggi Testatosta era un sapiente; e il solo caso in cui non si dimostrò infallibile fu quando, derelitta la legittima patria di tutti i sapienti, l'Oriente, emigrò a Occidente, alla città di Alessandromagnopoli, o altro luogo di simile nome.

Debbo tuttavia rendergli giustizia, precisando che, allorché aveva deciso di stabilirsi in quella città, era convinto che in quella parte del paese non esistesse giornale alcuno, e pertanto neppure un direttore di giornale. Quando fondò «Tè bollente» era convinto che il campo fosse tutto e soltanto suo. Sono certo che mai avrebbe osato fissare le tende ad Alessandromagnopoli, se mai avesse saputo che in Alessandromagnopoli viveva un tal John Smith - se ben ricordo - che da molti anni placidamente ingrassava, dirigendo e pubblicando la «Gazette» di Alessandromagnopoli. Dunque, fu solo perché era disinformato, che il signor Testatosta capitò a Aless - chiamiamola Nopoli, per brevità; ma come vi si fu trovato decise di tener fede alla sua fama di ost - di uomo dai fermi propositi, e decise di restare. Dunque, restò; e fece dell'altro; tolse dalle casse macchine, caratteri, eccetera, e prese in affitto proprio un ufficio di fronte alla «Gazette», e tre giorni dopo il suo arrivo, uscí, al mattino, con il numero uno dell'Aless - beh, diciamo, del «Tè bollente di Nopoli»; se ben ricordo, questo era il nome del nuovo giornale.

Il fondo, lo ammetto, era sagace, per non dire austero. Era soprattutto scontento di tutto in generale e, quanto al direttore della «Gazette», costui in particolare veniva fatto a brani. Alcune osservazioni di Testatosta erano a tal punto ustionanti, che da quel tempo non ho mai potuto fare a meno di considerare John Smith, che è sopravvissuto, come una vera salamandra. Non pretendo di riferire tutti i passi di quel «Tè bollente» alla lettera, ma uno di essi dice come segue:

«Oh, sí! Oh, vediamo! Oh, non v'è dubbio! Il direttore dirimpettaio è un genio! Oh, numi! Oh, cielo! Dove va a parare questo mondo? Oh tempora! Oh Moses! »

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