Copertina
Autore Abdullah Ferdinando Ottaviano Quintavalle
Titolo Grand Hotel Ferrovia
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2008 , pag. 88, ill., cop.fle., dim. 29,8x21x1 cm , Isbn 978-88-7937-447-7
LettoreLuca Vita, 2009
Classe fotografia , citta': Napoli
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Pagina 7

Francesco Durante


Il vero nome di Caracas è Mexico.

Un paradosso geografico molto napoletano, ma anche una comunità latina molto ampia. Caracas rinvia correttamente a storie familiari di emigrazione, di andate e ritorni. Mexico idealmente le comprende - ne comprende almeno in parte l'implicito esotismo - ma serve a riavvicinare quella traiettoria, a farla più cittadina, a impadronirsene rivisitandola. "Mexico" è anche il nome di una torrefazione in piazza Dante, a lungo ritenuta la migliore di Napoli. Ci vai, e il caffè che bevi puoi anche chiedere che te lo macinino là per là. Ci vuole il gusto di una lentezza tutta particolare, la promessa di giornate che scorrono pigre sotto il sole dell'ultima primavera ma intanto producono idee, e le idee diventano in fretta cose, e proprio a capo di duemila caffè.

Mexico, io l'ho conosciuto così, molto prima che s'eternasse con l'altro nome nelle pagine di Napoli Ferrovia di Ermanno Rea. L'ho conosciuto in quello spicchio di Napoli governato dalla faccia buona e impertinente di Tullio Pironti, editore di strada o, meglio, di piazza: piazza Dante. Mexico ai tavoli di "Dante e Beatrice". A quelli del "53" o del "Leon d'Oro". Mexico sempre con una cartellina sotto braccio, piena di disegni, frottage, rielaborazioni grafiche. Mexico che arrotonda con le copertine di "Napolicity", una spolverata di glamour newyorkese sull'eterno odore di tinello della città perbene. L'uomo più mite della terra, e ciò malgrado parà, salutista, cultore delle arti marziali. Uomo d'ordine piovuto suo malgrado sulla terra di un non redimibile disordine. Mexico che tu lo chiami e quello arriva non si sa da dove, ma arriva, e risolve problemi. Matita, penna, pennino, aerografo, macchina fotografica e amorevole dedizione. Mexico anima candida e dolente, sorriso franco e disponibilità cordiale, piena, sollecita e allegra.

Quest'uomo è un artigiano la cui bottega è la città. Con lui, Napoli ridiventa labirintica e stordente, com'è. Un universo da percorrere a piedi, lungamente, appassionatamente, e da scoprire a ogni passo. Una città dell'Ottocento, il secolo dei grandi narratori metropolitani, i Dickens e i Sue, i Mastriani e le Serao. Se còmpito il titolo: Napoli, Grand Hotel Ferrovia, vi scorgo tutta l'immobile densità concettuale di un dinamismo per l'appunto ottocentesco che s'è fatto nel tempo fermo e immutabile. Un museo delle speranze perdute. Gente che viene, gente che va. Porte girevoli. Capistazione nelle loro livree. Sbuffi di vapore e mostri d'acciaio lanciati verso il rassicurante destino della modernità conquistata. Il mondo a portata di mano, a capo di un breve confortevole viaggio. La porta aperta della città verso il mondo intero... Una porta che invece s'è chiusa; e, anzi, l'annuncio di uno sfacelo tutto introflesso, tutto ripiegato su se stesso. Il terminal che diventa termine, confine, fine.

This is the end.

Le immagini raccolte in questo libro sono il documento di una lunga, paziente, generosa frequentazione. La stessa narrata nel libro di Rea. Mexico conosce questa realtà, non l'ha rimossa. Conosce personalmente gli uomini che dormono nella munnezza o che imbambolati s'accasciano per la via. Conosce i rifugi improvvisati, i cartoni raccattati per la notte, i fagotti che diventano cuscini, le scarpe sfondate, i corpi finiti in mezzo al traffico, i fantasmi della solitudine come immobili sculture sul ciglio di un marciapiede, la faccia piegata, le mani a stringere la pancia, la strozza del vomito, il silenzio inespressivo dell'ultimo buco, l'assenza il vuoto la perdita.

Mexico ha un nome per tutte queste dimenticate presenze. La stessa forza morale che gliene farebbe scorgere e deplorare l'insensato destino lo spinge ad avvicinarle, a cercare di capirle, a stabilire un contatto che sia di nuovo umano. Non una mera contemplazione del disastro, ma la voglia di intervenire, e di affermare la propria umanità. Lo si capisce soprattutto guardando le foto notturne, quelle che meglio raccontano questo margine. La notte acuisce la solitudine, la perdizione. La rende ancora più inerme, incerta, infida. Di notte lo sguardo si carica di un ulteriore senso di pericolo: i contorni dell'umano tendono a sfumare, diventano post-umani. È come se l'inferno dei vivi si trasformasse in una fossa comune governata dal silenzio assordante della città distratta. Una minaccia sorda, impotente ma formidabile. Un mondo a parte che nei suoi spazi e nei suoi tempi sconosciuti ai più potesse tuttavia ad un tratto rianimarsi e permeare di sé altri spazi, altri tempi, come un sudario che progressivamente copre la città, le toglie il respiro, ne corrode le residue certezze, la spoglia e la disarma preparandola per il suo ultimo viaggio. Quello di Mexico non è un reportage. Non racconta una storia, non è lineare e distaccato come potevano esserlo le foto di Weegee nella New York degli anni Quaranta. Mexico non è uno che arriva quando c'è la notizia. Mexico è già lì. Racconta dal di dentro, non dal di fuori. Nelle sue immagini c'è un moto di commozione, c'è partecipazione dell'amico, non l'impassibilità del testimone.

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